Moda, design e sostenibilità di Kate Fletcher a cura di Alessandro Castiglioni e Gianni Romano © 2018 Postmedia Srl, Milano © Kate Fletcher
Traduzione dall'inglese di Antonella Bergamin Immagine della copertina di Danai Tsoulouta Book design PM Dept www.postmediabooks.it ISBN 978-88-7490-205-7
Moda, design e sostenibilitĂ Kate Fletcher
postmedia books
Introduzione
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Moda sostenibile
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Vestiti che connettono
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Slow Fashion:
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un invito al cambiamento sistemico Durata, moda, sostenibilità:
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i processi e le pratiche d’uso Consumismo, sostenibilità e moda:
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storie di dress code alternativi, uso misto e pratiche di intraprendenza L’etica della terra applicata alla moda:
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localismo, attività per l’abbigliamento e Macclesfield Ritmi dell’abbigliamento
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Intervista
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Introduzione di Alessandro Castiglioni
Potrebbe stupire la scoperta che il presente libro sia soltanto la prima edizione italiana di testi scritti da Kate Fletcher. In realtà il fatto documenta limiti e complessità note all’interno del sistema moda italiano rispetto alla questione delle relazioni tra sostenibilità e fashion system. Se da una parte, infatti, la letteratura accademica degli studi di moda si riferisce tradizionalmente ad ambiti di carattere storico-estetico o tecnico-progettuale, escludendo di fatto, la ricchezza multidisciplinare dei cosiddetti fashion studies, dall’altra evidenzia la difficoltà e la lentezza con cui la sostenibilità divenga una pratica costante, un metodo di lavoro all’interno dello stesso sistema moda. Fletcher, attraverso i suoi scritti, affronta il problema della sostenibilità come un fatto stratificato1 e multidisciplinare, ragione per cui la sua lettura rappresenta costantemente una sfida per gli studiosi e gli operatori del settore. Tale sfida può essere essenzialmente inquadrata in tre ambiti: quello tecnico, quello politico e quello estetico. Con “punto di vista tecnico” si fa riferimento ad aspetti chimici, fisici e materici, di progettazione di materiali ma anche processi produttivi. A titolo esemplificativo, utile a sintetizzare la questione, vorrei citare le sette priorità messe in luce quest’anno (2018) durante il Copenhagen Fashion Summit da Eva Kruse1 in merito alle sfide della sostenibilità nel sistema moda contemporaneo: [...] la tracciabilità della catena produttiva; l’uso efficiente di sorgenti energetiche, acqua e materiali componenti chimiche; la sicurezza dell’ambiente di lavoro; l’innovazione nella scelta e nella produzione di materiali; l’implementazione delle pratiche di riciclo; un equo sistema salariale strettamente collegato all’impatto che nel futuro la quarta rivoluzione industriale, quella dei sistemi automatizzati, avrà all’interno dei processi di produzione. 7
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Chiaramente le questioni citate si intrecciano, in termini ampi, a
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posizioni e scelte di carattere politico. Il piano politico non riguarda esclusivamente le istituzioni governative nazionali e internazionali, ma anche le scelte delle aziende, intendendo dunque il termine nella sua accezione semantica di carattere sociale, che tocca questioni come il ripensamento dei sistemi produttivi, la qualità della vita e del lavoro, le sperequazioni tra i consumatori del primo mondo e i prodotti realizzati nei paesi in via di sviluppo e di conseguenza i problemi legati a delocalizzazione industriale, costo del lavoro, occupazione, tasse, dazi. Come in ogni sistema complesso caratterizzato da interdipendenze, i problemi citati hanno, inevitabilmente, ricadute dirette su consumi e consumatori. Non si tratta semplicemente di conseguenze che si elaborano attraverso strategie di marketing e comunicazione ma, in modo più complesso, di come la nostra società percepisca la priorità e l’attenzione verso alcuni discorsi in relazione a ciò che riguarda la sostenibilità. Ed è qui che la questione di una moda sostenibile si pone non solo come problema tecnico e politico ma anche estetico, cioè di discorso sulla moda. Se comprendiamo infatti la differenza tra abbigliamento e moda e capiamo che l’abbigliamento possa rispondere a determinati bisogni e la moda ad altri, allora capiamo l’importanza della dimensione del desiderio2 e dell’immaginario che gravita attorno all’idea di sostenibilità come fondamentale per il cambiamento dei comportamenti dei consumatori, cioè per muovere (o far oscillare) il gusto. Due riferimenti da cui partire posso essere la filosofia e l’arte contemporanea. Esempi recenti in questo senso sono il saggio di Nicolas Bourriaud, L’exforme3, in cui il teorico francese invita a ripensare alla radice il significato e il valore dell’idea di scarto nella nostra società. Cosa intendiamo come marginale, cosa dimentichiamo e, appunto, cosa scartiamo. Il secondo esempio, tra i tanti possibili, è il progetto realizzato da Olafur Eliasson tra 2016 e 2017,
presentato alla 57esima
Biennale di Venezia, Green Light4. Si tratta di un progetto in cui
rifugiati, migranti e richiedenti asilo politico realizzavano, durante workshop aperti a pubblico e studenti, piccole lampade modulari a basso impatto energetico e completamente composte di materiali di recupero. In apparenza lontani dal discorso di Fletcher, questi esempi amplificano la complessità del problema “sostenibilità” come nodo cruciale della produzione culturale contemporanea, non solo legata all’industrializzazione globale. Le brevi note qui riportate nascono come reazione alla chiarezza cristallina delle teorie di Kate Fletcher, che mettono in luce la natura della sostenibilità come un ecosistema flessibile, interconnesso tra persone, oggetti, abiti e il mondo in cui abitiamo. Questo significa indirizzare il pensiero e gli studi di moda non solo verso un’azione puntuale, che rischia di divenire puntiforme, bensì verso un progetto complesso che consideri problematiche tecniche e tecnologiche, ma anche fatti politici e risultanti estetiche in modo che possano, insieme, trasformare i labirintici meccanismi della produzione e del consumo di moda.
1. T. O’Connor, Fashion’s 7 Priorities To Achieve
3. N. Bourriaud, L’exforme. Art, Idéologie et
Sustainability, Business of Fashion, 27 Marzo
rejet, PUF, Parigi, 2014. [trad. it.: L'exforma
2018, https://www.businessoffashion.com/
Arte, ideologia e scarto, Postmedia Books,
articles/news-analysis/fashions-7-priorities-to-
Milano 2016]
achieve-sustainability.
4. C. Marcel (a cura di), Viva Arte Viva,
2. T. Edwards, Fashion in Focus, Concepts,
La Biennale di Venezia. 57ª Esposizione
Practices and Politics, Routledge, Londra, 2010.
internazionale d'arte, Marsilio Editore, Venezia,
[trad it.: La Moda, Einaudi, Torino 2012].
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Sustainable Fashion
Moda sostenibile
La moda è una leva culturale potente, capace di influenzare il modello economico consumistico basato sulla produzione in serie che ci caratterizza attualmente, anche se le nostre esperienze della moda sono ormai dominate e limitate da questo stesso modello che coinvolge la moda in questioni etiche importanti. Questo capitolo illustra alcune delle modalità emergenti con le quali la moda sta attualmente agendo in modo costruttivo per stimolare le pratiche positive e lo sviluppo qualitativo nella direzione della sostenibilità. Si descrivono approcci innovativi alla creazione della moda al contempo propositivi e responsabili e si analizzano proposte fondamentali della ricerca e della pratica quali Slow Fashion, non-plan design e moda post-crescita. Il capitolo punta inoltre a contestualizzare questa attività in uno scenario più ampio della pratica sostenibile nel settore della moda, ripercorrendone lo sviluppo nel corso dell’ultimo ventennio.
Introduzione Qualche anno fa una piccola galleria al centro di Istanbul ha presentato una mostra dal titolo Fashion for Sustainability (Garanti Galeri, 2008). Attraverso la presentazione di sei temi questa mostra modesta ma dallo spirito avanzato indagava alcuni aspetti della varietà di pensiero che allora stava emergendo intorno all’attività sociale ed ecologica nel settore della moda puntando su una pratica di tipo direzionale. Al termine della settimana di inaugurazione il quotidiano turco Radikal dedicava alla mostra un articolo nel quale i toni al contempo accorati e increduli del giornalista non erano motivati tanto dal contenuto della mostra (che non aveva nemmeno visitato) quanto dalla premessa che ipotizzava anche solo la possibilità che moda e sostenibilità potessero condividere una piattaforma comune. Come è possibile, si chiedeva l’articolista, che la moda – un’espressione per definizione transitoria e legata all’immagine – possa durare nel futuro? Non sono, queste, due idee in contrasto tra loro? Evidentemente, concludeva, è impossibile: una contraddizione in 11
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“Il vestito di Antibes” condiviso da sei componenti della stessa famiglia, dal progetto Local Wisdom.
l’approvvigionamento domestico, la cura della comunità, la libertà di espressione creativa e la capacità di rimanere in contatto con la natura. Questo accento esplicito sulle pratiche diffuse di utilizzo piuttosto che sulle sfide della produzione come punto di partenza per il cambiamento verso la sostenibilità segnala una svolta rispetto a quanto è accaduto finora. Esso privilegia la sensibilità verso l’esperienza vissuta delle persone più che verso i concetti industriali o
Foto: Sean Michael. Courtesy of Local Wisdom
commerciali di cosa sia o debba essere la sostenibilità. L’“arte dell’uso” è un processo che coltiva un’attenzione particolare nei confronti della cura e dell’utilizzo degli indumenti e non solo della loro creazione, facendone uno strumento per la progettazione di forme nuove di pratica della moda (Fletcher, 2011). Un aspetto fondamentale della miriade di pratiche che compongono l’“arte dell’uso” è il fatto che in genere prevedano l’impiego di pochi 29
Clothes that Connect
Abiti che connettono
La moda sta divorando sé stessa. Ormai è a tal punto scollegata dalla realtà che molte delle problematiche principali del nostro tempo – come il cambiamento del clima, il consumo e la povertà – risultano praticamente invisibili nelle boutique o sulle passerelle. I suoi prodotti rafforzano le diseguaglianze, sfruttano i lavoratori, alimentano l’uso delle risorse, aumentano l’impatto ambientale e generano rifiuti. E non basta: il settore impone pressioni emotive, fisiche e psicologiche sempre più intense su tutti i soggetti coinvolti, dai designer ai produttori e a i consumatori. Pressioni come l’imposizione a consumare sempre più in fretta e a prezzi sempre più bassi, la domanda onnipresente di novità e la riformulazione costante dell’identità ci danneggiamo come individui e collettivamente come società. Siamo alienati, insoddisfatti, depressi, anoressici e più cinici che mai. La moda si sta trasformando. Aziende minuscole stanno producendo vestiti condivisibili in armonia con modelli alternativi di attivismo sociale e innovazione estetica1; aziende gigantesche dichiarano di puntare all’obiettivo “zero emissioni” e annunciano l’introduzione di linee di prodotti in cotone equosolidale e in poliestere riciclato2; gli stessi individui stanno sabotando l’intero sistema attraverso la produzione di manuali fai-da-te per aiutarci a “ri-formare” il nostro abbigliamento, e in questo modo sovvertire la moda convenzionale attraverso atti micropolitici di taglio, cucito e creazione3. Viviamo in un’epoca di cambiamento: sta a noi orientare questo processo verso la sostenibilità e pretendere un nuovo tipo di moda basata su atti improntati alla trasformazione più che al consumo. La sfida della sostenibilità sta lentamente modificando la coscienza di consumatori, designer e capitani d’industria. Un numero crescente di persone si sta rendendo conto che non si può continuare come abbiamo sempre fatto: la moda così com’è non è più possibile. E tuttavia, questa 37
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P rogetto 2: U pdatable
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subito dimenticati. Ma se quel momento fosse invece non uno solo
Gli abiti della moda catturano un momento nel tempo per poi essere ma molti momenti, un processo di trasformazione? Se quel processo ti richiedesse di utilizzare il kit da cucito per aggiornare quell’indumento? Il progetto Updatable [Aggiornabile] si basa proprio su uno spostamento d’accento: da un solo indumento a tanti indumenti; da consumatori passivi a utenti attivi; da una singola istantanea nel tempo a un film in continuo svolgimento. Questo progetto esplorava le abilità e la fiducia necessarie a rielaborare una T-shirt. Era un tentativo di rendere più trasparente il processo progettuale e produttivo di un indumento; di “recuperarlo” dall’élite specializzata dei designer per promuovere una maggiore comprensione dei tanti piccoli processi coinvolti nella creazione di un indumento e per incoraggiare le persone a “far da sé”. In aggiunta a questa agenda volta a promuovere la capacità, vi era un desiderio di ridurre il consumo materiale ritagliando, ricucendo e ridisegnando un capo. Updatable prevedeva una serie di trasformazioni applicate a una T-shirt. Le istruzioni inviate per posta – nel nostro caso alla nostra squadra di designer – suggerivano modifiche volte a far sì che la T-shirt rimanesse di moda per un’altra stagione ed evitare che finisse nella spazzatura. Abbiamo filtrato le mode e le abbiamo distillate in alcune modifiche intelligenti. La squadra di designer ha poi interpretato le istruzioni e prodotto un capo di eleganza unica che ha documentato e indossato per i mesi successivi. Updatable ha modificato la relazione di potere tra designer originario e utente e sviluppato una collaborazione unica fondata sul cambiamento.
Updatable T-shirt. Foto: Becky Earley
P rogetto 3: No W ash Il progetto No Wash nasceva da un interesse per la progettazione e l’utilizzo di un indumento destinato a non essere mai lavato. Lavare la biancheria è, molto semplicemente, un compito ingrato. Anche se lo assolviamo senza pensare, si tratta di un’attività strettamente legata all’accettazione sociale, al successo personale e sentimentale e quindi alla nostra felicità. Curarsi della pulizia era un tempo un problema di prevenzione sanitaria ma oggi l’ossessione occidentale per l’igiene implica incredibilmente che l’energia necessaria a lavare i nostri indumenti preferiti nel corso della loro vita utile sia circa sei volte quella necessaria a produrli. Se solo dimezzassimo la frequenza con cui facciamo il bucato, il consumo di energia complessivo del prodotto si dimezzerebbe più o meno a sua volta (così come l’inquinamento atmosferico e la produzione di rifiuti solidi). 49
Slow Fashion: An Invitation for Systems Change
Slow Fashion: un invito al cambiamento sistemico
In alcuni ambiti, l’aggettivo “fast” è diventato sinonimo di un tipo di moda che veicola concetti di non sostenibilità; eppure la velocità non è di per sé un descrittore di pratiche non etiche e/o dannose per l’ambiente ma uno strumento utilizzato per aumentare le vendite e realizzare crescita economica con gli effetti ecologici e sociali del caso. Le questioni relative alla velocità sono profondamente interconnesse con i sistemi economici, i modelli imprenditoriali e i sistemi di valori sui quali si fonda il settore della moda oggi e che definiscono in modo sostanziale il suo potenziale a livello di sostenibilità. Questo capitolo presenta le idee e le pratiche dell’opposto lessicografico di “fast”, vale a dire la cultura “slow”, come un’opportunità per inaugurare una relazione più sana con le questioni sistemiche nel settore della moda al fine di costruire un cambiamento più profondo e duraturo verso la sostenibilità. Parole
chiave
Slow, fast, sostenibilità, cambiamento sistemico Il paesaggio della moda è attualmente dominato dalle idee e dal linguaggio associati alla velocità. Da dieci anni a questa parte i concetti di “fast fashion” e “slow fashion” sono utilizzati all’interno di neologismi tesi a connotare una vasta gamma di pratiche che sono di volta in volta più o meno a vasta scala, dominate dalla logistica, improntate alla crescita economica, etiche o ecologiche secondo modalità notevolmente influenzate dal settore del cibo. E infatti, proprio come il fast food, la fast fashion è prodotta in serie e standardizzata. La maglietta, il vestito o i jeans che più economici non si può, come l’hamburger, sono disponibili in quantità imponenti, presenti ovunque sul pianeta e serviti o disegnati in modo omogeneo. Nati per essere economici, facili e rapidi da produrre, esistono grazie a materiali e 59
Durability, Fashion, Sustainability: The Processes and Practices of Use
Durata, moda, sostenibilità: i processi e le pratiche d’uso
I materiali e i prodotti più durevoli sono spesso promossi come una strategia per aumentare l’intraprendenza e la sostenibilità in tutti i gruppi di prodotti, quindi anche nella moda. Questi benefici, tuttavia, dipendono dal comportamento degli utenti e dai modelli di consumo, che nella moda in particolare sono influenzati da dimensioni sociali ed esperienziali, non solo da prodotti materiali. L’obsolescenza dei prodotti della moda, indotta dall’evoluzione estetica e legata a preferenze sociali mutevoli, evidenzia la natura psicosociale dei fattori che condizionano la vita utile dei prodotti della moda. Questo aspetto è confermato da indagini etnografiche che dimostrano come di solito gli indumenti resistono all’obsolescenza per motivazioni informali o involontarie e quasi mai come conseguenza di pianificazione progettuale o di qualità materiali o di prodotto. Questo capitolo ipotizza un punto di partenza per il design improntato alla durata che, invece di concentrarsi come di consueto sui materiali, sui prodotti e sulle relazioni utente-oggetto, esplora la durata del materiale in quanto conseguenza di strategie dell’azione umana, ipotizzando che la durata, seppure facilitata dai materiali, dal design e della costruzione, sia determinata da un’ideologia di utilizzo.
Parole chiave moda, durata, design, sostenibilità, uso, pratica sociale Introduzione La durata intrattiene una facile relazione con la sostenibilità. I materiali e i prodotti resilienti sono potenzialmente in grado di allungare la vita utile dei prodotti. La maggiore durata ci offre a sua volta 71
Consumerism, Sustainability and Fashion: the Stories of Alternative Dress Codes, Mixed Use and Skills of Resourcefulness
Consumismo, sostenibilità e moda: storie di dress code alternativi, uso misto e pratiche di intraprendenza
Il legame tra moda ed elevato consumo di materiali può sembrare inesorabile.
E i modi in cui pensiamo ai nostri indumenti e più
praticamente li indossiamo e ce ne prendiamo cura – le nostre pratiche di uso della moda – sono fortemente caratterizzati da questa dinamica, intrisi delle priorità e delle relazioni di potere del capitalismo e del mercato. Oggi il linguaggio e l’espressione della cultura consumistica domina a tal punto la nostra esperienza della moda da impedirci di rendercene conto. Nella coscienza culturale collettiva di gran parte del Nord globale ricco, la moda è essenzialmente novità, consumo, materialismo, commercializzazione e marketing: è comprare articoli di lusso nelle boutique del centro; è guardare, fare shopping, spendere, possedere. Lo stile e le storie dominanti della moda consumistica appaiono “naturali” al nostro modo di pensare e di comportarci: è normale avere accesso e rapportarsi alla moda principalmente erogando denaro in cambio di prodotti; è altrettanto normale aspettarsi che quegli stessi prodotti appaiano fuori moda e stilisticamente fuori luogo nel giro di sei mesi; in genere si eliminano i capi invece di ripararli. Nella misura in cui la moda come consumo domina la nostra esperienza di ciò che sono gli indumenti, si crea un’illusione di abbigliamento svincolato dall’uso. La cultura consumistica prevede semplicemente che gli indumenti siano acquistati, non utilizzati.
Il consumismo definisce l’esperienza prevalente
della moda
Basta scavare un po’ più a fondo per rendersi conto che vi sono altri elementi in gioco. Diventa subito chiaro che l’esperienza prevalente della produzione e del consumo di moda è bloccata in un ciclo di autogiustificazione che crea le condizioni stesse per cui diventa sia 95
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Le cose speciali sono di seconda mano
K ate F letcher
I vestiti che indosso oggi non sono affatto nuovi e anzi, sono di famiglia: la gonna che porto, ad esempio, era una ‘vestaglia’ – si trovava nel guardaroba di mia madre da molto tempo e io la consideravo davvero elegante ma poi quando l’ho indossata, non mi sembrava di portare una vestaglia da casa, quindi ho tagliato via in modo approssimativo la parte superiore. Non sono molto brava come sarta quindi … spilli e bottoni, ma è un cotone meraviglioso. Sì, ha perso il bottone, ha perso un po’ di cose. (ride) Gli stivali me li ha passati mia sorella, che credo li avesse comprati in un negozio dell’usato. Le piacevano molto ma erano forse un po’ troppo larghi e ora mi maledice perché ho i piedi sono più grandi dei suoi. E questo è un fantastico top in seta a pois che ho trovato in un negozio dell’usato di zona e non so perché ma mi ha colpito il fatto che fosse Made in Italy (ride). È proprio quello stile europeo che fa impazzire noi australiani. Forse siamo condizionati dal modo in cui si fanno le cose oggi ma mi piace l’idea di quelle cose fatte magari in modo più artigianale ma con maggiore cura, e qualità, in un’epoca in cui le persone amavano davvero i loro vestiti e li indossavano e utilizzavano in modo diverso. Quindi in un certo qual modo ti sembra quasi di tenere in vita questa cosa. Davvero, non riesco a spiegare quanto mi piacciano i vestiti di seconda mano... Ti rendono davvero felice … La mia prima esperienza di quello che consideravo glamour è stata quando sono entrata nel negozio dell’usato di Inglewood, la cittadina vicino a dove sono cresciuta. Da bambine io e mia sorella compravamo sottovesti e vestiti lunghi fino ai piedi. E poi ci mettevamo a correre per la fattoria con gli stivali di gomma ai piedi e le sottovesti annodate e ci sentivamo davvero incredibili. Quindi fin da piccola, le cose speciali per me vengono sempre dai negozi dell’usato. Melbourne, Australia 2013
Foto: Paul Allister
The Fashion Land Ethic: localism, clothing activity and Macclesfield
L’etica della terra applicata alla moda: localismo, attività per l’abbigliamento e Macclesfield A quasi sessant’anni di distanza dalla prima formulazione dell’“etica della terra” da parte di Aldo Leopold (1959) questo capitolo propone di estendere al contesto della moda la sua visione secondo la quale la coscienza ecologica si fonda su un’assunzione di responsabilità individuale relativamente alla salute dei luoghi nei quali gli esseri umani vivono. A partire dal principio secondo il quale il sito di un’attività costituisce un criterio di cambiamento verso la sostenibilità, questo capitolo esplora il luogo o, secondo la definizione di Leopold, “una coscienza forte del territorio” (ibid., p.223) nell’attività relativa all’abbigliamento presente nella cittadina di Macclesfield nel nord dell’Inghilterra. Analizzando particolarmente le risorse, le azioni e le relazioni della moda in un luogo specifico, si tenta anche di rendere più chiari gli obiettivi del localismo a livello di emancipazione in un contesto della moda e di analizzare come le connessioni tra luogo, natura, società e abbigliamento possano agire in quanto percorso esplicitamente normativo per creare futuri di sostenibilità.
Parole chiave moda, localismo, adattamento al luogo, sostenibilità, territorio
Introduzione Gli ecosistemi variano a seconda della loro localizzazione. Perché ecosistemi localizzati in luoghi diversi possano prosperare e preservare la loro ricchezza, occorre tutelare il loro “capitale naturale” e le attività presenti al loro interno – conoscenza, comunità, prodotti, culture e pratiche – devono adattarsi al loro luogo specifico. Questo processo, che si chiama localismo, definisce il modo in cui l’attività 119
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E cologia
della moda a
M acclesfield
I dati raccolti sul campo hanno definito un’immagine complessa e spesso caotica di luogo-contesto e delle risorse sociali e materiali associate all’abbigliamento. Di seguito una sintesi delle risultanze emerse:
Beni materiali – indagine del transetto ripetuta nell’arco di tre anni 2015 132 negozi su strada, 18 dei quali vuoti (14%), 27 vendono anche abbigliamento (20%), compresi 11 catene commerciali, nove indipendenti, otto negozi di beneficenza.
I negozi indipendenti sono concentrati su Chestergate, e in particolare nel tratto più distante dal centro urbano. Le catene commerciali sono prevalentemente situate su Market Street, la parte più centrale della città. I negozi di beneficenza si concentrano sulla parte conclusiva di Market Street e Mill Street. Questo raggruppamento riflette le quote di tasse municipali che variano a seconda della posizione rispetto al centro urbano. I negozi di beneficenza godono di tasse municipali ridotte che consentono loro di occupare posizioni relativamente centrali. Essendo posizionati in gruppo e ravvicinati tra loro, comunicano un’immagine di città in declino. Lungo il transetto non esistono esercizi commerciali dedicati alla manutenzione o riparazione di capi di abbigliamento, né mercerie o negozi che vendono tessuti o accessori per l’abbigliamento, che sono invece situati in seminterrati, nel mercato coperto o ancora più distanti dal centro urbano.
2016 132 negozi su strada, 21 dei quali vuoti (16%), 28 vendono anche abbigliamento (21%), compresi dieci catene commerciali, nove indipendenti e nove negozi di beneficenza.
Abiti locali a Macclesfield
Movimentazione La movimentazione degli indumenti attraverso i guardaroba e il flusso dei capi in ingresso e in uscita dalle case hanno evidenziato comportamenti simili nei tre casi esaminati: almeno un capo era utilizzato anche da altre persone in famiglia; in tutti i casi si provvedeva a una sorta di cambio armadio stagionale; i capi introdotti nel guardaroba derivavano in genere da acquisti ex novo; e gli indumenti scartati dal guardaroba erano in genere confezionati come donazione per un negozio di beneficenza, accantonati in piccole quantità con cadenza regolare o in quantità più consistenti per consegne più occasionali. Dall’indagine condotta risulta che la maggior parte degli indumenti presenti a Macclesfield arrivano da fuori città: il magazzino del negozio di beneficenza Scope, costituito per l’85 per cento da capi donati, “viene per lo più da marchi non venduti in loco”. Sono molti i negozi di beneficenza ai quali cedere vestiario. Quando arrivano a destinazione, questi indumenti sembrano passare in modo sequenziale tra i gruppi, anche se questi gruppi, forse perché appartenenti a classi sociali diverse, non si sovrappongono: “i gruppi che comprano dai negozi di beneficenza non solo gli stessi che cedono i loro capi a questi negozi”. 137
Clothing Rhythms
Ritmi dell'abbigliamento
Se pensate a quanti siamo sul pianeta e moltiplicate quel numero per la quantità di capi di abbigliamento che possediamo, otterrete diversi miliardi di indumenti … eppure, quanto sappiamo del nostro abbigliamento? Cosa possiamo dire delle relazioni che abbiamo con il contenuto del nostro guardaroba? Cosa sappiamo dei principi rappresentati dai nostri vestiti o della loro longevità? Può esistere un indumento che promuova una consapevolezza ecologica capace di trasformare le nostre relazioni con i materiali e la nostra esperienza del mondo? Questo breve testo introduce idee innovative relativamente alla vita utile dell’abbigliamento di moda che mettono in discussione lo status quo non solo nell’industria convenzionale ma anche nel settore dell’abbigliamento ecologico. Riteniamo che il rapporto tra abiti di moda e ritmi temporali sia cruciale per via delle sue implicazioni a livello di pensiero ecologico e sostenibilità. Per troppo tempo, infatti, gli ambientalisti si sono limitati a rispondere alla questione dell’obsolescenza della moda dicendo semplicemente che è inutile e che non dovrebbe esistere. Ma così facendo si ignora il potere e l’influenza della moda e la complessità e l’impalpabilità della relazione che si instaura tra moda, abbigliamento e consumatori nel corso del tempo. Da una prospettiva di tipo temporale, sono diversi gli utenti, le modalità d’uso e i livelli della moda che informano il design. Il risultato è una risposta più diversificata, ritmica, ecologica. Il nostro approccio ci chiede di riconoscere che moda e abbigliamento non sono la stessa cosa, anche se talvolta coincidono per utilizzo e immagine, e si rivolge all’interazione consumatore-indumento in quanto elemento importante del ciclo della moda – sia perché lo alimenta che per via del suo impatto ambientale. Riteniamo che, per realizzare pratiche più ecologiche nella moda e nell’industria dell’abbigliamento, sia necessario capire e utilizzare il ritmo della moda, il dialogo tra il nostro abbigliamento, noi stessi e lo spirito del tempo. 149
Intervista a cura di Alessandro Castiglioni e Gianni Romano
GR: Quando è successo che la giovane Kate Fletcher ha scoperto che la moda poteva essere lenta? Kate Fletcher: Nel 1992. Ma penso che la base di questa consapevolezza vada cercata nella mia gioventù. Solo una settimana fa ho capito che devo ringraziare Liverpool – il mio luogo di nascita, un posto squallido negli anni Ottanta, con pochi posti di lavoro e poche speranze – per aver davvero capito l’importanza della comunità e della solidarietà e di quanto il cambiamento fosse essenziale. Nessuno aveva da scialare, vivevamo tutti in condizioni precarie. Però organizzavamo street party, i vicini si scambiavano i giornali, decoravamo con gli adesivi le biciclette di seconda mano. Si stava bene insieme. Ricordo che una volta la nostra parte della città si dichiarò Stato indipendente per quel giorno. Ne abbiamo riso a lungo. Forse è allora che ho capito che il cambiamento era possibile. GR: Oggi, invece, l’industria della moda ha reso il processo che va dallo spazio di lavoro del designer al punto vendita, così veloce. Non pensi che a volte parlare di rallentare il processo possa sembrare antisociale o, comunque, anti-sistema? Kate Fletcher: Ah! A me sembra giusto il contrario. Non parlarne è come un azione contro la cultura, contro il futuro. Non discutere gli effetti della velocità e il peso della finanza nascosta dietro la scena della moda significa lasciare le cose come stanno. E sappiamo che se non si cambia si muore. La nostra sfida, con audacia e decisione, consiste nel ridiscutere la moda veloce e procedere in una relazione diversa con il sistema moda. L’obiettivo è far crescere una comune cultura di reciprocità, di piacere visivo e gioia 165