Francis Ford Coppola

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Francis Ford Coppola di Jeff Menne © 2018 Postmedia Srl, Milano © 2014 the Board of Trustees of the University of Illinois

Traduzione di Elisa Cuter Redazione: Pietro Braga e Luca Peretti www.postmediabooks.it ISBN 978-88-7490-209-5


Francis Ford Coppola Jeff Menne

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indice

Francis Ford Coppola e la corporation underground

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Il Ford di Francis Ford Coppola 19 è lo stesso di John Ford? Il cinema del capitale finanziario 27 Hippy s.p.a: Non torno a casa stasera 39 e la creazione dell’American Zoetrope La forma dell’impresa: 61 Il padrino, La conversazione e Tucker Capitale di famiglia 73 Il modello paranoico nella storia dell’impresa 83 Fondare l’impresa 93 Apparizioni vocali e persona giuridica: 103 Apocalypse Now, Il padrino – Parte III e Segreti di famiglia Famiglia meccanizzata 123 Il postmodernismo della Zoetrope 135 e la famiglia in technicolor Intervista di Jeff Menne 149

note 155



Francis Ford Coppola e la corporation underground Questo parco giochi non è un posto dove si rimane a lungo. Michael Pye e Lynda Myles, The Movie Brats

Francis Ford Coppola viene spesso considerato la forza propulsiva dietro la nuova Hollywood. Non sembra si possa fare a meno di riferirsi a lui come “Padrino”: che sia per riconoscerne il suo mecenatismo (il suo socio John Korty lo chiama “l’impresario, essenzialmente il Padrino”), o il network che si è formato attorno a lui (Stevan Bach chiama Coppola, George Lucas, Walter Murch, e altri la “Mafia di Mill Valley”), o persino i suoi modi (un profilo su Vanity Fair lo equiparava a uno dei suoi personaggi mafiosi)1. Per il pubblico l’identità tra lui e la sua famosa trilogia è molto forte. Ma se il termine “padrino” è solo un cliché, può tuttavia aiutarci a capire fino a che punto Coppola stesso sia il fautore della sua economia informale. Questa economia, potremmo dire, è la shadow economy di Hollywood, dove la produzione di film è pianificata a orologeria. In questo modo, “a orologeria”, si può descrivere non soltanto il tasso di produzione dello studio system della vecchia Hollywood, dove il sistema integrato delle major sfornava un film a settimana, ma anche l’economia USA in generale, che lungo tutta la prima metà del ventesimo secolo è stata controllata da un management scientifico. In questo tipo di produzione, il lavoro è considerato in termini di quantità, non di qualità. I film hollywoodiani possono criticare questo sistema, come in Tempi moderni (Modern Times, Charlie Chaplin, 1936), che si apre con l’immagine di un quadrante di orologio e fa vedere come il lavoro di Charlot sia dominato dal suo tempo accelerato; ma Hollywood, spesso nella persona di Irving Thalberg, era essa stessa nota per tagliare il processo produttivo in questa misura. Equiparare però il lavoro creativo della produzione di film a una qualunque manifattura ebbe però il duplice effetto di rendere i film sospetti come forma d’arte, dato che 7


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erano troppo un’industria, e di forzare i sostenitori della settima arte in curiose difese teoriche contro il suo carattere industriale. “Gli unici grandi film che arrivano da Hollywood” scrive l’intellettuale del dopoguerra Dwight Macdonald, “sono stati fatti prima che l’elefantiasi industriale riducesse il regista a uno dei vari tecnici che operano tutti con lo stesso livello di autorità”2. I grandi registi, per Macdonald, erano “Griffith e Stroheim”, perché facevano film prima che le banche di investimento rendessero la loro arte talmente capitalizzata che il sistema di ottimizzazione doveva tenerne conto3. Quando è successo, com’è noto, Stroheim ebbe le ali tarpate da Irving Thalberg che si dedicava principalmente al management4. La visione di Macdonald è istruttiva, perché la sua revisione della “politica degli autori” avrebbe portato la generazione degli anni Sessanta a complicare la relazione tra i termini arte e industria. Se, per esempio, il film diventa arte soltanto dando completa autorità al ruolo del regista (come “succedeva nel cinema prima del 1930”, secondo Macdonald) allora ogni teoria del film come arte applicata a Hollywood può anche essere replicata come teoria della riorganizzazione industriale5. Questo era vero per la politica degli autori, aggiungo, poiché il suo principio cardine – secondo cui alcuni registi di Hollywood avevano sensibilità sufficientemente forti da neutralizzare le gerarchie industriali di Hollywood in nome della creatività e della capacità di esprimersi – si rivelò avere in realtà una forza tassativamente prescrittiva nell’economia di mercato del dopoguerra. Le lodi allo spirito critico incontrollato, che nella memoria culturale appartengono alle controculture, in realtà si svilupparono anche nel mondo commerciale che voleva liberarsi dall’ethos impiegatizio dell'uomo d'affari6. In breve, l’economia non fu affatto scandalizzata dagli anni Sessanta e dallo stile della controcultura, anzi: imparò da essa. La cultura imprenditoriale che divenne poi la base della new economy ha dentro di sé molta controcultura7. La carriera di Francis Ford Coppola va compresa in questo contesto. Prendendo esempio dal suo mentore Roger Corman – che “aveva un grande talento”, così si dice, “nel trovare persone talentuose


disposte a lavorare praticamente gratis” – Coppola radunò i suoi amici della scuola di cinema per formare l’American Zoetrope, una compagnia fuori da Hollywood che, come l’American International Pictures (AIP) prima di essa, si fece strada attraverso operazioni che non ricadevano sotto i controlli regolatori di Hollywood che avevano invece frenato i giovani talenti a Hollywood8. Ma diversamente da AIP, l’American Zoetrope fu coperta finanziariamente da uno studio di Hollywood. Il ritorno economico generato dall’investimento su Easy Rider (Dennis Hopper, 1969) suggerì a Hollywood che c’erano guadagni che non sapeva ancora come ottenere e un pubblico che del quale non conosceva l'esistenza. La Warner Bros. si rivolse dunque a Coppola perché (come dice scherzosamente John Milius) aveva “la barba” e conosceva “gli hippie”9. Coppola scelse San Francisco come quartier generale per la Zoetrope proprio perché era l’epicentro della controcultura e voleva che la “vita bohémien” pervadesse la compagnia10. E così fece. I colori sfacciati dell’arredo del quartier generale della Zoetrope su Fulton Street, le sue celebrità – Jerry Garcia, Bill Graham (promoter di concerti), e altri – erano attirati dalla Zoetrope come centro di gravità. “Era estremamente eccitante”, ha detto Walter Murch, per il quale la Zoetrope era “un’estensione professionale della scuola di cinema ideale”11. Il meccanismo che guidava questo gruppo di amici era quello aziendale, ed è stato proprio questo che ha impedito alla Zoetrope di diventare un altro esperimento, un esempio di quello che Fred Turner chiama nuovo comunalismo, piuttosto comune all’epoca a San Francisco e nei dintorni12. Senza dubbio piegarono questo mezzo ai loro scopi, ma l’effetto fu che la forma aziendale fu influenzata da energie informali che strutturano il mondo dell’arte. Quindi contrariamente a molti storici del cinema che mettono l'American Zoetrope fuori dalla giurisdizione del business hollywoodiano, come un rifugio dalla vita breve per i film d’autore, io la considero un agente del rinnovamento della storia aziendale per il modo in cui ha formato una micro-economia – un posto a parte, con codici tutti suoi – che si è annidata all’interno delle economie di scala dei conglomerati aziendali.

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George Lucas e Francis Ford Coppola nel documentario di Gary Leva, A Legacy of Filmmakers: The Early Years of American Zoetrope (Usa 2004)


Il Ford di Francis Ford Coppola è lo stesso di John Ford?

Se Preston Tucker si inserisce nella linea di discendenza con “Mr. Ford” - o almeno, così lo presenta Coppola, affermando: “È possibile che abbiamo avuto un Henry Ford negli anni Quaranta” e “il suo nome era Preston Tucker” - possiamo proseguire nell’analogia inserendo anche Coppola in questa logica storica22. Per una delle tante coincidenze poetiche della tradizione hollywoodiana, è il regista più emblematico dell’epoca dei grandi studi cinematografici, John Ford, a condividere il nome con il più emblematico di quella successiva: Francis Ford Coppola. Il nome “Ford”, potremmo dire, era stato dato a questi due uomini dal sistema di cui erano parte più di quanto non fosse stato scelto liberamente da loro (o dai loro genitori). Questo nome era nell’aria, destinato ad indicare, più che un’automobile, un sistema produttivo. Con “sistema” si intende sia l’ordine economico americano in cui erano cresciuti, nessuno nella loro generazione poteva ignorare Henry Ford, e molti svolgevano quotidianamente il proprio lavoro nello stile da lui brevettato; ma anche la stessa Hollywood, il sistema in cui la cultura veniva prodotta in massa secondo i principi che avevano reso famoso Henry Ford. John Ford negherebbe quest’associazione. Lui e suo fratello Francis cambiarono il proprio cognome da Feeney a Ford, e anche se i due sono discordi sulla fonte originale, per John Ford non si trattava di un tributo all’imprenditore. L’ironia, ovviamente, è che l’industria hollywoodiana in cui John Ford fece la sua carriera era, durante i suoi anni di attività, tutta un tributo a Henry Ford e al suo modello di produzione. Niente era più comune dei piani di produzione delle major. C’è un certo disaccordo sul presunto fordismo del cinema hollywoodiano classico, ovviamente, per via del fatto che il successo di certi film non precisamente standardizzati tende a oscurare il fatto che nella sua essenza Hollywood faceva parte a tutti gli effetti del regime fordista23. È tenendo questo a mente, il fatto che Hollywood non potesse fare e rifare sempre lo stesso film, che Janet

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Teri Garr in One from the Heart (USA 1981)


Il cinema del capitale finanziario

Un’importante caratteristica da sottolineare di Tucker è che in esso Coppola cerca di costruire un’eredità di Preston Tucker che abbia poco a che fare con l’auto da lui progettata e prodotta. Nella scena finale del film, quando gli astanti escono dal tribunale per vedere le Tucker 48, Abe Karazt dice “Guarda! Avevi ragione la macchina piace tanto alla gente!”, ma vedere il loro amore lo getta nella disperazione perché “la Tucker Motor Company è morta. Non se ne costruiranno più". Tucker, al contrario, è soddisfatto semplicemente di averla realizzata. Per lui, l’auto è ormai un fait accompli. Quando Abe obietta “Cinquanta macchine”, come se la scarsa produzione dimostrasse il fallimento come produttore in serie, Tucker risponde: “Che differenza fa cinquanta o cinquanta milioni? Non sono altro che macchine. È l’idea, è l’idea che conta. È il sogno”. In effetti, potremmo dire che Tucker stesso era più un’idea che un film. Aveva rappresentato l’idea normativa per la American Zoetrope fin da quando in un’intervista del 1975 Coppola promise di “fare un film sulla storia di Tucker, prima o poi”47. A quell’epoca concepiva il film come “una specie di musical brechtiano, in cui quella di Tucker sarebbe stata la storia principale, ma potevano farne parte anche Edison, Henry Ford, la Firestone e la Carnegie”48. Quando nel 1980 Coppola compra la Hollywood General come sede per l’American Zoetrope, stava pensando a Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1981) come prova generale per Tucker. Dopo averlo finito, portò Leonard Bernstein, Betty Comden e Adolph Green alla sua casa di Napa Valley per sviluppare Tucker nella sua forma musical, ma lo scarso successo di Un sogno lungo un giorno lo costrinse a ridimensionare il progetto. La forma che assunse poi Tucker, non un musical, ma una storia à la Capra coperta finanziariamente dalla Lucasfilm, potrebbe nascondere allo sguardo l’idea iniziale. Nelle prossime pagine discuteremo la complessità formale del film, e come Coppola riesca a fare di questa ostruzione il principio che ne è

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George Lucas e Francis Ford Coppola nel documentario di Gary Leva, A Legacy of Filmmakers: The Early Years of American Zoetrope (Usa 2004)


Hippy s.p.a: Non torno a casa stasera e la creazione dell’American Zoetrope

Quando nel 1969 il tycoon di Las Vegas Kirk Kerkorian comprò una quota maggioritaria della MGM solo per smantellarla liquidando “sessantadue milioni di dollari in beni patrimoniali nei successivi quattro anni, inclusi gli esterni di Culver City, lo studio di BorehamWood a Londra (MGM British), l’MGM Records, e cinquant’anni di costumi e scenografie”, divenne semplicemente il più spudorato responsabile della transizione di Hollywood verso il capitale finanziario63. Molti studi comprati ed assorbiti in conglomerati in questa fase erano stati valutati in quanto marchi, beni immobili da parcellizzare e vendere e perlopiù in beni liquidi. Quello che era scandaloso in Kerkorian era il fatto che, a differenza di Charles Bludhorn della Gulf and Western, non sembrava gli importasse nulla dei film; era semplicemente uno sciacallo delle corporation al quale gli studi di Hollywood in fase di ribasso apparivano come dollari. Nell’usare il brand per il suo Grand Hotel MGM, aveva mostrato interesse per l’identità dell’azienda, ma non per la ragione da cui questa identità derivava. In questo momento storico, Francis Ford Coppola e George Lucas stavano cercando di passare dalla figura di studenti particolarmente dotati nelle loro scuole di cinema, al farsi un nome rispettabile nell’industria hollywoodiana. Coppola era diventato famoso all’UCLA per essersi già riuscito ad inserire ad Hollywood. Aveva vinto il Samuel Goldwyn Award per la sceneggiatura originale di Pilma Pilma, un premio che può indicare una figura talentuosa da far entrare nell'industria64. Aveva anche iniziato a lavorare con Roger Corman, “l’ingegnere” come lo chiamava Coppola, del cinema d’exploitation [N.d.T.: film a basso costo che trattano temi popolari]65. Infatti, Corman si procurò dello spazio sulle riviste di mercato per annunciare la vittoria del Samuel Goldwyn Award di Coppola66. I suoi compagni vedevano Coppola, come lui stesso ammise, come “il venduto originale”67. Nel frattempo,

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In questo senso dobbiamo considerare la conclusione di Non torno a casa stasera. Il film può essere interpretato come uno sforzo di immaginare nuove relazioni, ma questi nuovi rapporti possono apparire come un semplice recupero o salvataggio in corner di quelli precedenti. Nella scena finale, l’agente Gordon viene picchiato da Killer, che l’aveva visto aggredire Natalie. La scena è strana, includendo il vedovo Gordon e la sua figlia senza madre, proprio come Killer, e al suo centro l’incinta Natalie, oggetto del desiderio di Gordon. Famiglie disfunzionali o interrotte, insomma, si fronteggiano fuori dalla casa mobile di Gordon. Sembra che Killer, fedele al suo nome, sia sul punto di uccidere Gordon, ma la figlia di questo interviene in sua difesa imbracciando la sua pistola immatricolata e sparando a Killer due colpi nella schiena. Lui si accascia. In questo momento Natalie guarda la figlia di Gordon, e i loro sguardi si incrociano per quello che sembra quasi troppo tempo, prima che lei assuma la sua posa in stile Pietà sul corpo di Killer. Una specie di staffetta ha avuto luogo qui tra la figlia del poliziotto e la madre surrogata dell'atleta. L’autorità formale ha eliminato quella sostanziale, da un lato, e dall’altro una ragazza è stata messa in competizione con una donna. La legge è in crisi, non c’è dubbio, come tanta storiografia sugli anni Sessanta sostiene, ma qui sembra esserci una nozione hegeliana della ricalibrazione della legge: la famiglia, che dà autorità sostanziale alla legge positiva statale, deve rinnovarsi e recuperare legittimità su un altro ordine. “Avrò cura di te, ti proteggerò” dice Natalie a Killer “Vinny, anche lui avrà cura di te. Gli telefonerò, lui verrà qui e ci porterà a casa, e verrai anche tu, anche tu a vivere con noi”. Ciò che rende la scena sconcertante è che la sua promessa - “e saremo tutta una famiglia” - è fatta ad un cadavere, ma allo stesso tempo noi sappiamo che Natalie è incinta, di una gravidanza che vorrebbe interrompere, interruzione a cui Vinny ha finalmente acconsentito. In questo momento – dopo aver reso paritario il suo rapporto col marito, dopo aver flirtato con la legge formale prima di tornare all’autorità sostanziale – dichiara nuovamente la sua fedeltà alla famiglia. Potrebbe essere una scappatoia. Natalie potrebbe non aver fatto altro che emanciparsi dalla struttura borghese solo per renderla più stabile.


La forma dell’impresa: Il padrino, La conversazione e Tucker

Quello che Coppola fece tra Non torno a casa stasera e Il padrino è uno dei salti più inaspettati nella carriera di un regista. Se Non torno a casa stasera era volto a ricalibrare la voce lirica, e piazzava la sua trama nell’ordine d’impatto di una poesia, Il padrino era più un romanzo realista, concentrato su come gli individui nel loro privato sono necessariamente posti in relazione con una vasta e brulicante società. “Adesso che credevo di esserne uscito” recita un dialogo nell’ultimo film “mi trascinano di nuovo dentro”. La differenza tra i due film è appropriata alle rispettive condizioni di produzione. The Rain People era un film personale, Il padrino un film degli studi. Coppola amava ripetere che, per il suo bene, aveva giustificato l’essersi fatto carico del film – notoriamente offertogli dalla Paramount quando altri registi già affermati avevano declinato impegnandosi a modificarne l’esito. Non avrebbe fatto un “filmaccio di gangster”, ma avrebbe ricavato dal romanzo di Mario Puzo la ben più appassionante “storia di una famiglia, di un padre e dei suoi figli, e questioni di potere e eredità”125. Nelle sue mani, il film virò dal tema della scalata sociale tipica del genere a quello collettivo del sistema economico americano. Assimilando la mafia alle “nostre più grandi industrie”, disse Coppola, il suo fine era quello di comprendere “la filosofia delle imprese”126. Utilizzò quindi il materiale in modo da poter convertire un film di genere in un film personale. Quello che gli stava a cuore, del resto, era il passaggio di proprietà e l’eredità della filosofia industriale, quello che le generazioni future avrebbero fatto dell’impresa, intesa come concetto e modello organizzativo del capitale. Non torno a casa stasera indagava la soggettività perché mirava a distruggere la riproduzione sociale di un certo tipo di soggetto da cui dipendeva il fordismo. Il padrino prendeva questa lirica soggettiva e la forzava nel registro sociale e collettivo

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Note del regista a margine del romanzo di Mario Puzo The Godfather (G. P. Putnam's Sons 1969)


Capitale di famiglia

C’era bisogno, ne Il padrino, di un altro incontro tra Vito e Michael che approfondisse la loro relazione, ma non avendo trovato il tempo per scrivere la scena Coppola la affidò, come è noto, allo sceneggiatore Robert Towne. Questa è la scena in cui Vito confessa a Michael la sua speranza irrealizzata di legittimare gli affari di famiglia inserendo Michael nella cultura ufficiale. Ciò che deve essere rimarcato non è la funzione narrativa della sequenza, bensì quella strutturale. Mentre la relazione tra padre e figlio qui viene caratterizzata molto più compiutamente, questo accade per mezzo linguistico. Non voglio dire che tutto stia nei dialoghi, c’è piuttosto un tessuto connettivo parlato tra i modi più stravaganti che il film utilizza altrove per veicolare le informazioni. Intendo dimostrare che mettendo questa scena in relazione ad altre, possiamo capire come il principio operistico dia forma al film. Questa esposizione parlata, una tregua dalla narrazione frenetica, ha la stessa relazione con le altre parti che c’è tra un recitativo (recitazione cantata del discorso comune) e un’aria (cantato strutturato dalla melodia espressiva) nell’opera. Le scene recitative ne Il padrino danno forma e sostanza ai legami sociali tra i personaggi, le sue arie ai momenti in cui i personaggi cercano di svincolarsene e sollevarsi al di sopra di questi. I momenti ariatici, come quello di Michael all’ospedale o l’omicidio di Sonny al casello, sono grandi messe in scena di voci, se si intende questa voce nel cinema in termini di rappresentazione visiva. In queste arie la dimensione sonora è importante, potenzialmente anche la colonna sonora stessa, ma la qualità della loro voce espressa è meglio descritta come una fusione di design audiovisivo. Si consideri ad esempio l’aria di Sonny, che faccio iniziare con sua sorella Connie che risponde a una telefonata dell’amante di suo marito. La scena inizia con lo schermo nero, sul quale sentiamo lo squillo del telefono. Il suono del telefono introduce il ritornello di suoni stridenti che segneranno il tempo durante

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Gene Hackman in The French Connection (William Friedkin, USA 1971)

Jeff Bridges e Cybill Shepherd in The Last Picture Show (Peter Bogdanovich, USA 1971)


Il modello paranoico nella storia dell’impresa

Questa lezione accoglie la formazione della Directors Company, un’entità d’impresa che riprendeva elementi dalla facciata della Zoetrope, ma nessuno dalla sua sostanza. E la lezione ci giunge da La conversazione, l’unico film che Coppola avrebbe girato per la compagnia. Per contratto, avrebbe dovuto farne di più. Tuttavia, la Directors Company, come ha laconicamente asserito Peter Bart “non fu mai davvero una compagnia”149. La storia della sua fondazione cambia a seconda di chi la racconti. Jon Lewis la descrive come “frutto dell’ingegno” di Frank Yablans, presidente della Paramount, mentre Michael Schumacher accredita l’iniziativa dell’amministratore delegato della Gulf and Western (nonché proprietario della Paramount) Charles Bluhdorn, che intuì che le matricole di Hollywood, ovvero i giovani registi “erano passati dal fare film d'autore, da scuola di cinema, ai grandi film commerciali”150. In questo secondo scenario, Yablans non era che il portavoce di un progetto autorizzato ai piani superiori. Un progetto interessante al di là del suo effettivo esito di successo a lungo termine, specialmente per la prospettiva in cui mette la filosofia del lavoro di Coppola. Nel 1972 la Paramount nomina Coppola, Peter Bogdanovich e William Friedkin capi di un’unità produttiva autonoma all’interno della compagnia. “Secondo il piano iniziale”, spiega Bart, “i tre non solo erano liberi di vagliare autonomamente i progetti (seppur entro un certo limite di budget), ma potevano anche esercitare un completo controllo creativo. In più, ciascuno poteva nominare un suo “protetto” più giovane che dirigesse film per la compagnia”151. Perché proprio questi tre registi? La risposta è semplice e si trova nei risultati al botteghino de Il padrino, L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, diretto da Bogdanovich nel 1969) e Il braccio violento della legge (The French Connection, diretto da Friedkin nel 1971). La compagnia era basata, in altre parole, sull’erronea convinzione che questi tre registi

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Coppola e Storaro nel celebre cameo in Apocalypse Now (Usa 1979)


Fondare l’impresa

Per il momento, e per ragioni strategiche, salteremo un’importante fase della carriera di Coppola. Dopo il grande exploit agli oscar del 1974, in cui sia La conversazione che Il padrino – Parte II ricevettero una nomination per il miglior film e il secondo lo vinse, Coppola iniziò un decennio di lotta aperta con l’industria, in cui le sue innovazioni, mentre ponevano le fondamenta per la New Hollywood, lo avrebbero reso persona non gradita a Hollywood. I suoi eccessi di questo periodo, Apocalypse Now (1979) e Un sogno lungo un giorno (1981), e la sbandata pubblica che ne conseguì, negli anni tra il 1983 e il 1987 lo fecero diventare un regista su commissione. Il nostro focus sarà ora piuttosto il film che conclude questa fase, Tucker, un film che può essere considerato l’ultima grande opera esegetica (perlomeno fino ad oggi) che Coppola dedica alla sua idea del lavoro. Se la sua opera era stata finora guidata da una sorta di energia utopica che gli deriva dalla convinzione che il suo intervento potesse modificare l’economia – o almeno porre le condizioni del suo lavoro -, è facile vedere Tucker come la resa al fatto che, in realtà, il business non è il terreno di un conflitto tra idee, bensì quello di un conflitto tra interessi, in cui la soppressione delle idee è ben più probabile della loro realizzazione. Questa concessione di Coppola alla Realpolitik sul tema del lavoro è marcata, poeticamente, dal cambio di direzione del suo rapporto con George Lucas. Se un tempo Coppola era stato il mentore di Lucas nel convincerlo che la sua arte non era necessariamente incompatibile con l’industria hollywoodiana, ai tempi di Tucker toccava invece a Lucas porsi come mecenate di Coppola. Quando Lucas si separò da Coppola, sancendo la fine della Zoetrope, fondò la sua compagnia, la Lucasfilm, che già dal nome segnala come l’orientamento comunitario della Zoetrope avesse lasciato strada a un imprenditoria più individualistica. “Adesso abbiamo fondato due case di produzione diverse”, disse Lucas, “la Coppola Film e la Lucasfilm”155. Lo disse

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materiale. E il film, naturalmente, ci mette in guardia sugli effetti pericolosi di questo scollamento: il nome di Tucker campeggia su un’industria che non produce nulla, e dà il titolo a un film che rifiuta il suo stesso contenuto. In breve, Terrence Rafferty dà una descrizione perspicace del film quando dice che le sue “complessità” risiedono della “relazione tra il contenuto del film e la forma che il regista gli ha impresso”, e questa relazione, difforme com’è, ci protegge dall’”incontrare qualcosa di reale”. Rafferty, tuttavia, pensa che questa sia una critica al film, mentre non è altro che la descrizione del suo progetto176.


Apparizioni vocali e persona giuridica: Apocalypse Now, Il padrino – Parte III e Segreti di famiglia

Possiamo ora tornare al periodo della caduta professionale di Coppola, da Apocalypse Now a Un sogno lungo un giorno, alla luce del fallimento imprenditoriale testimoniato da Tucker. Voglio azzardare che possiamo comprendere il delirio estetico allucinato che è Apocalypse Now solo se lo consideriamo in relazione alla traiettoria dell’idea di business di Coppola, l’American Zoetrope. La mia tesi, per metterla in un altro modo, è che possiamo capire l’estetica conseguente di Coppola solo se la inseriamo nella sua teorizzazione dell’impresa come essa è espressa, pezzo per pezzo, nella sua impresa stessa. Uno dei punti fermi nella sua estetica era la nozione che la rappresentazione, intesa convenzionalmente, debba essere aggirata, ottenuta tramite un corto circuito, di modo che il film non possa essere un artefatto consumabile senza rapporto o riferimento al suo luogo di produzione. I due aspetti, come ho già spiegato, erano presenti entrambi nell’opera di Coppola. Questo può essere letto come un metodo brechtiano, il cui obiettivo principale è fare sì che il pubblico sia consapevole che ciò che sta consumando è il prodotto di qualcosa. Miriam Hansen evidenzia che i dispositivi in Apocalypse Now creano uno “straniamento brechtiano”, di modo che possiamo capire che la guerra “viene prodotta mentre la percepiamo”177. Ma Hansen è abbastanza acuta da definire l’effetto “dislocamento”, più che “straniamento”. Lo spettatore non è estromesso né reso “esterno” allo spettacolo, sostiene Hansen, piuttosto è “preso dal meccanismo con cui è fatto il film – così come la guerra e la Storia”178. L’intuizione di Hansen è cruciale, perché non si basa su una figurazione di esterno e interno, bensì su una figurazione unitaria. Lo spettatore non ha via di scampo, essendo allo stesso tempo incluso nel processo e catturato dal suo effetto. “Il reale fenomeno di trovarsi in quella situazione, nel mezzo di quella giungla, e dover affrontare quelle difficoltà”, dichiarò Coppola, “era esattamente il

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Al Pacino in Il padrino Parte III (USA 1990)

Vincent Gallo in Tetro (USA, Argentina, Spagna, Italia, 2009)


Famiglia meccanizzata

Intendo ora considerare gli ultimi esempi di opera nel cinema di Coppola per indagare sia cosa essi ci dicano della sua idea di cinema, sia come si è evoluta la sua idea dell’opera. I film più interessanti a questo scopo sono Il padrino – Parte III e Segreti di famiglia. L’ultimo capitolo de Il padrino non è stato considerato all'unanimità come “riuscito”, molti critici lo considerano una caduta di qualità rispetto ai due precedenti. Coppola si difende, in un certo senso, definendolo un epilogo piuttosto che un contributo a pieno titolo. Ma indipendentemente dal suo valore, esso è quanto meno una rigorosa resa dei conti con l’opera e con la sua influenza sul cinema di Coppola, la sua carriera e il suo ruolo esclusivo. Sebbene nel primo film ci fosse la musica di Verdi, e Apocalypse Now includa Wagner in un ruolo di primo piano, l’ultimo Padrino è il primo film di Coppola in cui l’opera ha un ruolo esplicito nella trama, utilizzando un teatro come set, il canto operistico come carriera possibile, e così via. Il padrino – Parte III è dedicato all’opera, quasi una dichiarazione del fatto che tutta la saga lo fosse. In esso, il figlio di Michael Corleone, Anthony (Franc D’Ambrosio), vuole diventare un cantante d’opera invece di studiare legge e diventare consulente della famiglia. “Sarò sempre tuo figlio”, dice Anthony a suo padre, “ma non voglio avere a che fare con i tuoi affari”. Questa scena non è altro che un remake del dialogo tra Michael e suo padre nel primo film, in cui Vito dice a Michael che avrebbe voluto che diventasse “il senatore Corleone, il governatore Corleone”. Il padre vuole legittimità, il figlio la rifiuta, o almeno, la rifiuta nella forma desiderata dal padre. “L’ho trovata vergognosa, quella cerimonia!” dice Kay dell’impero criminale di Michael “travestito” dalla sua chiesa che così contaccambia il suo sostegno filantropico. Qui semplicemente gli ricorda ciò che sapeva già quando suo padre cercava legittimazione in questa forma, e quello che suo figlio Anthony continua a sapere: questa è la legittimazione data a “un altro pezz’i’novanta”.

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Nastassja Kinski, Francis Ford Coppola e Frederic Forrest in One from the Heart (Usa 1981)


Il postmodernismo della Zoetrope e la famiglia in technicolor

Ne Il padrino – Parte III c’è una scena curiosa che sembra arrivare da un altro universo estetico e impiantata in quella che, nella trilogia, sarebbe stata una diegesi strettamente organizzata sui principi dell’opera lirica. Nella seconda metà del film, segnalata dal ritorno dei Corleone in Sicilia, vediamo una scena girata in una villa italiana: due finestre aperte con le tende che fluttuano ai due lati. Ciò che le agita è la canzone che arriva dalla finestra aperta a sinistra, Miracle Man di Elvis Costello. Come abbiamo visto, il film usa la Cavalleria di Mascagni per citare Toro scatenato di Scorsese, e nel farlo segnala gli sviluppi della New Hollywood negli anni tra questo ultimo film e Il padrino – Parte II del 1974. Ma il film usa Elvis Costello, dobbiamo supporre, per fare riferimento all’incursione del pop contro quella che era stata la sensibilità sinfonica delle colonne sonore della Hollywood classica. La canzone ha senso in due significati cronologici: da quando era uscito il secondo film della trilogia, il cinema di Coppola aveva vissuto una crescente abrasione della sua estetica operistica, abrasione da cui era emersa la meno ordinata logica del musical hollywoodiano. Coppola aveva girato un musical a inizio carriera – Sulle ali dell’arcobaleno – ma l’aveva sempre descritto come un’imposizione. “Uno dei motivi era fare colpo su mio padre”, ammise, un altro quello di ottenere attenzione a Hollywood229. Se nell’opera Coppola trovava un principio di forza centripeta, in cui l’ethos familiare ricooptava l’individualità, nel musical trova qualcosa di diverso, qualcosa che assomiglia all’antitesi dell’opera. In esso, gli individui cantano da soli, isolati, mentre la società da cui provengono si disintegra. Questo spiega come mai Tucker, quando era stato concepito a metà degli anni Settanta prima del fallimento dell’American Zoetrope e della Directors Company, dovesse essere un “musical brechtiano”, con i veterani della Freed-unit della MGM Betty Comden e Adolph Green come team per la scrittura della colonna sonora. Un sogno lungo un

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Intervista a Francis Ford Coppola (Intervista redatta via e-mail nel dicembre del 2013)

Jeff Menne: Secondo la letteratura ufficiale sei stato un artista troppo grande per essere anche un buon imprenditore. Però la storia racconta altro, ovvero, che tu sei stato più responsabile nella creazione di un nuovo modello di business di qualunque altro regista della tua generazione. Pensi che il tuo senso per l’arte sia stato un impedimento per il tuo senso degli affari o che gli sia stato complementare?

Francis Ford Coppola: Fin dal college ho sempre avuto un buon istinto imprenditoriale, coordinavo l’organizzazione teatrale studentesca e i diverbi con la facoltà sarebbero stati poi la base per l’American Zoetrope. Più tardi, la mia avventura di comprare gli Hollywood General Studios cercando di mettere in piedi un ibrido tra il vecchio studio system e le nuove tecnologie (gli Zoetrope Studios) ha rappresentato contemporaneamente un trauma e un’esperienza formativa. Dopo esservi sopravvissuto per miracolo, e avendo l’opportunità di far parte del consiglio della MGM-UA per molti anni, imparai una specie di educazione da economia gestionale. Riorganizzai i miei interessi economici (che riguardavano l’AZ, il vigneto e la casa editrice) applicandovi ciò che avevo imparato, soprattutto insistendo su un sistema di contabilità. Questo mi diede modo di migliorare sensibilmente e con una sana paura di debiti e banche. Con Un sogno lungo un giorno ho perso quasi tutto ed'è stato scioccante, così ho imparato a procedere con più cautela nell’ultima parte della mia vita, tenendo d’occhio i debiti e reclutando un manager affidabile che si occupasse dei miei affari. Ma fino ad oggi, la compagnia è di proprietà ed è gestita da un artista, non da un uomo d’affari, cosa insolita in questo paese.

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Coppola con la figlia Sofia sul set de Il padrino - parte II (1972)


Note

1. Michael Pye e Lynda Myles, The Movie Brats: How the Film Generation Took over Hollywood, Holt, Rinehart, and Winston, New York 1979, p. 3. 2. Dwight Macdonald, “A Theory of Mass Culture”, in Bernard Rosenberg and David Manning White, a cura di, Mass Culture, The Free Press, New York 1957, p. 65. 3. Si veda Janet Wasko, Movies and Money, Ablex Publishing Corporation, Norwood, NJ 1982, in particolare il Capitolo 1 sulla carriera di D.W. Griffith’s in rapporto alle banche e il Capitolo 2 sul crescente controllo finanziario dell’industria del cinema nel periodo 1927-1939. 4. Per un resoconto si veda Thomas Schatz, The Genius of the System, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010, pp. 29-35. 5. Macdonald, “A Theory of Mass Culture” 6. Si veda Thomas Frank, The Conquest of Cool, University of Chicago Press, Chicago and London 1997; Rosabeth Moss Kanter, The Change Masters, Simon & Schuster, New York 1983, and Art Kleiner, The Age of Heretics, Doubleday, New York 1996. 7. Fred Turner, From Counterculture to Cyberculture, University of Chicago Press, Chicago and London 2006. Turner si oppone all’argomento standard che “le idee autenticamente rivoluzionarie della generazione del 1968 siano state in qualche modo cooptate dalle forze a cui si opponeva” per argomentare come invece quello “stesso mondo della ricerca militareindustriale che diede vita alle armi nucleari – e ai computer – fece anche emergere uno stile di lavoro libero, interdisciplinare e altamente imprenditoriale” (4). Stewart

Brand, Turner dimostra, ha a lungo fatto proseliti per questi valori in nome della controcultura. 8. Chris Nashawaty, Crab Monsters, Teenage Cavemen, and Candy Stripe Nurses, Harry N. Abrams, New York 2013, p. 59. È il regista Jack Hill a fare questa considerazione. 9. A Legacy of Filmmakers: The Early Years of American Zoetrope, documentario incluso nel DVD di THX-1138, George Lucas, 1971; Warner Home Video, Burbank, CA 2004. 10. Ibid. 11. Michael Ondaatje, The Conversations, Alfred A. Knopf, New York 2011, p. 15. 12. Turner, From Counterculture, p. 4. 13. Manuel Castells and Alejandro Portes, “World Underneath: The Origins, Dynamics, and Effects of the Informal Economy,” in Alejandro Portes, Manuel Castells e Lauren A. Benton, a cura di, The Informal Economy, The Johns Hopkins UP, Baltimore 1989, p. 25. 14. Michael Sragow, “Godfatherhood,” in Gene D. Phillips and Rodney Hill, a cura di, Francis Ford Coppola: Interviews, University Press of Mississippi, Jackson, MS 2004, p. 167. 15. Andrew Sarris, The American Cinema: Directors and Directions, 1929-1968, E.P. Dutton & Co, New York 1968, p. 31 e p. 37. 16. Coppola lo dice nel commento inserito nel DVD di The Godfather (Paramount, 2001). 17. Eleanor Coppola, Notes on a Life, Doubleday, New York 2008, p. 19. 18. Douglas McGregor, “The Human Side

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La televisione contro la democrazia. Feedback David Joselit Postmedia Books 2016 isbn 9788874901661

L'acuta analisi di Joselit del potere manipolativo della televisione sulle coscienze e sul sociale non comporta, tuttavia, quel tipo di pessimismo associato alla 'società dello spettacolo', ma piuttosto ad una nuova comprensione dell'originalità, diversità, e la tenacia di forze emerse in opposizione all'egemonia culturale della TV. __Norman Bryson Per quanto sia apparso originariamente nel 2007, cioè in un'epoca di conclamata "maturità" del mezzo televisivo, Feedback. Tv Against Democracy, di David Joselit costituisce per molti aspetti uno studio pioneristico. Il motivo è semplice: anche se i media studies stanno occupando una fetta sempre crescente nel panorama delle humanities, gli studi dedicati all'impatto realmente culturale e artistico della televisione restano ancora molto scarsi. __Marco Senaldi

In Feedback, David Joselit descrive la sfera pubblica privatizzata della televisione e le strategie sviluppate da artisti e attivisti dei media negli anni 1960 e 1970 per rompere il suo circuito chiuso. La televisione infatti incarna un paradosso: pur essendo spesso gestita privatamente si inserisce in un network di comunicazione pubblica che il cittadino subisce senza potervi partecipare. La televisione crea dunque un'immagine della comunità, ma evita la formazione di veri e propri legami sociali, perché dietro la simulazione di uno scambio di opinioni c'è una struttura aziendale altamente centralizzata e profondamente antidemocratica.


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