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UNI
Comitato editoriale Anna Barbara (Politecnico di Milano) Cristina Casero (Università di Parma) Emanuela De Cecco (Libera Università di Bolzano) Luca Peretti (Yale University) Roberto Pinto (Università di Bologna) Carla Subrizi (Sapienza Università di Roma)
Fallimento di Teresa Macrì © 2017 Postmedia Srl, Milano In copertina: un disegno di Garrett Phelan www.postmediabooks.it ISBN 9788874901845
Fallimento Teresa MacrĂŹ
postmedia books
Desidero ringraziare Francesco Arena, Valerio Rocco Orlando, Cesare Pietroiusti, Roberto Pinto, Garrett Phelan, Cesare Viel
Introduzione 7
1~ La disfunzionalità riscattata 13 2~ Il rischio annunciato 29 3~ La ripetizione ossessiva 55 4~ L’utopia immaginata 87 5~ La metafora straniante 109 6~ L’antagonismo produttivo 139
Bibliografia 166
Introduzione
Non ci sono pensieri pericolosi, per la semplice ragione che pensare è in se stesso un’impresa pericolosa. Hannah Arendt, 1973
Questo libro o “scatola degli attrezzi”1 non è la sede per un elogio al fallimento, men che mai per una sua esegesi e tanto meno per una nomenclatura dispotica che vuole incasellare gli artisti a dei concetti. Piuttosto è il tentativo di ridefinire, all’interno di un sistema acentrico, le varie posizioni e le differenti accezioni che intorno al concetto di fallimento si intessono tra loro, generando una struttura reticolare, possibilmente infinita. Esso rimanda ad un analisi di carattere fenomenologico che ruota intorno alla sua nozione, estraendolo dai confini del suo tabù e dalla rimozione imposta dalla sfera della coscienza contemporanea marcata dall’efficientismo e dal successo. Ragionare di fallimento, infatti, è cosa ardua nell’attuale società, strutturata com’è sulla compulsione performatica, sulla proliferazione dell’ego e sull’inseguimento del successo personale confezionato sul consenso. E che, di conseguenza, si è afflosciata sul conformismo poiché terrorizzata dalla possibile sconfitta e dalla sola ipotesi della defezione delle cose e, dunque, dalla possibilità della perdita del mondo. Il fallimento è l’irruzione improvvisa del nulla nel pieno dell’esistenza e sperimentarlo significa iniziare a vedere le lacerazioni nel tessuto dell’essere. Esso si impone e agisce fortemente nella vita psichica del soggetto e ne condiziona il suo stare al mondo.
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Dato che consideriamo l’arte non come una Weltanschauung, ossia una visione del mondo ma un Weltgefühl, cioè come l’effetto di una modalità di sentire il mondo, l’idea di trasferire il concetto di fallimento all’interno della ricerca contemporanea è un procedimento logico che tende a smascherare le sue irruzioni semantiche all’interno del processo artistico. La storia dell’arte è una concatenazione di voli e cadute, di accensioni e sprofondamenti, di conquiste e crolli. Tra questi sommovimenti si interpongono delle intermittenze, degli interregni dialettici che provano a tessere nuovamente la relazione tra l’io e il mondo. Il fallimento è la condizione necessaria al moto del pensiero poiché lo mina nelle sue certezze e lo potenzia insinuando il dubbio e l’inquietudine. Da ciò il senso vitalistico e rigermogliante che, in questo spazio, si vuole attribuire all’idea di fallimento, vissuto come eventualità dell’agire e come condizione di rilancio dell’esperienza. Esso, infatti, appartiene già alla scrittura dell’opera poiché è il vettore di vulnerabilità sia dell’intenzionalità dell’artista che del suo fare. E, in quanto tale, elemento di disordine della sua progettualità. Ma al tempo stesso, il fallimento è un’enunciazione di libertà poiché spinge alla riprogettazione e alla ridentificazione dell’opera. Esso si dirama in articolazioni molteplici e si annoda a formazioni discorsive che lo declinano rizomaticamente. Il fallimento è generato da mondi eterogenei e imperscrutabili, iperreali, metafici o più semplicemente pragmatici, sguscia da utopie inconfessabili, da aspettative insolute, da illusioni e da perimetrie imperfette. Si arrotola latentemente nel vortice dell’immaginazione e con essa convive fino al punto in cui si annuncia mutevolmente. Così, nei suoi svariati travestimenti, il fallimento, si propaga in una costellazione di accezioni, anche se ogni artista è un paradigma a sé e ogni fallimento percorre un orizzonte unico e singolare. Ma è solo dall’elaborazione del “danno” che può avvenire la sua rivendicazione e rovesciare le dinamiche dell’insuccesso. Questa analisi è organizzata in linee di discontinuità, attraverso cui le ricerche di artisti dissimili ma empatici tra loro, si
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avvicinano temporaneamente per assimilazione metodologica o attitudinale. La disseminazione di assunti con cui la nozione viene attraversata si biforca, essenzialmente, su due spinte contrarie, di introflessione e estroflessione, che alludono alla predisposizione dell’artista rispetto all’esistente e che ne organizzano una lettura diagonale. Il fallimento come espressività del mondo racchiude pratiche e dispositivi strategici che enucleano il concetto nella sua fenomenologia d’intralcio e d’interdizione della realizzazione dell’opera. Ma nell’asimmetria dei percorsi, esso si intensifica e si rigenera in una molteplicità di plateaux, sì da comporre una cartografia complessa e imprevedibile. Il fallimento si fonde o si moltiplica con altri universi, perdendosi nell’errore, nella disfunzione, nel diniego, nel ripensamento, nella paura, nell’inconcludenza, nella disillusione e, a volte, con essi sprofonda nella psicosi. Spesso, esso assale come una malinconia per non essere stato schivato o come un rimpianto per non essere stato risolto. In entrambi i casi testimonia un'insufficienza del ruolo, una zona d’ombra dell’esperienza, uno scollamento tra l’intuizione e il dato sensibile. E del resto è proprio l’elusione dei codici e la loro frantumazione che lo rendono possibile così come la proiezione nel regno dell’imponderabile ne garantisce la sua eventualità. Da qui, paradossalmente, con un atto di resilienza, spesso, si riparte verso prospettive più produttive come la riscrittura, la ripetizione e la reificazione. In questo flusso discorsivo trovano allocamento artisti come Cesare Pietroiusti, Chris Burden, Iggy Pop, Maurizio Cattelan, Bruce Nauman, John Baldessari, Marcel Broodthaers, Bas Jan Ader, Tacita Dean, Fischli & Weiss, Francis Alÿs, Harald Szeemann, Robert Smithson, Jeremy Deller e Walter De Maria. In essi e con peripezie individuali, la negoziazione col fallimento viene effettuata come un atto di presa di coscienza, un patteggiamento logico che avviene (consciamente o incosciamente) nel processo che accompagna l’opera dall’intenzione alla reificazione. Il suo contrario
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costituirebbe la perpetuazione dell’episteme, attraverso la cristallizzazione dell’opera borghese e compiacente, e l’atonia del significato. Il fallimento si rivela come la quantificazione del disturbo, dell’utopia, e della rottura di senso contenuta all’interno dell’opera, oltre, ovviamente, al suo collasso. In questi slittamenti concettuali da esso istigati, entrano e perdurano le singolarità psichiche degli artisti, ognuna delle quali elabora la propria “disfatta” individuale, soggettivandola e di-soggettivandola all’interno del proprio spazio inesteso. In esso spazio, la parabola progettuale, inscritta da un insuccesso, spesso quasi annunciato, può riorganizzarsi e attivare una nuova linea di fuga, attraverso un meccanismo di Displaced e Replaced dell’idea, sì da reinvestirla di nuove opzioni e alternative. Il mondo come matrice espressiva del fallimento, viceversa, condensa meccanismi e congegni linguistici che, attraverso l’opera, inter-soggettivizzano la dimensione ontologica della caduta, della débâcle e dello scacco. La reificazione dell’opera avviene senza interruzioni dalla sua intenzione poiché il fallimento si manifesta all’interno del mondo, da cui profonde l’idea. La responsabilità della storia con le sue ideologie, i suoi eventi politici e economici, i suoi dissidi e i suoi conflitti viene percepita dagli artisti e introiettata come atto soggettivo. A questo istinto non si sottraggono artisti come Sisley Xhafa, Francesco Arena e i Superflex che, pur nella loro separatezza tematica e semantica, accolgono la sfida di individuare e analizzare la sconfitta storica e di re/immaginare mondi possibili. Così sulla dispersione del fallimento, identitario politico, finanziario, ambientale, convogliano invenzioni estetiche, spesso istoriate da forme di radicalismo linguistico che tendono a convertire il nichilismo disfattista del potere in grammatiche fantasmatiche. Progettualità che, nel caso dei Superflex, intervengono come pratica sociale. L’arte così attua uno spostamento, non è più dettata dalla sola fantasia e impigliata nella pura contemplazione ma è allineata alle nuove forme di desiderio e di soggettività, diventando un campo auto-organizzato di pratiche culturali,
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una forma di intervento partecipativo all’interno dello spazio sociale, attraverso la produzione di modelli sociali antagonisti e di inaspettati immaginari. All’incapacità dell’agire politico fa da contrappunto la funzione sostitutiva poetica-politica dell’arte, con suoi azzardi, i suoi dispositivi simbolici, le sue eccedenze e le sue idiosincrasie. Ed è, soprattutto, nella capacità di aspirare ad un territorio del possibile che essa ricorre, dove tali aspirazioni possano esprimersi, prendere forma e interloquire col mondo per rifondare nuove forme di esistenza2. Là, dove si esprime la capacità di aspirare si costruisce un ancoraggio all’immaginazione. E l’immaginazione spinge ad un'impresa di scomposizione di senso che può disegnare un diverso profilo dell’esistente. Ciò avviene disgiungendosi dal dominio della rappresentazione egemonica (fondata su un immaginario ostentativamente consumistico e unificante), spalancando le soglie del pensiero e liberandosi dalle costrizioni del linguaggio. Forse in questo spazio desiderato ed aspirato il fallimento trova il suo riscatto.
1. “Tutti i miei libri [...] sono, se volete, delle piccole scatole degli attrezzi. Se le persone vogliono aprirle, servirsi di questa frase, questa idea, questa analisi come se si trattasse di un cacciavite o di una chiave inglese, per cortocircuitare, squalificare, spezzare i sistemi di potere, compreso all’occorrenza quello da cui provengono i miei libri... ebbene, tanto meglio!” in Michel Foucault, “Des supplices aux cellules”, in Dits et écrits, Gallimard, Paris, 1994, vol. II, n. 151 [1975], p.720.
2. Appadurai A., (2011), Le aspirazioni nutrono la democrazia, et al./Edizioni, Milano. Se c’è mai stato un momento per riflettere seriamente sul fallimento, quello è proprio adesso.
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1 La disfunzione riscattata
Se c’è mai stato un momento per riflettere seriamente sul fallimento, quello è proprio adesso. Finite le grandi narrazioni novecentesche ancorate sulle certezze del passato, dal welfare alla politica e sfarinate lentamente dal nuovo assetto globale, la nuova soggettività si è ottemperata a quel processo di liquefazione di tutti quei corpi solidi che le società precedenti avevano costruito. Questa disgiuntura ci consegna conseguenze irrefutabili come la crisi dello Stato e della sua rappresentanza, la deriva post-ideologica, l’affermazione di un individualismo sfrenato che smantella il senso di comunità, il dilatamento spropositato
di
un
consumismo
ostentativo
insieme
all’esasperazione di un'identità effimera, digitale e narcisa che si smagnetizza nel vuoto del sé. In questo contesto apodittico in cui la condizione dell’apparente diviene dominante non sembra esserci spazio per la dimensione del fallimento che, anzi, tende ad essere rimosso. In antitesi alla vigente logica dell’efficienza della prestazione, la dimensione del fallimento diventa allora una condizione necessaria poiché ne indebolisce il principio ed evidenzia la frizione tra il dover essere (Sollen) e l’essere (Sein), assunto pregiudiziale della società capitalistica. All’interno della sua dimensione fenomenologica i precetti di insuccesso, di imperfezione e di errore si inabissano in una conflittualità interiore e pubblica che rasentano quasi la (auto) censura e che investono il corpo sociale nel campo economico, culturale, politico e psichico.
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Bruce Nauman, Pay Attention Mother Fuckers, 1973 Litografia, edizione di 50
2 Il rischio annunciato
Il fallimento emerge laddove c’è il rischio e, laddove si impone il rischio, c’è sperimentazione, rottura, discontinuità. Fondamenti irrefutabili alla realizzazione dell’opera e della condizione dell’arte. Se così non fosse la storia culturale (e la conoscenza) sarebbe rimasta appannata nella sua amorfa immanenza e dissipata dalla sua stessa inettitudine. Così non é. La ragione dell’arte sta nella sua asimmetria rispetto al reale, nella sua volontà di essere altro da esso pur comprendendolo. Comprendere, racchiudere, conoscere l’esistente significa, spesso, azzerarlo per poi scompaginarlo. La storia dell’arte è una costellazione linguistica, edificata da dislivelli assertativi, da sospensioni e interlocuzioni, in un andamento che rintraccia quel duplice movimento di andata e ritorno a cui si riferiva Edmund Husserl, utilizzando le espressioni Abbau-Analyse (analisi di decostruzione) e AufbauAnalyse (analisi di costruzione). Il fallimento, dunque, è quell’”occasione” volta a illuminare l’ambiguità che descrive l’esistenza, quella stessa ambiguità che non permette mai di creare scissioni assolute, manichee e decisive, ma che impone un atteggiamento continuamente precario e in bilico. Solo le grandi menti emancipate (artisti, poeti, scienziati, scrittori) e con un intenso bagaglio esperienziale hanno l’ardire di distaccarsene per risarcirsi dei propri errori, commettere e scommettere sul fallimento delle proprie idee. Convivono con esso e da esso decollano, nello spleen dell’anarchia creativa, per azzardi utopistici, scarti semantici e paradossi filosofici. Attraverso esso si divincolano dalla eccessiva schematicità dell’art system e si
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9. Samuel Beckett (Dublino,1906-Parigi, 1989), scrittore, drammaturgo poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese, rimane uno degli autori più intensi del “teatro dell’assurdo” e della digressione della coscienza moderna. Nel 1952 pubblica l’opera drammatica che lo impone all’attenzione internazionale En attendant Godot . Nel 1969 gli viene assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Nel 1938 si trasferisce definitivamente in Francia e dal 1945 comincia a scrivere in francese. La trilogia Molloy (1951), Malone meurt (1951), L’innommable (1953), compaiono contemporaneamente alle opere teatrali come Fin de partie e Acte sans paroles (1957). In un contesto mitologico personalissimo, costruito su un ragionamento cartesiano che procede per esclusioni, Beckett traccia il quadro della inutilità e inevitabilità della sofferenza dell’uomo. I suoi personaggi simboleggiano, con qualche deformità fisica, la paralisi spirituale cui sono giunti. Non si muovono perché non ce n’è motivo alcuno e ogni desiderio che sorge viene immediatamente frustrato da una lucida consapevolezza. Moltissime le sue opere, oltre alle succitate: Comment c’est (1961), Imagination morte, imaginez (1965), Watt (1953, tradotto in francese nel 1968), Mercier et Camier (1970, ma scritto nel 1946), Le dépeupleur (1970), First love (1973), Company (1980). Tra le opere teatrali ricordiamo: Tous ceux qui tombent (1957), Embers (1959), Krapp’s last tape (1959), Happy days (1961, tradotta in francese Oh! les beaux jours, 1963), Comédie et actes divers (1966), Breath and other short plays (1972), Not I (1973). Beckett è autore di opere di poesia e di saggi, nonché di commedie radiofoniche e del cortometraggio Film (1965).
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10. La mostra Try Again. Fail Again. Fail Better, curata da Annette Kierulf e Mark Sladen si è tenuta all’interno di “2 Momentum, 4th Nordic Festival of Contemporary Art”, Moss, Norway, dal 2 Settembre al 15 Ottobre 2006. 11. La mostra The Art of Failure curata da Sabine Schaschl e Claudia Spinelli si è tenuta alla Kunsthaus Baselland di Basilea dal 5 Maggio al 1 Luglio 2007. 12. La mostra Fail Better, Moving Images, curata da Brigitte Kölle si è tenuta alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo dal 1 Marzo all’11 Agosto 2013. 13. Spector N., ed. (2011), Maurizio Cattelan. All, Skira, Milano, p. 28. 14. Ivi, p. 23. 15. Il filosofo Alexander Gottlieb Baumgarten (Berlino 1714-Francoforte 1762), con la pubblicazione di Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus prima (1735) e Aesthetica (1750) dopo, introdusse l’uso del termine “estetica” nel senso di dottrina dell’arte e il ricollegamento (su cui tale uso terminologico era fondato) dell’arte stessa alla conoscenza sensibile (aesthetica est scientia cognitionis sensitivae), che tanto influsso ha esercitato sulla posteriore filosofia dell’arte, e in particolare su quella di Benedetto Croce. 16. Lacan J., Livre V. Les formations de l’inconscient,(1957-1958), Seuil, Paris, 1998; trad. it. Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, Einaudi, Torino, 2004, p.83. 17. Bonami F., (2011), Maurizio Cattelan. Autobiografia non autorizzata, Mondadori, Milano, p.39.
3 La ripetizione ossessiva
Il paradigma dell’assurdo converge con l’effimero senso dell’esistenza nel lavoro di Bruce Nauman (Fort Wayne, 1941). La sua istintualità concettuale è di aver imbastito una liason intellettuale con Samuel Beckett e di articolarne una sostenuta quanto decostruita rappresentazione. L’artista americano, fin dai suoi esordi video-comportamentali, si ispira empaticamente e metodicamente al teatro beckettiano traducendone il mood e le parole in una visione alterata. E poiché “Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche” come trascrive ironicamente all’interno di una spirale di neon che compone l’opera The True Artist Helps the World by Revealing MysticTruths del 1967, l’impianto costitutivo del suo lavoro, trasgressivamente colto, si distende e si intesse di una molteplicità di addentellati che esplicitano un intento semiotico. Li attiva attraverso giochi linguistici filosofici (Ludwig Wittgenstein), musicali (John Cage e Steve Reich), coreografici (Merce Cunningham), letterari (Alain RobbeGrillet ) e teatrali (Beckett). L’intera creazione letteraria dello scrittore irlandese è articolata nelle sue astrattezze metafisico e linguistiche che paventano la fine dei valori e il fallimento della condizione del vivere insieme all’esaurimento delle forme e alla disintegrazione dei linguaggi. La sua inclinazione filosofica lo distoglie dall’interesse narrativo del plot e lo spinge, piuttosto, a delineare situazioni e personaggi emblematici che incarnano l’assurdità, la mancanza di significato della realtà e il tragico destino dell’uomo, “un qualcosa circondato dal nulla”. In questa dimensione di sfasamento tra la realtà e le immagini di essa che
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Joseph Beuys, Bill Bollinger e Keith Sonnier durante l'allestimento di When Attitudes Become Form alla Kunsthalle Bern, 1969 Il team di Documenta 5 (Peter Iden, Arnold Bode, Harald Szeemann, Bazon Brock, Jean-Christophe Ammann, Ingolf Bauer) 1972. Courtesy: documenta Archiv
4 L'utopia immaginata
La nozione di fallimento, dal contenuto così poroso, attrae in sé una molteplicità di slittamenti concettuali sì da offrire una circumnavigazione complessa intorno al suo perimetro. Esso, contiene in sé, soprattutto, una qualità utopica che gli è quasi connaturata. L’utopia indica qualcosa che ha il carattere di una costruzione e si configura come alternativa critica rispetto alla realtà presente. Secondo Ernst Bloch l’utopia svolge tre funzioni fondamentali. La prima è quella di mostrare agli altri che il reale non si risolve nell’immediato, la seconda di essere uno strumento di lavoro che permette di esplorare sistematicamente tutte le possibilità concrete, la terza di renderci coscienti delle imperfezioni di questo mondo, non per fuggirlo in un passato idealizzato o in un futuro illusorio, ma per trasformarlo secondo le esigenze proposte dall’utopia stessa. Questo porta Bloch a pensare ad una sorta di fenomenologia della coscienza utopica (sviluppata soprattutto in Das Prinzip Hoffnung)1 nel rilevare come tutte le forme e le figure della coscienza e della storia dell’uomo che si sono succedute, si spieghino in base alla funzione utopica esercitata in contrapposizione ai limiti dei contesti storicosociali del tempo. A questo ricollocamento della funzione utopica nella storia, Bloch attribuisce un ruolo particolare all’arte, più esattamente alla dimensione estetica, muovendo soprattutto dal concetto di Vor-Schein, inteso come il pre-apparire, di un futuro realizzabile sia pure ancora distante. La coscienza utopica però
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Francis Alÿs, Watercolor, Trabzon, Turkey – Aqaba, Jordan 2010
5 La metafora straniante
Francis Alÿs (Anversa, 1959), artista che del fallimento ha una lucida cognizione e che ne fa una disacerbata ammissione, convive e condivide con esso l’ordine e il disordine interno al processo creativo. Il fallimento per l’artista appartiene in nuce alla scrittura dell’opera, attribuendogli una sua autonomia linguistica ed una emancipatoria dinamica speculativa. Esso è un’espressione di vulnerabilità dell’idea, che destabilizza l’intenzionalità dell’artista fino a sgonfiare il progetto. Ma al tempo stesso, il fallimento apre uno spazio di libertà alla riprogettazione e alla ridentificazione dell’opera. Tale incomoda asserzione è legittimata dall’anticonvenzionalità intellettiva dell’artista, che distaccandosi da ogni preordinata norma sistemica, si assume una incondizionata responsabilità del fare arte. La pratica antidogmatica che Alÿs adotta nell’articolazione del suo lavoro, sposta radicalmente i codici espressivi, smonta la prassi comportamentale e disincarna le categorie linguistiche. Spesso si è parlato e scritto dell’assurdità dei suoi precetti. È essa un'assurdità logica e scompaginatrice che azzera l’accettazione dei nessi sintattici e concettuali. È una assurdità letteraria che lo avvita ad una alterata opzione della visione del mondo e ad una edificazione immaginaria magrittiana e beckettiana. Ed è una disidentificazione da una realtà costrittiva e standardizzante. Perciò l’artista invera una tattica illogica che si alterna tra poststrutturalismo e post-situazionismo facendolo sconfinare in un antagonismo concettuale che fonda i suoi paradossi. Attraverso il paradosso Alÿs interviene nei margini dell’esistente e nei conflitti che si dilatano tra il sé e il mondo. E, attraverso il paradosso, innesca dei dispositivi con cui ripensare la storia e smascherare
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Sislej Xhafa, Padiglione Clandestino Albanese, 1997 Perfomance alla 47. Biennale di Venezia
6 L'antagonismo produttivo
Lo stato di disequilibrio mondiale, i cui germi nascono dalle lunghe politiche colonialiste occidentali e dall’evidente sperequazione del territorio mondiale dove l’opulenza si alimenta della miseria, genera intemperanze identitarie, déracinements e conflittualità sempre piú forti all’interno delle differenti civiltà. Civiltà sempre piú frantumate in culture e religioni contrapposte, etnie concorrenti, individualità antagoniste. Questa empasse riconduce ad una disamina globale dello stato del mondo, i cui fili ricompongono una costante disseminazione. L’ignavia con cui la complessità di tale frattura viene sottovalutata dalla governance mondiale, ci inserisce in un interstizio di tempo in cui il fenomeno della globalizzazione, della kulturschmelze cosí definita da Albrech von Müller, rivela la sua illusoria promessa di orizzontalità. Tale prospettiva proietta lo scarto tra oggettività del dato reale e proiezione immaginaria dell’esistente ed evidenzia il suo fallimento storico, culturale ed economico, poiché ciò che la globalizzazione ha senza dubbio acuito è l’egemonia della finanza, la polarizzazione della ricchezza, l’accelerazione delle migrazioni e il ruolo asettico dell’Europa. Naturalmente il processo di globalizzazione vanta anche aspetti positivi, come il declino del tasso di povertà nelle economie considerate emergenti e la nascita di una classe media in quei paesi (soprattutto asiatici) proprio grazie alla delocalizzazione produttiva, alle intese facilitanti il commercio internazionale e al flusso di investimenti e di knowhow dalle economie avanzate, che ne è derivato. Tuttavia, anche in queste economie si osserva lo stesso problema che riguarda i paesi cosiddetti avanzati, ovvero una crescita non inclusiva. La crisi economica ha poi esacerbato le diseguaglianze, evidenziando
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Gummo è, un saggio di estetica e di sociologia contemporanea che stravolge la forma cinematografica. Korine, infatti, rimpasta vari formati di ripresa seguendo il suo statement “mistakism art form”, coerente a quel “realismo surrealista”, come lui lo definisce, che zizgaga tra down, kids sniffatori di colla, ragazzine svampite, shinheads, prostitute e lottatori in una sporcizia invereconda al limite del repellente. Soprattutto Korine si inserisce, senza mezzi termini, nella disperata sopravvivenza di una gioventù bruciata fin dalla nascita. In un'incredibile alternanza di formati (Super8, camera digitale, Polaroid, found footage) il film si apre con i vari footage del tornado, mentre una voce off narra il racconto spaventoso di quei giorni in cui l’uragano travolse Xenia. Il film tanto sghembo quanto tossico nella sua forma cinematografica, introduceva come portato semantico, la white trash, attraverso una costellazione di personaggi reietti a se stessi e che appariva come una disgiunzione anti-establishment, uno spazio in-between di incondizionata anomia. Korine introiettava nel cuore della cinematografia mondiale, sia pure nell’assolutezza del suo registro indy, quel sostrato sociale isomorfo e ingovernabile. Nel cult di Korine è la stessa white trash che si autorappresenta nella sua dissennatezza. C’è nella distruzione delle convenzioni filmiche mainstream, il rifiuto di aderire allo schema canonico consolatorio dell’happy end, che è una maniera di rifiutare la sovrastruttura tipica dell’ideologia capitalista americana, radicata nell’idea che l’America sia la società in cui persino coloro che vivono nei bassifondi della società possono realizzare il sogno di cambiamento. Nell’inferno esistenziale di Xenia, Korine non dà accesso a tali illusioni e ipocrisie. Come in tutti i suoi film la tensione del regista è indirizzata verso identità destinate al fallimento esistenziale, intrappolate in condizioni che le condannano irrevocabilmente alla caduta, così per Gummo come per Julien in Julien Donkey Boy, uscito nel 1999, così per Diego Luna protagonista di Mister Lonely del 2007.
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Harmory Korine, still da Mister Lonely, 2007
Da questa agiografia strabica ma veritiera risulta complesso assistere e metabolizzare, vent’anni dopo, la omogeneizzazione e la “istituzionalizzazione” della stessa white trash all’interno delle ultime elezioni presidenziali e analizzarne la determinante influenza e decisionalità nell’elezione di Donald Trump. Ma anche qui, un’abbagliante verità scandisce il riflusso di strati di soggetti considerati ingovernabili e impolitici, allineati e abbandonati incredibilmente alla “seduzione” populista. È dai tempi dei primi coloni che gli Stati Uniti hanno cercato di rimuovere questa particolare frangia demografica esiliandola a sud, dove i cosiddetti “mangiatori di terra”, soprannome paradossale quando di terra, queste persone non ne avevano affatto, sono diventati la white trash, la spazzatura bianca, marcata dalla mancata scolarizzazione e dall’aspetto, convenzionalmente, riconosciuto come laido e derivato da anni di alcool e di prigione. Ed è soprattutto nel sud degli Stati Uniti che queste popolazioni sono state istituzionalizzate attraverso una forma abitativa inconfondibile: la roulotte. Se possedere una casa è l’emblema della classe media, averne una che si sposta ovunque è l’emblema di quelli senza classe, di coloro che vengono espulsi dalla stratificazione sociale accettabile: pensionati, immigrati e detenuti riabilitati. Al di là
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principalmente contro l’iniquità economica e sociale sviluppatasi a seguito della crisi economica mondiale e ispirandosi alle sommosse della “Primavera araba”. Dopo due mesi il movimento fu sgomberato nottetempo dalla polizia di New York e essendo privo di un luogo fisico in cui continuare le proprie battaglie, Occupy Wall Street terminò la propria esperienza. 10. Rancière J., 2004, Malaise dans l’estétique, Paris, Galilée; trad. it. 2007, Il disagio dell’estetica, Pisa, Edizioni ETS, p. 66. 11. La locuzione white trash, (spazzatura bianca), è un dispregiativo etnico statunitense abbinato a una classe sociale. Nel saggio Class di Paul Fussell la maggior parte di queste persone sarebbe da inserire nell’ambito della classe proletaria media e bassa. Secondo l’Oxford English Dictionary, il termine white trash cominciò ad essere usato comunemente nel 1830 come un termine peggiorativo, utilizzato dagli schiavi dei sudisti della classe alta, per dileggiare i bianchi che lavoravano nei campi. Il gruppo dei white trash erano considerati come dei piccoli coltivatori dei propri appezzamenti che lavoravano, inettamente, terre poco fertili e che (metaforicamente) ricorrevano alla ghiaia tritata mescolata con la farina del pane per riuscire a sostentarsi. I white trash, spesso sono emarginati, semioccupati o disoccupati, affetti da depressione o/e da malattie croniche semi-invalidanti, dipendenti da droga o alcool. Dal punto di vista lavorativo sono spesso dediti a lavori poco qualificati, poco remunerativi e precari come benzinai, camionisti, portuali, venditori ambulanti. Il segmento più marginale e disperato si dedica a piccoli furti o prostituzione. Come abitazione risiedono soprattutto in camper o in aree marginali semi
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sviluppate, boschi, deserti o in qualsiasi area suburbana depressa, con alto tasso di disoccupazione come la Rust Belt del Michigan, in Ohio e in Pennsylvania.
Bibliografia
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