Paolo Gioli. Transfer di volti nell'arte

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Paolo Gioli Transfer di volti dell’arte

Roberta Valtorta

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Paolo Gioli. Transfer di volti nell'arte di Roberta Valtorta Š 2018 Postmedia Srl, Milano Copyright le immagini: Paolo Gioli Traduzione in inglese di Timothy C. Moore ed Emanuela Zirzotti

www.postmediabooks.it isbn 9788874902033


Paolo Gioli Transfer di volti dell’arte

Roberta Valtorta

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Spostamenti Nella prima metà degli anni Ottanta Paolo Gioli trae una serie di opere fotografiche da volti dipinti da grandi artisti del Rinascimento, utilizzando l’immagine Polaroid, declinata nei suoi molteplici e inattesi aspetti materici e cromatici. Questa diventa così un terreno di sperimentazione dell’immaginario dell’artista che si lega, in questa occasione, alle fisionomie e ai sentimenti di alcune figure della ammirata storia dell’arte. Forma particolare di immagine tecnica inventata dall’americano Edwin Land nel cuore del Novecento, più di cent’anni dopo l’invenzione della fotografia classica, e popolare per il suo attraente effetto di istantaneità-unicità, la Polaroid presenta, a una indagine profonda come quella alla quale Gioli l’ha instancabilmente sottoposta, una sorprendente versatilità e una complessità chimica che può definirsi misteriosa. Gioli ne è stato il più importante e fedele sperimentatore dagli anni Settanta fino a oggi, e i motivi della eccezionale interpretazione da lui data di questo plastico medium sono non pochi. Per cercare di capirli è utile riandare molto brevemente alla sua formazione di pittore avvenuta negli anni Sessanta, e alla successiva individuazione da parte sua di un altro terreno di lavoro, quello della fotografia e del cinema, negli anni Settanta1. Nato a Sarzano, nei pressi di Rovigo, nel 1942, Gioli disegna fin da bambino. Diciottenne, conosce e stringe amicizia con l’anziano scultore Virgilio Milani2: è il suo primo maestro e lascia un deciso segno nella sua esistenza. Standogli accanto, intuisce l’importanza di un severo e schietto naturalismo nella rappresentazione del volto e del corpo, un aspetto che, pur intrecciato a complesse strutturazioni delle immagini, rimarrà sempre nella sua opera, nella forma di un ricorrente, strano ancoraggio alla realtà. Gioli lavora in un laboratorio di ceramica come decoratore e per qualche anno, fino al 1963, la sera frequenta la Scuola Libera del Nudo presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Conosce Luciano Gaspari e Giuseppe Santomaso, e successivamente Emilio Vedova, mentre l’appassionata frequentazione dei musei veneziani lo avvicina all’arte italiana del Medioevo e del Rinascimento e

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le visite all’Archivio storico della Biennale e a Ca’ Venier, residenza veneziana di Peggy Guggenheim, alle avanguardie e all’arte contemporanea (da Gorky a De Kooning, da Man Ray a Motherwell, da Pollock a Picabia). Alla Biennale del 1964 conosce la Pop Art americana. Inizia in quegli anni a esporre i primi dipinti e disegni, e nel 1967 realizza anche la sua prima cartella litografica. Parte poi per New York, dove vive per circa un anno. Nelle gallerie e nei musei newyorchesi familiarizza con l’Espressionismo Astratto e la Pop Art stessa, con Robert Rauschenberg e Andy Warhol, Jasper Jones e Jim Dine, James Rosenquist, Tom Wesselmann. Ma viene anche a contatto con il New American Cinema, con i film di Stan Brakhage in primis, e scopre le enormi potenzialità creative e narrative dell’immagine in movimento, e se realizza alcuni grandi disegni, l’esperienza americana significa però per lui soprattutto il sorgere di un forte interesse proprio per il cinema e, insieme, per la fotografia. Un interesse condiviso con molti artisti nel fertile clima delle neoavanguardie, che induce a lasciare i vecchi strumenti di lavoro per cercarne di nuovi: come annota Franco Vaccari, “era tipico della situazione di allora preoccuparsi del rapporto con gli strumenti usati, in quanto si era diffusa la coscienza, più o meno chiara, che essi in qualche modo delimitassero le esperienze possibili”3. Nell’autunno 1968 è di ritorno in Italia e nel 1969 si trasferisce a Roma, dove vive fino al 1975. Nel clima della Pop Art romana, che vede attivi Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Gioli utilizza anche la serigrafia e la litografia, le arti della riproduzione riportate alla ribalta dalla sensibilità pop per la società di massa e per tutto ciò che è seriale. E se da un lato prosegue con la pittura, lavora però subito con il cinema e la fotografia, media tecnologici che inizia a esplorare in un vivace lavoro di smontaggio e rimontaggio di codici a cui non porrà mai termine. In alcuni dipinti del periodo, anzi, come Grande proiezione orizzontale, 1969, Superficie vasta della sorgente, 1970, si sente già la pressante presenza del cinema, con i temi della proiezione e delle immagini infinite contenute nel fascio di luce. Con scelta radicale che punta a mettere in evidenza il meccanismo originario della fotografia, si orienta verso l’uso di camere con foro stenopeico, da lui ampiamente e variamente sperimentate, come è noto, per molti anni. Grazie al film-maker Alfredo Leonardi entra


in rapporto con la Cooperativa Cinema Indipendente, a cui collaborano Adriano Aprà, Enzo Ungari, Gianfranco Baruchello, Massimo Bacigalupo. Qui presenta i suoi primi film (tra i quali Commutazione con mutazione, 1969, Immagini disturbate da un intenso parassita, 1970, Secondo il mio occhio di vetro, 1972, Anonimatografo, 1972, Traumatografo, 1973), mentre sul fronte della fotografia a partire dal 1973 utilizza anche la tecnica del fotofinish, immagine statica in bianco e nero che sembra però incarnare il movimento, tecnica usata semplicemente nelle gare sportive ma da lui totalmente reinventata. Proprio a partire da questo momento Gioli costruisce via via un progetto di saldatura tra fotografia e cinema, vissuti sempre come fortemente contigui quando non sovrapposti tra loro, e sempre avvicinabili alla pittura ma anche ad altre arti della riproduzione, come appunto la litografia e la serigrafia. Nel 1976 si sposta a Milano, dove vive fino al 1981. È qui che avviene il suo netto avvicinamento alla fotografia: sono gli anni nei quali grazie alla presenza di case editrici, agenzie, riviste specializzate, alcune prime gallerie dedicate (Il Diaframma di Lanfranco Colombo soprattutto), Milano diventa il centro di riferimento per la fotografia in Italia. Nel 1977 inizia a utilizzare il materiale Polaroid, che si rivela fondamentale per lo sviluppo del suo lavoro, e gli consente di mettere a punto particolari tecniche di trasferimento dell’immagine su supporti diversi, soprattutto la carta da disegno e la seta serigrafica; nel contempo fa uso di camere fotografiche “alternative” a quelle prodotte dall’industria, ottenute da oggetti di uso quotidiano (quasi readymade domestici) oppure autoprodotte, scarnamente prive di lente e di mirino, povere, dotate solo del foro stenopeico che permette l’ingresso della luce e dunque la nascita dell’immagine, sulla cui genesi, guidata dalle leggi della fisica ma comunque misteriosa, egli va interrogandosi. Dal 1979 lavora anche con il Cibachrome, completando così un ampio insieme di strumenti e di materiali assai duttili, scelti “su misura” e puntualmente tendenti a soddisfare una inquieta esigenza di rifondare, destrutturare e ricomporre non solo le tecniche dell’arte (intese come strumenti che rendono possibile l’esplorazione diretta, fisica, della creatività), ma anche e soprattutto l’idea stessa di immagine nel suo complesso rapporto con ciò che, di volta in volta, chiamiamo realtà.

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trasferimento su carta da disegno, ha trasformato anche la Polaroid in una inaspettata matrice) che fa da ponte sia in senso tecnico sia, potremmo dire, ideologico, tra pittura e fotografia. Avendo la pittura come sostrato e come tessitura costante non solo di tipo formale e materico ma anche e soprattutto mentale, culturale, nell’opera di Gioli le arti manuali e quelle meccaniche convergono dunque le une nelle altre, certamente non in senso lineare, ma invece ciclico, anzi spiraliforme, quasi a vortice, e per approfondimenti successivi, in avanti ma anche a ritroso, secondo rimandi, incroci, contaminazioni, ramificazioni, ripetute verifiche e continui gesti di memoria. Va anche ricordato che, come tutti gli artisti della sua generazione, subito dopo il fertile periodo degli anni Sessanta e Settanta segnato dall’esigenza di un cambiamento profondo delle regole dell’arte, anche Gioli si è trovato, con gli anni Ottanta, a operare in un’epoca che, con grande crescendo, ha registrato uno straordinario e inedito moltiplicarsi di immagini, fisse e in movimento, originali e riprodotte. Un’epoca che ha visto sostituirsi alla certezza della continuità i modi della frammentazione, dell’ibridazione, che ha sottoposto a riletture la storia dell’arte stessa, fino a dichiararne la fine, nell’attesa forse della nascita di nuovi percorsi9, poiché i concetti stessi di storia, tempo, memoria sono completamente cambiati.

Bayard Gran Positivo (Omaggio a Hippolyte Bayard), Polaroid 20x25, 1980


Gioli ha sempre creduto profondamente nella storia, nella continuità, nella lenta stratificazione dei significati, e nella assoluta necessità dello studio delle origini delle cose per tentare di capire se stessi e il mondo (egli afferma di essere alla ricerca degli “aspetti primitivi del sapere”10). La sua opera ha, in questo senso, quasi le caratteristiche di una meditazione. Ma al tempo stesso sente molto, sia su un piano istintivo sia intellettuale, il peso della inafferrabile complessità e molteplicità che governa il contemporaneo. Ed è molto importante osservare che l’arte che gli ha permesso di dare forma alla sua consapevolezza di questa complessità e di esprimerla, è proprio la fotografia. Come scrive Peter Osborne, infatti, il processo di mescolamento che vede le diverse arti integrarsi tra loro è stato avviato “proprio dalla fotografia, che con la sua ‘peculiare generalità’ ha inaugurato la nuova condizione trans-mediale dell’arte”11. Volti, volto Se guardiamo ora da vicino le “riletture” che Gioli compie negli anni Ottanta, altre due annotazioni si rendono necessarie. La prima: in queste opere dedicate ai proto-fotografi e ai pittori (e anche in una serie coeva, del 1984, dal titolo Il volto inciso, realizzata a partire da sculture etrusche del Museo Guarnacci di Volterra12) , l’attenzione dell’artista è fortemente rivolta al ritratto, alla profondità del volto umano (ad eccezione della serie Eakins/Marey. L’uomo scomposto, del 1982, e di alcune delle opere di Omaggio a Hippolyte Bayard, del 1981), tema centrale nella sua opera, insieme a quello del corpo, come si diceva, fin dalle prime produzioni fotografiche. La seconda: negli stessi anni (ma già anche negli anni Settanta), Gioli alterna in modo metodico al ritratto l’autoritratto, sul quale lavora intensamente, come a istituire un “contraltare” al ritratto e a portare avanti una continua verifica del proprio volto rispetto a quello dell’altro (e basti qui citare le Spiracolografie del 1972-78, le numerose Polaroid SX-70 stenopeiche realizzate nel 1980-81, alcune immagini della già citata serie dedicata a Bayard, e ricordare che il suo stesso volto appare in numerosi suoi film). Allo stesso modo lavora a lungo sul proprio corpo (Il corpo dell’autoritratto, 1983), si concentra anche sui temi cruciali della maschera

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(Maschere, 1988-90) e del calco, “facciata del volto”, impronta per eccellenza e antenato della fotografia, applicando quest’ultimo prevalentemente ancora al proprio volto (Volto più linea, 1994)13, e sperimenta, nel 1989, con Pugno contro me stesso, un clamoroso autoritratto fotografico realizzato con il solo pugno, senza camera alcuna. In una recente intervista, Gioli tende a sminuire il significato dei suoi autoritratti: “Mi dicono che nei ritratti ci sono spesso io, come forma di narcisismo. La cosa era più banale, ero solo”14. Al contrario, essi sono indicatori preziosi. L’autoritratto fotografico è un gesto importante, apparentemente immediato ma non facile, e soprattutto molto rituale e, come e più del ritratto, secondo la logica del “doppio” e della replica dell’essere, ha la nota funzione di “scongiurare la morte”: esso, con ben maggior efficacia dello specchio poiché fornisce un’immagine stabile e non invece passeggera, conferma la nostra esistenza in vita, garantendo inoltre, con la sua decisa natura di impronta, la contiguità tra realtà e rappresentazione15. Nel caso di Gioli, il fatto che questa forma fondamentale di autoindagine nonché di trasformazione in immagine delle proprie sembianze (sulla base del meccanismo dell’immaginazione, poiché

Visage-visages, Polaroid type 59, seta serigrafica, matita, su carta da disegno, 1983, originale a colori (Gustave Courbet)


chi si autoritrae non si vede), non solo sia ricorrente ma si alterni al ritratto dell’altro, di altri, può suggerire un’ipotesi di lettura. Può dirci che egli è in cerca di una sorta di “volto totale”, un volto unico ma molteplice che si forma nel tempo dall’insistente confronto di più volti tra loro, compreso il suo (si pensi al film Volto sorpreso al buio, del 1995, che presenta innumerevoli diversi volti in un flusso cinetico che li trasforma in uno solo). Indica forse un bisogno di appartenenza e di partecipazione alla vita di una comunità, almeno sul piano visivo. In essa sono comprese le poche persone appartenenti al mondo privato dell’artista, ma quando, in particolare in quei primi anni Ottanta che qui stiamo analizzando, i volti presenti nelle sue opere accanto al suo, sono proprio quelli raffigurati dai maestri pittori del Rinascimento o dagli amati proto-fotografi, la comunità alla quale l’artista ci dice di appartenere è quella dell’arte e della pionieristica fotografia delle origini, nella quale sa di aver fatto ingresso, facendo delle opere dei maestri oggetto del suo stesso lavoro. Gioli fa dunque visita a molti volti dipinti nella grande storia dell’arte (non a opere d’arte nella loro interezza) e in essi riflette su se stesso, in una progressiva presa di coscienza e in un percorso di interiorizzazione di immagini, tra percezione e memoria. Pare anzi voler entrare nel pensiero di alcuni artisti e dare sviluppo, inventando nuove situazioni narrative, alle loro intenzioni (sintomatici sono, in questo senso, i film L’assassino nudo, 1984, e Piccolo film decomposto, 1986, nei quali Gioli mette in movimento le immagini fisse che

Quando l’occhio trema, film 16mm, bn, sil., 10’57”, 1989 (Luis Buñuel)

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Immagini travolte dalla ruota di Duchamp, film 16mm, bn, sil., 12’21�, 1994


può essere definito un artista citazionista poiché non vi è, nella sua opera e nel suo pensiero, quella crisi della storicità tipica della sensibilità postmoderna, e neppure la consapevolezza della cessazione del rapporto tra l’individuo e la propria tradizione culturale, di cui proprio Lyotard parla; non vi è “la percezione e l’accettazione di un mondo in cui il disordine eccede e sfida ogni ricomposizione”, come scrive Remo Ceserani28 e neppure è presente quell’ “iperspazio postmoderno” per capire il quale, dice Fredric Jameson, “non possediamo il corredo percettivo (…) in parte perché i nostri schemi percettivi si erano formati in quello spazio che ho chiamato del moderno avanzato”29. Senza mai smettere di rivolgere uno sguardo alla classicità (questo è confermato, se pure ve ne fosse bisogno, anche dai ripetuti studi sul motivo del torso maschile, talvolta con espliciti riferimenti alla figura di San Sebastiano, come Torsi di Sebastiano, 1992-93, e Torsi, 1997, o dal più recente ciclo di fotografie dedicato alle sculture dei musei vaticani, Luminescenti, del 2010), Gioli è lontano dal credere che l’avanguardia sia tramontata e resta saldamente legato a quelli che sono i perni genuini del modernismo: l’identità e le radici30 – che non possono venire meno. È vero, come è stato scritto, che la lezione di Gioli è “da leggere anche come un suggerimento (o più che un suggerimento) a valutare la portata dell’avanguardia in contrapposizione alla lettura postmodernista oggi predominante”31, e che egli non è legato alle pratiche postmoderne del remake, ma alla scelta modernista del ready-made, che prevede sempre un atteggiamento di interrogazione sull’immagine. Opera unica, riprodotta, unica In questa dimensione di lavoro, che possiamo definire metalinguistica, egli si esercita insistentemente a smontare e a rimontare (non senza aspetti ludici) i meccanismi della visione stessa, indagandone le ragioni e il funzionamento, per andare oltre. Nel nostro caso (come nel caso di utilizzo di altri oggetti found footage, per usare un termine che appartiene piuttosto al mondo del cinema) ispeziona i volti dipinti cinquecento anni fa da Piero della Francesca o da Dürer, da Raffaello o da Cranach o dal Pollaiolo, li scruta, li sdoppia, li ripete, li pone fantasiosamente l’uno di fronte all’altro in uno scambio di

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uomini. Gioli non fotografa dunque, lavora invece con la fotografia senza fotografare, solo per proiezione (il proiettare fa anche parte del linguaggio del cinema), cogliendo però non solo l’essenza della fotografia, che risiede esattamente nella riproducibilità, ma anche il senso del destino delle infinite immagini riprodotte. Che farne? Usarle, pare dirci, toglierle dalla loro inerzia, farle parlare. Compie dunque un singolare percorso che parte dall’unicità dell’opera d’arte, segnata da quell’aura basata sull’hic et nunc sulla quale Benjamin tanto insiste, passa attraverso la sua riproduzione (la semplice, assai popolare, divulgativa diapositiva) e infine, scavalcando il rigido confine della riproducibilità, torna all’unicità dell’opera d’arte recuperandone l’aura: non solo in quanto la Polaroid è unica, ma anche perché essa viene da lui sottoposta a elaborazioni e passaggi creativi che rendono ciascuna opera se possibile ancora più unica, e inoltre fertile e addirittura plurima, cioè capace di generare altre immagini (per esempio gli sdoppiamenti realizzati con la seta serigrafica). Allo stesso modo, parte dall’opera manuale (il dipinto),

Rothkofilm, film 16mm, colore, sil., 5’02”, 2008


passa all’immagine tecnologica (la diapositiva prima e la Polaroid stessa poi) e giunge nuovamente a un’opera, quella definitiva, che vede il ritorno dell’importante lavoro della mano in camera oscura, con il posizionamento di elementi colorati nell’ingranditore insieme alla diapositiva, il trasferimento della materia Polaroid sulla carta da disegno per pressione – un’azione che trasforma la Polaroid in una inedita matrice calcografica –, la sistemazione sulla superficie della Polaroid di brani di tela serigrafica, lo spostamento di questa dal supporto Polaroid alla carta. Crea così opere meccanichemanuali, parzialmente seriali e invece uniche, attraverso successivi gesti di manomissione che colpiscono l’ortodossia della fotografia, proprio quei gesti che Vilém Flusser giudica eversivi e portatori di libertà, vie di fuga, forse, dall’omologazione e dal delirio nel quale la civiltà, o meglio la non-civiltà delle immagini tecnologiche ci trascina40. Transfer Per Gioli la Polaroid, praticata negli anni nei suoi diversi formati, è un vero universo: uno straordinario laboratorio all’interno del quale è possibile indagare in profondità le stratificazioni presenti nell’immagine, sia per quanto concerna la materia, sia il colore41, poiché le loro reazioni chimiche, dunque la consistenza e le tonalità, mutano continuamente. L’artista nel tempo ne scrive in molti i modi. Ora la definisce “delicatissima epidermide, iconofotografia (…) umido incunabolo della storia moderna (…). La materia prima di tutto, cosparsa e tratta da sedimenti tecnologici, partendo dalle innumerevoli biforcazioni antropologiche che questa combinazione induce e offre”42. Ora, a più riprese, espone le procedure che inventa. Per esempio: “Si trasferisce come uno strato di un affresco. Volevo trovare qualcosa che avesse a che fare con le arti belle, e ho trovato questa materia che si stacca da una parte e va a finire in un’altra. Ma allora, tra il momento in cui si stacca e quello in cui va a depositarsi, io posso benissimo intromettermi come un parassita creativo e inserirmi dentro, a rubare, a sottrarre della materia. E allora cerco un supporto che possa far passare della materia, e guarda caso sono tutti quelli che hanno a che fare con la protofotografia, o con le arti plastiche: la carta da

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disegno, la seta serigrafica, il legno. Mi piace questo trasferire su materie così nobili, antichissime, una materia che è il trionfo del consumo immediato, della pornografia e del ricordo familiare”43. Sul tema dell’affresco torna così: “Prima di essere sviluppate con il dorso Polaroid 545 queste immagini sono state impressionate da tagli geometrici su mascherine di carta sagomate e non, con semplici filtri-colore davanti ad una pila tascabile. Come operazione finale ho fissato sulla pellicola, con nastro adesivo, frammenti di seta serigrafica che -come si sa- è fatta per far passare il colore. Proprio la Polaroid, con la sua materia che si stacca, va a filtrare parte sul supporto originale e parte resta sulla seta la quale viene separata, un po’ come lo strappo di un affresco, e messa dolcemente a fianco”44. E ancora: “(…) il gran desiderio di vedere questi strati coloranti e gelatinosi (…) trasferiti su materiali non loro, come nel caso della seta e della carta Fabriano (…) l’immagine staccata dai propri reagenti dal suo negativo, come una pelle dalla carne viva perdeva lo smalto-fissatore-protettivo che veniva assorbito dalla trama della tela, o spessore della carta. “Strappata” a mo’ di affresco mi accorgevo di una specie di “anemia d’immagine”, immagine di cui non si sapeva se in consunzione, o in nutrimento”45. Per giungere

Finestra davanti a un albero, film 16mm, bn, sil., 12’21”, 1989 (William Henry Fox Talbot)


infine, in anni più recenti, a confrontare apertamente la materia pittorica con la materia Polaroid, come sempre allo scopo di capire dove sia l’immagine, e in che rapporto stia con la materia: “(…) è una contaminazione di due materie. Questo è colore acrilico, è materia pittorica e quest’altra fotografica! Preparo questi due fondi. Quando sviluppo, l’immagine trova questa materia, poi quest’altra. L’immagine deve dare l’impressione di essere dietro la materia, e la materia di essere trasparente e di essere sopra l’immagine. Mi ha sempre interessato vedere che rapporto ci può essere tra una materia tecnologica sofisticata, contemporanea e le materie antiche come può essere la preparazione all’olio, le gouaches ecc... Vedere che tipo di reazione queste due materie, messe assieme, possano avere a distanza di secoli dal loro concepimento. (…) ho visto che questa materia tecnologica contemporanea con quella pittorica possono compenetrarsi”46. Questo approdo, consistente nella saldatura fisica tra pittura e fotografia, era annunciato proprio dalle ricerche sui pittori dei primi anni Ottanta. Anche in onore alla pittura e ai musei che ha visitato e visita e immaginando la fotografia come vera arte, Gioli costruisce un suo piccolo museo immaginario (e il nostro pensiero corre allora al musée imaginaire di Malraux47, tutto fatto di riproduzioni, senza che però vi sia in Gioli il particolare istinto del collezionista). Se alcune delle opere di questo ciclo riportano nel titolo il nome dell’artista dal cui ritratto prendono avvio, se alcune sono senza titolo, e altre ancora sono raccolte nella specifica serie Düreridentikit, del 1982, un certo numero di esse, datate al 1984, sono in effetti raggruppate sotto il titolo Museo. Ma quando chiediamo all’artista sotto quale titolo generale intende comprendere il “ciclo dei pittori”, egli sceglie questo: Transfer di volti dell’arte. Utilizzando il termine transfer (trasporto, trasferimento, secondo l’inglese transfer ma il più lontano latino transferre), egli fa evidente riferimento alla tecnica di trasferimento dell’immagine dal supporto Polaroid alla carta da disegno e alla seta serigrafica (si parla, nel linguaggio delle tecniche fotografiche, proprio di Polaroid transfer, e in francese transfert). Ma di certo non possiamo accontentarci di una lettura semplicemente tecnica di questo termine. In senso più ampio, possiamo pensare, in progressione, a una serie di spostamenti molto significativi: dalla pittura alla fotografia; dal passato

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A Piero della Francesca, 1981 Polaroid type 59 su carta da disegno e Polaroid type 88, matita, cm 15,5 x 20 su carta da disegno cm 25 x 35



Raffaello/Ritratto di Francesco Maria della Rovere, 1981, Polaroid type 59 e Polaroid type 59 su carta da disegno, matita, cm 16 x 22 su carta da disegno 25 x 35



Senza titolo (Caravaggio), 1981 Polaroid type 59 su carta da disegno e Polaroid 600, cm 12 x17,5 su carta da disegno cm 25 x 35



Senza titolo, 1981 Polaroid type 59 su carta da disegno e Polaroid type 88, matita, cm 16 x 29,7 su carta da disegno cm 25 x 35


DĂźreridentikit, 1982 Polaroid SX-70 e Polaroid type 59 su carta da disegno, matita, cm 24,5 x 15,5 su carta da disegno cm 35 x 25


DĂźreridentikit, 1982 Polaroid type 59 e Polaroid type 59 su carta da disegno, matita, cm 21,5 x 14,5 su carta da disegno cm 35 x 25



DĂźreridentikit, 1982 Polaroid type 59 e Polaroid type 59 su carta da disegno, matita, cm 23,3 x 15,2 su carta da disegno cm 35 x 25



Museo, 1984 Polaroid type 59 e seta serigrafica, matita, cm 22,2 x 11,3 su carta da disegno cm 35 x 25


Museo, 1984 Polaroid type 59 e seta serigrafica, matita, cm 20 x 13,2 su carta da disegno cm 35 x 25


Museo, 1984 Polaroid type 59 e seta serigrafica, matita, cm 17,5 x 15 su carta da disegno cm 53 x 25


A Luca Signorelli, 1985 Polaroid type 59 e Polaroid type 59 su seta serigrafica, matita, cm 20 x 14,5 su carta da disegno cm 35 x 25


A Luca Signorelli, 1985 Polaroid type 59 e Polaroid type 59 su seta serigrafica, matita, cm 20 x 14,5 su carta da disegno cm 35 x 25



D isplacements In the early 1980s, Paolo Gioli made a series of photographic works depicting faces painted by Renaissance artists, using Polaroid in its various components and chromatic aspects. This series provided a connection between Gioli’s imagination and some of the most admired figures in the history of art. The Polaroid is a technological image, invented by Edwin Land in the middle of the 20th century, and made popular by its being instantaneous and unique. Gioli’s tireless experimentation with this material highlighted its surprising versatility and mysterious, complex chemistry. He has been the Polaroid’s most important experimenter since the 1970s. In order to understand the reasons of the extraordinary interpretation he gave of it however, Gioli’s training as a painter in the 1960s and his subsequent adoption of photography and film in the 1970s, are worth recalling briefly1. Gioli was born in Sarzano, near Rovigo, in 1942. At eighteen, he met Virgilio Milani2, an aged sculptor, his first teacher. From Milani, Gioli learnt the importance of naturalism in the representation of faces and bodies, an aspect that, though intertwined within the complex structure of images, will always remain in his work. Gioli attended the Scuola Libera del Nudo at the Accademia di Belle Arti in Venice until 1963. Here, he met Luciano Gaspari, Giuseppe Santomaso, and Emilio Vedova. While through his regular visits to Venice museums he started to approach the Italian art of the Middle Ages and Renaissance, his visits to the historical archive of the Biennale and to Ca’ Venier (Peggy Guggenheim’s residence) introduced him to the Avantgard and to contemporary art. At the 1964 Biennale he saw American Pop Art for the first time. In these years he began to exhibit his first paintings and drawings, and in 1967 he also printed his first lithographic portfolio. He then left for New York, where he lived for nearly a year, and became acquainted with Abstract Expressionism and Pop Art, and also came into contact with the New American Cinema, discovering the creative potential of images in motion. Thus is born Gioli’s strong interest in cinema and photography, one shared by many artists within the Neo-Avant Garde, who chose to abandon the traditional tools of creation and search for new ones: as Franco Vaccari

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notes, “the concern about one’s relationships with the tools one used was typical of the time, as an awareness spread that they somehow restricted the field of one’s possible experiences”3. Gioli returned to Italy and lived in Rome from 1969 until 1975. In the climate of Roman Pop Art, in which Mario Schifano, Franco Angeli and Tano Festa were active, Gioli started using silk-screen and lithography, and also began working with film and photography, actively exploring, disassemblying and reassemblying codes, so that the presence of cinema already emerges in some of his paintings of this period. Aiming at highlighting the mechanism of early photography, Gioli opted for using pinhole cameras, with which he experiments, as we know, at lenght. Thanks to the filmmaker Alfredo Leonardi, Gioli came into contact with the Independent Cinema Cooperative, which counted among its members Adriano Aprà, Enzo Ungari, Gianfranco Baruchello and Massimo Bacigalupo. Within this circle, he screened his first films while, starting from 1973, he began using the slit in photography to create fixed images that embody motion, utterly reinventing a technique commonly used in sports racing. Since then, Gioli builds a project that blends together photography and film, which he had always perceived as juxtaposed and close to painting as well as to the other arts of reproduction, including lithography and screen printing. From 1976 to 1981 he lived in Milan, where he definitively dedicated himself to photography. In these years, thanks to the presence of publishing houses, agencies, and galleries, Milan becomes the center of reference for photography in Italy. Since 1977 Gioli used Polaroid, which would become essential for the development of his work, and would allows him to perfect particular image transfer techniques on different supports, especially drawing paper and serigraphic silk. Meanwhile, he uses alternative, non industrial cameras, made out of every day household objects or objects made entirely by himself, stripped of lens or viewfinder, with only a pinhole. From 1979 he emplyes Cibachrome film as well, thus implementing an already wide range of materials and tools aimed at satisfying his restless need to deconstruct and recompose the techniques of art and the very idea of image. Gioli’s oeuvre as a whole, weaves together figuration on one hand, and forms and signs on the other. The figure, originally learned from Virgilio Milani, appears in


Gioli’s early expressionist drawings, but tends to disappear during the years in which Arte Informale and Abstract Expressionism were emphasizing the power of form and sign (Gioli’s paintings lack figuration except when he inserts photographic prints into them)4. Yet in the seventies, following the impact of pop culture and the novelty of both film and photography’s “reality effect,” a “return of the figure” can be observed in Gioli’s work. The face and the body become central in his compositions which also feature iconography from art history, that is, already existing figures created by other artists, readymades, in short. Intermedial images Between 1981 and 1985, returning to Rovigo, Gioli devoted himself to a series of works that we can call “homages” using Polaroid film. At first he addresses the pioneers of photography (Joseph-Nicéphore Niépce, Hippolyte Bayard, Julia Margaret Cameron, Etienne-Jules Marey - associated to the painter Thomas Eakins -, Alphonse Poitevin), and then some of the master painters (Raphael, Piero della Francesca, Pollaiolo, Dürer, Botticelli, Caravaggio, Cranach, Signorelli, Gentile da Fabriano, Donatello, Andrea del Castagno, Mantegna). These are works of great significance. Gioli’s reflection on the protophotographers marks his official entrance into the world of photography, validated by his deep visual survey of the work of the pioneers (he even identifies with some of them, as in the case of Omaggio impuro a Bayard, 1980-83 and L’Annegato, 1981). Gioli’s exploration of the work of the painters narrates of his affection towards the never forgotten art of painting, the art of his beginnings, admired in museums and repeatedly seen in printed in books, the craft that gave noble roots to the newly born photography, born from the industrial revolution. His devotion to icons from both painting and photography discloses his desire to assert the special and intimate link between the two disciplines: the one from which he started and the one he eventually embraced. But beyond the biographical note, these works narrate the deep nature of Gioli’s unique thinking, his interest in shifting the manual arts into the mechanical arts, in the progress of the arts from the past to the present, from hand to

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eye to the machine and finally to the most sophisticated apparatuses. This triggers the phenomenon that sees one art laying on top of the other, in a process that continually generates images. Umberto Eco states that a work of art “proliferates indefinitely”5; Hans Belting writes that images already pre-exist in the human perception and “transcend the various historical media that are invented for them,” “pitching their tent in one new medium after another and then moving on to the next,” “they are (…) intermedial”6. And in 1981 Gioli seems to confirm this: “My tendency to blend creative techniques with techniques from the history of creativity is due to the fact that I am persuaded that it has become extremely difficult to disentangle the spectacular contaminations and permeations that occur in the scientific disciplines and the expressive arts. In my case, I believe I have arrived at such an entanglement of researches that I no longer know which of them will progressively cause displacements”7. When in 1995, in his maturity, Gioli had his first major solo show at Palazzo delle Esposizioni in Rome, he titled it Fotografia, pittura, grafica, film8, with a clear reference to Moholy Nagy’s Painting, photography, film. But in his title Gioli includes one more word: graphics, that is, the art of reproducing an image from a “master” (for Gioli, lithography and silk-screen but also -with a creative jump- the Polaroid film transfer onto drawing paper, unexpectedly transforming the Polaroid negative into a “master”). Painting is a constant texture in Gioli’s work, not only in a formal and material sense, but above all as a mental structure. In his work manual and mechanical arts converge into one another, not in a linear sense but in cyclical way, through successive elaborations, via cross-references, combinations, constant reviews. It is worth remembering, that like all artists of his own generation, after the prolific years of the sixties and seventies -marked by the need for a profound change in the rules of art-, Gioli found himself operating in an age where images, both fixed and in motion, original and reproduced, proliferated to a remarkable extent. It was the time when the certainties offered by continuity were replaced by fragmentation and hybridization, when history of art was subject to re-interpretations which finally led to announcing the discipline’s death9. The very concepts of history time and memory had undergone a definite change.


Gioli firmly believes in history, in the slow overlapping of meanings and in the absolute necessity of studying the origin of things (he strives for the “primitive aspects of knowledge”10). But at the same time he is very sensitive to the burden of the elusive complexity that governs present. And it is important to observe that photography is the very art that has allowed him to shape an awareness of this complexity. In fact, as Peter Osborne writes, the process of blending the arts was initiated by photography that “with its ‘peculiar generality’ led the ground for a (…) transmedial condition” of the arts themselves”11. Faces, face These “re-readings” of the proto-photographers and classical painters require two further observations: a) in these works (as well as in Il volto inciso, 1984, dedicated to Etruscan sculpture12) Gioli’s attention is emphatically directed towards portraiture (except for the series Eakins/Marey, L’uomo scomposto, 1982, and a few works of the series Omaggio a Hippolyte Bayard, 1981), as a central theme of the work, together with the body; and b) during this same period (but already in the seventies), Gioli alternates the portrait and the self-portrait, on which he works intensely, as if in a constant verification of his own face in relation to somebody else’s face (one needs only mention the Spiracolografie from 1972-78, the pinhole SX-70 Polaroids from 1980-81, some of the images from the above mentioned Bayard series, and recall that his face appears in many of his films). Gioli works extensively on his own body as well (Il corpo dell’autoritratto, 1983) and focuses on the themes of the mask (Maschere, 1988-90) and of the mould, especially the mould of his own face (Volto piu linea, 1994)13. In 1989, with Pugno contro me stesso, he realizes a sensational self-portrait made closing his hand in a fist, without using any camera. In a recent interview, Gioli plays down the significance of his self-portraits: “People tell me that I am often the subject of my portraits, as if I were a narcisist. The truth is simpler: I am on my own” [when I experiment]*14. On the contrary, these works are revealing markers. The photographic selfportrait is an important gesture with a strong ritual significance. More than the portrait, it is a “double”, a replica of the human being, and as such it has

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the conventional function of “averting death”. More effective than a mirror insofar as it gives back a steady lasting image, the self-portrait confirms our existence in life. At the same time, its being of imprint, vouches for the contiguity between reality and representation15. The fact that Gioli alternates this recurring self investigation with other people’s portraits, may suggest his quest for a “global face,” one that is unique but multifarious, emerging over the course of time from the comparison of several faces, including his own (think of his film Volto sorpreso al buio, 1995, where multiple faces converge into a single one in a kinetic flow). His practice might point to a need to participate in a community’s life. A community made of people belonging to the artist’s inner circle, but since the early eighties, also featuring faces from the Renaissance masters or his beloved proto-photographers. The community in which Gioli acknowledges his belongings is therefore that of art and of the early history of photography. Gioli thus encounters many faces painted throughout the long history of art, in a journey that internalizes the images, through perception and memory. Indeed, he seems to be anxious to penetrate the artists’ brains and further develop their whishes (as for example in the film L’assassino nudo, 1984, and Piccolo film decomposto, 1986, where Gioli animates fixed figures that his sources - from Eadweard Muybridge to Etienne-Jules Marey, from Richard Avedon to Duane Michals - were not able to, or simply did not, do). Yet, in doing so, Gioli departs from the distinctive canon of postmodernism. The history of art in art Filiberto Menna speaks of the practice of “making art while simultaneously commenting on art”, referring to a common attitude among artists who drew on the iconography of the history of art in the sixties and seventies16. At the time, the characteristic postmodern practice of citing which was dawning (after his early signs dating back to the thirties17) and starting to discard the certainties of modernity, was not an issue yet, at least in Italy. In fact, this began to emerge more clearly in the eighties, particularly after JeanFrancois Lyotard’s theories on the end of the great narratives18, manifested through the constant effort of intellectuals, architects, artists, and writers, to mix forms of the past with new elements. It is this growing awareness of the


possibilities of “simultaneity” within cultural expression which gave rise to several meta-narrative projects (meanwhile an increasingly “technological” body of thought begins to develop the concept of the hypertext, which we are increasingly confronting with by today19). Since ancient times, art has always revolved around itself, and the survival of the antiquity is, in fact, one of the great questions posed by the history of art (think of Aby Warburg). The avant-garde of the early 20th century, however, introduced a discontinuous and more “arbitrary” method of drawing on art history, thus beginning to undermine the concepts of authorship and originality (think of the return to primitive art, the use of collage and photomontage, or the Duchampian readymade). Thus, the traditional methods of citation were deconsecrated, giving way to increasingly free forms of revisiting, reproducing or displacing either an entire work of art or parts of it. Much of contemporary art, both before and after postmodernism, demonstrates the wish to constantly rethink the art of the past. Hal Foster’s comments about this are interesting: “I believe that modernism and postmodernism are constituted in analogous modes, through deferred action, as a process of anticipated futures and reconstructed pasts. Walter Benjamin said that each era dreams the successive one, but in doing so, re-lives the previous one. A simple now does not exist: each present is non-synchronic, a mix of diverse times (...). For this reason, modernism and postmodernism must be analyzed together, in parallax”20. The 20th century highlighted what had always marked the work of art: its anachronistic identity, as underlined by Georges Didi-Huberman21, who writes that the past and memory profoundly nurture creativity. The 20th century had said all of this aloud, and the examples are many: from Picasso to De Chirico, from Dali to Man Ray, from Malevic to Duchamp with their Gioconde22, to Francis Bacon’s Study after Velasquez’s Portrait of Pope Innocent X. Neo-Dada and then Pop Art are responsible for having carried a number of iconographies, both ancient and contemporary, into art. And in Italy, in the sixties and seventies, there are many artists who employ citations (Tano Festa, Mario Schifano, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, Luigi Ontani, Salvo, Vettor Pisani, Claudio Parmiggiani, Omar Galliani) towards the search for Italian roots, towards the conceptual, towards a sort of

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(...) transferred onto other supports such as serigraphic silk and Fabriano drawing paper (...). The image stripped off its own negative by the chemicals, like the skin off the living flesh, loses its enamel-fixative-protection which gets absorbed by the texture of the silk or by the paper thickness. Detached like a fresco, one could notice an image, anemic somehow, without knowing whether that is due to a stage of consumption or nutrition”45. And finally, he openly compares pigments with the Polaroid chemicals: “(...) it is a blending of two chemicals. One is acrylic, that’s paint and these are Polaroid chemicals! I prepare these two surfaces [on the support where the image will end up]. When I develop, the image finds this matter first and then this other one. (...) It has always intrigued me to examine the relationship between a modern, technological, sophisticated matter and the more classical ones such as painting oil, gouaches, etc. (...) and I noticed that this modern, technological matter and paint could permeate each other”46. The physical blending of painting and photography was already announced by his works on the masters from the early eighties. To further celebrate painting, Gioli created his own imaginary museum (one cannot but think of Malraux’s Musee imaginaire47, made up of reproductions, though Gioli lacks the collector’s instinct). Some of the works of this series, in fact, carry in their titles the source artist’s name, some are untitled, others belong to the series Düreridentikit, 1982, but a large number of the works, dated 1984, are actually titled Museo. When we ask Gioli under which general title he intends to regroup all the artworks of this cycle, he chooses: Transfer di volti dell’arte - Transfer of faces from art. With the term transfer (from the Latin transferre), he refers to the technique of displacing the image from the Polaroid support onto drawing paper or serigraphic silk. But this simple, technical reading cannot be satisfactory. Instead we can think of other significant displacements: from painting to photography; from the past to the present; from the dimensions of large canvases to the size of a photograph; from color as pigment and paint to color as light; from the work of the masters to the work of Gioli; from the masters’ self, to Gioli’s own self. But ‘transfer’ also must refer to its fellow term transfert, sharing the same root, which indicates in psychoanalysis the process of projecting one’s emotions


and old experiences onto a therapist. It is known that Freud coined the term, but it is Jung (who in his studies combines psychology and alchemy) who provides the link between the transfer of feelings and drives and the alchemical transformation of materials48. This, in conclusion, cues us to remember that Gioli, here and there in his writings, also addresses alchemy (though referring to the ancient origins of chemistry), when describing the mysterious relationship between material and image. He writes: “the history of alchemy and photography are generally both disseminated with delicate ‘passages’ of epidermis and depths reminiscent of the body”49. Again: “When working with matter there is obviously alchemy involved. I have always had the tendency to tamper with matter, to never leave it as is as it comes to me , to immediately put my hands on it. This way of disturbing the matter is to make it your own, in a way”50.

1. For Gioli’s biography see Roberta Valtorta, Biografia, in Eadem (ed.), Paolo Gioli. Fotografie dipinti grafica film, Art&, Udine 1996, catalogue f the exhibition at Palazzo delle Esposizioni, Rome 1996; Roberta Valtorta, Notice biographique, in Philippe Dubois e Antonio Somaini (ed.), Paolo Gioli. Photographie cinéma peinture, upcoming, Les Presses du Réel, Paris. 2. Paolo Gioli (ed.), Virgilio Milani scultore 1888-1977, Rovigo Municipality, catalogue of the exhibition at Monastero Olivetano, Rovigo 2004. 3. Franco Vaccari, introduction in Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi, Turin 2011 (1979), p. XXVI.

4. The first important essay on Gioli’s painting is: Marisa Dalai Emiliani, Memoria del sottosuolo. La pittura degli esordi di Paolo Gioli, in Roberta Valtorta (ed.), Paolo Gioli. Fotografie dipinti grafica film, referred; see also Nico Stringa, Paolo Gioli pittore: la poetica in nuce, in Sergio Toffetti/ Annamaria Licciardello (ed.), Imprint cinema. Paolo Gioli. Un cinema dell’impronta, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia/ Kiwido-Federico Carra Editore, Rome 2009; Marco Senaldi, Paolo Gioli. L’acte pictural and Eugenia Querci, C’est la peinture qui m’a marqué, in Philippe Dubois e Antonio Somaini (ed.), Paolo Gioli. Photographie cinéma peinture, referred.

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5. Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milan 1988 (1962), p. 163-165.

14. Giuliano Sergio (ed.), Paolo Gioli. Abuses, Peliti Associati, Rome 2014, catalogue of the exhibition at Museo Pignatelli, Naples 2014, p. 10.

6. Hans Belting, Antropologia delle immagini, Carocci Editore, Rome 2011 (2002), p. 256.

15. Stefano Ferrari, Le dinamiche dell’autoritratto tra arte e terapia, in Stefano Ferrari e Chiara Tartarini (ed.), Autofocus. L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia, CLUEB, Bologna 2010, p. 13 and following.

7. Paolo Gioli, Nota sul lavoro, in Federica Di Castro (ed.), Paolo Gioli. Il punto trasparente – ‘grafie, De Luca, Rome 1981, catalogue of the exhibition at Istituto Nazionale per la Grafica-Calcografia, Rome 1981-1982, p. 5. 8. Roberta Valtorta (a cura di), Paolo Gioli. Fotografie dipinti grafica film, referred. 9. Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Torino, Einaudi, 1990 (1983). 10. Paolo Gioli in Paolo Costantini, Una conversazione con Paolo Gioli, in Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier (ed.), Paolo Gioli. Gran positivo nel crudele spazio stenopeico, Alinari, Florence 1991, catalogue of the exhibition at Palazzo Fortuny, Venice 1991, n.p.i.

16. Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Turin 1975, p. XXI-XXII. 17. see http://www.treccani.it/enciclopedia/ postmoderno_%28EnciclopediaItaliana%29/, with bibliography. 18. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milan 1981 (1979). 19. George P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna 1993 (1992); Idem, L’ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria, Bruno Mondadori, Milan 1998 (1997).

11. Peter Osborne, Anywhere or not at all. Philosophy and Contemporary Art, Verso, London/New York 2013, p. 118.

20. Hal Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia Books, Milan 2006 (1996), p. 231.

12. Vittorio Fagone (ed.), Paolo Gioli. Il volto inciso/The Engraved Face, Volterra Municipality 1984, catalogue of he exhibition at Palazzo dei Priori, Volterra 1984; Paolo Gioli, Etruschi. Polaroid 1984, Humboldt Books, Milan 2018.

21. Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Turin 2007 (2000).

13. See Roberta Valtorta, La maschera come motivo e come meccanismo nell’opera di Paolo Gioli, in “RSF- Rivista di Studi di Fotografia”, n. 3, 2016, Fupress Florence; http://www.fupress.net/index.php/rsf/ article/view/18545.

22. see Lucilla Meloni, Arte guarda arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea, Postmedia Books, Milan 2013, p. 16-21. About artist working on Gioconda: Mary Rose Storey, Giokonde, introduction by David Bourdon, Electa Editrice, Milan 1980 (1980); André Chastel, La Gioconda. L’illustre incompresa, Leonardo Editore, Milan 1989 (1988). See also: Roberta Valtorta, Riprodurre, riutilizzare, risignificare


le immagini, in “Progetto grafico”, n. 23, 2012; Marco Senaldi (a cura di), Cover Theory. L’arte contemporanea come re-interpretazione, Libri Scheiwiller, Milan 2003.

33. See Silvia Bordini, Paolo Gioli e le intermittenze della storia, in Roberta Valtorta (ed.), Paolo Gioli. Fotografie dipinti grafica film, referred.

23. An outline in Lucilla Meloni, in Arte guarda arte, referred.

34. A book Gioli loves is certainly: Jurgis Baltrušaitis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Adelphi Edizioni, Milan 1978 (1955).

24. Cristina Baldacci, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, Monza 2016. 25. This involves many contemporary photo-works. See Roberta Valtorta (ed.), Joachim Schmid e le fotografie degli altri, Johan & Levi, Monza 2012; Joan Fontcuberta (ed.), The Post-photographic condition, Kerber Verlag, Bielefeld/Berlin 2015; Joan Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Einaudi, Turin 2018.

35. Ando Gilardi, Wanted. Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, Mazzotta, Milan 1978. 36. Umberto Eco, Catottrica versus semiotica, in “Rassegna”, anno V, n, 13, March 1983, and Umberto Eco, Sugli specchi, in Idem, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milan 1985.

26. Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milan 2004 (2002), p. 7.

37. Roberta Valtorta, La maschera come motivo e come meccanismo nell’opera di Paolo Gioli, referred.

27. The many names he quotes can be seen in his works’ titles. www.paologioli.it

38. Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Bollati Boringhieri, Turin 2009 (2008), p. 252-287; also: Elio Grazioli, Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile, Johan & Levi, Monza 2017.

28. Remo Ceserani, A proposito di moderno e postmoderno, in: “Allegoria”, n. 10, 1992, p. 121-131. 29. Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milan 1989 (1984), p. 74. 30. Gioli took part, with Torsi, in Codice Italia, at Padiglione Italia, 56th Biennale di Venezia, 2015. Vincenzo Trione (ed.), Codice Italia, Bompiani, Milan 2015, catalogue of the exhibition at Padiglione Italia, Venice, 2015. 31. Nico Stringa, Paolo Gioli pittore: la poetica in nuce, referred, p. 74. 32. Paolo Gioli, Nota sul lavoro, in Federica Di Castro (ed.), Paolo Gioli. Il punto trasparente – ‘grafie, referred, p. 5.

39. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Turin 1966 (1936). 40. Vilém Flusser, Per una filosofia della Fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006 (1983). 41. Nathalie Boulouch writes about Gioli’s experiments in Le ciel est bleu. Une histoire de la photographie couleur, Editions Textuel, Paris 2011, p. 135-136. By Boulouch also: “Esce il rosso di cadmio”. La couluer selon Paolo Gioli, in Philippe Dubois e Antonio Somaini (ed.), Paolo Gioli. Photographie cinéma peinture, referred.

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Paolo Gioli Transfer di volti nell'arte di Roberta Valtorta postmedia books 2018 80 pp. 28 ill. bn e a colori isbn 9788874902033

pubblicato in occasione della mostra

Paolo Gioli Transfer di volti nell'arte a cura di Roberta Valtorta dal 1 giugno al 10 settembre 2018 Museo Poldi Pezzoli, Milano Un ringraziamento a Paolo Vampa

Finito di stampare nel mese di maggio 2018 presso Ediprima, Piacenza tutti i diritti riservati / all rights reserved è vietata la riproduzione non autorizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia. Postmedia Srl Milano www.postmediabooks.it


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