Periodico a distribuzione interna finanziato dalla L.U.I.S.S. Guido Carli e realizzato dagli studenti | Novembre 2013
Novembre 2013
Sommario Fondato nel 2002 da Fabrizio Sammarco, Luigi Mazza, Leo Cisotta Direttore Giulia Perrone Vice Direttore Editoriale Marino Mazzocca Vice Direttore Web Laura Lisanti Responsabile Marketing Virginia Cinelli Responsabile Eventi Eugenia Brandimarte Delegato Fondi Jacopo Pizzi Cosmoluiss GP Amedeo Barbato Cosmoluiss SP Samuele Crosetti Cosmoluiss EC Antonio Grifoni L’Inchiesta - Fumettista Adriano Di Medio L’Inchiesta GP Alessandra Fanelli L’Inchiesta SP Giovanni Pipola L’Inchiesta EC Alessandro Leuci Speaker’s Corner Sabrina Cicala International Carmine Russo Walk Maria Vittoria Vernaleone Cogitanda Eleonora Pintore Caffè Con Lydia Carrelli PalinTesto Adriana Lagioia
CosmoLuiss SP
Cogitanda
• Donne e leadership.................................... “ 4 • Il principe salmone.................................... “ 4
• Medusa e Lampedusa................................ “ 6 • Enterprise 2.0, the mission of Uman Foundation..................................... “ 6
• Quando non passa l’autobus... ............... “ 19 • La doccia fredda......................................... “ 19 • Gustatevi l’attesa........................................ “ 19 • Il 60 del mattino........................................ “ 20 • Aspettare l’autobus è un’avventura........ “ 20 • Narrami, oh Autobus, del prode Studente........................................... “ 20 • Quando un’attesa diventa riflessione.... “ 21 • Aspettiamo tutti e tutti aspettano.......... “ 21 • Meet me on the bus................................... “ 21
L’Inchiesta
Caffè Con...
• Introduzione............................................... “ 7
• Caffè con Luigi Serra................................ “ 22 • Caffè con Barbara Poggiali...................... “ 22 • Caffè con Laura Boldrini......................... “ 23 • Caffè con Geminiello Preterossi............. “ 23
CosmoLuiss EC
• Il Luiss Finance Club muove i primi passi................................................... “ 5 • Perchè Uman?............................................. “ 5 CosmoLuiss GP
L’Inchiesta GP
• [Caso 1] Io, che volevo solo ridere un po’............................................................ “ 8 • [Caso 2] Criticami pure ma dimmi il perché....................................................... “ 8 • [Caso 3] Rifiuti e libertà........................... “ 9 • [Caso 4] Stop at the top........................... “ 9
PalinTesto
• Ogni mattina a Jenin................................. “ 24 • La forza della ragione................................ “ 24
L’Inchiesta SP
• Il conflitto e la sua rappresentazione..... “ 10 • Quell’Italia “africana” della libertà di informazione.......................................... “ 10 • Libertà d’espressione e street art............. “ 11
Ottava Nota
• “VIVA LION!”.......................................... “ 25 • Gli appuntamenti LIVE dei prossimi mesi............................................................... “ 25
L’Inchiesta EC
• Non esistono più le mezze stagioni........ “ 12 • (dis)Informazione libera.......................... “ 13 Speaker’s Corner
• Italia alla ricerca della mediocritas......... “ 14 • Il gatto dello Stivale: la metafisica del tè............................................................. “ 14 • Il potere della mezzaluna.......................... “ 15 • Questione morale bilaterale.................... “ 15 International
• Grecia: Alba Dorata è forse al tramonto?................................................ “ 16 • Viel Glück Europa..................................... “ 17 • Chiamatele “Nirbhaya”............................ “ 17 Walk
• L’albero magico del melograno................“ 18
Cinema & Teatro
• “Io… Non sono più io”.............................. “ 26 • Il canto di Paloma...................................... “ 26 • NO!.............................................................. “ 27 • L’educazione sentimentale di Cuaròn... “ 27 Calcio d’Angolo
• La schiavitù del Calcio.............................. “ 28 • Doping Mediatico..................................... “ 28 • Tu vuo’ fa l’americano… .......................... “ 29 • Siete Atleti, ambasciatori del mondo..... “ 29 Lifestyle
• Donne vestite di potere............................ “ 30 • I libri volano sulle ali del Bookcrossing.“ 30 L’Eretico • Il lupo nero è morto, e non di fame....... “ 31
Ottava Nota Francesco Corbisiero Cinema & Teatro Maria Chiara Pomarico Calcio D’Angolo Lorenzo Nicolao Lifestyle Sofia Cecinini L’Eretico Edoardo Romagnoli
Progettazione grafica e copertina Diego Lavecchia, Fabio Nucatolo
360° - Il giornale con l’università intorno è stampato interamente su carta riciclata
Stampa a cura di: Rubbettino S.R.L. Lungotevere Raffaello Sanzio, 9 00153, Roma
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Editoriale
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#LACULTURANONhAfFONDI Vengo dal Sud, come la maggior parte di voi. Sono nata nel cuore della bellezza. Vengo da una terra di colori caldi e profumi che l’immaginazione fatica a superare, da un’abbondanza di sapori e viti di ebbrezza che nascono dal lavoro ma accendono i sorrisi. Da quegli stessi colori, profumi e sapori che non posso vivere giorno per giorno, perché sono dovuta andare via. Il problema del tempo che fugge è che, a volte, non va da nessuna parte. Parlo dell’incapacità che il nostro Paese dimostra nel non saper sfruttare le sue stesse risorse: non esiste progresso in un cinema che chiude per dare spazio a un investimento più conveniente, come un centro commerciale; non vi è crescita quando il valore aggiunto di un territorio è il suo patrimonio naturale, e si permette al Turismo di non averne rispetto; quando la qualità della vita è alta e il costo è basso ma pur di cedere alla massa si scambiano gli addendi. Viene alla mente una storia che inizia nel 2006,
quando Arianna Ciccone e Christopher Potter decisero di dare vita al Festival Internazionale del Giornalismo, un evento la cui realizzazione fu tutt’altro che semplice ma che ricevette un riscontro immediato e positivo dal pubblico. Con la prima edizione del 2007, nasce un’occasione di incontro e confronto fra i maggiori portavoce dell’informazione che raggiungerà il suo picco nell’aprile 2013 con 200 eventi, 30 workshop, 500 relatori, 1500 giornalisti accreditati e migliaia di partecipanti. I migliori narratori di favole, però, insegnano che prima del consueto lieto fine viene sempre l’intreccio e a garantirne la presenza in questo caso sono le istituzioni pubbliche. Il 17 ottobre 2013, l’annuncio da parte degli organizzatori: “Stop al Festival del Giornalismo”: i fondi non sono più sufficienti per reggere il tenore dell’evento. Fare il Festival a ogni costo pur di farlo, magari riducendo ospiti e giornate non è accettabile, dice Arianna, e ha ragione. Ne emerge un insulto al mondo dell’informazione, un capovolgimento delle priorità in cui la cul-
tura perde il podio nelle tasche degli investitori. Eppure è base necessaria per declinare i verbi al futuro e, nel ribadirlo, 360gradi ha voluto alzare la voce. Fotografie ritraenti libri o giornali e l’hashtag #LACULTURANONhAfFONDI sono stati gli ingredienti della campagna di sensibilizzazione contro i tagli lanciata su Instagram, Facebook e Twitter. Abbiamo voluto ricordare che dando la giusta importanza alla cultura si può essere ricchi. La bellezza di un Paese consapevole dei propri limiti e punti di forza è nel volto di un popolo che non accetta di essere schiavo, che vuole avere sempre voce in capitolo. Pensate alla meraviglia di un dinamismo vivo di persone che viaggiano per crescere e confrontarsi per poi tornare nella propria terra portando nuovi insegnamenti, permettendole di rifiorire. Un dipinto dai colori accesi. Una celebre utopia. Giulia Perrone
Libertà di esprimersi a 360° Elena Previtera, Antonella Crescenzi, Flaminia Festuccia, Otto Mühl, il signor Meischberger, Arianna Ciccone, “Solo”, Karinthy, Nadia Toffa, Nikólaos Michaloliákos, Nirbahya, Angela Merkel, Luigi Serra, Barbara Poggiali, Laura Boldrini, Susan Abulhawa, Gael Garcia Bernal. Tranquilli, come sapete, quella che avete tra le mani non è una rivista sportiva e i nomi sopraelencati non sono quelli della nazionale italiana campione del mondo. Sono semplicemente alcuni dei personaggi che vi accompagneranno durante la lettura di questo secondo numero di 360°. Troverete personalità di spicco e soggetti meno noti, dei quali probabilmente neanche avrete mai sentito parlare. Credo che proprio la poliedricità degli argomenti trattati in questo giornale sia la ragione che ha contribuito a creare un nucleo di lettori piuttosto, consentitemi il campanilismo, “fidelizzato”. La varietà di questi personaggi sta a simboleggiare che tra le pagine della nostra rivista universitaria trovano spazio i temi più disparati: dalla questione delle donne e della leadership, alla triste vicenda degli sbarchi clandestini che ha mietuto ben 363 vittime. Le nostre penne dell’inchiesta, ad esempio, si sono occupate di un tema al centro di ferventi
dibattiti da lungo tempo: la libertà d’espressione. A introdurre il nostro spazio di approfondimento in questo numero troviamo una penna d’eccezione, il Direttore Generale Giovanni Lo Storto, che con le sue riflessioni ha ispirato la nostra simpatica vignetta. L’originalità con la quale abbiamo cercato di trattare questo argomento complicato ci ha spinto fino all’East End londinese che, grazie al rapido sviluppo di quella che è stata definita “street art”, rappresenta un magnifico esempio di libertà d’espressione.
Tra le pagine del giornale troverete diverse interviste che, siamo certi, desteranno la vostra curiosità: a cominciare dalle domande rivolte all’on. Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, proseguendo con i consigli forniti dal dottor Luigi Serra, Vice Presidente Esecutivo Luiss e dalla dottoressa Barbara Poggiali, Vice Presidente Luiss. Per concludere, non mi resta altro che augurarvi una buona lettura di questo secondo numero di 360°. Marino Mazzocca
Errata corrige La copertina del numero di settembre è stata realizzata unendo i nomi dei membri della redazione, degli ex direttori di 360gradi e dei rappresentanti attuali degli studenti per comporre un’unica immagine. Ci scusiamo con l’amico Mario Sorrentini, rappresentante triennale del Dipartimento di Impresa e Management, per aver erroneamente omesso il suo nome. Grande Mario, ti vogliamo bene! Giulia Perrone Marino Mazzocca
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Donne e leadership Quando il potere non è rosa Venerdì 4 Ottobre 2013 si è tenuto il dibattito tutto al femminile “Leadership, un gioco da ragazze. Donne e carriera, una sfida possibile.” Hanno partecipato all’incontro Antonella Crescenzi del Comitato “Libere se non ora quando”, Emiliana De Blasio, Coordinatrice scientifica CMCS “Massimo Baldini” LUISS, Elena Previtera, Executive partner gruppo Reply, Donatella Visconti, Presidente Banca Impresa Lazio e Flaminia Festuccia, Giornalista Sky Tg24, autrice del libro “L’altra metà del CdA”. Al centro del dibattito il difficile rapporto donna e carriera: la dicotomia fra pubblico e privato, il glass ceiling, la parità, gli stereotipi e le discriminazioni di genere. Perché ancora oggi le donne sono considerate una minoranza? E soprattutto, perché l’opinione pubblica è convinta che una donna sposata con figli non sia in grado di gestire una azienda? Grazie all’esperienza delle ospiti del dibattito, sono state ipotizzate delle risposte a queste domande. Come già nel 1792 aveva sostenuto la filosofa britannica Mary Wollstonecraft, le donne sono state sempre considerate il “sesso debole”: emotive e fragili, non hanno la grinta e la stoffa per “comandare” un’azienda o altri uomini. Tutti gli ambiti dello spazio pubblico erano tradizionalmente dominati dagli uomini, più determinati e distaccati, mentre le donne erano le “regine” nella sfera privata e nella cura dei figli. Non dobbiamo sorprenderci, quindi, se assistiamo ad una scarsa presenza di donne in posizioni di potere: l’eredità culturale è il primo ostacolo verso la creazione di una democrazia paritaria. Tuttavia, nonostante la storia non possa essere cancellata, la “valanga rosa”, come affermato da Donatella Visconti è in piena attività: più donne nelle aziende, nei Consigli d’Amministrazione, anche in televisione e nei giornali si parla di tematiche di genere. La soluzione vincente, in un’azienda come in un ambiente politico, è la creazione di
team misti: uomini e donne che si aiutano e cooperano, colmando l’uno le carenze dell’altro. La domanda che tutte le donne si dovrebbero porre è la seguente: è giusto parlare di assenza e quindi creazione di una leadership femminile? Anche se è vero che la leadership di oggi si ispira a modelli maschili, non sarebbe più saggio creare un’unica leadership neutrale che accolga sia uomini che donne? La “degenderizzazione” della leadership potrebbe essere un modo per uscire dalla perdurante situazione di distacco di genere che caratterizza la società italiana; tuttavia, prima di procedere alla suddetta “desessuazione” di genere, che richiede tempo e impegno è necessario operare sulla società. Questo è il vero ostacolo che i cit-
tadini e le istituzioni italiane devono affrontare: abbandonare gli stereotipi sessisti che hanno frequentemente caratterizzato la mentalità Italiana e controllare quell’effetto “banalizzazione” che porta i mass media ad insistere sul linguaggio di corpo delle donne nella sfera pubblica piuttosto che sulle capacità e sulle competenza. Nonostante il dibattito non abbia profilato alcuna soluzione definitiva, è interessante vedere come donne di età e aspettative diverse, abbiano l’opportunità di incontrarsi e discutere di tematiche femminili. La situazione non è però impossibile da cambiare e forse in futuro l’agognata parità sarà patrimonio della cultura comune. Jessica Di Paolo
Il principe salmone Chi ha avuto il piacere e l’onore di seguire le lezioni del nostro Direttore di Dipartimento Sebastiano Maffettone sa che spesso le sue parole, più che messaggi carezzevoli, sono vere e proprie frecce metaforiche scoccate dritte verso la mente dell’interlocutore, limpide e penetranti immagini che rischiarano un po’ il cammino dei nostri cervelli affannati. Inaspettata ma sperata eccola vibrare nell’aria anche durante la conferenza che si è tenuta lunedì 7 ottobre nella sede della School of Government, intitolata “Il Principe e il realismo politico”: “Machiavelli è un genio, va controcorrente come i salmoni”. Animali sfuggenti i salmoni, di certo non facili da afferrare; li si può guardare lottare contro la corrente, affascinati ci si può avvicinare e se si è fortunati si può riuscire a sfiorarli, prima che si allontanino verso nuove risalite. In occasione dei cinquecento anni dalla pubblicazione dell’opera che più di tutte ha contribuito a creare la fama del genio politico, cinque grandissimi studiosi, Massimo Egidi, Sergio Fabbrini, Sebastiano Maffettone, Maurizio Viroli, docente di teoria politica all’università di Princeton e Stefano Petrucciani, ordinario di filosofia politica alla Sapienza, hanno dato la possibilità ai presenti di essere presi per mano, di bagnarsi un po’ i piedi e avvicinarsi ai salti contro corrente di uno dei padri della politica moderna. Le acque percorse erano quelle del realismo politico? Sì. E quale? Forse un realismo che ha il suo centro focale nello Stato? Un realismo sui generis, sostiene Maurizio Viroli, indicandoci un’angolazione nuova da cui guardare. Ci avviciniamo cauti e pazienti e scorgiamo un Machiavelli diverso da quello di cui siamo abituati a leggere; non il teorico
dell’amoralità politica, ma un uomo che parla di uomini, prima che di sovrani e condottieri di popoli; ne studia i tratti emotivi, interpreta le convinzioni e le passioni che azionano le molle del loro agire; perché le leggi dell’animo, che regolano le mosse dell’uomo comune, non sono poi cosi diverse da quelle che animano i Principi. Scopriamo così un sognatore sincero che con gli amici immagina viaggi in terre lontane, che nelle missive non cela i suoi dubbi su vicende politiche dell’epoca, che crede nello spirito profetico della poesia e si appassiona di miti. Un acuto osservatore che sa comprendere il valore dell’immaginazione, perché chi immagina crea e nel “Principe” questa volontà creatrice si sposa con l’anelito per la politica delle grandi imprese e dei grandi uomini; “uomini meravigliosi e rari” da cercare ed educare. Tutto questo e forse molto di più è stato Machiavelli. L’importante in fondo non è tanto cercare di capire quanto gli siamo passati vicini, ma sorprenderci di quanto lui rimanga vicino a noi col valore delle sue congetture, anche dopo cinquecento anni. Diana Zogno
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Il Luiss Finance Club muove i primi passi Quattro chiacchiere con Giulio Alibrandi, vice presidente dell’associazione Con l’inizio del nuovo anno accademico, la vita della Luiss torna in fermento e con essa quella delle varie associazioni che costituiscono il cuore pulsante di questa università. Tra queste, menzione speciale spetta al Luiss Finance Club, associazione nata lo scorso anno dall’idea di Patrizio Finicelli, ex studente Luiss, oggi Analyst nel Corporate Finance di Ernst & Young. Questo progetto ora sta muovendo i suoi primi passi e a tenerci aggiornato sugli ultimi sviluppi ci pensa Giulio Alibrandi, vice presidente del Luiss Finance Club.
Ciao Giulio, dopo l’articolo di qualche mese fa con Patrizio, che ci ha spiegato un po’ cosa sia il Finance Club, ora questa iniziativa ha preso vita. Che cosa avete fatto negli ultimi mesi?
Ciao Antonio, negli ultimi mesi abbiamo lavorato molto sulla costruzione di canali di comunicazione con l’università e il mondo professionale e ci siamo attivati per promuovere incontri organizzati assieme al dipartimento. Il Finance Club è un’associazione che vuole assistere tutti gli studenti interessati a intraprendere una carriera nel mondo della finanza.
Perchè Uman? Aprile 2013: Uscito dall’università mi precipito a prendere il tram verso il quartiere Prati. Piove ma sembro non farci caso: per la prima volta nella mia vita devo affrontare un vero colloquio di lavoro. Arrivo e prima di entrare nell’Ufficio mi domando ancora perché sono qui. Mi sono sempre detto di puntare in alto, il più possibile, ma Uman Foundation non l’avevo mai sentita fino a qualche settimana prima. Non ci penso più ed entro. La chiacchierata con il capo progetto è piacevole. Sembro essergli simpatico. Tornando a casa mi danno alcuni documenti da leggere, inaspettatamente sono stato preso. Uman Foundation nasce per indirizzare risorse private verso imprese sociali creative: è un tentativo di vedere la finanza e il capitalismo da un punto di vista più umano. Il suo lavoro si estende anche oltre i confini italiani: attraverso alcuni investimenti privati, la società sviluppa progetti innovativi in Paesi del terzo mondo, tra i quali il virtuoso accordo tra Enel Green Power e il Barefoot College per portare energia elettrica tramite pannelli fotovoltaici in Sud America. Barefoot College è una ONG fondata da Bunker Roy che fornisce servizi di base con l’obiettivo di rendere autosufficienti le comunità rurali; la curiosità di questo progetto deriva dal modo in cui si cerca di favorire l’empowerment delle donne, in cui “non-
ne analfabete” provenienti da zone rurali e remote del mondo, ricevono una formazione intensiva che le rende “ingegneri solari”, capaci quindi di installare e mantenere impianti fotovoltaici in maniera indipendente. Lo scorso 8 ottobre, nella sede di Viale Pola, si è tenuto il II Annual Meeting di Uman. Nonostante la fatica organizzativa per il suo raggiungimento, posso ormai scrivere che “Inspiring Change” (questo era il titolo della conferenza) è stato una grande successo! La sua forza innovativa e la grande personalità di questo progetto, basato sul successo di Social Finance in Inghilterra, sono alcune delle caratteristiche presentate e che possono realmente stimolare positivamente il settore dell’impresa sociale e dare una mano al Welfare State oggi in crisi. Presidenti di società quotate in borsa, CEO, professionisti o semplicemente curiosi hanno partecipato alle tre tavole rotonde che avevano come tema il lavoro, la giustizia e l’ambiente. La presenza dei tre Ministri interessati ha reso ancora più chiara l’importanza che le istituzioni vogliono dare a questi temi. Tra le file dell’Aula Magna non mancano gli studenti incuriositi dai grandi ospiti o stimolati da un concreto interesse, consapevoli di essere i prossimi protagonisti di una classe dirigente che sicuramente non deve prendere spunto da quella precedente: per me questa partecipazione a 360 gradi è il premio più bello che si possa ricevere. “Lo strumento della finanza sociale, in cui il finanziamento è legato al risultato finale, è una via maestra da perseguire”. Le parole del Ministro Cancellieri colgono in pieno l’obiettivo di questo incontro. “Dare” e “innovare” sono ciò che spinge Uman ad andare avanti: non ci sono parole migliori per descrivere questa realtà. Ispirare un cambiamento dovrebbe essere la nostra missione quotidiana verso un mondo maggiormente alla nostra portata. @EfremGarlando
Siamo già un gruppo affiatato e siamo lieti di accogliere chiunque voglia partecipare. Quali sono gli obiettivi che questa associazione si propone di raggiungere?
Il nostro obiettivo principale è colmare il divario tra l’università e il mondo professionale. Cerchiamo di farlo organizzando diverse iniziative come incontri con i professionisti del settore finanziario, tavole rotonde e panel su argomenti di finanza, programmi di mentoring, analisi del CV e della Cover Letter ed eventi di networking formali ed informali. Gli incontri con le istituzioni finanziarie verteranno su due argomenti principali: capire le attività e i servizi che l’istituzione finanziaria invitata svolge, e, ancora più importante, capire qual è il profilo ideale che cercano. Quali sono i prossimi appuntamenti che avete in programma?
Abbiamo aiutato il dipartimento nell’organizzare una serie di incontri con i leader di alcune delle più importanti istituzioni finanziarie italiane e mondiali. Sarà un’ occasione per conoscere più da vicino il mondo della finanza così come viene visto da chi ci lavora ma soprattutto per avere dritte su come affrontare al meglio la selezione in questi istituti e, ad esempio, cosa aspettarsi da un’esperienza di stage. Il primo degli incontri sarà giovedì 24 ottobre con Alessandro Cassinis, Senior Consultant di Deloitte e continueranno fino a fine novembre con Sator, UBS, Citigroup, Azimut e Deutsche Bank. E per quanto riguarda i programmi più a lungo termine?
Per il futuro stiamo lavorando a un programma di mentoring per assistere gli studenti nell’affrontare l’università e i corsi di finanza. Inoltre stiamo lavorando a un ciclo di seminari per approfondire il lato pratico, spesso tralasciato, di quello che studiamo. Riteniamo saranno molto utili e tra non molto saremo in grado di darvi altre notizie. Un consiglio agli studenti?
Troppo facile: venite agli incontri che organizzerà il Finance Club perché saranno utili per schiarirvi le idee e per mettere finalmente alle strette questi benedetti recruiter che non hanno alcuna intenzione di dirci cosa vogliono da noi! Antonio Grifoni
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Medusa e Lampedusa 1816. La nave francese Méduse naufraga al largo dell’attuale Mauritania e 147 passeggeri tentano di salvarsi con una zattera di fortuna che affonda per metà già la prima notte. Di quei 147 se ne salvano 13 tra suicidi, violenze ed episodi di cannibalismo. Géricault ne dipinse una delle opere più importanti del Romanticismo, un quadro lasciato nel dimenticatoio degli studi liceali ma mai così attuale. Per i francesi quel dipinto è storia, per chi mastica arte è un capolavoro, per gli italiani è storia contemporanea e si chiama Lampedusa. C’è da chiedersi come sia possibile che mentre dall’altra parte d’Europa si viaggia attraverso un tunnel subacqueo, a pochi chilometri da bellissime spiagge si muoia per naufragio. Senza fare moralismo e retorica priva di senso pratico, come pure è accaduto in questi giorni a causa del tam-tam mediatico, è evidente che occorre trovare una soluzione reale e non un compromesso. I fatti sono sotto gli occhi di tutti, il bilancio del naufragio del 3 ottobre sale alla cifra di 363 morti accertati, per il secondo naufragio si parla di 38 cadaveri recuperati e altre 150 vittime disperse in mare. Sono cifre impressionanti che hanno scosso l’opinione pubblica e alle quali il Governo ha reagito annunciando un vertice che si occuperà di organizzare la missione
militare umanitaria nel Mediterraneo. Come affrontare la questione? Analizzando il problema dal principio, cosa spinge delle persone ad intraprendere un simile viaggio? La disperazione? La speranza? Forse entrambe se immaginate come le facce della stessa medaglia. Si parla di persone che fuggono da posti come il Kurdistan, la Libia o la Siria, da pallottole ed armi chimiche, da luoghi preda di regimi non democratici caratterizzati da miseria ed oppressione . La legge Bossi-Fini, inasprita nel corso degli anni, ha provato a porre rimedio alla situazione introducendo il reato di immigrazione clandestina ma la realtà è che la repressione non funziona. L’ipocrisia italiana sta tutta qui, il respingimento altro non è che una manifestazione della incapacità politica di gestire il problema. Davvero si crede che la sanzione connessa all’immigrazione clandestina possa fungere da deterrente nei confronti di chi si sta lasciando alle spalle morte, orrore e sofferenza ed è mosso dalla disperazione? E se venisse deciso di respingerli, come farlo? Ha senso respingere i profughi verso i luoghi da cui scappano con il pericolo che ci riprovino? La repressione e il respingimento sono inefficaci. Quel che resta è un aut-aut: o vengono affondati
prima che sbarchino o vengono accolti. Se venisse scelta la prima ipotesi occorrerebbe militarizzare le frontiere col rischio di dover usare l’esercito anche contro chi si rivolterà per una soluzione da genocidio. Se si preferisse la linea dell’accoglienza occorrerebbe prevedere adeguate procedure e predisporre strutture e mezzi. A chi spetta questa decisione? Chi parte lo fa in direzione Europa, viaggiano verso Lampedusa perché è il pezzettino di territorio europeo più vicino ma molti immigrati non vogliono restare e preferirebbero dirigersi verso la Francia, la Germania o ancora più a Nord. Quello che serve è una “soluzione europea” sperando che il senso di umanità e la coscienza prevalgano sull’egoismo e la falsa moralità che contraddistinguono la politica del vecchio continente. Amedeo Barbato
Enterprise 2.0, the mission of Uman Foundation Social finance, social bonds, social investment banks. Some of the words that were most frequently used at the 2013’s “Uman Foundation Annual meeting Inspiring change. Social finance and new poverties”, which took place at LUISS Guido Carli University on Tuesday, October 8th, after the first edition of 2012. After the headmaster of the University, Massimo Egidi, gave an introductory speech, the President of Uman Foundation, Giovanna Melandri, introduced the project. “We’re making our own path and we’re not tired of searching.”; she immediately cleared up the aims of the project. So, what is Uman Foundation? It is basically all about philanthropy. Social finance means positive outco-
me on society, produced by companies, enterprises, or banks. Who said ethics and profits cannot meet in what President Melandri called a “middle-earth?” Uman Foundation encourages new methods in business, so as to produce positive effects on society. “The Welfare that we’re used to knowing is outdated nowadays” stated Professor Maffettone, Director of the Political Science Department at LUISS University, where he also serves as a professor in Political Philosophy. “We need alternate ways,” he said. If ethics and economics need two different logics to deal with them, social finance aims to create a “path between the two domains”. Among the guests at the conference, John Podesta, the U.N. Secretary General’s HighLevel Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda, who talked about “putting an end to extreme poverty.” Public and private thus need to reconcile for society’s sake. What are the methods, practically? “Big Society” was mentioned, or alternatively, as President Melandri suggested, Good Society. “Call it what you want, but let’s make it!” prompted Melandri. Such system would provide citizens with what they need for the accomplishment of a project that can be useful for society. Many ideas were laid on the table, such as low profit investments, social bonds and so on. The
Prime Minister himself (Enrico Letta) took part in the conference through a video-message, assuring he’s interested in the work of Uman Foundation and attentive to any new suggestion or idea that would be shared during the conference. Many were the guests, such as David Held, professor at LUISS university, who explained the phenomenon of globalization and its impact on finance. After the first part of the conference, in which Ronald Cohen (Chair at the G8 Social Impact Task Force, and President of the Big Society Capital) took part and that was moderated by Sarah Varetto, journalist for SkyTG 24, the second part started. Three round tables: the first one was moderated by Sarah Varreto, the second round table was moderated by Dario Laruffa and the last one was moderated by the mayor of Rome, Ignazio Marino. Lastly, the counsellor of Human Foundation Roberto Galimberti gave a closing speech. For more information about Uman Foundation, check out its website www.umanfoundation.org One of the most incisive statements that were made during this very long conference was made by Ermete Realacci, who quoted an African proverb saying “If you want to go fast, go alone. If you want to go far, go with other people.” Roberto Scrivano
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L’Inchiesta L’articolo 21 della Costituzione e il raccordo tra libertà di espressione e libertà d’insegnamento Viviamo oggi come acquisito, nel comune sentire, il grado di libertà di espressione di cui godiamo. Non bisogna essere profondissimi conoscitori della storia, per sapere, però, che la Carta Costituzionale in vigore dal 1948 piantò ben saldi questo e vari altri “paletti”, a presidio di libertà che negli anni precedenti erano state di frequente calpestate, se non del tutto negate. Ponendo mente al terreno in cui affondano in maniera importante le nostre radici culturali, vale a dire il pensiero filosofico greco, è ancora più immediato cogliere il rilievo della libertà di esternare le proprie opinioni se si pensa, da un lato, a quanto il modo di essere della polis ruotava attorno alla libera espressione del cittadino e a come, per un simbolo come Socrate, la cicuta segnò invece l’argine invalicabile del flusso di questa libertà. C’è da dire che il principio statuito dall’articolo 21 è corroborato, non solo per quel che riguarda l’Occidente, dalle analoghe e più o meno coeve previsioni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (articolo 19) e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (articolo 10), dunque si può essere ragionevolmente confidenti che le tutele alla libertà di esprimere la propria opinione, a mezzo della parola come della stampa, siano al centro di un percorso tendente ad allargare, piuttosto che mettere a freno la stessa. Percorso che, peraltro, trova nelle moderne tecnologie e nell’uso di Internet vere e proprie praterie per svilupparsi (talvolta, non senza eccessi). Ma proprio la lezione di Socrate è quella a cui mi sento più incline a porre attenzione, perché mi rafforza nella convinzione che il sostrato della libertà di opinione non può non essere ciò cui Socrate ha dedicato la vita: l’insegnamento. Per questo, quando mi è stata chiesta una riflessione su questo tema, il mio pensiero è corso a un’altra fondamentale affermazione di principio contenuta, questa volta, nell’articolo 33 della Carta: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Il libero insegnamento, dunque: non ci può essere libero pensiero, né libera manifestazione dello stesso, se l’intelletto che lo produce non è stato alimentato in maniera sana, con contenuti di prim’ordine, è vero, ma anche e soprattutto con un approccio e una metodologia che ne facciano una freccia che può essere scoccata per raggiungere il bersaglio che vuole. E noi, all’università, proprio questo vogliamo alimentare: il dáimon di socratica ispirazione che spinga al dialogo, al confronto, alla comprensione, alla ricerca di una verità morale che guidi l’agire e l’essere uomini. Giovanni Lo Storto Direttore Generale LUISS Guido Carli (Twitter: @Giannilostorto)
Art. 21: APPROVATO! 15 aprile 1947. L’Assemblea Costituente è al lavoro ormai dallo scorso giugno, in ritardo di quasi due mesi sulla tabella di marcia secondo cui il 25 febbraio 1947 avrebbe dovuto coincidere con la data conclusiva dei lavori. È una giornata importante, oggi, perché vedrà l’approvazione di un articolo che contiene in sé l’inestimabile conquista di chi ha saputo reagire al totalitarismo. Ogni comma nasce dalla repulsione verso il regime che ha messo in ginocchio l’Italia; il testo scorre sot-
to le dita di un Paese che per la prima volta dopo ventidue anni è chiamato a votare liberamente, assetato di ogni tipo di informazione. Al centro della dibattito, l’art. 21: libertà di espressione. Nella Commissione dei 75 e, in particolare, nella sottocommissione Diritti e Doveri dei Cittadini presieduta da Umberto Tupini, sono due i punti controversi e tre le voci che si contendono la parola in seno alla discussione: il costituzionalista Costantino Mortati, da una parte; il socialista Lelio Basso e il Democristiano Giorgio La Pira, dall’altra, si confrontano su un’eventuale possibilità di sequestro della stampa – solo per ragioni gravi – e sulla necessità di accertare le fonti di finanziamento dei giornali e dei mezzi di comunicazione arrivando a conoscere chi ne è proprietario. L’ultimo nodo sarà sciolto solo nel 1981 ma, nel mentre, il testo dell’articolo viene
approvato: la futura Carta Costituzionale sancisce finalmente quel diritto alla libertà di espressione che dovrà essere garantito nelle sue forme più varie, purché non se ne modifichi la natura, e che risulta essenziale per la vita della democrazia. Come specificato dall’art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, “Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.”. Rimane dunque, ancora nel 2013, da determinare con precisione i confini dell’esercizio di tali libertà e orientare il pendolo della dignità dell’uomo nella sua eterna oscillazione tra legalità e morale. Qual è il confine tra il “diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e quello alla difesa di onore e reputazione? Come si coniuga il diritto di ogni individuo di produrre rifiuti con il diritto della società a esigere un comportamento sostenibile? In questo numero di 360gradi e nei prossimi affronteremo l’argomento da più punti di vista, partendo dall’analisi di casi pratici realmente verificatisi. Giulia Perrone
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L’Inchiesta GP
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[Caso 1] Io, che volevo solo ridere un po’ Sbiadito ricordo è quello di un ordine pubblico non ancora costituito quando uomini dall’aspetto primitivo danzavano intorno a un fuoco inneggiando alla caccia di uno gnu. La libertà di esprimere la propria gioia sotto le stelle è sicuramente differente ed anacronistica rispetto alle controversie che hanno ad oggetto la libertà d’espressione oggi. Bisogna partire da una tecnica pittorica per capirlo. Otto Mühl è un artista austriaco, autore di “Apocalypse”, un dipinto-collage di vaste dimensioni, raffigurante 34 personaggi di pubblica notorietà, tra le quali Madre Teresa di Calcutta ed il politico austriaco Jörg Haider, nudi e coinvolti in atti sessuali espliciti. I corpi di queste figure sono pitturati, ma i volti sono tratti da fotografie di giornali, incollate sulla tela con la tecnica del collage. Paradossale rispetto agli eventi che hanno avuto seguito, come un’associazione austriaca, con sede nei meandri del Secession Building, una delle gallerie di arte contemporanea più note, abbia deciso di festeggiare il proprio centenario con una esposizione avente come tema la libertà artistica, includendo anche il dipinto di Mühl. L’opera fu oggetto di numerose critiche, tanto da spingere il sig. Meischberger, ritratto in pose sessuali estreme, a ricorrere alle autorità giurisdizio-
nali nazionali, riuscendo anche a spuntarla e ottenendo soddisfazione. Sentendosi violata nei propri diritti, l’associazione artistica è ricorsa alla giurisdizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) lamentando una violazione del relativo diritto di libertà d’espressione. Preliminarmente, la Corte osserva che la satira è una forma di espressione artistica che, esagerando e distorcendo la realtà, è intenzionalmente provocatoria. Conseguentemente, ogni interferenza nella libertà artistica deve essere esaminata con un’attenzione particolare. Nel caso di specie l’ingerenza appare illegittima per diverse ragioni: in primo luogo perché oggetto del dipinto è la dimensione politica del sig. Meischberger, non la sua vita privata, come testimonia la presenza nel dipinto di altri esponenti dell’Austrian Freedom Party, di cui egli pure è membro, tanto che l’intento del dipinto potrebbe essere sintetizzato in un attacco al Partito nel suo insieme; in secondo luogo perché l’atto vandalico apportato sulla pittura, consistente in uno schizzo di vernice rossa esteso su larghe parti della tela, ha reso pressoché irriconoscibile proprio il volto del sig. Meischberger; in terzo luogo perché la misura del divieto di esposizione risulta priva di limiti temporali e spaziali, con
ciò impedendo l’esposizione della pittura persino in luoghi in cui il sig. Meischberger non è noto. In termini non giuridici, libertà d’espressione batte diritto d’immagine uno a zero. Tuttavia, nonostante la partita si sia tutta giocata sul filo del rasoio tra reputazione e libertà, tra interno ed esterno, tra ciò che è lecito e cosa no, è possibile che la dimensione soggettiva di questi diritti e la sensibilità che si portano dietro faccia variare l’opinione in merito a seconda dell’individuo che venga chiamato ad esprimersi. Non c’è legge che tenga. Si preferisce far parlare i fatti e, sperare che, sui piatti della bilancia, diritti e libertà abbiano lo stesso peso. Alessandra Fanelli
[Caso 2] Criticami pure ma dimmi il perché “A mio avviso”, “Secondo me”, “a parer mio”, tutte espressioni inserite dalla lingua italiana sotto la voce “complementi di limitazione”. Sono le stesse espressioni che più o meno inconsciamente, più o meno volontariamente, ripetiamo con frequenza nell’arco della giornata. E non serve di certo un corso di psicologia o un seminario di sociologia per individuare le cause del loro utilizzo così assiduo. La realtà è che siamo tutti diversi e ognuno di noi, talvolta, avverte la necessità ovvero la convenienza, di esprimere quella visione del mondo limitata a una dimensione prettamente soggettiva. Ma una volta assodata l’importanza e la ricchezza di questa priorità tipicamente umana non si può prescindere dall’osservazione delle problematiche che essa genera nella società, in particolar modo se tale esigenza rappresenta il presupposto di un’attività che ha come destinatario la società stessa, qual è la stampa. È qui che interviene il diritto, con le sue riflessioni dottrinali e le sue massime giurisprudenziali. Ed è proprio tramite la giurisprudenza che il diritto è riuscito ad offrire una lucida, quanto mai sincera interpretazione del concetto di opinione.
L’occasione le si presenta il 28 Dicembre 2011, giorno in cui vengono chiamati a esprimersi i giudici della Corte di Cassazione sul ricorso effettuato da un giornalista condannato in secondo grado dalla Corte d’Appello per aver attribuito il termine “parassita” a due politici della provincia di Caserta. Il giornalista imputava loro la diffusa situazione di degrado sociale del Meridione d’Italia e contestualmente rintracciava nei due esponenti politici i principali responsabili del suicidio di giovani disoccupati. La questione che si pone di fronte alla Corte obbliga i giudici a non limitarsi a una superficiale analisi della nozione di opinione ma induce a concentrare l’attenzione verso una delle sue tante sfaccettature ossia il diritto di critica. Se infatti la cronaca può considerarsi al di fuori dell’area delle opinioni, in considerazione del suo inscindibile legame con la verità, la critica, in quanto espressione di un disappunto personale, ne rientra perfettamente. Tuttavia, come la Corte stessa specifica, ciò non vuol dire che con quest’ultima venga meno anche l’oggettività del presupposto fattuale sulla quale essa si basa. La conseguenza logica di questo ragionamento è la necessità di inserire la critica in un contesto argo-
mentativo che possa giustificare la valutazione personale dei fatti o, come nel caso appena riportato, l’utilizzo di un termine dispregiativo. L’orientamento della Corte appare dunque di rilevante importanza. Essa, infatti, autorizza la stampa ad adottare aggettivi dai toni fortemente critici ogniqualvolta questi siano motivati da un’apposita trattazione del giornalista. Ma in questo caso la Corte non svolge solo un ruolo prettamente decisionale ma sembra offrire anche un insegnamento di portata universale. La critica, concepita nell’accezione negativa e in ogni sua forma di manifestazione, non deve essere il risultato di un istintivo quanto mai collerico atteggiamento di antagonismo ma deve discendere, quasi naturalmente, da un ragionamento lucido e pacato, preferibilmente attinente alla verità dei fatti. Infine, ricollegandoci all’accezione grammaticale del concetto di opinione, si deve riconoscere che un’immotivata scissione fra la nostra visuale e le infinite interpretazioni della realtà può apparire quanto meno pretestuosa e superflua in virtù della vuotezza della critica e dell’assenza di un proposito costruttivo. Pietro Canale
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[Caso 3] Rifiuti e libertà Le parole scelte per questo titolo non sono casuali e per fortuna non sono neanche l’ultima trovata di qualche soggetto politico in vena di ironia. La libertà d’espressione dell’uomo coincide spesso con una sua libertà di produzione su qualsiasi piano, in qualsiasi modo lo consenta la sua personalità. L’art. 21 della Costituzione non risolve il problema dello smaltimento di tutta questa frenetica produzione. Forse perché si riferisce a una produzione del pensiero. E se si interpretasse estensivamente? Se si considerassero i rifiuti di questa produzione? Si parta dall’elemento cardine: il rifiuto è un materiale qualsiasi frutto della lavorazione umana destinato all’abbandono. Questa definizione è composta da due elementi: il rifiuto come bene è da intendere quale risultato di un processo produttivo che partendo dalla materia grezza ci consegna il manufatto finito; il bene una volta consumato diventa “destinato all’abbandono”. Ciò equivale a dire che per il prodotto non ci sono più soluzioni di recupero. La produzione dei rifiuti in Italia nell’arco di tempo 2000 - 2009 è aumentato del 6% (fonte Legambiente) ed è oramai un problema serio; purtroppo solo da qualche anno è entrato nel dibattito politico italiano, ma ancora non si è tra-
punte di eccellenza e ovviamente di inefficienze. dotto in una seria attuazione di politiche pubbliVa bene, sono critiche legittime, ma si ponga un che in merito. Manca un quadro normativo che limite. Non siamo liberi di produrre quanto vopunisca i peggiori e premi i meritevoli. Sarebbe, gliamo, mi pare evidente, ne va della nostra saforse, l’occasione per parlare di meritocrazia. lute. Nelle località dove Per cui il compito di ricisono presenti le discariche clare è delegato alle singol’incidentalità dei tumori le amministrazioni: enti Il problema sussiste è maggiore, il triplo riregionali e comunali. spetto alla norma, con un Insomma, ognuno si asnel momento in cui aumento della mortalità sume la libertà di fare ciò la libertà di riciclare femminile e maschile che che vuole, con le ovvie segna un + 10%. conseguenze: le regioni o meno colpisce gli Se apri strada è stato il del Nord si confermainteressi di un’intera recente caso Eternit, ben no virtuose e promosse, venga. Una sentenza di quelle del Sud, invece, collettività in termini condanna assai signifibocciate al primo anno. Il economici e di cativa e portatrice di un problema sussiste nel moqualità della vita. urlante bisogno di libermento in cui la libertà di tà, quella ambientale. Il riciclare o meno colpisce rifiuto non è un fattore gli interessi di un’intera solamente economico e con effetti sul lungo pecollettività in termini economici e di qualità della riodo. È, in alcuni casi, un problema attuale, che vita.Colpa dello Stato che non ha una normativa va affrontato in maniera rapida. organica fatta dal Ministero dell’Ambiente, colpa A questo punto, non si esagera: ne va dei diritti della tassazione, altro capitolo dolente, che puniinviolabili dell’uomo. sce solo chi inquina a livello familiare e nulla più. Colpa del sistema di monitoraggio affidato alle Ezio Antonacci agenzie regionali protezione ambiente (A.R.P.A.) che non sono funzionali su tutto il territorio, con
[Caso 4] Stop at the top Yoani Sanchez, Roberto Saviano, Riccardo Iacona, Concita De Gregorio, Lilli Gruber. Sono solo alcuni dei nomi che hanno partecipato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, ormai manifestazione d’eccellenza in ambito nazionale e internazionale. Il programma, che ha visto la partecipazione di sempre più ospiti nel corso degli anni, prevedeva nell’ultima edizione più di 200 eventi tra incontri con autori, panel discussions e workshops la cui realizzazione e gestione è stata resa possibile da 400 speakers e 200 volontari. Un evento reso accessibile da incontri free entry e dal fondamentale apporto dei social networks grazie ai quali si crea una vera e propria comunità che
assiste, commenta, discute...vive del Festival! Una manifestazione tutt’altro che ordinaria, dunque, non solo per la sua portata ma per il forte impatto all’interno del mondo del giornalismo stesso che ad oggi è costretta a fermarsi per mancanza di fondi. Uno “Stop at the top”, come lo ha definito ieri Arianna Ciccone, organizzatrice insieme a Christopher Potter, perché “più il Festival cresceva, diventava importante e più - paradossalmente - diventava faticoso costruire il budget per realizzarlo.” Stupisce la volontà di migliorare e il rifiuto di tagliare su incontri e dibattiti per far sì che il Festival si faccia a tutti i costi. In sintesi: il rifiuto di un declino. Intervistando Arianna Ciccone, di cui lascia senza parole la professionalità e la disarmante disponibilità, le chiedo se il rischio di sospensione del Festival non sia un indizio dello stato di salute della libertà di espressione in Italia. La sua risposta è “Non direi. È piuttosto indice della superficialità e della miopia degli enti con cui ci siamo trovati a trattare.” La più importante delle libertà civili del nostro ordinamento è fortemente legata al problema della sua sostenibilità economica e, come
mi conferma Arianna, manca in Italia una totale garanzia di indipendenza della professione giornalistica. “Il giornalismo per me è missione come lo definiva Tiziano Terzani, ma anche professione. È un act, un’azione per il bene collettivo, una ricerca di verità per fare pulizia di fondo, una sorta di “watchdog” sul potere. E credo che uno dei risultati più importanti raggiunti dal Festival sia stato quello di creare un clima di confronto e dibattito veramente difficile da riprodurre in altre manifestazioni del genere. La forza del Festival sta in questo: non è una conferenza, ma qualcosa di più.” Alla notizia della probabile sospensione, infatti, il Web ha risposto con massicce manifestazioni di solidarietà sorprendendo gli stessi organizzatori: che una kermesse di tale importanza rischi di chiudere i battenti sa dell’incredibile. Perché? “Il talento in questo Paese è visto come un’anomalia da risolvere, non da premiare.” Cosa cambierebbe Arianna, se potesse, dell’articolo 1 della Costituzione? “L’Italia dovrebbe essere fondata sul rispetto dei cittadini. Questo si. Glielo devono.” Ludovica Faina
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L’Inchiesta SP
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Il conflitto e la sua rappresentazione La Street art dell’East End I conflitti non lasciano mai i luoghi in cui si materializzano. La collettività ferita si trova ricoperta di cicatrici che entrano inevitabilmente a far parte della cultura di quella collettività. Da queste culture, attraversate da violenza, disordini e sopraffazione, talvolta nascono forme d’arte ribelle, anticonvenzionale. La Street art, nelle sue forme più varie, si è spesso sviluppata in situazioni conflittuali, in luoghi dalla storia difficile, come espressione di un disagio e tentativo di esorcizzare un passato pesante. Il caso esemplare è quello della capitale tedesca che, lacerata da un ‘900 che l’ha rasa al suolo, ricostruita e poi divisa, è diventata da anni anche capitale della “Street art” europea. Un caso simile, ma forse meno conosciuto, è quello dell’East End londinese. Quartiere tradizionalmente povero e malfamato si contrapponeva al ricco e residenziale West End. Nato nel ‘500 come area portuale, con la rivoluzione inglese andò incontro a una rapida e disordinata crescita e divenne uno di quei quartieri-dormitorio noti come slums. A partire dal seicento diverse ondate di immigrazione hanno reso quest’area della città un luogo di incontro tra culture. Nel corso del Novecento l’ultima grande ondata di bengalesi ha fatto sì che un’area dell’East End fosse soprannominata Banglatown. Il grande afflusso di immigrati ha però creato anche problemi di ordine pubblico e non sono mancati gli scontri. Oltre a ciò la grande ferita dell’East End fu inferta durante la seconda guerra mondiale: l’intero quartiere fu quasi annullato dai bombardamenti tedeschi del 1940-41 passati alla storia come The Blitz. In tempi recenti, però, si è proceduto a una grande riqualificazione della zona, anche grazie alle Olimpiadi dello scorso anno, e l’East End si sta affermando come una parte viva e in divenire di Lon-
dra, nonostante la resistenza di grosse sacche di povertà. La vita notturna, i mercati multiculturali e la vivace vita artistica rendono sempre più attraente questo quartiere dalla storia travagliata e se il West End rappresenta ormai il passato della città, l’East si va sempre più affermando come il suo futuro. L’East End è, non a caso, uno dei templi mondiali della Street art e patria di grandi artisti del settore quali Bansky, Invader e C215. Nelle opere di questi si ritrova un grande varietà di temi: dalla libertà di espressione passando per quella sessuale e di co-
scienza al pacifismo e il rispetto del multiculturalismo. Come nel caso di Berlino, è dal disagio, dalla coesistenza difficile, dal conflitto e dagli strascichi di questo che nasce l’arte di strada. L’East End è riuscito a canalizzare e a esorcizzare il conflitto attraverso l’arte e la libera espressione, garantita anche da spazi appositamente dedicati all’arte di strada. La riqualificazione e il rilancio di un quartiere è stata accompagnata e guidata dal suo sviluppo artistico. Giovanni Pipola
Quell’Italia “africana” della libertà di informazione Statistiche, dati empirici e classifiche internazionali sono riconosciuti universalmente come fiore all’occhiello di un’argomentazione seria, consapevole e convincente. Citarli a caso, invece, sembra una prerogativa di politici – e giornalisti – nostrani. Nei salotti tv e sulla carta stampata, infatti, il Belpaese è spesso e volentieri comparato ai più improbabili stati africani e agli illiberalissimi regimi latinoamericani, mentre là, nell’Olimpo delle classifiche, siede la regina dello Spread, la Germania, con le sue ancelle, i Paesi scandinavi. Una strategia denigrante – della situazione del Paese – e al tempo stesso elogiativa – delle promesse del politicante di turno – che tutto fa tranne che rendere giustizia della seria metodologia su cui le analisi internazionali si fondano e sui messaggi di primaria importanza di cui sono portatrici. Tra le tante classifiche in cui l’Italia primeggia, sì, ma in negativo, quella sulla libertà di stampa e di informazione è tra le più preoccupanti. Accanto all’Indice di Libertà di Stampa formulato dall’ong Reporters Without Borders – che pure evidenzia “notevoli problemi” all’interno del sistema italiano – la classifica Freedom of the Press è da sempre il punto di riferimento sul tema, in virtù dell’alta reputazione di cui gode l’ente elaborante, l’associazione Freedom House. Piuttosto altalenante nei riguardi del Belpaese, l’edizione 2013 assegna alla stampa nostrana lo status di “parzialmente libera”, collocando l’Italia al 68simo posto al mondo o, come direbbero i nostri politici, “tra la Guyana e il Benin”. Leggendo più in profondità, la situazione è analizzata secondo tre dimensioni: legale, politica ed economica. In Italia, tutti e tre i settori presentano forti problemi strutturali. Sotto il profilo legale, una prima debolezza è in-
dividuata nella stessa Carta costituzionale che, pur tutelando all’art. 21 la libertà di espressione e di stampa, non assicura una garanzia di pari livello al diritto di accesso all’informazione e alla libertà di fare informazione, in assenza di una legislazione sistematica in materia. La formazione e l’esercizio della professione, d’altra parte, non sembrano godere di miglior sorte, con l’Ordine dei Giornalisti a capo di un “monopolio di fatto” che controlla l’accesso al mestiere e il livello salariale. I giornalisti professionisti assunti a tempo indeterminato sono sì una categoria ben protetta, ma a rischio estinzione, rappresentando solo il 19% della forza lavoro. Le autorità di controllo, poi, sono vittima di una legislazione poco trasparente e farraginosa che favorisce, in ultima analisi, le ingerenze della politica. A livello economico, invece, la crisi sembra aver peggiorato una situazione di per sé più che precaria. L’aumento spropositato del popolo dei freelance, le redazioni che chiudono, i colossi dell’editoria pressati dalla paura di un crollo a volte imminente sono la manifestazione più contingente di una debolezza strutturale, con un settore pubblico – la RAI – in cui la partitocrazia banchetta e un settore privato poco trasparente e nelle mani di pochi, di sempre meno pochi. Il profilo politico potrebbe poi essere oggetto di un articolo a parte, in un Paese in cui i giornalisti occupano pure un decimo dei seggi sia alla Camera che al Senato. Un Paese in cui, quando si parla di informazione, i nomi che contano non sono Gabanelli, de Bortoli o Calabresi ma De Benedetti, Cairo e, ça va sans dire, Berlusconi. Con queste premesse è naturale che raggiungere il Gambia diventi un obiettivo. Michele Casadei
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Libertà d’espressione e street art Quando il pregiudizio imbratta la società È arte a chilometro zero. In Italia si inizia a conoscere negli anni ‘90 con murales e graffiti ma la street art si è velocemente evoluta e oggi rappresenta un nuovo modo di espressione e di denuncia sociale. Con il passare degli anni anche la società inizia a vedere questa realtà con occhi diversi: ora gli artisti di strada non sono più i ragazzacci che deturpano la città ma le loro opere vengono valorizzate come forme di espressione. Della stessa opinione è “Solo”, street artist di Roma che, partendo dalla capitale, si è fatto conoscere all’estero per la propria rappresentazione senza filtri di un mondo di “supereroi in crisi”, come si chiama anche la sua ultima mostra. Per Solo tutto inizia al liceo, anche se “non avevo ancora capito la potenza di questo mezzo, mi piaceva il fatto di poter comunicare in modo diretto, senza filtri. Poi all’accademia delle belle arti - continua l’artista - ho imparato la tecnica e con la laurea sono tornato a lavorare in strada ma disegnando cose che avrei fatto su tela”. Dietro la street art, come d’altro canto nella musica e in altre forme di espressione, ognuno è influenzato dalle proprie caratteristiche ed esperienze. Il bello di questo tipo di arte è la sua capacità di “arrivare a tutti senza filtri, anche chi non la cerca ma ci si imbatte può involontariamente esserne colpito”. Tante le possibilità per comunicare attraverso vernici, colori e bombolette: ha scelto i supereroi come l’alfabeto per far sentire la propria voce, in quanto sono personaggi conosciuti in tutto il mondo e da tutte le età. Alla Luiss per esempio Wonderwoman e L’uomo ragno sono i protagonisti dell’evoluzione della personalità degli studenti che l’artista ha cercato di rappresentare attraverso i personaggi dei comics. Da una parte infatti un modello di donna inserita nel contesto dell’università si trasforma in Wonderwoman. Dall’altra Peter Parker, dalla cui ombra già si capisce che diventerà l’uomo ragno, ricorda lo studente secchione e un po’ nerd che non sa ancora mettere a frutto le proprie capacità. Ma l’università è proprio il mezzo attraverso il quale tutti i Peter Parker possono tirare fuori la propria essenza e diventare supereroi nonostante non sappiano ancora quale sarà il proprio destino. Quelli che, come Solo, creano arte senza aver bisogno di grandi palazzi o ricchi mecenati, talvolta vengono accusati di imbrattare le pareti delle nostre città. Molti di loro hanno un modo diretto e a volte irriverente di comunicare che sfocia in raffigurazioni taglienti di politici, leader religiosi, militari e potenti di vario genere. Chi è che non ha presenti i murales dipinti sulle rovine del muro di Berlino? In Austria, nel 2007, è accaduto qualcosa di molto simile, e si sono arrabbiati sul serio. Il palazzo della Secessione, opera simbolo della rottura con i canoni classici da parte di Gustav Klimt e del movimento artistico viennese del primo novecento, ospitava “Apocalypse”, un enorme quadro che ritraeva decine di personaggi famosi durante atti sessuali piuttosto espliciti. Un tale Meischberger, esponen-
te dell’Austrian Freedom Party, era tra le “vittime” di Otto Mühl, l’autore, che lo aveva inserito nella scena. Dopo aver fatto ricorso alle autorità competenti, Meischberger aveva ottenuto un risarcimento in denaro e il divieto di esposizione del quadro, giudicato evidentemente lesivo della sua personale dignità. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, successivamente coinvolta nella contesa, aveva giudicato errata la decisione delle autorità giudiziarie austriache, considerata contraria al diritto alla satira e alla libertà d’espressione. L’argomento più forte con il quale la Corte sostiene la propria posizione si riferisce alla separazione tra vita pubblica e privata del Signor Meischberger, che viene ritratto, secondo la lettura dei giudici di Strasburgo, in quanto politico e non in quanto privato cittadino. Il bersaglio della satira, per sua natura pungente e spesso violentemente espressiva, era il partito, non il singolo individuo. La controversia è un esempio di come la giurisprudenza e le sue categorie non riescano a volte a dare risposte sufficienti a quesiti di carattere più marcatamente sociale e politico. La libertà d’espressione è riconosciuta in tutte le costituzioni moderne, ma quali sono i suoi confini? Ritrarre un individuo in pose sconvenienti e a volte umilianti vuol dire fare satira o offendere la dignità della persona? E se la persona in questione è un politico, cambia qualcosa? Nel nostro Paese, in cui non si è stati capaci di reggere Luttazzi e in cui si sopportano a stento i vari Crozza e Benigni, si direbbe certamente che il quadro di Mühl è vergognoso, indegno di una nazione civile e che l’autore dovrebbe scusarsi con tutti i poveracci coinvolti nella sua follia. Se sono politici, peggio mi sento! Sono parlamentari, personaggi pubblici, non possono venire messi alla berlina in questo modo. Ci
ha messo pure Madre Teresa! Davvero disgustoso. E se invece avesse ragione la CEDU? Se il confine della satira fosse più in là di quello implicitamente segnato dalla pubblica morale? Potremmo a questo punto pensare che sia normale ritrarre delle persone non per quello che sono, uomini e donne, ma per quello che rappresentano: una certa idea di politica, un partito, un determinato gruppo sociale o religioso. Internet, nel giro di una decina d’anni, ha completamente cambiato le carte in tavola. Lasciando perdere la maggior parte dei blog, spesso gestiti da sedicenti scrittori che sparano a zero su qualunque cosa, il contributo della rete al pluralismo, al commento e alla libertà d’espressione nel suo insieme è senza dubbio maggiore rispetto a quello di molti quotidiani che vanno ogni mattina in edicola. Un commento a un “post” su Facebook, due righe critiche sotto una notizia nel sito web di un quotidiano, significano tantissimo. Significano, in definitiva, la possibilità di poter dire la propria e di poter aggiungere la propria opinione, anche satirica o tagliente, a quelle degli addetti ai lavori. I tempi cambiano e con essi anche i modi di poter dire la propria. C’è chi con un disegno, un murales, una parola scritta per strada riesce a lanciare messaggi importanti e farsi sentire da una società spesso sorda. Ma per fare in modo che anche queste forme di espressione continuino ad essere tutelate c’è bisogno che una cosa non cambi: la volontà e la capacità di riconoscerne il valore e l’importanza, lontani da moralismi e tatticismi che spesso imbrattano le coscienze delle persone. Maria Silvia Bartolucci Angelo Amante
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L’Inchiesta EC
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Non esistono più le mezze stagioni In Italia le carte in regola per essere liberi di scrivere - e parlare e pensare - ce le abbiamo tutte grazie alla nostra sacrosanta Costituzione che all’art. 21 afferma: “[…]La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.[…]”. Ma è davvero così? Apparentemente sì. Leggiamo tutti i giorni informazioni di ogni tipo: scandali scomodi per molti personaggi, dalla politica allo sport, dal mondo dello spettacolo a quello della musica; scandali alimentari che coinvolgono le più grandi aziende del settore causando disastri economici e notevoli problemi reputazionali. Siamo, insomma, inondati in ogni momento della nostra vita da una quantità tale di notizie da essere obbligati a “tuffarci” (per citare Bauman) nel mondo dell’informazione, riemergendo confusi e insicuri. Credo di non esagerare dicendo che stiamo sviluppando un’abilità non più nel codificare le notizie che ascoltiamo o leggiamo, bensì nel giudicarne la veridicità in una versione o nell’altra. Ma con quale criterio? L’intelletto è una dote personale, cosi come lo è la capacità di giudizio. In media veritas, diceva qualcuno. E forse aveva ragione. Ma quali sono gli estremi di questa immaginaria linea di passaggio che collega le due versioni di una stessa notizia sulla quale noi possiamo individuare la metà, e dunque la vera, o verosimile, informazione? Destra e sinistra? Troppo semplice, troppo banale. E non per il cliché da bar-dello-sport “destra e sinistra sono diventate la stessa cosa” - che è quasi peggio di “non esistono più le mezze stagioni” - bensì perché al giorno d’oggi, non solo in Italia, sia chiaro, i giornali sono da considerarsi alla stregua di aziende. C’è la crisi per le aziende, c’è la crisi per i giornali, aumentata per di più da una dilagante crisi cul-
zare in maniera sempre più decisa e prepotente la turale. E quando c’è la crisi, intervengono poteri stampa e l’informazione. Sempre restando sul geforti, che possono, in qualche modo, più o meno nerale, se un certo signor X, che si trova nel CdA velatamente, veicolare alcune informazioni. Non dell’azienda Y e possiede una certa partecipazioè una censura paragonabile a quella operata dal ne in un certo giornale duce nel ventennio, ma G, dovesse trovarsi al c’è un certo timore recentro di uno scandalo verenziale da parte del - politico, sessuale e così giornalista che scrive C’è la crisi per le via – la redazione di G per quella data testata aziende, c’è la crisi per i potrebbe porre un velo in cui pesa l’influenza giornali, aumentata per sulla notizia, o attenuadi una linea editoriale re le responsabilità in fornita, appunto, dall’edi più da una dilagante gioco. E se in quello ditore e, dunque, in tacrisi culturale. E quando stesso CdA dell’azienluni casi, da un C.d.A. da Y c’è un certo tizio Il conflitto di interessi è c’è la crisi, intervengono T, che si trova anche sempre alle porte. Non poteri forti, che possono, nel CdA del giornale starò qui a fare esempi, G2, magari, tramite dovrei affidarmi a dati in qualche modo, più questa conoscenza tra non del tutto certi e a o meno velatamente, X e T, la notizia sparirà congetture personali anche dal giornale G2. azzardate che sono asveicolare alcune Si lo so, è complesso e solutamente fuori dal informazioni. magari con un disegno mio raggio di competutto sarebbe molto più tenza. Posso però concomodo, ma quello che durre una riflessione intendo dire con queste con gli strumenti che lettere e questi collegamenti è che spesso vediamo mi appartengono e che potrebbe fare aprire gli solo la punta dell’iceberg. Spesso leggiamo solo occhi su tanti rapporti da noi mai considerati. una notizia ma non tutto quello che c’è dietro. Senza alcun dubbio qualcuno di voi conoscerà la Mi viene in mente il mondo che ha portato alla teoria dei sei gradi di separazione, ipotizzata dalluce Roberto Saviano, il quale vive ora sotto colo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel 1929, stante scorta e con una sempre vigile macchina del secondo la quale due persone qualsiasi sulla Terra fango pronta a distruggerlo. sono separate da mai più di altre cinque persone Mi viene in mente Nadia Toffa e la sua inchiesta che, tramite una rete di conoscenze, le collegano. sulla terra dei fuochi: un’istantanea di un mondo Facile allora, mai come oggi, risalire a tali collegache è lì e che da decenni opera nella illegalità più menti, tali reti di conoscenze che possono influentotale causando morte e malattie orribili. Mi viene in mente l’utilizzo della rete in paesi dove dittature e censure rendono la libertà di stampa un’utopia e dove i privilegi per noi scontati, come Twitter, costituiscono l’unica reale e vera fonte di informazione e diffusione di idee e progetti, quelle stesse idee che alimentano la voglia di non arrendersi, di continuare a sperare e lottare, nonostante i rischi. Mi viene in mente che noi italiani diamo un po’ tutto per scontato, quando tutto questo non lo è. Mi viene in mente Giancarlo Siani, che convinto sostenitore della libertà di stampa, è stato ammazzato. Mi viene in mente che a tante persone queste cose non vengono in mente. E che quando quella punta dell’iceberg emerge un po’ di più del normale, molti non vogliono crederci, cullandosi nella convinzione che la stampa sia libera e trasparente. Tranne, ovviamente, per quei giornali che sono in mano alla sinistra o alla destra. Che poi “destra e sinistra sono la stessa cosa”. Alessandro Leuci
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(dis)Informazione libera In tempi di crisi come quelli che viviamo oggi, non sempre gli italiani riescono a focalizzare l’attenzione su problematiche diverse da quelle che i media ci propinano ogni giorno. Oltre a Spread, Patti di Stabilità, Governi “Cadenti”, eccetera, eccetera, esistono degli argomenti non proprio esaltanti che hanno meno visibilità. Uno di questi è la Libertà di espressione, più precisamente di stampa. In uno Stato, certamente in crisi, ma comunque membro più o meno fisso del G8 ci si aspetta che ogni cittadino abbia la possibilità di informarsi in modo chiaro e preciso di qualsivoglia argomento che riguardi il proprio Paese; purtroppo questo non sempre accade. Dati ufficiali confermano l’esistenza di tale problema in Italia: il rapporto sulla libertà di stampa (Freedom of the Press) relativo al 2012 e compilato dalla Freedom House, pone il nostro Stato alla posizione numero 24 per i paesi dell’Europa Occidentale, con una votazione di 33, rientrante quindi nella categoria “Nazione Semi-Libera”. Solo l’Italia e la Turchia, tra i 25 paesi europei trattati in questa sezione, rientrano in tale gruppo. Fortunatamente - o sfortunatamente - tocca ad alcune personalità estere evidenziare le problematiche su cui l’italiano spesso non si sofferma. Un esempio lampante di come la nostra paradossale realtà sia così chiara a chi vive all’estero è il commovente film-documentario “Girlfriend in a Coma” di Bill Emmott, direttore della nota rivista britannica “The Economist” fino al 2006. L’approccio diretto del regista alle problematiche dell’Italia, comportò non poche difficoltà all’uscita del film nel nostro Paese. Una parte del documentario tratta il tema della libertà di stampa e, anche nella classifica stilata dal giornalista britannico, ci posizionamo molto in basso. È evidente che la nostra classe dirigente, concentrando l’attenzione degli italiani su argomenti di indiscussa portata essendo strettamente correlati alla crisi economica, preferisca tuttavia lasciare che problemi meno noti vengano messi in luce di rado. Esiste, quindi, un modo per rendere gli italiani più consapevoli della situazione? Troppo spesso l’informazione è filtrata più e più volte per fare in modo che alle persone arrivi solo la parte strettamente necessaria di una notizia, non la versione completa che, contornata di tutte le sfaccettature, permetterebbe al lettore, spettatore o ascoltatore di avere un’idea precisa sul problema in questione. Non c’è dunque da meravigliarsi se oggi riscuotono così grande successo programmi televisivi che ci consentono di entrare nel merito di questioni che altrimenti rimarrebbero sepolte. Basti pensare a programmi di informazione, come “Le Iene” o “Servizio Pubblico”, o di denuncia, come “Report”.
La libertà di espressione o opinione, come sappiamo, è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione che all’art. 21 recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ma in quali casi viene presa in considerazione questa definizione? Può essere considerata “libertà di espressione” quella che spinge i tifosi negli stadi a cantare cori razzisti per cercare di destabilizzare gli avversari? E invece può essere mossa da “libertà di espressione” la dichiarazione di Roberto Calderoli, il quale, riferendosi al Ministro per l’Integrazione Cècile Kyenge, ha detto “Quando la vedo non posso non pensare a un orango”? Bisognerebbe di seguito soffermarsi su alcune recenti vicende parlamentari per capire come coloro che dovrebbero garantire il rispetto della libertà di opinione ed espressione, abbiano talvolta difficoltà nell’applicare e comprendere l’ampio significato che questo termine assume. Infatti il 19 settembre 2013 è passata alla Camera dei Deputati la prima legge sull’Omofobia che ha come obiettivo il riconoscimento dell’omofobia e della transfobia come fenomeni da reprimere allo stesso modo del razzismo, della xenofobia e dell’antisemitismo. Questa legge introduce quindi come reato “istigare a commettere o commettere atti di discriminazione o violenza per motivi fondati sull’omofobia”, pena la reclusione fino a
un anno e sei mesi con sanzioni fino a 6.000 euro. All’interno dello stesso testo si legge però che “Non costituiscono discriminazione aggravata dall’antisemitismo le opinioni assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”. Il parlamento, con l’intento di salvaguardare la libertà di opinione e di espressione, ha quindi stabilito che tutte le opinioni omofobe espresse da partiti, sindacati e associazioni di ogni altro tipo non rappresentano esempi di omofobia sanzionabili dalla legge, vanificando in qualche modo l’intento stesso della normativa. Possiamo renderci conto di quanto sia difficile rispettare il significato di “libertà di espressione o opinione” e in particolare di “libertà di stampa ed informazione”, in un mondo che spesso tende a deviare e formare la nostra ideologia e il nostro pensiero in merito a determinate problematiche proprio a causa dell’insieme di interessi che entrano in gioco. Compito di ognuno di noi è leggere la realtà procurandosi informazioni da diverse fonti, da diversi punti di vista, in modo da poter comprendere il mondo in cui viviamo e agire sempre per il bene del nostro Paese. Valeria Cecere Iacopo Rossi
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Speaker’s Corner
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Noi e... Italia alla ricerca della mediocritas Tra demagogia e tecnicismo Dal 16 Novembre 2012 al 28 Aprile 2013, al posto del contemporaneo Governo Letta, avremmo trovato il Governo Monti a capo dell’esecutivo del nostro Paese: il governo dei tecnici che grazie alle loro capacità amministrative, economiche e politiche avrebbero dovuto tirar fuori noi ed il Paese dal vortice della recessione. Il governo tecnico, non essendo un governo politico eletto dal popolo, si è relazionato con i cittadini attraverso il linguaggio degli esperti. È in quei sei mesi che gran parte del popolo italiano si è confrontato quotidianamente con parole come, solo per citarne alcune, spread, debito pubblico e recessione. Parole, queste, allarmanti per le orecchie di principianti. L’atteggiamento austero del professor Monti è finito per coincidere con una frattura sempre più profonda tra Palazzo e Piazza. Il popolo si è così alienato, quasi del tutto, nei confronti di quell’esecutivo che non aveva votato ma che doveva tirarlo fuori dai guai. Cominciò a farsi sempre avanti l’odio per l’esperto, il disprezzo per il mestiere del politico. Le campagne elettorali per le successive elezioni politiche hanno puntato proprio su questo allontanamento tra Paese reale e Paese legale. L’obiettivo comune, in un modo o nell’altro, fu cercare di rendersi diametralmente opposti a quel tono apparso serioso e a quel linguaggio tecnico e complicato che aveva caratterizzato il Governo dimissionario. Su queste basi, i comuni denominatori della passata campagna elettorale saltano facilmente all’attenzione: anti-politica, casta e società civile. È in queste fondamentali circostanze storicopolitiche che nasce la palese nemesi del Governo Monti: il Movimento 5 Stelle. L’Onda di Beppe Grillo ha schiacciato i pulsanti giusti per apparire vicino ai cittadini, per rendersi rappresentante diretto e vero del popolo nel Palazzo. Rigettando le etichette di destra e sinistra, si è imposto come reale novità del Paese, servendosi magistralmente del potente mezzo della rete per diffondere quello che possiamo tranquillamente definire “il virus grillino”. Così le elezioni politiche del 24 e 25 Febbraio 2013 possono essere considerate la cartina di tornasole di questo processo: la colossale sconfitta della lista di Mario Monti e l’inaspettato 25% percento dei grillini ha sancito la supremazia dell’anti-politica sulla politica, della società civile sul politico professionalizzato portando dentro il Palazzo cittadini comuni che fino al giorno prima erano alle prese con le bollette da pagare e una piccola impresa da portare avanti. Ma con quali conseguenze? Un elettrauto che non sa come cambiare la lampadina del faro fulminato come può risolvere il problema? Un improvvisato politico che non conosce le conseguenze di una scelta politicoeconomica come può sanare le casse di uno Stato? «Mi pare piuttosto una sbornia demagogica che spero passi presto» il noto politologo Giovanni
Sartori ha così espresso il suo disappunto nei confronti della comparsa di non-esperti della politica nella classe dirigente del paese. Come sentenziarono i latini, è nell’aurea mediocritas che va ricercata la strada da seguire. Probabilmente siamo ancora lontani dal prendere la via giusta: ancora incatenati tra demagogia e tecnicismo. Mirko de Martini
Il gatto dello Stivale: la metafisica del tè Quando la politica è priva di argomenti, è costretta a parlare di se stessa, della propria vacuità. Ostenta esistenza pur non esistendo, si fa sentire per non essere dimenticata. La politica a cui ci hanno abituato già da un paio di decenni è evidentemente malata, chiaramente in grave difficoltà. L’uomo politico è un gatto, lento ed egoista, annoiato e indifferente. Discutere tematiche reali e urgenti non rientra più negli interessi della nostra classe dirigente. Come non è più una priorità il confronto diretto e sano della stessa con i cittadini. Tramite un lungo e silenzioso processo di privatizzazione della politica, è riuscita a trasformare il significato di se stessa. La metamorfosi ha comportato, ovviamente, un’evoluzione generale dell’apparato: si è così radicalizzata nella forma, terribilmente impoverita nell’idea, che ha perduto, nell’andare, la sua nobile essenza. “Ciò che è giusto fare” è stato sostituito da “ciò che conviene fare”, “ciò che è necessario dire” è stato supplito da “ciò che conviene nascondere”. Affrontare la realtà dei fatti, ammettere l’errore, umiliarsi, tanto per fare qualche esempio, non è conveniente, pur essendo teoricamente imprescindibile per un buon uomo politico. Da referente è così divenuta autoreferenziale. La strada sbagliata è il mascheramento di un passo all’indietro. L’affermazione del potere detenuto, dei privilegi acquisiti è un’esigenza primaria per dimostrare il proprio status e mantenerlo. Chi oggi ha a sé il potere, ha distante la realtà. Il non rendersi conto di una situazione critica o di una condizione di disagio è al contempo assurdo e veritiero. Assurdo se confrontato alla realtà esterna, veritiero se comparato alla dimensione interna della classe politica. Come se una bugia fosse diventata verità a furia di ripeterla. Come se una tazza da
tè cominciasse a volare solo perché si è detta per tutta la vita di esserne capace. Come convincersi, e voler convincere, che esistano cittadini più uguali degli altri o che valori inderogabili di solidarietà non abbiano spazio in un emendamento. Surreale e poco plausibile, insomma. Proprio come ciò che osserviamo. La politica odierna ha cambiato colore, rinnovato la pelle, rinnegato il suo nome e il profondo e puro significato dello stesso. Ha perduto i valori che la rendevano degna di elevarsi al popolo, di servirlo e sottostarvi al contempo. Entità autonoma, è non incapace di ascoltare ma poco interessata a farlo. Attenta ai sondaggi, sorda alle richieste. Ha registrato un’inversione di tendenza in termini di funzione. Ha ormai perduto del tutto il dovere di servizio a beneficio dei cittadini, per calarsi sempre più nelle vesti di opportunità, occasione unica per tutelare i propri interessi, a discapito dei cittadini stessi. Mentre gridano alle “leggi ad personam”, dimenticano le persone per cui vanno fatte le leggi. Quando cesseranno di pretendere di essere ascoltati, per iniziare finalmente ad ascoltare, potremo smettere di credere a quelle tazze da tè che ci raccontano, con convinzione, le loro esperienze di volo. . Fabio Mancini
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Noi e... Il potere della mezzaluna La Turchia è una repubblica parlamentare unitaria, con un unico corpo legislativo determinato secondo i principi della democrazia rappresentativa e i mezzi della rappresentanza proporzionale. Le coalizioni elettorali non sono riconosciute: alleanze elettorali vengono realizzate nelle liste unitarie sotto il tetto dei partiti più grandi. La clausola di sbarramento nazionale è del 10% , che non viene applicata per i candidati indipendenti. È questo il motivo dei “giochi elettorali”: i movimenti politici che riescono a prendere una certa quantità di voti in alcune province nominano dei “candidati indipendenti”. In Parlamento, venti deputati dello stesso movimento formano un gruppo parlamentare e godono di vantaggi simili a quelli dei partiti più grandi. Il sistema governativo della Turchia è, nella prassi, un sistema con una presidenza debo-
le, scelta dal partito al governo. Il Presidente della Repubblica , con l’ultima riforma, sarà eletto a suffragio universale. La branca giudiziaria è costituzionalmente indipendente, ma il Parlamento e il Presidente nominano tutti i membri della Corte Costituzionale e una parte essenziale dei membri del Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori. La branca esecutiva gode dei poteri assai ampi. Anche se un modello dualista è costituzionalmente previsto, nella prassi è stata testimoniata la prevalenza del Consiglio dei Ministri. Composto da individui eletti tra i membri del Parlamento, insieme al Presidente, gode del potere di dichiarare uno stato di emergenza e di esercitare un potere legislativo con i decreti legge che, anche se sono legittimati con la legge delega emessa dal Parlamento, non hanno bisogno del consenso del
Questione morale bilaterale Professor Preterossi, nella sua conferenza du“Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). È immediatamente comprensibile come la nostra Costituzione abbia dato un valore estremamente importate a questa forma di associazione. Ciascuno di noi, nel proprio piccolo, è dotato di un potere forse di sottovalutata rilevanza. E allora perché da anni si afferma che il distacco tra la classe politica e i cittadini sta aumentando sempre di più, talvolta con conseguenze drammatiche? La risposta più gettonata è: “Questi politici non mi rappresentano!”. Quali le cause? Una saggia regola di vita suggerisce, salvo eccezioni, di dividere sempre la colpa a metà. Provando a fare un ragionamento di questo tipo al nostro discorso, è possibile constatare una duplice origine di questo diffuso malcontento. La prima è facilmente intuibile, e riguarda l’atteggiamento dei partiti nel corso delle 2 (o forse 3?) Repubbliche. Possiamo prendere spunto da una nota intervista di Scalfari a Enrico Berlinguer, in cui si osservava con preoccupazione la degenerazione della partitocrazia, ossia un sistema in cui i partiti “hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni”. La classica caccia alla poltrona
che per la natura delle cose deve comportare qualche vittima. “I partiti - continuava il segretario del PCI – non possono concorrere alla formazione della volontà politica nazionale, se non interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni”. In parole povere, un rivoluzione culturale e sociale, permeata appunto dalla questione morale, vista come unica soluzione per la tenuta democratica del nostro Paese. Messaggio accolto pienamente anche dal Presidente del Consiglio Spadolini (DC), che condivise in pieno sia l’accusa, sia la soluzione proposta. Segno di un’insoddisfazione a 360°. Scalfari faceva poi notare come “se gli italiani sopportano questo stato di cose, è segno che le accettano o che non se ne accorgono”. O complici o ignoranti. E proprio questa è l’altra possibile causa: non sono solo i partiti a essersi allontanati da noi, ma siamo anche noi ad aver permesso che questo accadesse. Forse la questione morale non dovrebbe essere invocata unilateralmente. Forse il primo segnale di rinnovamento non dovrebbe venire dagli eletti, ma da chi li elegge. Forse, con una maggiore coscienza sociale e civica, quell’articolo della Costituzione realmente potrebbe essere lo strumento della svolta. Ed ecco come il monito deandreiano “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti” può servire più a farci riflettere, piuttosto che a indignare. Francesco Portoghese
Parlamento per la conversione. Così il Consiglio è nominalmente la branca esecutiva e praticamente la branca legislativa dello Stato. Il Parlamento può, secondo il modello costituzionale, anche decidere di non emanare la legge delega ma questo non succede mai. Le forze politiche che siedono in Parlamento sono poche a causa della clausola di sbarramento e siccome il bilancio politico tra queste forze viene determinato già nella nomina dei ministri, la legge delega non è un ostacolo effettivo per limitare il potere del Consiglio dei Ministri. Gli ultimi dieci anni hanno testimoniato la dominazione assoluta di un’unica forza politica sia nel Parlamento che nel Consiglio dei Ministri, perciò le decisioni praticamente unilaterali del Consiglio dei Ministri guidato dal Primo Ministro non sono state rare. Questo bilancio politico ha portato all’indebolimento graduale del ruolo del Presidente della Repubblica. La capacità della forza politica dominatrice di poter raggiungere sempre la maggioranza richiesta in Parlamento ha reso ridondante il potere di veto e la controfirma del Presidente della Repubblica è diventata un passo insignificante nel procedimento legislativo. Il dominio da parte della stessa forza politica ha influenzato direttamente le pubbliche amministrazioni i cui ufficiali vengono nominati dal Consiglio dei Ministri. Non sarebbe sbagliato dire che oggi tutti gli ufficiali che occupano posizioni importanti nelle pubbliche amministrazioni sono vicini all’AKP. Tutto sommato, nel corso degli anni il sistema politico turco è diventato un sistema più mono centrico e repressivo e ci vuole un cambiamento, non soltanto per difendere i valori costituzionali ma anche per la Repubblica stessa. Aytekin Kaan Kartul
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International
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Grecia: Alba Dorata è forse al tramonto? Si presenta come il Führer. Punta il dito contro gli stranieri, a suo dire responsabili di ogni male della nazione. Si oppone alle istituzioni democratiche. Ma non porta i caratteristici baffetti, non somiglia a Charlie Chaplin e non parla tedesco. Nikólaos Michaloliákos, leader di Alba Dorata, è il classico politico; tante promesse e poca sostanza. Il suo, invece, non è un partito qualunque; saluto con il braccio teso, assetto da gruppo paramilitare e annunci di un imminente golpe. Alba Dorata è la perfetta sintesi dell’involuzione del popolo greco. Fondata nel 1980, l’organizzazione di Michaloliákos ribadisce fin da subito la propria adesione al pensiero hitleriano. Già il nome non lascia dubbi sulla matrice ideologica e sulla scarsa fantasia dei militanti; si ispira infatti alla Golden Dawn, società segreta esoterica con tendenze spiccatamente xenofobe che contribuì non poco a influenzare il credo nazionalsocialista. Lo stesso dicasi per il simbolo: un meandro, la cui forma rimanda alla croce uncinata, in origine inciso nello scudo cerimoniale di Filippo II, padre di Alessandro Magno. Il paradosso però lo si raggiunge quando la storia greca viene travisata per adattarla alle abiette teorie naziste. E così la democratica Atene cade nell’oblio, surclassata dall’oligarchica, bellicosa e virile Sparta. Alessandro Magno cessa di essere un condottiero saggio e moderato diventando piuttosto un guerriero truce e assetato di sangue. Un simile delirio aveva attratto un numero esiguo di sostenitori. Solo a maggio del 2012 il movimento, candidatosi alle elezioni politiche, è riuscito a stravolgere ogni pronostico, guadagnando un insperato 7% di consensi. A cosa si deve questo improvviso successo? Per comprenderlo occorre tener conto della drammatica situazione in cui versa la Grecia dal punto di vista economico e sociale. Al fine di scongiurare il rischio default finanziario, aggravato dalla pessima amministrazione della classe politica ellenica e dalle manovre speculative internazionali, l’UE
Le inchieste giornalistiche hanno rilevato invece aveva imposto ad Atene le tanto odiate misure di l’affinità che lega i militanti neonazisti ai membri austerity. Risultato? A farne le spese sono stati i delle forze dell’ordine. Peggio di così… o forse no. cittadini. t Subentra allora la disperazione, la sfiLe tensioni sono esplose ducia verso il sistema a seguito dell’omicidio e si chiede un radicale del rapper antifascista cambiamento. E qui Pavlos Fyssas, ucciso entra in gioco Alba Disoccupazione in un agguato da un Dorata. Settant’anni crescente, mense per i facinoroso di Alba Dodopo la fine del Terzo poveri affollate, persone rata. Il fatto ha destato Reich i nazisti tornascalpore nell’opinione no così a minacciare costrette ad elemosinare pubblica ellenica, il che il vecchio continente. per strada e a dormire ha indotto le istituzioni E la follia ha ripreso il ad adottare la linea dura. sopravvento e credenella propria auto. E Si è così giunti, il 28 temi, questa non è rebadate bene, parlo della settembre scorso, all’artorica. Cito in merito resto di Michaloliákos due episodi: il primo, Grecia, non del Terzo e dei suoi luogotenenti. quando due deputati Mondo. Contemporaneamente i del movimento estresondaggi elettorali hanmista hanno provato no registrato un crollo a penetrare nell’aula verticale di Alba Dorata. Probabilmente Nuova parlamentare con le pistole, appellandosi ai proDemocrazia, il partito moderato di centrodepri diritti in quanto rappresentanti del popolo; il stra, cui appartiene l’attuale premier Samaras, secondo, quando il partito ha deciso di costituire approfitta del clima da rappresaglia per elimiun’associazione di medici solo per cittadini greci nare il gruppo estremista al fine di recuperarne denominandola, ovviamente in antitesi con la fai voti; un’opportunità da capitalizzare per poter mosa Ong internazionale, “Medici con frontiere”. poi liquidare il fragile governo di unità nazionale A coronamento di questo squallido scenario trocon i socialisti del Pasok e tornare alle urne. Alba viamo le frequenti aggressioni perpetrate dalle caDorata è stata definitivamente sconfitta? Difficimicie nere. Vittime degli attacchi che stanno inle dirlo. Questa esperienza però deve comunque fiammando in questi mesi le città elleniche sono fungere da esempio; il rinnovamento della classe gli extracomunitari, il capro espiatorio perfetto su dirigente è necessario in una democrazia, diventa cui sfogare i propri impeti di rabbia e la propria anzi impellente in tempi di crisi, ma bisogna manfrustrazione. Del resto rubano i posti di lavoro ai tenere lucidità e obiettività nel proprio giudizio. greci oppure rubano e basta e allora bisogna riSpesso, invece, in preda allo sconforto e alla rassepristinare ordine e rigore. Peccato però che questi gnazione, siamo illusi da una figura carismatica, prodi si accaniscano solo contro passanti inermi che ci infonde un’apparente sicurezza e propoe innocenti. Di fronte a questa escalation di vione soluzioni fallaci ma immediate per problemi lenza si è levata la voce di chi intende combattere complessi e persistenti. La demagogia allora finipenalmente Alba Dorata. Ma chi dovrebbe provsce per prevalere sul buon senso. A questo punto vedervi nel caso? Magari la polizia? ci si chiede: quello di Alba Dorata è veramente un caso isolato oppure è un fenomeno in evoluzione? Basti guardare l’ascesa dell’estremista Front National in Francia per capire che il quadro complessivo purtroppo non è affatto roseo. Gianluca graziosi
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Viel Glück Europa Domenica 22 settembre 2013 a contendersi Bundestag e Bundersrat (Dieta e Consiglio federali) si sono sfidati i maggiori partiti politici della Repubblica Federale Parlamentare Tedesca. L’esito finale non ha tradito le previsioni che annunciavano una terza cancelleria nel segno di Angela “Angie” Merkel. Coalizzatasi con il gruppo conservatore, il partito della “das Mädchen”, l’Unione Cristiano Demo-
davanti ai colpevoli. Uno in particolare ha colpito l’opinione pubblica. Il caso risale allo scorso dicembre: una studentessa 23enne, aspirante medico, viene violentata ripetutamente in un autobus da cinque giovani, tutti sotto i 30 anni di cui uno minorenne, e gettata dal mezzo seminuda e in fin di vita. Morirà due settimane dopo in un ospedale di Singapore per la gravità delle ferite riportate. I quattro imputati sono stati condannati alla pena di morte mentre il quinto colpevole a tre anni di riformatorio, la pena massima per un minorenne. È il primo caso di condanna a morte per reati sessuali pronunciata dopo l’inasprimento delle pene introdotte dal governo indiano a seguito dei continui casi di violenza odierni. La domanda ora è se questi primi passi siano sufficienti per scuotere le coscienze e porre fine all’ondata di violenza che da tempo affligge l’India e non solo. C’è chi insinua che la risposta del governo indiano sia temporanea, avvenuta solo a causa delle forti pressioni della comunità internazionale, o chi, come l’organizzazione di Amnesty International, ritiene che la pena di morte non risolva affatto il problema della violenza sulle donne, essendo la stessa così radicata negli usi indiani. Una verità resta incontestabile: la legge cambia quando è la società a cambiare, e finché la violenza verrà tollerata nella mente e nelle azioni dei cittadini, ben poco potrà mutare nel quadro attuale. Alla ragazza che ha testimoniato con coraggio contro i suoi aguzzini è stato dato il nome di Nirbhaya (colei che non ha paura), per aver sfidato l’omertà del suo Paese e chiesto giustizia in un momento in cui ottenerla sembrava impossibile. Forse ogni donna dovrebbe portare con sé il nome Nirbhaya: ogni donna che alza la testa e denuncia le violenze subite, che per conto di un’altra sceglie di raccontare la sua storia o scende in piazza per offrire la sua solidarietà. Ogni donna che decide di tutelare i suoi diritti usando la sua voce, finché non ci sarà una legge a parlare per lei.
zioni è stato rappresentato dal partito Alternativa per la Germania, guidato i dal macro-economista Bernd Lucke, sostenitore dell’abolizione della moneta unica in favore di una specie di doppio euro. Uno per i paesi virtuosi del Nord e uno per i paesi del cosiddetto PIIGS (fra cui l’Italia), che verrebbero in pratica isolati in un ruolo marginale all’interno del mercato comune europeo, in poche parole “lasciati in balia delle onde”. Fortunatamente per l’Unione Europea, che comunque continua a sospendere il fiato per una delle tornate elettorali maggiormente incisive nel prosieguo delle riforme comunitarie, l’euroscetticismo di AFD è rimasto fuori dal Bundestag per colpa del meccanismo di correzione del sistema elettorale tedesco che sbarra il passaggio ai partiti al di sotto del 5% . Nonostante ciò i vertici dell’AFD hanno già dichiarato che non si ritireranno dalla loro lotta anti-europeista e si sono pronunciati con soddisfazione intorno al fatto che in meno di un anno il partito è riuscito comunque a guadagnare solo un decimo punto percentuale in meno dello storico partito Liberaldemocratico (vittima illustre delle scelte elettive con il 4,8% delle preferenze). Entrano nel “Bundestag 18.0”, oltre alla Merkel con i conservatori della cancelliera: la SPD, i Socialdemocratici con il 25,7%. Seguono, con seggi molto ridotti, i Verdi (al 8,4%) e la Sinistra Radicale (8,6%) che anche se si fosse alleata con la SPD non avrebbe trovato la maggioranza assoluta, a conferma di un notevole spostamento a destra del popolo tedesco. Inutile sottolineare che dalla composizione del nuovo governo tedesco dipenderanno in larga parte le sorti delle nuove riforme di allentamento dell’austerity presenti nei cassetti di Bruxelles e Francoforte. Nelle ultime settimane sembra perdere punti l’idea di una nuova Grande Coalizione fra CDU-CSU-SPD (Merkel -Steinbruck) che garantirebbe più flessibilità alla crisi dell’Eurozona, ma rappresenterebbe un fattore di incertezza per i mercati. D’altronde sono solo cinque i seggi che servirebbero ai democristiani-conservatori per la maggioranza assoluta nel Bundestag, in Italia sarebbe stato tutto risolvibile con il “Deputatomercato”. La possibilità di un mantenimento dello “Status Quo” è quindi l’ipotesi che viene letta come più papabile e darebbe migliore garanzia di stabilità per la crescita e il rinvigorimento dei mercati europei. Le somme, dunque, possono essere tirate solo in campo legislativo, perché per la Cancelleria, quindi l’Esecutivo, bisognerà attendere le intese che nasceranno da qui fino al 22 ottobre, in cui la Merkel scioglierà ogni dubbio sui suoi possibili alleati per ricercare quella certezza della maggioranza assoluta in Dieta Federale.
Jessica cimino
Valerio flavio ghizzoni
cratica, ha sbaragliato la concorrenza affermandosi, una manciata di giorni dopo che in Baviera, di gran lunga come la forza moderata con la più larga maggioranza in Europa. Mai come quest’anno l’interesse circa le sorti delle elezioni federali tedesche ha monopolizzato l’attenzione a livello europeo, e di riflesso anche in Italia. Il punto cruciale dell’interesse per l’esito delle ele-
Chiamatele “Nirbhaya” “La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere uguale”. William Shakespeare scrisse queste parole in un tempo in cui le disparità tra uomo e donna erano innumerevoli e accettate dalle convenzioni sociali. La storia le ha in parte superate, sebbene ci siano ancora angoli del mondo in cui le convezioni sociali hanno reso queste disuguaglianze immanenti. Esistono luoghi in cui lo stupro non è considerato un crimine all’interno del matrimonio, o è coperto dall’immunità giuridica nelle forze di sicurezza, dove la violenza fisica viene taciuta perché chi la subisce sa che la sua voce non verrebbe ascoltata dalle autorità e porterebbe solo vergogna alle proprie famiglie. È questa l’immagine dell’India che si accosta a quella del Paese leader delle tecnologie, della manodopera e della cultura millenaria, ma che d’altro canto sembra incapace di progredire con la stessa costanza nella tutela dei diritti umani, di cambiare la propria storia affinché le donne non debbano più nascondere il viso dalla luce della giustizia. I recenti casi di violenza hanno riportato l’attenzione sul trattamento delle donne in India e per la prima volta l’azione congiunta dello Stato e la forza delle proteste popolari sembrano segnare un mutamento decisivo nella risposta della legge
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Walk
Novembre 2013
L’albero magico del melograno Sono una ragazza viziata. Una ragazza occidentale e viziata che guarda attraverso le grate di una finestra. Morbosamente attratta da ciò che sta fuori. Di là. Oltre la strada. Le donne del Marocco devono essere le migliori osservatrici del mondo. Rifletto. Coltivano quest’arte giorno dopo giorno. Dietro ogni muro, dietro ogni casa, si nascondono decine di occhi, sguardi nero inchiostro, contornati dal khol. Se mai vi troverete a girovagare nelle stradine di una Mellah, o nel cuore labirintico di una medina, fermatevi un attimo e avrete modo di percepire la forza di quegli sguardi. Vi seguono, vi scrutano indagatori e non vi molleranno tanto facilmente. C’è una sorta di legge, di adagio dietro tutto questo. Se una donna velata, quando esce di casa, acconsente a diventare un’ombra nella sfera pubblica, dentro il suo piccolo mondo chiuso è una regina incontrastata. La casa è il luogo femminile per eccellenza, dove si accumulano teneramente parole, odori di spezie, amori, piccoli gesti della quotidianità. Ecco cosa ho imparato dopo quindici giorni nascosta come una vera marocchina nella campagna del Dakkala. Goditi le cose così come vengono. Direttamente dalle mani di Dio. Quando è il momento di ridere ridi, di mangiare mangia. E se devi stare in silenzio, taci. Ho scoperto di essere una ragazza viziata perché do per scontata la mia libertà. Da quando sono qui non faccio altro che girovagare come un’anima in pena su e giù per le stanze e i cortili. Spesso mi sento una prigioniera. Allora vado in terrazzo dove lo scirocco mi scompiglia i capelli. Mi porta con sé, via, lontano. Tra le cianfrusaglie luccicanti del quartiere Habous. Volando sopra i tetti per finire impigliata nel minareto della moschea di Hassan II, a Casablanca. Ma sono fantasie. Non posso uscire se non accompagnata, indossando la mia jellàba che ondeggia sfiorando il pavimento. “Sei matta”. Aicha mi guarda e agita la testa sconsolata. “Matta. Matta. Matta. Lo scirocco ti fa
capelli neri scintillanti di henne che spazzola per male, meglio se smetti di uscire là sopra. Siediti ore. Qui una ragazza deve fare presto se vuole qui. O pulisci la menta”. A pulire la menta sto un buon matrimonio: ha tempo fino ai ventun diventando un’esperta. L’odore verde e intenanni . Se sbaglia, addio. Quando la ragazza giuso mi riempie le mani. Aicha intanto mette su sta viene individuata comincia l’assedio. Bisogna il mukraj, l’enorme aggeggio in rame ed ottone che sia rispettabile e modesta. Sana e robusta. E per bollire il the, che bisogna sempre preparare poi bisogna cominciadavanti agli ospiti. re a pensare alla dote, Mohammed è ritornaa dove la futura copto dalla moschea poco Ecco cosa ho imparato pia vivrà. Cominciafa. È alto, scuro come no lunghe trattative, la notte. Schiaccia gli dopo quindici giorni come si farebbe con scarafaggi sotto i piedi nascosta come una un cammello. Si cerma si ferma, immobile ca di alzare la posta in rivolto alla Mecca, se vera marocchina nella gioco finché è ancora arriva un temporale. campagna del Dakkala. giovane e vergine. La Avverte il brontolio battaglia finisce di sodell’acqua nelle vibraGoditi le cose così come lito con una sconfitta zioni dell’aria. Lo vedi, vengono. Direttamente della famiglia di lei, in ascolto, in piedi sosfibrata dalle paura di dalle mani di Dio. pra la grossa roccia che non accasarla. E allora spunta da terra accanto Quando è il momento di ecco il suono del tamal forno per cuocere ridere ridi, di mangiare burello del corteo di il pane, solidamente nozze, i festeggiamenti piantato sul terreno, mangia. E se devi stare che possono durare una alla ricerca d’acqua, in silenzio, taci. settimana. Le danze e i come le piante. vestiti colorati. Finisce Esco in cortile ad actutto, in poco tempo. carezzare la cavalla. Si Comincia una nuova vita dove gli uomini hanno chiama Reveuse, Sognatrice. È bella e orgogliosa. il diritto alla libertà di movimento e sono, per Succhio una radice di sus, di liquirizia. Ha il sanatura, nomadi. Passano. Mentre le donne sono pore del legno e della corteccia. Nabila, la figlia colonne, ogni giorno un poco più grasse, un poco più piccola di ‘Aicha, mi segue. Il sole comincia più solenni. Sono lì, ferme e solide. Tengono in a tramontare e, ignorando l’avvertimento di sua piedi tutto il mondo. madre, saliamo sulla scaletta della terrazza. Sono “ Aicha come si chiama questo paese”. I luoghi irresistibilmente attratta dal cielo del Marocco. senza un nome non sono per davvero dei luoghi. È nudo, pulito, cade a perpendicolo sulle ciglia. Sono in attesa, in uno spazio anonimo, indeterLì su, in alto, abbiamo una finestra sui campi dei minato. Lei mi guarda perplessa. “ Intendi Khodintorni. È come un salotto con un soffitto celeribga?”. ste per tetto, ma ben protetto dal resto del mon“No, no. Intendo queste case sparse e la campado. E, di notte, si illumina della luce di centinaia gna intorno fino alla moschea.” Ribatto io.‘Aicha di stelle. arriccia le labbra, sta pensando. Poi si illumina Nabila ama guardarsi e farsi guardare. Ha lunghi all’improvviso e ridendo mi dice: “Ahhh! Adesso ho capito cosa vuoi sapere! Chiamiamo questi luoghi - la terra dell’albero magico del melograno.” Ora capisco molte più cose. Mentre Amin mi corre tra le gambe, cercando di farmi inciampare, guardo i dintorni di terra rossa e polvere, proprio davanti al grande albero di melograno. Il sole, rosso, sprofonda al di là dell’orizzonte. È tempo di prepararsi alla notte. C’è odore di lino, di fumo e di fango. L’odore di un altro giorno che muore. Eppure, penso, non sono affatto triste. I globuli spaccati dei frutti del melograno ondeggiano dolcemente. Lontana da casa, quest’estate sembra non finire mai, sospesa nel nulla, tra mulinelli di polvere e covoni di grano. Martina Zago
Cogitanda
Quando non passa l’autobus... E arrivi tardi, o sei in anticipo, e allora passa sicuramente. Quando non ti accorgi dei minuti che scorrono e sei felice di pensare, ma poi lo vedi ar-
rivare pesante e gonfio di ritardatari: ti prepari alla battaglia. Quando “perché ci mette cosi tanto?”, e ca-pisci che gli amici sono quelli che ti aspettano;
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quando piove e odi il mondo, ma se viene offerto uno spicchio di ombrello ti scappa un sorriso. Quando l’autobus non passa e sembra che questo rappresenti esattamente come ti senti, esattamente come vanno tutte le cose. Buona lettura. Eleonora Pintore
La doccia fredda Dieci minuti alle otto. Venti minuti all’inizio delle lezioni di quel professore che sai già che a quella puntualità ci tiene tanto. Ci vede un riflesso di affidabilità per il futuro, di rispetto verso il lavoro, di maturità. Io invece l’unico riflesso che vedo stamattina è quello dell’acqua della doccia fredda, dello zucchero finito e del caffè che ho dovuto bere amaro. Sette minuti alle otto. Le converse in tela non sono state una grande idea, considerando che inizia a piovere. Due scelte: salire a casa a prendere l’ombrello e rischiare di perdere l’autobus, o rassegnarmi a subire l’acquazzone, fiduciosa che l’attesa duri ancora poco. Cinque minuti alle otto. Inizio la giornata come un piccolo Calimero fra-dicio e infreddolito, domandandomi perché la ragazza affianco a me, dai lunghi capelli biondi bagnati, sembra appena uscita dal film di Spiderman, mentre io dalla lavatrice. Quattro minuti alle otto. Allora, lezione fino alle due e mezzo, poi un’ora di lingue, poi
un bicchiere di vino con gli altri. Forse dovrei iniziare a cer-care la concentrazione per studiare. Gli esami non sono lontani e prima di ricominciare a studiare devo almeno ritrovare la concen-trazione per farlo. E soprattutto la voglia. Tre minuti alle otto. Terribile, terribile attesa. Spazio ai pensieri, alla mente che non si ferma, quella mente che la notte va cosi lontano da non farmi dormire, che in soli 7 minuti è capace di toccare ogni tipo di pen-siero, senza al contempo mollare quella fastidiosa ansia dell’..attesa. Attesa bagnata, sempre più simile al pensatoio della doccia serale in cui sfoghi tutti i pensieri, in cui rifletti sotto il getto dell’acqua, quasi lavando via le preoccupazioni. SI, consi-derando che sta diluviando l’analogia con la doccia serale mi sembra più che azzeccata. Le otto. Buongiorno mondo, io vado a piedi. Alice Tomasi
Gustatevi l’attesa Un messaggio, un bacio, un abbraccio, una chiamata, il giorno del proprio compleanno, Natale, un treno, un autobus, l’apertura del gate. Magari un arrivo, forse una partenza. Qualsiasi cosa voi stiate aspettando, sappiate che lo state facendo con la benedizione di John Keats. Giovane poeta inglese dell’Ottocento, Keats cele-bra il mistero e inneggia all’ambiguità, invitando tutti ad abbrac-ciare l’incertezza e a farsi travolgere dalla bellezza del dubbio. In-capsulando il concetto appena citato nella definizione letteraria negative capability, aspettare diventa, così, la culla di una felicità fatta di febbricitante desiderio e adrenalinica tensione, una sorta di malinconia allegra. La vera festa inizia dai preparativi, quando si appendono i palloncini e si stappa la prima bottiglia in attesa degli invitati; il viaggio comincia nel momento in cui le valigie sdraiate sul pavimento vengono riempite con vestiti e aspettative: l’attesa del piacere è, essa stessa, piacere. Su di un’urna greca, di cui Keats canta in una delle sue poesie (‘Ode to a Grecian Urn’), due giovani innamorati si guardano dolcemente, quasi sul punto di darsi un bacio. Eccola, la felicità eterna, la negative capability fossilizzata su creta: un bacio desiderato,
Quando l’autobus non passa, Luca Stendardi fotografa. ma non dato. I due tre-pideranno, si affanneranno e ameranno per sempre, ‘condannati’ all’attesa infinita - labbra che si cercano per sempre perché non si trovano mai. ‘Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter’: la soddisfazione conseguente alla realizzazione del de-siderio viene schiacciata e sconfitta, se comparata alla trepidazio-ne che caratterizza la sua attesa, perché solo quest’ultima scuote l’anima, vive di fantasia e non cede possibilità di esistere alle de-lusioni. Non c’è spazio per finali disneyani: solo l’inappagato ri-mane affascinante. Gustatevi l’attesa: quei minuti interminabili che ogni mattina pas-siamo alla fermata dell’autobus sono la parte della nostra giornata che il signor Keats sceglierebbe di immortalare in una delle sue poesie. Certo, Keats era inglese e, probabilmente, non ha mai dovuto aspettare un autobus (o carrozza che fosse) per un tempo più lungo di quello previsto dalla tabella oraria. Beckett, forse, ne sapeva qualcosa in più dell’Atac e del suo ritardo cronico, non a caso scrisse ‘Waiting for Godot’. Ma questa è un’altra storia. Laura Montemitro
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Cogitanda
Novembre 2013
Il 60 del mattino A Roma c’è un’aria fresca la mattina. Una brezza leggera che ti sveglia bruscamente dai postumi di una levataccia. Alle sette e mezzo è sempre un via vai di gente, di auto, di motociclisti senza casco. Dopo un po’ ci fai l’abitudine, il caos della Capitale sem-bra solo il sottofondo musicale di una città in eterno movimento. Ma per uno studente, per lo più fuori sede, tutto questo rumo-reggiare ha qualcosa di speciale. Ecco. Un autobus sfila lento, seguendo diligentemente le linee bianche di percorrenza. Si sale. Anzi, a Roma si corre, si salta e se la situazione lo richiede si spintona anche un po’. Il 60 delle sette e trenta della mattina è il campo di battaglia per chi non vuole più aspettare alla piazzola di sosta. Le porte si stanno per chiudere, a fatica, si riaprono. E chi è schiacciato contro il vetro deve spostare la borsa, la valigetta; si fa piccolo piccolo. Si parte. Il viaggio da una fermata all’altra ac-comuna tutti passeggeri. Persone che non si incontreranno mai più nella loro vita. Ognuno con la propria storia, il loro
bagaglio di esperienza, di sogni realizzati e ancora da realizzare. Provoca un fastidioso prurito al cuore, pensare che in uno spazio piccolo ci siano così tante persone: donne e uomini che vanno a lavorare, ragazzi con i loro zainetti Eastpak, universitari che si reggono a fatica sui maniglioni di emergenza e la testa piegata da un lato perché rimpiange il caldo del cuscino. Ognuno di loro è diverso dall’altro, ma tutti condividono una sola cosa: il viaggio. Mi piace immergermi nelle vite altrui. Ascoltare brani di conversazione al telefono, immaginare la canzone che quel ragazzo sta ascoltando a tutto volume con le sue cuffie e scoprire, con un misto di stu-pore e felicità, che è la stessa che stai canticchiando sottovoce anche tu in quel momento. Pigiati, come sardine. Il bus sobbalza, si ferma e sembra che la forza di gravità si sia invertita. Riparte. Le porte si riaprono, nuova fermata. Altre persone in arrivo. So-no queste cose così stupide e banali ad essere importanti. I più piccoli gesti sono quelli che ci danno la for-
za per essere felici, che magari ti fanno scappare un sorriso. Quello che mi piace degli autobus è il tuffo, il salto. E sprofon-dare nelle moltitudini della vita. Silvia Garzia
Aspettare l’autobus è un’avventura È ciò che dichiara Eleonora, una mia amica che abita a Roma da sempre, quando mi dice che non riesce a immaginare il suo tran tran giornaliero senza l’attesa ansiosa per quel mezzo sporco e rumoroso che la fa arrivare in ritardo a molti appuntamenti ogni giorno. Sebbene si dichiari ormai abituata e pronta a tutto, le capita spesso di parlarmi nuovamente del tempo trascorso invano alla fermata, delle docce di pioggia causate dallo sfrenare brusco del mezzo in presenza di pozzanghere, degli insulti urlati contro il conducente che non si ferma, anche se non lo hai chiamato. Da fuori sede e abituata perlopiù a vivere in un paesino con 30.000 abitanti in cui ti muovi al massimo in bicicletta, mi sono ritrovata catapultata in una zona dove l’attesa dell’autobus si rivela inevitabilmente parte della mia routine quotidiana. La mia avventura inizia a diversi orari del giorno, in base all’orario delle lezioni all’Università o relativamente agli impegni del fine settimana. Appena arrivata alla fermata è abitudine guardare a lungo in fondo alla strada nella speranza che l’autobus sia già lì, che ti stia venendo incontro. Non accade spesso, ma può succedere, ed è in quel momento che sai dentro di te che la giornata è iniziata nei migliore dei modi. Ogni avventura che si rispetti ha poi i suoi ostacoli. La pioggia, per esempio, che rallenta come una sorta di “Domino” ogni singolo mezzo della Capitale, facendo crescere, dall’altro lato la tua ansia e frustrazione causate da un’attesa che sembra infinita. “Dove ho sba-
Tutti hanno lo stesso pensiero per la testa, quello stesso che ho anch’io: raggiungere la meta, nonostante tutto gliato?” - ti chiedi - “nel puntare la sveglia troppo tardi? Nella durata eccessiva della colazione? Della doccia? - o addirittura - “Del mio scendere le scale?”. Aspettare l’autobus è un’avventura che si rivela occasione di ritrovo e incontri: ti rechi alla fermata e rivedi quella signora con in mano le buste per la spesa o l’uomo elegante con la valigetta che ogni mattina arriva intorno alle sette e si lamenta ad alta voce sbottando che farà tardi al lavoro, o magari ancora quel bel ragazzo che da qualche giorno prende il tuo stesso autobus e ti rivolge sempre un sorriso rassegnato. Una cosa è certa, la capisci dai loro sguardi: tutti hanno lo stesso pensiero per la testa, quello stesso che ho anch’io: raggiungere la meta, nonostante tutto. E col tempo ho capito quello che voleva dire Eleonora: aspettare l’autobus è davvero un’avventura imprevedibile, un microcosmo di vite che inevitabilmente e silenziosamente si intrecciano nel momento dell’attesa. Mariaelena Agostini
Narrami, oh Autobus, del prode Studente Lo studente universitario medio, nella costante ricerca di una giornata di 48 ore, pensa con orrore (a maggior ragione se, come me, fa parte dei ritardatari cronici) alle attese alla fermata dell’autobus. In questo viaggio in cui, un po’ alla maniera di Odisseo, sappiamo quando partiamo ma non sappiamo quando arriveremo, siamo solitamente accompagnati dalla musica e, con la giusta colonna sonora, il nostro tragitto può assumere tonalità quasi epiche. Il viaggio si presenta ricco di peripezie: il posto a sedere è utopia, gli autisti sembrano sfidare le leggi fisiche. In questi momenti di tensione emotiva ci capita di incrociare lo sguardo di un altro passeggero, cogliendovi un’inaspettata com-prensione e sentendoci uniti a quello da un profondo legame so-lidarietà temporanea. Giungiamo infine alla fermata, stanchi e provati, pronti a raccontare la nostra esperienza a chi ci aspetta, degni quasi di essere annoverati tra gli autori della tradizione odeporica. Giulia Moroni
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Quando un’attesa diventa riflessione Il secondo autobus, il primo l’ho perso, sfrecciato davanti incurante dello scatto olimpionico che ho fatto per tentare di salire a bordo. Arrivo sempre tardi. Ogni volta con mille scuse ma la colpa è solo mia, altro che. Sono piena di
agende, foglietti, post-it, e questo sia perché nonostante la tenera età, concorro con mio nonno in quanto a carenza di memoria, sia perché rappresentano il vano tentativo di riuscire a gestire il mio caos: il loro numero è infatti proporzionale alla mia confusione mentale. Tra le cose che scordo c’è il tempo. Riemerge quasi sempre troppo tardi. O troppo presto. È il mentre a fregarmi. È l’intervallo di tempo tra le 7 e 40 e le undici meno dieci, quando trafelata imbocco il portone convinta di evitare l’ennesimo ritardo e invece ogni volta è una benedizione riuscire a non volare per le scale. Mi perdo. Mi perdo perché vorrei fare tutto, vorrei leggere quel libro, vorrei sistemare gli appunti però ora che ci penso... e finisco sistematicamente con la metà delle voci
cancellate sull’agenda e un pesante senso di insoddisfazione. Nulla, però, è definitivo a quest’età e allora eccomi, a questa fermata poeticamente trasformata a prendere in mano la situazione una volta per tutte, a lasciarmi alle spalle insicurezze e dubbi cercando di accettarmi per quella che sono, a riappacificarmi. Cinque minuti più tardi suona la sveglia, e ho più chiarezza nella mia (finta) testolina bionda, pragmatismo e concretezza. Tra un post-it e l’altro, uno vuoto, a ricordarmi che non sempre si può avere il controllo della situazione o sapere come si evolveranno le cose. Bisogna imparare a vivere e a godere anche delle incognite che un destino ancora tutto da scrivere, vivere (organizzare) può regalare. Lucrezia Fortuna
Aspettiamo tutti e tutti aspettano
Meet me on the bus La fermata dell’autobus è uno di quei pochi posti al mondo in cui le barriere dell’estraneità sono un po’ più sottili. Sarà per il nemico comune (l’autista di quel maledetto bus che non arriva mai), sarà perché siamo tutti lì a congelarci e maledire i mezzi da quelle che sembrano ore, che una battuta a quel poveraccio che sta aspettando accanto a te viene più facile. Niente di trascendentale, intendiamoci, solo due chiacchiere con qualcuno che non incontrerai mai più, dal signore distinto che ti porge l’ombrello alla ragazza che sta leggendo il tuo stesso libro. Per quanto si tratti del gesto più semplice e banale, è proprio nella sua casualità che ti colpisce con tutta una serie di “e se”. E se quella ragazza fosse stata mia sorella, o il signore il mio vicino di casa, sarei diversa? Migliore, peggiore, o sempre la me stessa di adesso? Ma la fermata dell’autobus non è un punto di arrivo, solo un crocevia di vite. Una parola, un sorriso e un addio veloce a pochi secondi dal ciao. Xristina Mertiris
La fermata dell’autobus è il luogo ideale in cui osservare ciò che ti circonda. Se ne vedono di ogni genere: capita di assistere a un gruppo di ragazzine che si diverte a intonare un coretto senza riuscirci, c’è chi aspetta di arrivare alla fermata per ascoltare finalmente un po’ di musica e quindi cuffie alle orecchie e parte il viaggio magari muovendo qualche passo a tempo di note sconosciute a tutti gli altri. Capita poi di incontrare il simpatico signore con la fisarmonica che ogni mattina cerca di allietare lavoratori e studenti. Non è in attesa dell’autobus, lui. Aspetta un autobus, uno qualsiasi. Ci si trova di fronte a chi, immerso in un libro, non sembra accorgersi di ciò che accade intorno e magari quando l’autobus arriverà alla sua fermata non se ne accorgerà. Chi legge i giornali, al contrario, rimane ben legato alla realtà. Alle fermate dell’autobus è così: si aspetta per qualche minuto , a volte qualche ora, si attende, ci si sporge dal marciapiede guardando all’orizzonte fin dove lo sguardo lo permette. Così è la vita: si passano ore, giorni, mesi o forse anni ad aspettare una proposta, un’occasione, la fatidica “persona giusta”; si rimane lì in attesa, con tante speranze che spingono a “sporgersi dal marciapiede” ed è allora, quando riusciamo a scorgere cosa si prospetta all’orizzonte, che si definisce tutto, che cambiano le giornate. La vita non dipende solo da ciò che facciamo: si può arrivare alla fermata dell’autobus in anticipo ma l’autobus arriverà troppo tardi, o uscire di casa all’ultimo minuto e trovarlo già alla fermata che aspetta; l’attesa, e quello che può riservare, non dipende esclusivamente dalle nostre decisioni. Nonostante tutto, per quanto la sola idea dell’at-
Oggi mi chiedo: cosa vale la pena aspettare? tesa possa essere snervante, bisogna ricordare che molto spesso essa è più interessante del tragitto, sempre che ci sia qualcosa per cui valga la pena aspettare. Oggi mi chiedo: cosa vale la pena aspettare? Carla De Benedictis
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Caffè Con...
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Caffè con Luigi Serra Vice Presidente Esecutivo LUISS Da Vice Presidente LUISS nell’ultimo triennio a Vice Presidente Esecutivo per il prossimo. In cosa consiste il Suo nuovo incarico, su quali aspetti dell’Università sarà focalizzato maggiormente il Suo impegno d’ora in avanti e con quali obiettivi? Non è stato un cambiamento drastico, ero nel Comitato Esecutivo e lo sono ancora. Subentro all’amico Alessandro Laterza, imprenditore di grande cultura e sensibilità, con il desiderio di continuare a far crescere i punti di forza della LUISS Guido Carli. Vengo da un ambiente dinamico come quello offerto da Confindustria, in cui sono Presidente di Sfc - Sistemi Formativi Confindustria, la formazione degli imprenditori - e ho trovato in LUISS un ambiente altrettanto valido e stimolante. Ho la fortuna di rispondere alla Presidente Marcegaglia, che ha fatto grandi cose anche in Confindustria, e di collaborare con il neo Direttore Generale Giovanni Lo Storto, giovane, energico e competente, mosso da una sincera passione verso l’Ateneo; con la Vice Presidente Barbara Poggiali, dotata di skills
notevoli e dalla formazione internazionale; con un Rettore di grande prestigio, che guida un’Accademia di docenti di livello Mi ritengo infine molto fortunato per il fatto di potermi rivolgere ad una platea di studenti come voi, la nostra vera risorsa. Mi impegno per dare un contributo all’evoluzione dell’Università – e quindi della nostra Società - anche promuovendo modalità di pensiero basate soprattutto su responsabilità e coerenza. Durante la Reunion 2012 organizzata da ALL per gli ex studenti LUISS, Lei ha parlato del concetto di felicità e in particolare dell’impegno a un personale percorso verso la felicità. Partendo da una realtà come quella offerta dal nostro ateneo, in che modo consiglia a noi studenti di tracciare questo cammino? La felicità ha molti aspetti ma è un cammino che si intraprende insieme, un obiettivo comune. La si può raggiungere facendo confluire l’impegno e la passione individuale in un arricchimento condiviso, un percorso in cui la realizzazione del sin-
golo comporti il successo della collettività. Parlo di felicità perché voglio reagire all’atteggiamento di un’Italia in crisi che sembra incapace di risollevarsi e in cui troppe volte si respira aria di rassegnazione. Cerco di creare uno spirito positivo, propositivo, che lasci emergere una grande volontà di crescere. La LUISS Guido Carli è di prezioso aiuto in questo senso perché è un ambiente stimolante e animato da vivo dinamismo. Voi studenti siete spesso impegnati in attività che esulano dal piano di studi - penso a giornali, radio, tv, associazioni - e questo desiderio di mettersi in gioco è la vera forza motrice in cui credo. Ho grande fiducia nella vostra originalità e nella determinazione che dimostrate nel volervi realizzare. Vi chiedo, quindi, di aiutarmi nell’intento di riprendere le redini della nostra realtà, cancellando lo spirito di chiusura e di inerzia sterile di alcuni per lasciare spazio alla professionalità, all’innovazione, alla creatività, al merito.
Caffè con Barbara Poggiali Vice Presidente LUISS
Sempre più spesso si parla di disoccupazione tra i giovani e mancanza di opportunità. Forse altrettanto spesso, però, molti studenti, pur essendo in procinto di terminare un corso di studi, non hanno le idee chiare sul proprio futuro professionale, non sanno definire in maniera chiara i contorni di un obiettivo post-lauream. Il Placement Office LUISS offre a tal proposito un servizio prezioso. In che modo esso funge da guida e supporto per noi studenti e quali sono le sue prospettive di sviluppo? Il disorientamento degli studenti mi preoccupa molto. Il Career Services Office, a questo proposito, è un servizio molto utile, se pur non obbligatorio, in quanto svolge la funzione di orientare gli studenti in base alle skills che ognuno possiede. In particolare, offre una serie di opportunità indirizzate prevalentemente a studenti dell’ultimo anno di un corso di laurea magistrale o a ciclo unico ma riserva anche piccole attività a studenti dell’ultimo anno di un corso di laurea triennale. Si tratta di attività di assessment, che consentono di esaminare le qualità individuali e di orientare verso determinate funzioni aziendali o aree professionali; seminari per imparare a scrivere un curriculum adatto alle singole esigenze o a sostenere
un colloquio di lavoro; incontri individuali con senior manager per chiedere consigli sui percorsi professionali. Sono passi ben rilevanti per riuscire ad affrontare il mondo professionale. Ulteriore punto di forza del Placement è il suo rapporto con aziende, istituzioni o studi professionali, oltre all’ottimo rapporto sviluppato con ALL, in base al quale può svolgere il ruolo di “osservatore” sulle possibilità di stage e, mettendole a disposizione degli studenti, può favorire l’ingresso nel mondo del lavoro. Il mio consiglio è quello di informarvi sempre sulle opportunità offerte da questo servizio, molto prima dell’avvicinarsi della laurea, e di cogliere quelle che più si addicono alle vostre esigenze: il Placement Office è una finestra preziosa su una panorama purtroppo complesso. La LUISS gode di un ottimo posizionamento a livello internazionale. Quali sono le possibilità che l’Università offre a noi studenti al fine di interagire con gli altri Paesi e in che modo potremmo far fruttare a pieno tali opportunità? La prima possibilità offerta dalla LUISS è il progetto Erasmus che, insieme agli scambi bilaterali, coinvolge ogni anno centinaia di studenti. La
LUISS offre ai propri studenti ulteriori opportunità di studio in prestigiose Università all’estero, oltre ai tradizionali programmi di scambio. Tali programmi offrono agli studenti un’opportunità unica di internazionalizzare il proprio curriculum e affrontare un’esperienza stimolante in un diverso contesto culturale e universitario, ampliando i propri orizzonti accademici e personali. L’adesione è sempre molto alta perché avete ben compreso che un’esperienza all’estero può arricchire dal punto di vista personale e professionale e contribuisce, inoltre, a migliorare la conoscenza di altre lingue, requisito ormai fondamentale per il futuro lavorativo. Il mondo occupazionale, tuttavia, è così variegato ed esigente che sorge la necessità di diversificare le esperienze. Il nostro ateneo, a tal proposito, è ben collegato con le Università, le aziende e le istituzioni di molti altri Paesi e offre la possibilità di condurre la ricerca tesi all’estero o di effettuare uno stage al di fuori dei confini italiani. Quello che posso suggerire a voi studenti è di mettervi completamente in gioco vivendo esperienze anche molto diverse le une dalle altre: ognuna di esse potrà aiutarvi a crescere e si rivelerà utile nel percorso che traccerete. Giulia Perrone
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Caffè con Laura Boldrini Presidente della Camera dei Deputati
È l’ultima giornata del Festival del Diritto, piove leggermente su Piacenza. Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, sorride nel suo tipico tailleur scuro. Buongiorno, Presidente. Ponendo l’accento su quelli che sono i temi di cui più spesso si fa portavoce, dal femminicidio all’omofobia, come crede che si possa realmente sensibilizzare il cittadino su questi argomenti, evitando la becera politicizzazione? Bisogna coinvolgere voi giovani in quello che si sta facendo. La scuola dovrebbe iniziare a trattare tematiche importanti in un percorso di Educazione Civica: questa tipologia d’informazione prescinde dagli insegnanti, che in non poche circostanze rappresentano un baluardo di legalità. Bisogna insegnare il rispetto per le Istituzioni e, soprattutto, per le diversità. Ogni differenza deve essere compresa e accolta in un confronto senza vittime o carnefici, senza la paura dell’altro. Essa è un valore aggiunto, bel lontano dall’avere pregiudizi. La conoscenza e il rispetto sono alla base della convivenza civile: chi non conosce ha paura e intende l’altro come nemico. Perché c’è tutto questo scontento tra i cittadini, che si dicono ormai poco rappresentati dalla classe dirigente? Non ho una lunga esperienza politica, vengo dalla
società civile. Anche io sono stata delusa e indignata da questa politica, per questo ho scelto di mettermi in gioco. Abbiamo bisogno di una politica più umile, che deve far tesoro delle richieste dei cittadini e tradurle in qualcosa di concreto. Il politico deve stare in mezzo alle persone con piacere e coinvolgimento e fare propri i principi ed i valori che fanno della politica una cosa nobile, perseguendo cioè il bene comune. Esiste, dunque, una via d’uscita, una soluzione a questa partecipazione politica del cittadino ormai ridotta a pura critica e indignazione? Bisogna dire no al cinismo, cioè quella dimensione arida che non consente una visione globale e veritiera del contesto in cui viviamo. Bisogna rilanciare i pensatori, dare spazio ai giovani e riavvicinare i cittadini alla politica. Bisogna stare attenti perché non sempre la verità presentata consiste nel Vero. Per questo ci si deve porre delle domande, leggere, non accontentarsi delle informazioni di cui ci bombarda la tv, informarsi su internet.. La stampa, non a caso, viene definita la “guardia del potere”: svolge un ruolo fondamentale nel sistema democratico, purché sia libera, non condizionata dal potere e dagli interessi economici. Abbiamo a disposizione numerose fonti di informazioni e non si può non sfruttare questa opportunità: si deve esercitare il diritto di avere senso critico.
Molto spesso, però, la sfiducia del giovane nella politica è il risultato di un sistema che non assicura più uno sbocco lavorativo e non offre alcuna prospettiva futura… Il Presidente della Camera, come si sa, è un ruolo non esecutivo, ma sono la prima a ritenere che l’universo giovanile sia fondamentale. Voglio essere positiva: spero davvero che i cervelli “scappati” torneranno e i progetti delle giovani menti potranno essere attuati. Si deve dare valore alla risorsa giovanile, perché un Paese che non investe nei giovani è un Paese senza futuro. Attualmente il successo di un ragazzo si basa più che altro sulla fortuna: questo non è ammissibile. Le banche devono tornare a fare il proprio lavoro, devono tornare a rischiare e finanziare progetti e sogni dei più giovani, così come il Paese deve essere capace di cogliere le opportunità che proprio questi sogni e progetti rappresentano per la propria crescita.
Caffè con Geminiello Preterossi
Docente di Filosofia del Diritto e Storia delle dottrine politiche nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Salerno Professor Preterossi, nella sua conferenza durante il Festival del Diritto ci ha parlato dei problemi che affliggono la democrazia, sottolineando come sia sempre meglio accettare la sfida della democrazia piuttosto che cedere il potere ad altri sistemi. Come si colloca, in questa tematica, lo sviluppo del fenomeno populista all’interno della scena politica italiana? Il populismo è sintomo di qualcosa che non riesce a esprimersi o trovare spazio. Una volta i grandi partiti di massa organizzavano e costruivano il popolo, facendo pedagogia politica. Oggi le risorse sono venute meno, lo spazio delle decisioni si è spostato a livello sovrastatale, sono nate ideologie non ideologiche (lo stato di necessità e il ruolo dei mercati sono concetti assunti acriticamente
da tutti), con un conseguente svuotamento della politica. Il populismo è una formazione reattiva, la compensazione di un vuoto di egemonia della politica, intesa come capacità della politica di direzione. Non mi sento di condannare il populismo o stigmatizzarlo. Certo, non la soluzione, poiché rischia di condurre a un sistema differente da quello democratico, ma è rivelatore di un problema: si deve riattivare una partecipazione dal basso, un sentirsi in connessione l’uno con l’altro in uno spazio pubblico. Non è pericolosa la diffusione di questo nuovo modo di far politica? Non tutti i partiti sono populisti e non tutti i populismi sono uguali. In Italia, così come in Ame-
rica, si tratta di populismo che nasce come idea di democrazia radicale: non viene al mondo, quindi, come concetto antidemocratico. In Sud America, invece, si ha un populismo strettamente legato alla figura del capo, del leader plebiscitario: lì c’è un cortocircuito pericoloso. Bisogna, quindi, distinguere i populismi e soffermarsi, principalmente, sul problema di cui sono rivelatori. Capire il populismo e la sua origine, fare proprie alcune istanze che lo stesso propone, aiuterebbe a ridurlo. È chiaro che, invece, rinchiudersi in una fortezza con bon ton istituzionale, una fortezza sorda, non fa altro che accrescerlo. Laura Montemitro
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PalinTesto
Novembre 2013
Ogni mattina a Jenin
Il ritorno di una palestinese alla Palestina Susan Abulhawa è una donna palestinese il cui destino si è separato da quello delle guerre che hanno insanguinato il suo paese quando era ancora molto giovane. Brillante studentessa, trascorse i primi anni della sua vita in un orfanotrofio di Gerusalemme e poi si trasferì negli Stati Uniti, dove si laureò in biologia. Cresciuta con l’aria limpida e pulita della Carolina del Sud, la scrittrice ha sentito l’eco dei bombardamenti per tutta la vita. Nonostante la si potesse definire americana, Susan Abulhawa era nata dal ventre della guerra dei sei giorni. Fu per questo che decise di andare a Jenin, un campo profughi in Palestina noto per i suoi eterni massacri. Tornata negli Stati Uniti, perse il lavoro e iniziò a scrivere un libro. “Mi sono innamorata dei miei personaggi e a un certo punto sono stati loro a raccontarmi la storia” dice l’autrice. È così che prende forma il romanzo avente per protagonisti tre fratelli: Isma’il, Yussef ed Amal. Isma’il viene separato da sua madre alla nascita e cresciuto come un soldato di Israele. Amal racconta del primo incontro con il fratello ritrovato, dell’esplosione emotiva che significò vederlo combattere contro i palestinesi, dell’amore imperativo al quale alla fine si arrese. La storia di questi tre fratelli, dei loro genitori, delle loro mogli e dei loro figli è segnata da tutte le guerre che hanno visto gli arabi e gli israeliani portarsi via ogni cosa. Il dolore della Palestina cresce come in un climax ad ogni pagina. Monta, si struttura, si colma d’odio, si rafforza. La stanchezza di una terra privata dei propri alberi, delle proprie case, dei propri profumi è qualcosa che poteva essere raccontato solo da una palestinese. “Non ho mai visto tanta disumanità come a Jenin. Non ho mai assistito al tipo di amore che le persone si dimostravano a Jenin” scrive l’autrice. La storia della famiglia Abulheja ha inizio nel 1948 con l’espatrio forzato da ‘Ain Hod ed il trasferimento nel campo profughi di Jenin. Sarà in mezzo a case di paglia e poco altro che nasceranno famiglie intere. Il tutto senza mai superare quel piccolo lembo di terra ogni giorno più gonfio di profughi e disperazione. Il tutto coltivando
con cura il sogno di un ritorno alle proprie case, nel frattempo trasformatesi in trincee di guerra per israeliani. L’amore di Jenin resta soffocato e oppresso dalla fame di conquista, dalle torture, dalle umiliazioni. Si fa sempre più piccolo, cerca di non farsi trovare dall’ira israeliana e di lenire quella araba. Amal - protagonista del libro che presenta tratti di marcata somiglianza con la vita dell’autrice - nasce a Jenin e si trasferisce negli Stati Uniti nella tarda adolescenza. In questa terra libera dalle guerre e dalle oppressioni ella non si sentirà più la stessa e farà fatica a ricostruire una
nuova identità. La vita della ragazza appartiene alla Palestina, per questo decide di tornare. Ma gli scenari si fanno sempre più tragici. Yussef perde sua moglie Fatima, Amal perde suo marito Majid. La guerra non si sazia mai. Restano due grandi amori: quello di Amal per suo fratello Isma’il e per sua figlia Sara. I superstiti di questo massacro provano a ricostruire un futuro senza dimenticare la terra che li ha ospitati per anni. È la stessa scelta fatta dall’autrice per la propria vita: non dimenticare l’amore di Jenin.
La forza della ragione
Oriana Fallaci racconta la sua verità
Qualche anno fa, Rai Tre trasmise uno spettacolo di Sabina Guzzanti. La donna portava un elmetto in testa e, attorniata da applausi impudichi, imitava Oriana Fallaci. La sentii ironizzare sul cancro che stava lentamente spegnendo la scrittrice, parlare di Alekos Panagulis - storico amore della Fallaci - senza alcun rispetto. Le diede della psicotica, della guerrafondaia, della hitleriana. Quella notte, dall’altro capo del mondo, anche Oriana Fallaci assisteva a quello spettacolo iracondo. La scrittrice fiorentina rispose con una sola frase: “Occorre recuperare la forza della ragione”. Negli stessi anni nacquero due blog, i cui nomi esprimono con sufficiente eloquenza quali fossero le due opposte tendenze che infuocarono la stampa: “Thank you Oriana” e “Fuck you Fallaci”. Il motivo di questa guerra ideologica sta tutto nei due scritti politici firmati dalla Fallaci dopo l’11 settembre 2001: “La rabbia e l’orgoglio” e “La forza della ragione”. Il perché io vi consigli queste letture è molto semplice: la sua penna seduce chiunque abbia il coraggio di mettere da parte i pregiudizi. Tanto mi basta per inserire nel nostro PalinTesto “La forza della ragione”. In questo testamento d’odio, Oriana risponde alle critiche mosse da intellettuali di tutto il mondo con la stessa vivacità intellettiva che l’aveva caratterizzata da giornalista. Giunta malata alla sera della vita, la fiorentina non si è mai arresa all’indifferenza dei più. Paragonando la propria storia a quella di Mastro Cecco che nel 1328 fu mandato al rogo a causa del contenuto rivoluzionario di un suo scritto, l’autrice racconta della storia d’Europa e della sua “islamizzazione”. Il filo rosso seguito dalla Fallaci è uno solo: la paura. La paura che impedisce di guardare ai fatti storici con onestà intellettuale e inebetisce le menti, rendendole
poco reattive al cambiamento. La stessa paura che impedisce all’occidente di difendere fiero le proprie diversità, di divincolarsi dalla stretta degli assolutismi, di salvaguardare tutto ciò che di liberale c’è stato nella sua storia. Quello della Fallaci è un appello a non morire. È una vibrante richiesta di aiuto a tutti coloro che hanno smesso di cercare delle risposte. Partendo dalla conquista dell’impero Ottomano, la scrittrice descrive con minuzia di dettagli le profonde diversità tra la religione musulmana e quella cristiana. Il risultato di queste differenze è un’inconciliabile separazione di civiltà e culture. La donna si scaglia contro la destra, la sinistra, gli europarlamentari, i preti, i vescovi, i filosofi, gli intellettuali, i politologi. Tutti, secondo lei, colpevoli dello stesso reato: l’accondiscendenza. Ciò che ella contesta è lo stato di indifferenza che permea la nostra società, aggredita e vessata da un bombardamento ideologico a cui non sembra rispondere con nessuna contestazione. Ciò che più la affligge è il consenso dato da destra, sinistra, europarlamentari, preti, vescovi, filosofi, intellettuali, politologi alla penetrazione della cultura islamica nella storia contemporanea occidentale. La Fallaci interpreta questo fenomeno come il manifesto di uno stato passivo, il logoramento del pensiero critico. “Thank you Oriana” e “Fuck you Fallaci” esistono ancora. Forse questo è un piccolo passo per il risveglio delle menti che Oriana Fallaci ha chiesto a gran voce tutta la vita. Adriana La Gioia
Ottava Nota
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“VIVA LION!” Il 25 gennaio scorso è uscito ‘The Green Dot Ep’ l’Ep d’esordio dei Viva Lion, prodotto da Cosecomuni, l’etichetta dei Velvet. Il progetto, inizialmente studiato come un’opera solista, si costruisce su più voci; sono cinque le tracce che vedono collaborare diversi artisti insieme al frontman del gruppo Daniele Cardinale. Il collettivo si avvale della partecipazione di un ospite per ogni brano, precisamente Gipsy Rufina, Velvet, Roads Collide, Milk White e Megan Pfefferkon. Il risultato è di sorprendente armonia e fluidità, nonostante il connubio creato tra artisti provenienti da esperienze e paesi diversi. I Viva Lion si muovono tra l’Italia, Roma principalmente, Toronto e Los Angeles. La loro esperienza si arricchisce inoltre di numerose esibizioni in America, in diversi locali celebri come il leggendario House of Blues di Hollywood, il Viper Room di Johnny Depp. Sono stati mesi frenetici questi ultimi, divisi tra concerti a San Diego, Los Angeles e West Hollywood, fino al ritorno in Italia che li vedrà impegnati questo inverno in un lungo tour per le città italiane. La seconda delle tappe previste ha avuto luogo lo scorso sabato 6 ottobre in Calzoleria (via Prenestina, 28) proprio qui abbiamo avuto l’occasione di ascoltarli in un delicato ed affascinante live acustico e di rivolgere loro alcune domande. Perché Viva Lion? Che significa? Viva Lion, ovvero viva il leone, è un riferimento al mio nome di battesimo (Daniele), lo stesso del profeta dell’antico testamento che, finendo nella fossa dei leoni, riuscì miracolosamente a uscirne illeso. Metaforicamente, i leoni rappresentano le contrarietà della vita e il nostro Viva Lion è un
invito ad affrontarle con coraggio, ricavando da ognuna di esse un’occasione di crescita. Raccontateci un po’ il vostro percorso musicale. Entrambi suoniamo da diversi anni, inizialmente in gruppi indie\punk e rock alternative. Dopo l’uscita di ‘The Green Dot Ep’, suono insieme a Marco Lo Fortie difatto siamo un duo, a volte anche un trio. Al momento stiamo lavorando al nuovo disco che produrremo a breve, saranno undici pezzi scritti e arrangiati a quattro mani, e anche in questo caso coinvolgeremo altri artisti. So che avete girato un po’ il mondo, divisi tra Italia e America, quanto ha influito questa esperienza sulla vostra crescita musicale? Tutto è nato un po’ per caso. Io avevo dei contatti in California, abbiamo deciso di partire con solamente due chitarre e siamo riusciti a suonare all’House of Blues di Hollywood. La seconda volta, più organizzati, abbiamo suonato al Viper Room, in diversi altri locali, e anche durante feste private. Da quello che mi dici, sembra più facile ottenere visibilità all’estero che in Italia. Cosa cambia? Qual è il discrimine, per quanto riguarda
Gli appuntamenti LIVE dei prossimi mesi: Calendario pieno di date da segnare in rosso per i concerti a Roma: se amate il song-writing di Nick Cave con i suoi Bad Seeds al seguito non vi resta che comprare un biglietto su cui ci sarà scritto di recarvi all’Auditorium Parco della Musica il 27 novembre. Solo due giorni più tardi, ancora al Black Out, va in scena la prima in città di ‘Venga il regno’,
ultimo album dei livornesi Virginiana Miller, e, quella stessa sera, ma all’Orion di Ciampino, il ritorno in Italia del folk-punk dei Gogol Bordello. Clementino, promessa dell’hip-hop nazionale proveniente da Napoli, si presenterà al pubblico romano il 5 dicembre, sempre all’Orion. Per concludere, una chicca: il tour acustico di ‘Fantasma’, ultima opera dei Baustelle, il 21 dicembre all’Auditorium Parco della Musica. E poi basta, che è quasi Natale e tocca tornare a casa, almeno per i fuorisede. Francesco Corbisiero.
la musica, tra queste due realtà? Sicuramente c’è un’accoglienza migliore in America, anche dovuta al fatto che noi cantiamo in inglese e di conseguenza ci allontaniamo un po’ dagli standard italiani. Purtroppo è più facile esibirsi all’estero, c’è meno chiusura. Ad ogni modo, noi abbiamo anche un’agenzia di booking qui in Italia e, grazie anche a loro, faremo più di venticinque concerti fino alla fine dell’anno solo in Italia. Intervista a cura di Cristina Comparato per The Freak
The Freak – culturalmente inusuale – è una Associazione di promozione socio-culturale (registrata all’Agenzia delle Entrate, codice fiscale: 90054790598) nata dall’idea di tre studenti LUISS e sviluppatasi anche al di fuori dell’Università, che punta a fare scouting letterario, a scoprire giovani scrittori e artisti e a valorizzare il loro talento pubblicando le loro opere inedite e a promuovere, in generale, le attività artistico-culturali più meritevoli presenti sul territorio italiano. Segui The Freak sul magazine online www.thefreak.it.
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Cinema & Teatro
Novembre 2013
“Io… Non sono più io” È l’icona più stampata al mondo, è il punto di riferimento di tutti i rivoluzionari, è una storia struggente. È Ernesto Guevara de la Serna, alla storia noto come il “Che”. Da piccola mi sono ritrovata una sua maglietta tra le mani: l’avevo vista addosso a un sacco di persone, una produzione in serie quel volto accigliato, quasi una marca. Un giorno sono entrata al cinema e, come solo il cinema può fare, ho scoperto un’altra prospettiva delle cose. Era il 2004 e il regista Walter Salles, prende in mano “Latinoamericana”, gli appunti del primo viaggio attraverso l’America Latina di Guevara, e si emoziona. Quegli appunti di viaggio, scritti dalle mani del ventiquattrenne studente di medicina che diventerà il rivoluzionario più famoso e discusso al mondo, sono pregni di qualcosa che sfugge a tanti narratori. Parlano di “questa nostra maiuscola America”, che solo chi ha toccato la spina dorsale del Sudamerica può comprendere. Il giovane Ernesto, che nel film ha il volto dell’attore messicano Gael Garcìa Bernal, parte da Buenos Aires con l’amico Alberto Granado (Rodrigo de la Serna, incredibilmente somigliante al vero Granado) e la Poderosa, una vecchia motocicletta che quasi subito lascia i due a piedi. L’obiettivo del viaggio è attraversare tutta l’ America Latina e concludere la traversata a Caracas. Il regista coglie la straordinaria poesia del viaggio e Garcìa Bernal, dimostrando capacità empatica col personaggio, riesce a mostrare il cambiamento sensibile che Guevara subisce man mano che i chilometri crescono. Il gioco è facilitato dalla bellezza prorompente del verde di Macchu Picchu o dalla malinconia del Rio delle Amazzoni. Senza pretesa di spettacolarizzare o scandalizzare lo spettatore, Salles si sofferma sui corpi mangiati dalla lebbra dei pazienti di San Pablo o sulla foglia di coca masticata con candore da un bambino peruviano. Ma più di ogni altra cosa, mostra il volto umano di Ernesto Guevara. Mostra un giovane scanzonato che parte col suo amico nonostante i suoi frequenti e devastanti attacchi d’asma, uno studente estremamente sensibile alla bellezza della natura e delle parole, un ragazzo curioso che scopre per la prima volta il mondo. Salles porta sullo schermo l’esatto momento in cui Guevara diventa un rivoluzionario attraverso lo sguardo di Garcìa Bernal, seduto su un masso con una tazza di mate tra le mani, che ascolta due mi-
natori peruviani sfruttati, maltrattati, sottomessi. La chiusura del film, equilibrio perfetto tra parole e musica (del due volte premio Oscar Gustavo Santaolalla), è pura arte. La voce di Ernesto parla della rivoluzione, quella interiore, che ha subito, che tutto quel girovagare si è impresso in un posto ben preciso dell’anima. E mentre la finzione cinematografica finisce, la canzone “De usuahia a la quiaca” risuona e aggancia i volti degli interpreti con le foto dei veri personaggi del viaggio. Aldilà delle nomination prestigiose e dei premi
vinti, aldilà della simpatia o meno per Ernesto Che Guevara, “I diari della motocicletta” è un film necessario. Potrebbe essere la storia di un qualsiasi ragazzo che fa un qualsiasi viaggio e non scopre “semplicemente” se stesso, ma il mondo, la società, la vita fluida che scorre all’infuori della realtà narrata. Un film, una storia che non ha vergogna di dire che il Fuoco Sacro esiste, che la società non è fatta dagli interessi di ognuno, ma dal bisogno di tutti. Maria Chiara Pomarico
Il canto di Paloma Il dolore e la paura che non affrontiamo restano dentro di noi, crescono, mettono radici se non vengono recisi con decisione. Secondo una credenza popolare peruviana, essi possono infettare il latte materno e trasmettersi al nascituro come una vera e propria malattia. La madre di Fausta, la protagonista di questo film, l’ha allattata con «il latte della tristezza» dopo essere stata stuprata durante i giorni del terrorismo, quando violenza e abusi erano all’ordine del giorno. Segnata da questa maledizione, Fausta vive nella solitudine e nel terrore, soprattutto verso gli uomini: la sua paura più grande è infatti quella di essere vittima dello stesso delitto che l’ha generata. La morte della madre e il conseguente tentativo di seppellirla degnamente la costringeranno ad affrontare i suoi spettri. Premiato con l’Orso d’oro nel 2009 al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e candidato all’Oscar l’anno successivo come miglior pellicola straniera, il film riesce a narrare una tematica complessa quanto la brutalità della violenza sessuale senza mai cadere nell’esagerazione o nel patetico, mantenendosi in equilibrio tra atmosfere di realismo magico e inquietudine esistenziale. Questa storia, degna della penna di Gabriel Garcia Marquéz, ci accompagna per le strade polverose della periferia di Lima all’interno di un mondo in cui la tradizione, le leggende, la magia e l’antica lingua quechua vivono ancora. Il racconto di Claudia Llosa esplora con delicatezza e misura l’intimità e il dramma individuale lanciando allo stesso tempo squarci di alcune di quelle “vene aperte dell’America Latina” come il terrorismo, la povertà e le disuguaglianze sociali: siamo molto lontani da quel Sud America da cartolina tinto di feste, canzoni e spensieratezza. La storia procede secondo una serie di forti
contrasti: la razionalità del medico che spiega le cause scientifiche del malessere di Fausta e l’irrazionalità dello zio che si ostina a sostenere che «è colpa del latte», la ricchezza della pianista da cui Fausta va a lavorare e la povertà della famiglia della ragazza, la morte della madre e il matrimonio della cugina della protagonista. E infine il silenzio di Fausta con chi la circonda e il canto melodioso e istintivo, quasi impossibile da trattenere. È proprio la musica uno dei motivi dominanti di tutto il film che fin dall’inizio affida alle melodie cantate in lingua quechua la spiegazione della premessa del racconto, segna e accompagna i momenti più importanti fino a diventare un ponte, l’unica via attraverso cui Fausta riesce a comunicare. È solo grazie alla sua voce che Fausta riesce a suscitare l’interesse della pianista, che però non si farà scrupoli a liberarsi della sua cameriera così come ha gettato dalla finestra il suo pianoforte alla prima nota stonata. Per tutto il film nessuno riesce a entrare veramente in contatto con lei, a eccezione del giardiniere Noè che riesce però solo a “sfiorarla” avvicinandosi a lei con pazienza e delicatezza e cercando di farle comprendere che «solo la morte è obbligatoria: tutto il resto succede o non succede solo se lo vogliamo noi». L’unico vero legame di Fausta sembra essere quello con la madre: un legame che inizia già al momento del concepimento e si prolunga anche dopo la morte di lei. Eppure sarà proprio dal dolore e dalla morte che Fausta troverà il coraggio per incamminarsi verso una faticosa rinascita... Jessica Di Paolo
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NO! È l’icona più stampata al mondo, è il punto di riferimento di tutti i rivoluzionari, è una storia struggente. È Ernesto Guevara de la Serna, alla storia noto come il “Che”. Da piccola mi sono ritrovata una sua maglietta tra le mani: l’avevo vista addosso a un sacco di persone, una produzione in serie quel volto accigliato, quasi una marca. Un giorno sono entrata al cinema e, come solo il cinema può fare, ho scoperto un’altra prospettiva delle cose. Era il 2004 e il regista Walter Salles, prende in
mano “Latinoamericana”, gli appunti del primo viaggio attraverso l’America Latina di Guevara, e si emoziona. Quegli appunti di viaggio, scritti dalle mani del ventiquattrenne studente di medicina che diventerà il rivoluzionario più famoso e discusso al mondo, sono pregni di qualcosa che sfugge a tanti narratori. Parlano di “questa nostra maiuscola America”, che solo chi ha toccato la spina dorsale del Sudamerica può comprendere. Il giovane Ernesto, che nel film ha il volto dell’attore messicano Gael Garcìa Bernal, parte da Bue-
L’educazione sentimentale di Cuaròn Era l’Agosto del 2001. Era prima dell’11 settembre, prima dell’Iraq, prima ancora di Facebook, quando mai avremmo pensato che i giovani potessero essere diversi da quelli che vedevamo in Beverly Hills e Dawson’s Creek. Era l’estate in cui il regista messicano Cuaròn sbarcava a Venezia con il controverso “Y tu mamá también”. La trama è semplice: Tenoch e Julio sono due diciassettenni che, in una Città del Messico più goliardica del solito, trascorrono le loro giornate alternando droga, alcool e masturbazione. In occasione di un matrimonio rimangono folgorati dalla bella e più matura Luisa, che tentano di coinvolgere in un viaggio che cambierà le sorti delle loro vite, e non solo. Ricordate la lunga notte del nostalgico American Graffiti? Dimenticatela. Tenoch e Julio non siedono sui sedili di pelle di un’auto sportiva e non restano su un pontile a piangere perché le loro ragazze li hanno lasciati. I personaggi di Cuarón sembrano aver smarrito già da tempo la strada per l’“isola che non c’è”. Il regista manda letteralmente in frantumi quel quadro stucchevole al quale Hollywood ci aveva abituati. “Non sopporto che i giovani vengano relegati a film come American Pie”, afferma lo stesso Cuarón in conferenza stampa, quando spiega ai giornalisti il tono tanto disincantato della sceneggiatura. Dopotutto è già a partire dall’ambientazione che il regista prende le distanze dagli stereotipi del settore. Non è il Messico delle cartoline quello da cui lo spettatore si ritrova investito. Al contrario la “Boca del Cie-
lo” è pura fantasmagoria. Così il posto verso cui i tre protagonisti sono diretti diventa anche simbolo della fatuità delle relazioni umane e forse del mondo intero. D’altronde anche questi luoghi sono destinati a scomparire, vittime della continua e incessante globalizzazione. Con sospetto ci accostiamo a un viaggio che della spensieratezza ha ben pochi elementi e quello che colpisce è piuttosto il tono parossistico con il quale viene narrata la vicenda. Nel triangolo erotico che va creandosi, nelle danze e nell’ebbrezza si avverte la sensazione di essere davanti un imminente punto di non ritorno. È proprio nel finale del film che si consuma tutta la sua amarezza. Come già Bodganovich fece con “The Last Picture Show”, un brusco risveglio attende lo spettatore. A un anno di distanza ogni cosa è cambiata. Il partito rivoluzionario istituzionale deve registrare la sua prima sconfitta dopo 71 anni. Tenoch e Julio non sono più gli stessi dell’anno precedente. Il loro rapporto è mutato radicalmente. Acclamata ma, per onor di cronaca, anche duramente criticata, la pellicola ha fatto conoscere al grande pubblico il regista messicano, molto prima dell’approdo spaziale di Gravity, e ha lanciato nell’olimpo delle star i giovani Gael Garcia Bernal e Diego Luna. Poche sono le certezze dopo aver visto il film e tanti gli interrogativi, primi fra tutti quelli riguardanti le intenzioni del regista. La pellicola è forse la rappresentazione di una dissoluta quanto vuota generazione? Una critica all’intera società contemporanea? Il consiglio è quello di guardare “oltre” la messa in scena e lasciarsi coinvolgere dal processo empatico in modo semplice e disinvolto, come ci insegnano Julio e Tenoch. Avremo così le risposte a ogni dubbio sollevato.. Antonio Buonansegna
nos Aires con l’amico Alberto Granado (Rodrigo de la Serna, incredibilmente somigliante al vero Granado) e la Poderosa, una vecchia motocicletta che quasi subito lascia i due a piedi. L’obiettivo del viaggio è attraversare tutta l’ America Latina e concludere la traversata a Caracas. Il regista coglie la straordinaria poesia del viaggio e Garcìa Bernal, dimostrando capacità empatica col personaggio, riesce a mostrare il cambiamento sensibile che Guevara subisce man mano che i chilometri crescono. Il gioco è facilitato dalla bellezza prorompente del verde di Macchu Picchu o dalla malinconia del Rio delle Amazzoni. Senza pretesa di spettacolarizzare o scandalizzare lo spettatore, Salles si sofferma sui corpi mangiati dalla lebbra dei pazienti di San Pablo o sulla foglia di coca masticata con candore da un bambino peruviano. Ma più di ogni altra cosa, mostra il volto umano di Ernesto Guevara. Mostra un giovane scanzonato che parte col suo amico nonostante i suoi frequenti e devastanti attacchi d’asma, uno studente estremamente sensibile alla bellezza della natura e delle parole, un ragazzo curioso che scopre per la prima volta il mondo. Salles porta sullo schermo l’esatto momento in cui Guevara diventa un rivoluzionario attraverso lo sguardo di Garcìa Bernal, seduto su un masso con una tazza di mate tra le mani, che ascolta due minatori peruviani sfruttati, maltrattati, sottomessi. La chiusura del film, equilibrio perfetto tra parole e musica (del due volte premio Oscar Gustavo Santaolalla), è pura arte. La voce di Ernesto parla della rivoluzione, quella interiore, che ha subito, che tutto quel girovagare si è impresso in un posto ben preciso dell’anima. E mentre la finzione cinematografica finisce, la canzone “De usuahia a la quiaca” risuona e aggancia i volti degli interpreti con le foto dei veri personaggi del viaggio. Aldilà delle nomination prestigiose e dei premi vinti, aldilà della simpatia o meno per Ernesto Che Guevara, “I diari della motocicletta” è un film necessario. Potrebbe essere la storia di un qualsiasi ragazzo che fa un qualsiasi viaggio e non scopre “semplicemente” se stesso, ma il mondo, la società, la vita fluida che scorre all’infuori della realtà narrata. Un film, una storia che non ha vergogna di dire che il Fuoco Sacro esiste, che la società non è fatta dagli interessi di ognuno, ma dal bisogno di tutti. Francesca Natali
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Calcio d’Angolo
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La schiavitù del Calcio “Hai ragione, ho dimenticato di dirlo.” Questa espressione sembra illustrare esattamente l’atteggiamento dei media nei confronti del “genocidio” di morti bianche che si cela sotto l’organizzazione dei mondiali di calcio 2022 in Qatar. La forma di omertà delle maggiori agenzie d’informazione, il tipico oscurantismo di quando ci sono in ballo grossi giri di potere questa volta, per fortuna, è stata smascherata, mettendo in rilievo una vicenda di una miseria e tragicità sconcertante. Chi si eleva a rango di “Don Chisciotte che combatte contro mulini a vento” in questa occasione è il “Guardian” che il 25 settembre 2013 ha pubblicato una sferzante inchiesta sulle disumane condizioni di lavoro e gli orribili abusi a cui sono sottoposti gli operai impiegati nella costruzione delle infrastrutture per la Coppa del Mondo 2022, già nel vortice delle polemiche per le temperature folli che dovranno essere arginate attraverso impianti futuristici, data la solita ricorrenza nel periodo estivo della massima competizione calcistica. È naturale chiedersi come si possano costruire impianti così grandiosi in così poco tempo. Eppure, per la maggior parte, i visitatori di questi Paesi non si sono mai preoccupati di trattenere l’entusiasmo per i servizi messi a loro disposizione, per il lusso e le modernità ostentate con orgoglio in tali luoghi. Ancor meno hanno riflettuto sul fatto che lo sfarzo sotto i propri piedi non è altro che la splendida e scintillante buccia di una mela marcia. Secondo i documenti ottenuti dall’ambasciata nepalese a Doha, almeno 44 lavoratori sono morti tra il 4 giugno e l’8 agosto 2013 e di questo passo i defunti saranno più di 4 mila entro il 2022. La maggior parte è deceduta a causa di attacchi di cuore, insufficienza cardiaca o incidenti sul lavoro. Il quadro generale illustra come una delle nazioni più ricche al mondo stia sfruttando il popolo di una delle più povere, al solo fine di stupire la platea ospitando il torneo più famoso del pianeta. È un giochetto molto diffuso nei Paesi in via di sviluppo e coinvolge una nuova e oscura figura professionale che il Guardian definisce “broker di reclutamento” e che agisce in un vero e proprio sistema di appalto del lavoro forzato. Nel caso del Qatar molti operai nepalesi, pur di ottenere un posto di lavoro, contraggono ingenti debiti con i broker dovendo, però, rinunciare in
molti casi a un salario, a documenti d’identità e alla stessa possibilità di abbandonare il cantiere, o il Paese. Non a caso il Qatar ha il più alto rapporto tra lavoratori migranti - che costituiscono il 90% della manodopera - e popolazione nazionale del mondo. Una situazione che può ricondurre la mente alle vaste manifestazioni di indignados in Brasile, durante la Confederations Cup di quest’anno, che denunciavano il predominio degli interessi economici orbitanti attorno al calcio e la noncuranza per le piaghe e i disequilibri sociali del
Paese reale. Il Qatar spenderà circa 100 miliardi di dollari per le infrastrutture legate più o meno direttamente al mondiale: oltre ai nove stadi verranno costruite nuove strade, una rete ferroviaria ad alta velocità, centinaia di nuovi alberghi per ospitare i tifosi ospiti. Sarà creata un’intera città per l’evento, la Lusail City. Non siate come la “signora” decantata dai Led Zeppelin che crede sia oro tutto ciò che luccica. Valerio Flavio Ghizzoni
Doping Mediatico Alberto Rui Costa è il primo portoghese a indossare la maglia iridata. A Firenze, sede del campionato del mondo di ciclismo, non poteva che vincere lui, omonimo di quel Manuel che tanto fece sognare il pubblico fiorentino. Peccato che per molti non sia stato possibile vedere la corsa, a causa della discutibile gestione dei diritti televisivi da parte dell’Uci, il cui scopo dovrebbe essere quello di garantire la massima visibilità allo sport. Uno sport, il ciclismo, che vede nel rapporto con i media il suo punto di forza e di debolezza. Il Giro d’Italia, ad esempio, è organizzato dal 1909 dalla Gazzetta dello Sport, che presta il suo colore anche alla maglia del leader di classifica. Il problema nasce nel momento in cui l’attenzione dei giornali si sposta eccessivamente dai risultati sportivi a vicende più drammatiche, come i vari casi di doping: i veri protagonisti del ciclismo attuale. L’Operaciòn Puerto prima, e le rivelazioni di Armstrong poi, sono diventate certamente più famose e conosciute, a un lettore non appassionato, degli ultimi vincitori delle tre grandi corse a tappe. Quando un dottore, Eufemiano Fuentes, diventa il più celebre “esponente” di uno sport a livello mediatico c’è qualcosa che non torna. Si è messo in evidenza la mole di problemi di un sistema da cambiare e che appare in gran parte corrotto e talvolta beffardo, soprattutto se a incastrarti è il tuo cane che fa da prestanome, come nel caso di Ivan Basso. Un sistema che può trovare risposte soltanto nella propria storia. Si dovrebbero esaltare le gesta dei vari Nibali, non mettere in evidenza quanto “strana” possa essere stata la velocità tenuta dal corridore. Come se il giorno dopo la finale di Champions League gran parte dei giornalisti si chiedesse come facevano i tedeschi a correre così tanto! La strepitosa performance al Tour di Froome non è riuscita così ad accendere la passione de-
gli spettatori, ma solo a sollevare dubbi. Dubbi che il ciclismo e gli appassionati di questo sport non meritano. Il tutto a discapito di quello che da molti è considerato l’ultimo sport romantico. Il principale effetto dell’inchiesta sulla Grande Boucle, che ha portato alla “black list” del doping non è stato quello di modificare l’albo d’oro ma più semplicemente di distruggere miti ed imprese passate. Negli ultimi anni il ciclismo ha fatto di tutto per sporcare la propria immagine ma resta il fatto che il suo immaginario collettivo sembra evocare altre epoche. Quando la televisione ancora non aveva assunto il ruolo attuale, Caressa non commentava le partite e Lebron non schiacciava a canestro, il ciclismo era considerato lo sport della gente, rappresentava la vita e conteneva in sé la favola e l’avventura, declinate nelle piccole, o meno, bugie raccontate dai giornalisti attraverso i nomi di Coppi, Bartali, Anquetil, Merckx e Pantani. L’epicità è ormai un aspetto che pian piano sta abbandonando questo sport. Per Aldo Grasso, giornalista italiano, la televisione pone il problema di come combinare la “suggestione” del ciclismo sportivo di ieri con i mezzi tecnologici di oggi; una televisione che riesce a mostrare le tragedie, come quelle del doping, ma non sa “raccontarle”. Per questo invece delle interviste di Armostrong preferisco ricordare la frase di Mario Ferretti durante la Cuneo Pinerolo del 1949: “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Matteo Biancucci
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Tu vuo’ fa l’americano…
ma si nato in Italy!
Che il rapporto tra mass-media e sfera sportiva sia uno degli aspetti più dibattuti dall’opinione pubblica nostrana, è un dato di fatto. Che l’argomento diventi sempre più problematico e intricato nel momento in cui si passa ad analizzare la relazione tra i cosiddetti “sport minori” e l’ambito mediatico tutto, dai quotidiani alla televisione passando per i social network, credo sia ormai altrettanto appurato. Perché si sa, l’Italia e gli italiani vivono e sopravvivono grazie al calcio. Lo sport nazionale è uno solo, e guai a chi ce lo tocca. In realtà, tuttavia, il mercato sportivo è decisa-
mente più ampio di quello che i media nazionali vorrebbero dipingerci. È in questo contesto che si inserisce il vero e proprio oggetto in questione dell’articolo che state leggendo, ovvero quanta e quale sia l’effettiva visibilità data oggigiorno alla pallacanestro italiana sui mezzi di informazione. Per iniziare degnamente la disamina possiamo partire dal Tweet del giugno scorso di Matteo Soragna, cestista della Capo d’Orlando: “Se l’amichevole Italia-Haiti di calcio fa notizia e Roma-
Siete Atleti, ambasciatori del mondo La maglia giallorossa di Francesco Totti, la dieci di Alessandro Del Piero, la falcata di Usain Bolt, le stoccate di Valentina Vezzali, il top spin di Nadal e il talento di Roger Federer, i sorpassi di Ferando Alonso e le staccate di Valentino Rossi, la discendenza dei Maldini in rossonero, l’oro di Pietro Mennea, la performance perfetta di Nadia Comanechi, la maratona fulminante di Kipsang, lo slalom di Alberto Tomba con quello di Lindsey Vonn, la nazionale sudafricana rugby di Nelson Mandela e quella dei quattro mondiali azzurri, l’axel di Eugeneyi Pluchenko e il signore degli anelli Jury Chechi, gli allenamenti di Dean Karnazes, l’urlo di Bruce Lee e quello di Sharapova nel tempio del tennis Wimbledon, i record del crucco Schumacher inseguiti dai Gran Premi di Sebastian Vettel, la bracciata di Rosolino e il gancio di Muhammad Ali, la memoria di Bovolenta, Morosini e Simoncelli, le punizioni di Platini, il dribbling di Pelé, la filoamericana Na Li e i salti della moscovita Klishina, l’ormai fantomatico Chuck Norris e le denunce inascoltate di Sandro Donati, la professionalità e lo stile di David Beckham, lo scacco matto di Caruana e l’impennata di Agostini, le due vite di Zanardi e l’esordio in Moto Gp di Marquez, il gradino del podio di Cecilia Camellini, la rivalità delle sorelle Williams, la dieta vincente di Djokovic, il baricentro di Lionel Messi, condanna e benedizione, la carriera estrema di Elham. Credere che qualcosa di straordinario sia possibile e ancora riproducibile evitando in futuro una volta per tutte altri omicidi alla Pistorius, screzi alla Balotelli, evasioni fiscali alla Josefa Idem, scontri verbali Guardiola-Mourinho, gossip alla Pellegrini, farse alla Schwazer, allenamen-
ti medicinali alla Armstrong e Contador, calciopoli alla Moggi, condotte alla Maradona, escandescenze alla Tyson, parole politicizzate alla Isinbayeva, training alla Conconi, giudici alla Evangelisti, squadre come gli Usa di Ben Johnson, stragi alla Eysel, spese folli alla Bale, somministrazioni alla Fuentes, apparenze alla Kournikova, provincialismi, curve ideologizzate, razzismi, discriminazioni, malacronaca, diritti tv, pay tv, campionati spezzatino, sport maggiori, sport minori, soldi, doping, medaglie solo per finanziamenti statali, corruzioni federali, disillusione del pubblico, tradimento dei fans. Il male e il bene hanno equivalente peso storico, lo sport è chiave d’accesso al grande pubblico per relazioni individuali e collettive. Un Italiano compra il berretto dei New York Yankees, un Africano la camiseta blanca di Cristiano Ronaldo, un Indonesiano l’Inter intera. Dietro un guscio di sole fatto di sponsor, testimonial e pubblicità, il talento e i propri sogni coltivati nell’ombra. Le innumerevoli sfide vinte a telecamere spente. I media ora li perseguitano. Ogni gesto è filmato, ogni movimento “moviolato”, ogni dichiarazione appresa a memoria. Lo sport contestualizza la globalizzazione diffondendo culture. Le generazioni future di tutto il mondo rincorrono gli atleti con lo stalking ideale proprio dei giovani sognatori. Basta un semplice poster simbolico appeso in cameretta. Evitare gli errori, riproponendo modelli comportamentali da seguire, perché in fondo sono gli atleti i veri ambasciatori del mondo. Lorenzo Nicolao
Siena finale di basket no, siamo un paese malato. Niente di nuovo, purtroppo.” Un Paese in cui sia i quotidiani di opinione che quelli specializzati riservano allo “sport nazionale” dal 60% (La Repubblica) al 75% (Corriere dello Sport) delle unità informative pubblicate sotto forma di articoli (e tali percentuali sono destinate a salire oltre l’80% se si considera la porzione effettiva di spazio-giornale occupata dall’informazione calcistica); un Paese in cui il Comitato Olimpico Nazionale elargisce finanziamenti pubblici da 68 milioni e mezzo di euro alla Federazione Italiana Giuoco Calcio e dà 10 milioni di euro scarsi alla Federazione Italiana Nuoto (la seconda federazione più remunerata; per quanto riguarda la Federazione Italiana Pallacanestro il dato è invece di 6.691.884€); voi come lo definireste se non come un “Paese malato”? La situazione del movimento cestistico italiano sicuramente non aiuta, anche se in leggera ripresa, e il bacino di utenza raggiungibile attraverso la vendita del prodotto “basket” è sicuramente di dimensioni ridotte rispetto a quello calcistico. Non per questo, come molti studi sul giornalismo sportivo hanno evidenziato, la palla a spicchi deve meritarsi un misero 6% di visibilità complessiva settimanale sui quotidiani informativi nazionali. Non pretendiamo mica di diventare come l’America, patria dell’anti-calciofilismo per eccellenza. E no, non ci aspettiamo nemmeno che un popolo intero decida di cambiare da un momento all’altro le proprie abitudini cultural-sportive, correndo così il pericolo di sfociare nell’utopia più barbina. Quello che noi “tifosi di basket” vorremmo invece accadesse è che si smettesse di considerare le discipline in cui non è previsto di dover calciare il pallone in una porta come “minori”, e che la discriminazione mediatica operata nei loro confronti possa finalmente cessare, perché sono innumerevoli le imprese sportive degne di essere raccontate e che invece non vengono minimamente menzionate dalla stampa. Tutto questo è forse pazzia? Mera illusione? Può darsi, ma solo perché viviamo in Italia, il Paese dove il racconto della giornatatipo di Nagatomo ha più importanza di uno scudetto vinto dalla Montepaschi Siena. Emiliano testini
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Lifestyle
Novembre 2013
Donne vestite di potere Lo sappiamo, la politica è troppo seria per dare retta ai consigli, effimeri e camaleontici, delle sfilate, lontani dai principi di stabilità e credibilità che chi intraprende una carriera ai vertici intende salvaguardare. Se non fosse per Carla Bruni, migrata in Francia dopo essere convolata a giuste nozze col presidente Sarkozy, nessuna figura femminile italiana ai piani alti del potere sembra essere degna di nota. Chiara Saraceno, sociologa del lavoro, sostiene che “è necessario fare un distinguo fra le mogli dei presidenti che devono vestirsi bene per sostenere il marito, e quelle coinvolte attivamente sul fronte politico, di rado disinvolte nei loro abiti.”. Soprattutto in Italia, dove l’immaginario maschilista ed erotizzato le fa passare sotto le forche caudine dell’opinione pubblica. Mara Carfagna, ex showgirl e ministro delle Pari Opportunità fino a poco tempo fa, ha voltato le spalle alle vestaglie semitrasparenti e alle chiome rigogliose per adottare un orientamento conservatore e un severo caschetto. Eppure il tentativo di occultare il fantasma sotto giacche e pantaloni politicamente corretti non convince. Esiste dunque una moda dei vertici? Le donne sono costantemente sotto l’occhio del ciclone ed è pericoloso apparire sia caste sia sexy perché il vestito, ovvio, ha un potere comunicativo molto più forte se coinvolge le signore invece che i signori. Per i politici maschi infatti il problema non si pone nemmeno. Da quando il completo ha fatto il suo ingresso, non è più uscito di scena e nemmeno si è preso la briga di rinnovarsi troppo. Nel resto d’Europa e negli Stati Uniti è diverso. Il concetto di “abito al potere” è nato negli anni Ottanta e sta raggiungendo il suo acme proprio in questi ultimi decenni. Robb Young nel suo libro “Power dressing: First ladies, women politicians&fashion” dimostra che il rapporto tra le donne, l’abito e il potere è oggi più libero e coraggioso, sia che si tratti di First Ladies che di donne politicamente attive. Come Michelle Obama che davanti agli schermi di “Today Show” si presentò con un abito di chiffon a pois etichettato H&M o Chantal Biya, first lady del Camerun che ha deciso di somigliare ad una drag queen di un film di Almodovar. A tutto ciò fa da contraltare il guardaroba della cancelliera tedesca Angela Merkel che ha scelto l’anonimato, coerente con la sua immagine di politica concreta e raziona-
le. Per non parlare di alcune manie come quella dell’ex ambasciatore degli Stati Uniti Madeleine Albright che decora i suoi revers con audaci spille: mentre negoziava con la Russia la protezione antimissilistica, ne indossava una a forma di proiettile. Nel Duemila le donne hanno imboccato un nuovo percorso e sempre più raramente si corazzano dietro armature di tweed e completi matriarcali. Oggi il guardaroba dei vertici, almeno all’estero, si nota, nel tentativo di riconquista di
un grado di femminilità un tempo proibito. Tra esuberanti e finte mummie, qui in Italia non esiste via di mezzo, ma certo è che non c’è nulla degno di nota, almeno nel guardaroba. Per tutto il resto, invece, ce n’è in abbondanza, l’importante è controbilanciare le condotte non del tutto impeccabili con tailleur e mise di tutto rispetto. Ma ricordiamoci: l’abito non fa il monaco, mai. Maria Vittoria Cabras
I libri volano sulle ali del Bookcrossing Il “Bookcrossing”, in italiano “Passalibro”, è uno dei fenomeni socio-culturali degli ultimi anni. Letteralmente il neologismo significa “incrociare il libro”, ma in senso figurato può indicare il contatto casuale che si crea tra i lettori al momento dello scambio del volume. Col passare del tempo, tale termine è entrato poi a far parte del vocabolario inglese. Lanciata nel Marzo 2001 da Ron Hornbaker, questa iniziativa conta oggi quasi 10.000.000 di libri registrati. Il meccanismo del Bookcrossing è semplice: esiste un sito web dove si possono registrare i libri che si intendono “far girare”, ai quali viene assegnato un codice unico di identificazione, chiamato “Bookcrossing ID”, che permetterà di seguire gli spostamenti di ogni volume a livello mondiale. Una volta registrato e munito della propria identificazione, il libro può cominciare a viaggiare. Il primo lettore deve lasciarlo ad un altro che, una volta letto, dovrà fare lo stesso, creando così un’infinita catena di passaggi, ognuno dei quali arricchirà intellettualmente non soltanto chi legge, ma anche l’avventura del volume stesso. I luoghi dove scambiarsi i libri possono essere vari: ci sono posti che i Bookcrossers stabiliscono in ogni città per facilitare e rendere lo scambio più sicuro, ad esempio un bar specifico, oppure davanti ad un particolare monumento, altri lettori invece, preferiscono lasciare il libro in luoghi non concordati, come su un treno, su un autobus, o su una panchina in un parco, rendendo lo scambio del tutto casuale. In Italia l’iniziativa del Bookcrossing è stata lanciata nel 2002 dalla trasmissione radiofonica pomeridiana Fahrenheit, in onda su Rai Radio3, che ha fatto partire il primo Passalibro a Mantova, in occasione del Fetivaletteratura. Da allora l’iniziativa è proseguita in tutte le città italiane laddove ci sono lettori disposti a far viaggiare i
libri per lo Stivale, scrivendo, o applicando l’etichetta scaricabile da internet, al loro interno con su scritto il seguente messaggio “Questo non è un libro abbandonato, ma un libro che cerca lettori. Chi lo trova, lo legga e lo faccia circolare, e ne dia notizia a Fahrenheit, Rai Radio3, attraverso il sito www.fahrenheit.rai. it nella sezione Passalibro”. Nell’era dei Tablet, questo fenomeno è senz’altro affascinante per i fedeli amanti del cartaceo, i quali preferiscono sfogliare il libri e accarezzare la carta con le dita, piuttosto che leggere su una fredda e luminosa tavoletta senz’anima. A questo proposito, in un’intervista rilasciata a Repubblica nel Gennaio 2013, il regista Ettore Scola ha affermato che i libri hanno un ordine segreto, non possono essere messi a caso: “L’altro giorno ho riposto Cervantes accanto a Tolstoj. E ho pensato: se vicino ad Anna Karenina c’è Don Chisciotte, di sicuro quest’ultimo farà di tutto per salvarla”. In poche frasi il maestro del cinema italiano ha colto l’essenza della lettura. Ciascun lettore ha infatti le sue abitudini, può sottolineare le frasi che lo colpiscono di più, o scrivere piccoli pensieri a bordo pagina, conferendo così ai volumi una storia tutta loro che li lega indissolubilmente ad ogni lettore. Potremo anche leggere il quotidiano sul Tablet e scaricare i file su iBook, ma niente di tutto ciò può sostituire l’esperienza ed il fascino che si hanno nel leggere un libro stampato. Sofia Cecinini
L’Eretico
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Il lupo nero è morto, e non di fame Signor Capitano, come cittadino italiano, non posso compiacermi certamente di una sentenza insensata. Ma siccome insensato era il processo, penso che anche lei se ne possa contentare. Da vecchio soldato, e sia pure di un esercito molto diverso dal suo, so benissimo che lei non poteva fare nulla di diverso da cio’ che ha fatto, anche se ciò che ha fatto è costata la vita a due miei vecchi e cari amici: montezemolo e de grenet, ed anche se, nel momento in cui lei lo faceva, io mi trovavo prigioniero dei tedeschi nel carcere di s. vittore a milano, dove potevo subire la stessa sorte toccata agli ostaggi delle Ardeatine. Non so cosa lei farà , quando sarà libero di farlo. Ma qualunque cosa faccia e dovunque vada, si ricordi che anche tra noi italiani ci sono degli uomini che pensano giusto, che vedono giusto, e che non hanno paura di dirlo anche quando coloro che pensano e vedono ingiusto sono i padroni della piazza. Auguri Signor Capitano!
Questa lettera che Indro Montanelli scrisse nella primavera del 1996 non trovò grande spazio sui giornali, perché era e rimane una lettera scomoda, perché scritta a una figura scomoda. La lettera era indirizzata a un uomo, un ex capitano delle SS, nato il 29 luglio 1913 a Hennigsdorf, una piccola città del Brandeburgo, in quella che era la Germania del Kaiser Gugliemo II, una delle nazioni più ricche di quel tempo. Dopo essersi iscritto al Partito Nazionalsocialista, nel 1933, viene notato da Heinrich Himmler per la sua dedizione alla causa del nazionalsocialismo, che lo fece entrare nelle SS. Qui raggiungerà in breve il grado di comandante, Hauptsturmfuhrer, e dopo l’armistizio del 1944 viene mandato a Roma sotto il comando di Herbert Kappler, nella caserma di via Tasso. Il 14 giugno del 1944 viene nominato ufficiale di collegamento con lo Stato maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana, con sede a Brescia. Quando la guerra finisce, come spesso accadeva ai gerarchi fuggitivi, trova riparo in America latina a San Carlos de Barilloche, da sempre nota con il nome di Svizzera argentina. Qui visse perfettamente integrato nella folta comunità tedesca fino al 1994. Poi accade l’imprevisto. Nel 1994 Sam Donaldson, giornalista dell’ABC, si mette sulle tracce di un emigrante tedesco, nominato nel libro di Esteban Buch, “El pintor de la Suiza Argentina”, come uno dei responsabili delle Fosse Ardeatine. Lì dove non erano riusciti né i cacciatori di nazisti, né le autorità dell’Interpol riesce un giornalista americano che, dopo aver trovato Reinhardt Kops, altro ex nazista emigrato, riesce, grazie alle informazioni di quest’ultimo, a trovare e intervistare proprio il nostro uomo. L’uomo con cui parla Sam Donaldson è lo stesso
uomo a cui scriverà anni dopo Indro Montanelli, è il comandante dell’Aussenkommando Romder Sicherheitspolizei un des Sd, Erich Priebke. Poco tempo dopo l’Italia invia una richiesta di estradizione per l’ex capitano delle SS, che verrà consegnato e rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea, in attesa del processo. La “sentenza insensata” di cui scrive Montanelli è quella del 1° Agosto 1996, quando pur essendo stato riconosciuto colpevole, viene assolto per sopraggiunta prescrizione, ma non è per questo che il giornalista di Fucecchio sentì la necessita di quell’aggettivo: insensata. È per quello che succederà dopo. Alla lettura della sentenza i familiari delle vittime, i rappresentanti della comunità ebraica di Roma decidono di asserragliare l’aula, tenendo in ostaggio i giudici e lo stesso Priebke. Le critiche sulla sentenza di assoluzione piovono da tutti gli angoli del mondo e così interviene la Germania che invia la richiesta di estradizione con l’accusa di favoreggiamento al regime, tale richiesta permetterà all’Italia di tenerlo in carcere, calmando così gli animi dei “padroni della piazza”. La Corte di Cassazione annullerà la sentenza disponendo un nuovo processo. È il 22 Luglio del 1997 quando il Tribunale militare di Roma lo dichiara colpevole, condannandolo a 15 anni di carcere, è il marzo del 1998 quando la Corte d’Appello lo condanna all’ergastolo. Per vedere la fine di questo travagliato caso giudiziario si deve attendere il novembre dello stesso anno, quando la Corte di Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello. L’ex capitano delle SS ha 85 anni e data l’età gli vengono concessi i domiciliari. Eric Priebke muore nella sua casa romana l’11 Ottobre 2013, alla veneranda età di 100 anni. Si dice che la Storia la scrivano i vincitori e forse è per questo che sui libri di Storia sembra sempre emergere netta la linea di demarcazione fra il bene e il male, tra buoni e cattivi, fra vittime e carnefici.
Il problema sorge quando, mossi dalla ferma convinzione del “mai più”, si riassume, si schematizza fino a semplificare i fatti, fino a renderli vuoti, caratterizzando in maniera netta i personaggi, talvolta trasformandoli in caricature. Dimenticando che si parla di uomini e che gli uomini sono piccoli contenitori dell’Universo. E così accade che dei buoni si tende a mostrare solo il buono e dei cattivi tutto il male, rischiando di ottenere il risultato opposto a quello sperato, rischiando di prestare il fianco a vecchi e nuovi revisionismi che guardano alla storia con un senso di revanscismo. Priebke si è sempre difeso sostenendo, come Eichman e tanti altri, che non si poteva che eseguire gli ordini, soprattutto quelli provenienti da Hitler in persona, pena la morte. Poi aggiunge un elemento molto interessante attraverso una domanda: “Cosa credete che abbiano fatto i militari americani che hanno sganciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki, se non eseguire gli ordini?” Non c’è dubbio che Priebke dovesse essere processato per i crimini commessi, come lo sono stati Hass e il loro superiore Herbert Kappler, e il fatto che i piloti americani che hanno sganciato le atomiche non siano stati processati non toglie nulla a questa mia convinzione. Anzi, caso mai aggiunge due imputati. E allora perché Montanelli sente il bisogno di perorare la causa di un ex capitano delle SS responsabile della morte di 335 persone? Forse perché il processo fatto a Priebke era l’ultimo possibile contro il nazismo, contro il male, perché questo ha rappresentato il nazismo: ha rappresentato il male. Rappresenta il punto d’incontro di un’umanità con pochi punti di riferimento e con tanta paura di rivivere certe epoche. E allora Priebke ha rappresentato l’ultimo dei vinti, e quello contro Priebke è stato l’ultimo processo dei vincitori. Un proverbio indiano dice che ogni uomo ha un lupo nero e uno bianco che combattono dentro di sé e che a vincere sarà quello che nutriremo di più. Mi sento di dire che Priebke ha preferito sfamare il lupo nero. E d’altro canto non credo che i piloti americani abbiano sfamato solo quello bianco. Ma qual era l’alternativa? Le alternative sembrano essere riposte in un esercito di martiri disobbedienti o nella fine di ogni guerra. E non so a quale delle due credere di meno. Edoardo Romagnoli
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