Aspettando il cielo

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fiction

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GIANLUIGI VALGIMIGLI

ILC I E L O ASPETTANDO

GINGKO

EDIZIONI


AspettAndo il cielo © 2014 Gianluigi Valgimigli © 2014 GinGko edizioni Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it

i edizione maggio 2014 isBn 978-88-95288-38-3 progetto grafico di copertina: © 2014 AtAlAnte immagine di copertina: © Gianluigi Valgimigli

Tutti i diritti dell’opera sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta o usata in alcuna forma senza previo consenso degli aventi diritto.


Gianluigi Valgimigli è nato a faenza, città nella quale ambienta la maggior parte dei suoi scritti. disegna fumetti, suona la chitarra, e produce brani musicali propri in stile folk e rock. fa parte del duo musicale folkcountry “i falchi della strada” e della rock band “i tombini Aperti”. nel 2009 ha pubblicato la raccolta di liriche Lacrime di sangue dal mio piccolo mondo, presso edit faenza. nel 2013 è uscito per la claudio nanni editore il suo secondo libro di poesie Notturno andante ovvero Blues dei letti disfatti. nel 2010, dopo la nascita di suo figlio Mario, l’autore si è trasferito a imola, dove attualmente vive. Aspettando il cielo è il suo primo romanzo.



INDICE

prefAzione di Claudio Nanni introduzione di Marco Ferrari

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cApitolo uno

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cApitolo due

39

cApitolo tre

51

cApitolo QuAttro

65

cApitolo cinQue

69

cApitolo sei

79

cApitolo sette

83

cApitolo otto

91

cApitolo noVe

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cApitolo dieci

105

cApitolo undici

notA dell’autore rinGrAziAMenti



PREFAZIONE

N

ella provincia di Ravenna la città di Faenza è un centro, affacciato tra la via Emilia e il West (Guccini docet), rinomato da tempo per l’agricoltura e le industrie, principalmente per la ceramica, la cui posizione geografica è, dai tempi più remoti, favorevole agli scambi commerciali e culturali. A est di Faenza la piatta pianura agricola giunge fino al mare Adriatico. Il West è un territorio vasto che prende l’arco appenninico fra il Lamone e il Senio, in cui troviamo diversi paesi sparsi nel dorso di colline morbide, dove le coltivazioni giungono a culminare nei brulli calanchi delle cave del gesso nei dintorni, fra Brisighella e Riolo, entrambe località note per le famose acque termali, che consentono terapie idroponiche a cittadini giovani e anziani, che necessitano di tali cure; oltre, i paesaggi collinari diventano più aspri e selvaggi verso Casola Valsenio, Fognano e Zattaglia, e nella zona interna verso Borgo Tossignano e Fontanelice, nell’imolese. A sud-est di Faenza, dal Lamone verso Modigliana, il West continua fra campi che si alternano a zone boschive di pini, cipressi, abeti, prugnoli e sorbi, dove il dolce paesaggio rurale diviene a tratti misterioso, fin’oltre Oriolo dei Fichi, nei primi contrafforti appenninici dove si affaccia l’ulivo e dove, nel 1986, fu ritrovato il cranio completo di un mammuth, l’elefante preistorico, che viveva in queste lande nella lontana era Mesozoica. In mezzo a questa natura fluente sorge Borgo Tuliero, dove Gianluigi Valgimigli cresce a contatto diretto con la i


campagna, nelle narici gli odori della terra e delle piante di rovo, ginepro e ginestra. Qui, col suo fucile e i cani, gira, va a caccia, scruta oltre l’orizzonte la montagna o il mare o anche solo semplicemente la vita che passa attraverso i suoi occhi. È in questi luoghi, nel “Rifugio dell’Anima”, la tana di Pietro, Pelle di Lupo, nella Valle della Balda, che egli coltiva la sua vena artistica, che gli cresce nell’intimo delle sue notti di veglia, maturando nelle note arrabbiate di chitarra che compongono le canzoni dissacratorie che egli scrive e canta con rabbia contro una società in cui non trova la propria collocazione ideale. Un malessere che si traduce nel rock blues jazzato, che Gianluigi interpreta con la vigoria di un menestrello dell’epoca moderna, che interpreta la dura realtà quotidiana nel gergo popolare ben comprensibile a chi sa intendere. Questa rabbia ha una storia lontana di sofferenza interiore, di inquietudine e insoddisfazione, che sfocia nel rigurgito urbano, in cui si trova quando egli esce dal ventre umido della terra ed affonda le mani nell’addome grasso della città, Faenza. Le distanze non esistono più, stracciate da comunicazioni che sulle vie di internet bruciano tappe ritenute invalicabili fino a pochi decenni fa. Il mondo globalizzato accorcia gli spazi, i luoghi e le culture, da cui Valgimigli ha attinto il flusso letterario, musicale e artistico tipico della propria generazione. Egli alterna una scrittura aspra, quasi cattiva, a momenti estetici di pura poesia, esprimendo passioni ed emozioni che coinvolgono il lettore fino alla fine del romanzo. Aspettando il cielo è un romanzo che riguarda una gioventù arrabbiata che in questa società non trova sbocco alle proprie legittime aspettative, ad una collocazione che resta qualcosa di confuso e consolida inquietudini e delusioni. La sua ispirazione trae spunto dal contrasto fra l’ambiente rurale ii


e quello urbano della piccola grande città che è Faenza, dove i suoi personaggi prendono vita, fra le pareti domestiche e le fughe da una dimensione all’altra, dalla periferia industriale alla campagna, dove, come forma di ribellione al proprio malessere quotidiano, si svolgono i “fatti” che hanno il sapore di un sesso usato come provocazione, arma contro il sistema, un erotismo brutale smembrato di ogni sentimento, di atti di vandalismo come sberleffo contro l’apatia dell’apparato borghese, della società puritana, del perbenismo bigotto. Un’aggressività contro la routine di un lavoro monotono, sempre uguale, contro case, abitazioni domestiche, in cui si vive una vita piatta, fatta di stimoli scarsi, contro i simboli di un capitalismo che opprime le persone relegando chi non accetta di rendersi schiavo ad un destino ingrato, ad una sfiducia corrosiva, ad una povertà affogata nell’alcol, nella psicosi e nel suicidio. Una madre si ubriaca, tenta di togliersi la vita e viene salvata dal figlio in un rincorrersi di situazioni deprimenti, squallide e pur sempre violente. La miseria umana passa anche dalla disperazione della povertà economica, dalla disoccupazione, dal grande vuoto che ingloba il mondo. Nel frattempo si consuma con superficialità un amore che non è altro che passione, attrazione fisica, che nell’immaturità della coppia porta alla nascita di un bambino, anima innocente in mezzo alla tempesta. Quindi l’infedeltà, il tradimento, che accompagna la bruttura, la reazione di sconforto e di abbandono. La storia di un amore torbido, gravido di un erotismo aggressivo rivela un malessere di fondo che origina stupore e aspettativa, mentre in realtà non c’è altro che un proseguire degli eventi, come prosegue la vita fuori dal suo incanto. Vi si coglie l’amarezza di un ambiente familiare rarefatto, in cui i sentimenti sembrano avulsi dalla realtà e resta la maiii


terialità cristallizzata negli elementi che compongono il quadro di un’evasione dal quotidiano, l’inganno, il sogno irraggiungibile. Faenza con le sue viuzze del centro storico, la stazione, diventa lo scenario notturno del vagabondare, quasi con un senso di vaga depravazione, di perdizione per uscire da un vuoto e rincorrere un cielo che tarda a venire. Nel romanzo sembra di intravedere al di là di una metropolitana virtuale la prateria, il selvaggio West della collina appenninica romagnola, dove alcol e parole si mischiano ai sogni, alle illusioni e alle delusioni. La collina, il bosco, il rifugio sono vissuti come spazi di libertà, in cui i giovani protagonisti trascorrono serate a bere e a parlare, cercando di essere se stessi, nudi nella realtà e nel sogno, in un’apparente solidarietà e in un’immensa solitudine. Accadono cose, ma la scena resta nella sofferenza di un immobilismo che denota l’incapacità a costruirsi una propria autonomia (aspettando il cielo, aspettando Godot).

clAudio nAnni, scrittore, poeta, editore, ha vissuto a edimburgo e a londra. È stato assistente sanitario presso il servizio di salute Mentale di ravenna e presidente dell’Associazione di Volontariato per la promozione della salute Mentale e psicofisica, organizzando diverse missioni umanitarie nei territori dell’ex Jugoslavia. iV


INTRODUZIONE

G

li esegeti faticheranno ad inquadrare il romanzo di Gianluigi come narrazione d’inizio millennio perché lo spaccato dei suoi giovani protagonisti appartiene ad una nicchia ‘‘incasinata’’ del panorama adolescenziale contemporaneo. Lo si intuisce constatando che in tutto il romanzo nessuno sfiora mai una tastiera, né mai uno sguardo accarezza un display: ci si conosce per la strada e non su facebook. Sarà forse anche per questo che è facile affezionarsi ai protagonisti. Gli incontri tra i vari personaggi sono sempre caratterizzati da una fisicità piena: faticano a capirsi, e se lo dicono chiaramente, ma hanno la pazienza di ascoltarsi, dote assai rara nella nostra società. Inspiegabilmente continuano a conservare nell’animo il mito dell’amore che deve durare per sempre. Tanti adolescenti hanno bisogno di credere che una storia non avrà mai fine, malgrado attorno a loro lo scenario dica inequivocabilmente il contrario. Sentono un viscerale e contraddittorio bisogno di credere nell’eternità dei sentimenti, quando la frammentazione è palese ovunque. « Io la mia vita l’ho già vissuta, adesso sto aspettando il cielo... ». È triste che a pronunciare questa frase sia Pietro, un uomo poco più che cinquantenne che dalla vita ha subito molti più schiaffi che soddisfazioni. E l’amarezza cresce, considerando che si tratta del solo adulto che goda della stima del gruppo di amici di suo figlio. Fanno tenerezza i ‘‘novelli Don Chisciotte e Sancho V


Panza’’, Rocco e Peppi, che guerreggiano contro stendipanni e tricicli. Più che l’azione di due Black blocks, la loro rappresaglia è più simile ad un atto di goliardia per combattere la noia. Ha senso che i protagonisti accusino la propria città di provincialismo: in gioventù si ha il diritto di detestarla, perché il mondo al di fuori di essa attende. Spesso è solo dopo aver vissuto in altre realtà che si riesce ad apprezzare le cose positive del proprio luogo di origine. Ma neppure l’alternativa di trasferirsi in un’altra città o in un altro Paese viene presa in considerazione dai nostri protagonisti: « È impossibile andarsene da qua... ». Essi sentono di non essere in grado di ricostruirsi una vita, e riappare il pessimismo cosmico nelle parole di Franco: « Guarda me, che sono in manette a vita ». In Aspettando il cielo, tra i simboli positivi per eccellenza troviamo il fornaio (ma solo dalle-alle, cioè in assenza della clientela) e l’entroterra appenninico alle spalle di Faenza. Non si tratta della semplice esaltazione di un ambiente bucolico in quanto tale, le distinzioni sono nette. Ci sono luoghi impervi, ma c’è per fortuna il Rifugio dell’Anima in cui ritemprare il proprio essere. Ci sono esseri da abbattere senza pietà, e c’è la realtà della reincarnazione del compagno morto in un rapace maestoso. Veder volare nel cielo il falco con la sua danza dell’eternità è senza dubbio la fonte di energia che permette ai protagonisti di affrontare un nuovo giorno e, magari, far rinascere la speranza.

MArco ferrAri è scrittore e professore di elettronica. nel 2011 ha vinto il concorso letterario indetto dall’‘‘Associazione culturale 150 strade’’ di Velletri, con il racconto Una cicatrice nel cuore. Ha pubblicato diversi libri e raccolte di racconti. Vi


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Al Grande Capo indiano Pelle di Lupo, sacro eremita del Rifugio dell'Anima e a Moral, Signore dei Falchi che dall'alto dei cieli veglia in eterno su tutta la Balda.



UNO

L

a sera scendeva, il sole moriva all’orizzonte. Di là dalle valli una luce rossastra andava spegnendosi. Sulla Balda era tempo di tramonto. « Eh, va be’... è andata così... ». Pietro, capo indiano Pelle di Lupo, sacro eremita del Rifugio dell’Anima, stava seduto su un calanco ad osservare lo spettacolo del giorno che sfuma in sera e la sera che sfocia in notte. Tutte le volte, sì, tutte le volte che se ne stava assorto a contemplare l’arrivo del crepuscolo, una strana e piacevole malinconia s’impadroniva di lui. Gli occhi si bagnavano mentre i ricordi dei tempi andati gli offuscavano la mente. Laggiù, lungo la valle che ora si stendeva silenziosa innanzi a lui, Pietro poteva ancora sentire l’abbaiare dei cani e i fucili che sparavano, le bestemmie lanciate per aria se la preda fuggiva... le storiche battute di caccia... quando lui c’era ancora... « Ohi » chiamò ad alta voce, la testa rivolta al cielo. « Vecchio mio, dove ti sei sparito? Tutt’oggi insieme a me, e adesso ti sparisci? Proprio adesso che arriva il bello, e c’è uno splendido tramonto da ammirare... ehi imbezèl vieni mò a vedere che spettacolo... ». Il Moral gli aveva tenuto compagnia per tutto il giorno,


Gianluigi Valgimigli

ma da un’ora non si vedeva più. « Sarai stanco vecchio, eh? D’altronde monti sempre la guardia, dovrai pur riposare ogni tanto. Non preoccuparti, fratello! ». Si asciugò una lacrima con la mano sinistra e si alzò in piedi. Il buio sarebbe giunto in fretta e il Rifugio dell’Anima non era dietro l’angolo. Per andar lassù, lassù nel Santuario della Croce, aveva risalito un colle e si era fatto strada tra la vegetazione di un bosco che era cresciuta parecchio dalla sua ultima visita, l’inverno scorso, con la neve alta un metro. Perdono, il suo fedele coltello dal quale non si separava mai e che portava in una custodia allacciata ai pantaloni, aveva mozzato gli arbusti e i rovi, come burro. Il giorno in cui il Moral divenne falco e lui decise di erigere un santuario alla sua memoria, Pietro cominciò col costruire una grande croce, più alta e più grossa di lui, sulla quale incise le parole di una poesia dedicata all’amico fraterno. Quella grande croce sarebbe diventata La Croce. La trasportò sulle spalle, piangendo, dal Rifugio fin su per le valli. Senza mai fermarsi proseguì dritto verso il bosco, e solo lì si ritrovò costretto ad adagiare la croce in terra, con delicatezza perché non si rovinasse, e ad estrarre Perdono per farsi largo tra la frasca. Tagliava, liberava il passo, poi tornava a caricarsi la croce sulle spalle, sempre così fino ad uscire dal fitto bosco. Ormai era notte, era partito di sera ma il buio l’aveva colto. Le stelle in cielo e una mezza luna erano l’unica fonte di luce. Ripetendosi che ormai fosse fatta, riuscì a risalire il calanco sfruttando le sporgenze per adagiare prima la croce e poi tirarsi su ed issarla. Il sudore gli colava sugli occhi, mischiandosi alle lacrime. Questo è per te, Fratello! aveva detto mentre piantava la croce sulla cima del calanco, rivolta alla grande valle 22


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della Balda, dove un tempo cacciavano assieme e scherzavano e ridevano e piangevano, lui e il Fratello. Da allora il falco era giunto e sulla croce, spesso, si posava. Così era nata la leggenda della Balda. Una leggenda che per lui rappresentava una tra le più epiche d’ogni tempo. Ora, indugiando ancora lassù per qualche istante davanti a quella Croce, rileggeva per la millesima volta quelle parole che lui stesso aveva scolpito, la preghiera indiana al grande dio Falco. « Buonanotte vecchio! » si voltò e cominciò a scendere il calanco, diretto al bosco, appena sotto di qualche metro. Una volta giunto al colle, ai cui piedi sorgeva il Rifugio, Antia gli andò incontro, sbucando da un cespuglio di more selvatiche. « Ehi Puzzina! » la salutò, chinandosi ad accarezzarle il muso. Antia gli leccò la mano. Probabilmente sentendo il sapore amaro delle lacrime del padrone, d’un tratto la bestiola fuggì via, diretta chissà dove. Adesso sì che era buio. Gli animali notturni cominciarono il loro concerto. Pietro entrò nel Rifugio dell’Anima e tirò giù il materasso, incastrato al soffitto, ci si stese sopra e si mise in ascolto. Adorava il suono della notte, gli uccelli che fischiavano, il frusciare di qualche bestiola che s’insinuava tra l’erba, le rane e qualche rapace che intonavano un lugubre lamento... Si ritrovò all’improvviso a pensare a una notte di tanti anni prima. Venticinque o più. Marco, suo figlio, non era ancora nato... non era nemmeno in progetto, c’erano solo lui e sua moglie... A quel tempo il Moral scoppiava di salute e insieme facevano delle epiche battute di caccia che potevano durare giorni e giorni... il Rifugio dell’Anima l’avevano scoperto da poco e ovviamente era ancora un rudere col tetto bucato.

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Gianluigi Valgimigli

La prima notte che ci aveva dormito con sua moglie avevano fissato le stelle attraverso i buchi del tetto, standosene sdraiati sul freddo pavimento di cemento. Avevano fatto l’amore più e più volte, con passione e ardore, con gli animali unici testimoni del loro piacere spirituale, perché sì, quello non era più piacere carnale, non poteva più esserlo... Quella stessa sera avevano festeggiato il loro matrimonio indiano, era la prima notte di nozze. In realtà, si erano sposati tre anni prima, ma quello non contava, si era trattato di una comunissima celebrazione in chiesa come tante altre. E invece in quella sera stellata al Rifugio dell’Anima Pelle di Lupo, l’indiano, aveva deciso finalmente di unirsi profondamente alla sua dama. Aveva fabbricato lui stesso gli anelli e le collane, con corda di pelle e ossa di animali, e marito e moglie si erano adornati i capelli con piume di uccello e si erano pitturati il viso. Lui le aveva scritto una poesia, come voto matrimoniale, e lei lo aveva ascoltato ammirata, continuando a pensare che tutto quello non poteva accadere realmente. Dopo era giunto il momento di amarsi e lei, raggiungendo l’estasi estrema, aveva urlato il suo nome, Pelle di Lupo, il nome del suo uomo, alla Balda intera. Oh sì, era stato tutto così perfetto quella sera, in un’epoca tanto lontana, quando ancora poteva permettersi di amare la sua donna e poi di telefonare al Moral e dirgli « Ohi, basterd, stasera si va su, eh? ». Si stese per rilassarsi e rimase ad ascoltare gli animali notturni, ma ben presto scoprì di essere agitato e si rigirò sul materasso, sudando. S’impossessò di lui il demone della scrittura e sentì di dover sfogare ciò che aveva dentro, vomitando parole su un foglio. Prese carta e penna e cominciò a scrivere, scrivere, scrivere... buttava giù tutto, senza pensare. 24


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I primi problemi seri erano emersi con la nascita di Marco, anche se in verità c’erano sempre stati sotto la superficie; problemi con la sua famiglia, con sua madre e con suo fratello, e soprattutto con quel vecchio figlio di puttana di suo padre, la persona che più odiava al mondo. Era stato a causa di quest’odio che, appena aveva potuto, era scappato con moglie e figlio dalla loro abitazione e li aveva rinnegati totalmente, creandosi un alter ego, Pelle di Lupo, cominciando a dire che discendeva dagli indiani d’America e tutto il resto... Suo padre — faccia perennemente seria, mai un abbraccio, mai un segno d’affetto, mai un sorriso, solo le cinghiate e le umiliazioni continue, il suo credersi sempre superiore e il suo sadismo nel farlo sentire una merda — ricordava tutti gli anni dell’adolescenza sprecati a cercare di instaurare con lui un rapporto, un segno della sua approvazione. Gli sembrava ancora di sentirlo: “Sono io il capo qui, comando io su tutto, li porto io i pantaloni”, mentre quell’ameba di sua madre non reagiva e accettava di farsi trattare da schiava, e mai una volta che lo difendesse dagli atteggiamenti violenti di lui. E poi era nato suo fratello, che al contrario di lui aveva tutto: l’amore, l’approvazione, i sorrisi, suo fratello il bambino prodigio! E quando erano cresciuti e suo fratello si era iscritto all’università di Bologna, a legge, lui aveva già la schiena spezzata da anni di duro lavoro e solo la terza media. Così suo padre e sua madre riverivano il fratellino da studente modello, come un dono della natura, il quale poteva girare a testa alta per la casa e permettersi di rispondere male e di urlare addosso a sua madre, se faceva rumore con le pulizie di mattina presto alla domenica. E tutto perché il “poveretto” aveva studiato fino all’una ed era stanco e pretendeva di dormire. Lui, invece, si alzava alle quattro per andare in fabbrica e 25


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mai avrebbe osato lamentarsi, era il figlio zuccone e tutto il resto... Pietro si fermò, smise di scrivere per un istante. Non era esattamente quella la verità. Lui non era il figlio zuccone, no, si ricordava bene quando suo padre, l’estate dopo la terza media, lo aveva chiamato in casa per dirgli di abbandonare la scuola e pensare ad andare a lavorare, perché i soldi in casa servivano e lui ormai era uomo fatto e poteva benissimo cominciare a darsi da fare nel campo come fanno gli uomini fatti. Ecco, era stato per questo che non era andato più a scuola. Il suo primo lavoro l’aveva ottenuto in un’azienda agricola fuori Faenza, e il padre aveva preteso che tutti i soldi andassero a lui, per costruire una nuova casa, un investimento, diceva, un giorno ne vedrai i frutti. I frutti c’erano stati, ma solo suo padre ne aveva goduto. La casa si era ingrandita, si era espansa, un altro appartamento era sorto al piano superiore. Poiché ovviamente era il caso di risparmiare sui muratori, chi meglio di Pietro poteva dare una mano, dopo aver già passato una massacrante giornata al lavoro? Poi, a diciotto anni, mentre suo fratello traghettava verso le superiori che lui non aveva potuto frequentare, era arrivato il lavoro in fabbrica. Massacranti giornate tutte uguali, senza fine... Solo la leva obbligatoria lo aveva salvato, e se n’era andato militare. E fu proprio in quel periodo che conobbe il Moral e divennero subito fratelli per l’eternità. Fu sempre durante la leva che perse la verginità, con una puttana che riceveva in casa. Ricordava come la donna fosse andata su tutte le furie e l’avesse sbattuto fuori dopo essersi accorta che era venuto dentro al preservativo, in due botte, senza dirglielo perché aveva voluto rendere il rapporto il più duraturo pos26


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sibile. Ma la leva terminò e dovette tornare alla sua vita di prigione e al suo lavoro in fabbrica. Le battute di caccia in compagnia del Moral avevano rappresentato l’unica fonte di svago, alla domenica. Altre volte, i bagordi in giro per i monti e con le donnine per Faenza. Proprio una di quelle donnine sarebbe diventata poi la sua moglie indiana... Gettò la penna e si prese la testa fra le mani. L’immagine di suo padre davanti agli occhi gli procurò un nuovo lancinante dolore. Un rancore profondo tornò a mordergli l’anima. I ricordi affondarono come lame affilate nel suo stomaco. Quel porco, quel porco schifoso s’era innamorato della sua giovane e avvenente moglie. Le si avvicinava e le diceva: « Ah! come lecco io la figa non la lecca nessuno... ». E quel giorno che lui era rincasato con la schiena distrutta, da una stressante giornata di fabbrica, e lei gli aveva detto, tremando, col bimbo in braccio, « Tuo padre mi ha attaccata al muro e ha cercato di baciarmi, mi ha toccato le tette e mi ha detto che mi desiderava e mi voleva assolutamente », lui, da vero signore, senza rabbia e in tutta calma, le aveva detto di preparare le valigie. Così se n’erano andati nel cuore della notte, senza dire nulla a nessuno, avevano alloggiato a casa del Moral e dei suoi genitori finché un contadino non aveva accettato di dar loro la propria tenuta di campagna, in cambio del servizio di guardia e del lavoro di Pietro come operaio presso la sua azienda. Non aveva mai più rivisto da allora suo padre. Dopo uno sforzo, sorridendo amaramente, si chinò e riprese la penna. « Ce n’è ancora da raccontare, ce n’è... ». Ricominciò a buttar giù parole. ‘‘Tutto è finito con un sogno’’ annotò, soffermandosi un istante. Un sogno di una villa in campagna, il sogno della sua 27


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vita, la sua famiglia, sua moglie e suo figlio, i cani... quella grande Villa dei Sogni che la banca si sarebbe ripresa. “Il sogno della mia vita, finalmente realizzato, finalmente concreto, ha finito per distruggere la mia vita...”. Un giorno aveva deciso che fosse giunto il momento. Si era fatto il culo sin da piccolo e sulla soglia dei cinquant’anni voleva raccogliere i frutti. Al telegiornale parlavano di una crisi nascente, una crisi che avrebbe minato profondamente l’economia generale dell’Italia, ma lui non se ne curava. Il padrone della casa presso cui lavorava lo aveva stufato con i suoi lavori umilianti e non ne poteva più di quella vita che mai aveva scelto. Riunì la famiglia a tavolino e cominciò ad esporre il suo progetto: la costruzione della Villa dei Sogni. Marco aveva diciotto anni, avrebbe finito la scuola quell’anno e sarebbe andato a lavorare, e così avrebbe potuto contribuire anche lui. La moglie aveva la sicurezza del suo stipendio di infermiera. E lui, Pietro, si stava già infilando a lavorare presso un’azienda di facchinaggio, grazie a una buona parola di un amico. Si poteva fare. Si doveva andare in banca e stipulare un mutuo, un mutuo che avrebbero dovuto pagare per anni, certo, ma che si poteva sopportare. La villa l’aveva già trovata: una costruzione a due piani in campagna, con un ampio parco privato, un fienile, un casotto e un pozzo. « Bisognerà ristrutturarla, ora è un rudere, ma per risparmiare ci lavoreremo io, Marco e un mio amico muratore, ora pensionato, da pagare in nero, tranquillamente! » aveva detto, entusiasta, alla moglie e al figlio. E così si erano indebitati con la banca per vent’anni, riuscendo quindi nell’impresa di ristrutturare il rudere, trasformandolo nella splendida abitazione a lungo sognata. Tutto era partito bene, ma la situazione era degenerata in 28


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fretta. Sua moglie aveva iniziato a cambiare, era diventata strana, scontrosa e apatica verso la famiglia. Il suo stipendio cominciò misteriosamente a sparire, così divenne dura pagare il mutuo a fine mese. Lui e suo figlio iniziarono a lavorare il triplo, a spaccarsi la schiena tutto il giorno cercando di starci dietro, ma le bollette s’accumulavano nei cassetti, nascoste dalla moglie che a loro diceva “sì sì le ho pagate!”, quando in realtà i suoi soldi finivano altrove. Insomma, tutto era andato a rotoli, tutto da buttare. Arrivò il momento di separarsi e lo fecero senza metter di mezzo avvocati, dato che i soldi mancavano, e lui, il vecchio lupo tradito e affranto, si era preso un affitto per i conti suoi. La foto della villa se ne stava ora nella bacheca di qualche agenzia. “Bello, proprio bello!”. Era andata così. Tentennò un attimo, poi urlò e la notte tutta risuonò del suo dolore inconsolabile. « Ora è là a marcire, quella fottuta casa, con una pazza che ci muore dentro, affogandosi d’alcool! Dioboia! ». Anche il Moral l’aveva abbandonato, in una fredda notte d’inverno; l’aveva lasciato solo con la casa da pagare, il fiato della banca sul collo e il fiato che puzzava d’alcol della moglie impazzita. Se l’era portato via il cancro. « Quella serpe ha cercato anche di avvelenarmi una sera. Mi ha messo il veleno per topi nella minestra, lo sai Moral, eh? ». Per fortuna Marco, che aveva spiato sua madre, lo aveva salvato. « Proprio lei, proprio lei che veniva a caccia con noi e con noi scherzava, ti ricordi, Moral? ». Pietro si battè con forza il pugno sul ginocchio. Sollevò il capo e gli parve di vedere lì nell’oscurità della stanza, a 29


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pochi metri da lui, avvolto in una luce diafana, il viso del Moral, poco prima della sua fine, con i suoi lineamenti ormai tirati ed emaciati, quasi irriconoscibile. Il cancro, quel porco schifoso se l’era mangiato da dentro! “Il tumore non deve più uccidere... Deve morire!” scrisse, a grandi caratteri cubitali, sulla pagina ormai tutta spiegazzata su cui prendeva forma il suo poema. Gli ultimi mesi erano stati un’agonia pazzesca, un pianto continuo; le storiche battute di caccia erano solo un ricordo sbiadito nel tempo. Prima dal Moral, a vederselo morire davanti ogni giorno di più, e poi a casa, la Villa dei Sogni diventata Villa degli Incubi, con sua moglie ubriaca che l’offendeva e gli urlava dietro ogni sorta di imprecazione. “Be’, mi sono proprio divertito nella mia vita, sì, proprio divertito. Ormai a cinquant’anni suonati, che potrò mai fare dopo essermi divertito così tanto? eh? che cosa?”. Si alzò di scatto dalla sedia e guardò fuori dalla finestrella del Rifugio, stropicciandosi gli occhi. Fissò il cielo. Da qualche parte il Falco, ormai ristorato, aveva sicuramente ripreso il suo volo.

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