ANUS
NONFICTION
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cinque anni ad auschwitz-BIRKENAU
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Anus Mundi (‘‘L’ano del mondo’’) è un termine usato nel 1942 da Heinz Thilo, un medico delle SS, per descrivere Auschwitz.
Wieslaw
KIELAR anus
mundi
cinque anni ad auschwitz-BIRKENAU
Traduzione dal polacco di Adam Zajaczkowski
GINGKO
EDIZIONI
Titolo originale dell’opera
Anus Mundi © 1972 by Wieslaw Kielar
Anus Mundi: Cinque Anni Ad AusChWiTz-BirKenAu © 2016 Gingko edizioni isBn 978-88-95288-67-3 Traduzione dal polacco di Adam Zajaczkowski GinGKo edizioni Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it
Progetto grafico di copertina: © 2016 ATAlAnTe
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A
vevamo cercato di restare assieme, e fino a quel momento la fortuna ci aveva assistiti. Anche quella volta. Ci trovavamo ancora tra noi, proprio come nella cella della prigione: Tadek Szwed, Djunio Beker, Romek Trojanowski, e il sottoscritto, seduti su una panca, ciascuno a stringere il piccolo fagotto che ci avevano consentito di tirarci dietro dal carcere di Tarnov. Io mi ero caricato con troppa roba, e la cosa peggiore — una vera seccatura — era quel cappotto invernale che i miei genitori mi avevano ansiosamente mandato prima della nostra partenza, chissà perché. Era estate, santo cielo! Cosa mai era passato per la testa ai miei vecchi? Forse, avevano immaginato che avrei potuto trascorrere l’inverno in carcere o a lavorare nei campi; d’altronde, era proprio lì che pensavamo stessimo andando. Con quel caldo, per via del pesante cappotto, dovevo sembrare un matto. I poliziotti che ci scortavano erano tolleranti. Ci permettevano di parlare gli uni agli altri e di fumare, se volevamo. Ma non potevamo avvicinarci ai finestrini. Nessuno intendeva fuggire, comunque. Benché ignorassimo dove fossimo diretti, non pensavamo di certo che sarebbe stato peggiore di una prigione. I nostri accompagnatori, ai quali provavamo a chiedere più volte dove si sarebbe concluso il viaggio, si ostinavano a mantenere il silenzio. Alla fine, uno di loro si sbottonò abbastanza da informarci che ci stavano scortando in un luogo in cui avremmo dovuto lavorare, ma dove si trovasse questo luogo non erano autorizzati a dirlo. Ad ogni modo, lo avremmo scoperto presto... Le nostre previsioni, dunque, erano corrette. Il tempo era splendido. Nulla di strano, visto che si era a metà
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giugno. I campi di grano ancora verdi, i boschi ombrosi, i villaggi e le piccole città scorrevano veloci dinanzi ai finestrini. La gente che faticava nei campi sollevava lo sguardo e salutava. Il nostro convoglio appariva perfettamente normale. Arrivammo a Cracovia attorno a mezzogiorno. L’intera stazione era addobbata di svastiche. Circolavano eccitazione e gioia evidenti tra i tedeschi. Dagli altoparlanti giungevano gli squilli della musica militare e discorsi stridenti: Vittoria! Parigi era caduta. Eravamo nel giugno del 1940. Continuammo il viaggio. Ci sentivamo scossi. Con notizie come quelle non poteva essere diversamente. I nostri accompagnatori tedeschi, viceversa, erano al colmo della gioia. Ci fermammo per parecchio tempo in una qualche stazione. Scoprimmo che si trattava della frontiera tra il Governatorato Generale [il territorio polacco sotto il dominio tedesco, 19391944] e il Reich. Proseguimmo. Più tardi, facemmo una sosta in quella che doveva essere, a giudicare dal numero di camion su entrambi i lati del treno, una stazione importante. Il nome di quel posto, scritto a grandi lettere sulla palazzina della stazione, era AuSChwITz. Qualcuno spiegò che si trattava di OSwIECIM. una discarica, o altro. Non ci pensammo su molto, perché il nostro treno iniziò a muoversi di nuovo. Poiché il convoglio curvava bruscamente e le ruote stridevano senza pietà, ci stavano deviando senz’altro su un binario di raccordo. Adesso, non ci era permesso di muoverci affatto. Non dovevamo neppure rivolgere lo sguardo in direzione dei vetri. Ci sedemmo. Il convoglio pareva singhiozzare. Avanzava per pochi metri, poi si fermava. Dall’altra parte del finestrino giungevano i suoni di voci che strillavano in tedesco, e quelli di piedi che correvano e calpestavano pesantemente il terreno. All’improvviso, le porte della nostra carrozza si spalancarono. Qualcuno dalla banchina gridò con tutto il fiato che aveva in gola: « Fuori! Datevi una mossa, pezzi di merda ». I nostri accompagnatori ci aiutarono a modo loro a saltare fuori dal treno — a forza di tremendi colpi alle spalle, sferrati con i calci dei fucili. Tutti ci slanciammo come matti verso la sola e unica uscita. uno per volta, saltammo giù dall’alta carrozza atterrando direttamente ai piedi di decine di SS; queste erano allineate in file che portavano verso un’alta recinzione che circondava un grande 8
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edificio. Picchiati, spinti e terrorizzati dalle SS che ci urlavano contro, iniziammo a correre come un gregge in preda al panico attraverso il cancello aperto. All’esterno dell’edificio dovemmo passare sotto nuove forche caudine, stavolta costituite non da SS, ma da uomini alti e dall’aspetto sinistro che erano vestiti in strano modo, come indossassero una specie di pigiama a strisce. Ciascuno di loro teneva in mano un grosso bastone che faceva ondeggiare di continuo, a destra e a sinistra. Io mi beccai un colpo sulla mano, ma per fortuna il cappotto che mi portavo dietro lo ammorbidì un po’. Saltai leggermente più in là, solo per ricevere un calcio da un altro tipo alto a strisce. Alla fine, il pestaggio si fermò e questi uomini cominciarono a farci mettere in fila. uno, dall’incarnato scuro e con penetranti occhi neri, corse lungo le file urlando, spingendo e posizionando la gente in modo tale che tutti formassero delle linee rette. Il resto di loro era in fila con noi. Notammo che sui pantaloni e sulle giacche che portavano erano stati cuciti dei triangoli neri o verdi, e sotto di essi i numeri da 1 a 30. Il numero 1 era un tipo dalle spalle larghe e la pelle scura, con la faccia da brigante. Era impegnato a contare le file, e dopo averlo fatto prese posizione di fronte a noi e, in piedi sull’attenti, comandò con voce tagliente: « Compagnia, alt! Giù i berretti! Sguardo dritto! ». Non avevamo la minima idea di cosa stesse succedendo, a parte che per ritenerci al sicuro avremmo dovuto aspettare ancora molto. D’improvviso, l’uomo a strisce ci ordinò di avanzare con una certa eleganza fino a un gruppo di SS che erano posizionate un poco di lato. A breve distanza da loro, egli si rizzò sull’attenti, battendo i tacchi e togliendosi il berretto con un movimento rapido, quindi procedette a parlare veloce in tedesco, una lingua di cui noi non capivamo una parola. una SS, indicando un edificio vicino, mormorò qualcosa in risposta, senza togliere la pipa di bocca. Quando la SS ebbe finito, l’uomo a strisce fece battere nuovamente i tacchi, indossò il berretto azzurro da marinaio, ruotò su se stesso e ritornò alla sua posizione precedente. un altro comando risuonò. Tutte le strisce uscirono fuori dalla fila e allinearono noi vicino all’edificio. Dopo averci suddivisi in piccoli gruppi, ci portarono nel seminterrato, laddove ci vennero requisiti gli effetti personali; ciò incluse la rimozione dei peli da ogni parte del corpo, dopodiché un bagno con acqua 9
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ghiacciata. Ci consegnarono infine una linguetta di cartone con un numero che doveva sostituire i nostri nomi da lÏ in avanti. Il mio numero era il 290, quello di Romek Trojanowski il 44, e Edek Galinski aveva il 537. CosÏ, in modo perfettamente semplice, diventammo numeri. PiÚ tardi, ci vennero restituiti i nostri abiti e fummo ammassati di nuovo nel cortile, dove dovemmo formare file di cinque. Due dei nostri numeri, che parlavano bene il tedesco,vennero nominati interpreti. Il primo loro incarico fu quello di tradurre le parole di un allampanato ufficiale SS, il quale ci informò che a partire da quel momento eravamo in custodia preventiva e condannati a trascorrere il resto della nostra vita nel campo di concentramento di Auschwitz. E cosa fosse esattamente un campo di concentramento stavamo per scoprirlo.
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iù i berretti! Su i berretti! Avevamo già imparato cosa significasse. L’ordine doveva essere eseguito in maniera istantanea ed elegante. Solo Dio poteva salvare coloro che ritardavano nel farlo. Poiché la gran parte della nostra tradotta era costituita da giovani, era più facile per noi far fronte alle difficoltà di esercizi quali saltare, ruotare, ballare e adempiere a simili molestie, sempre accompagnate da percosse e maltrattamenti. Era peggio per gli uomini di età avanzata. Essi davano maggiormente nell’occhio e quindi risultavano i più vessati. Grazie a loro, noi giovani riuscivamo a strappare qualche momento di pace e tranquillità ogni volta che le SS rivolgevano le loro attenzioni agli anziani. Anche se avevamo già imparato che coloro che indossavano abiti a strisce erano prigionieri come noi, venuti qui da Sachsenhausen, dove erano stati internati dal 1933, questo ci rendeva ancora più difficile capire come mai essi ci trattassero così brutalmente, anche quando non c’erano SS intorno. Spesso, erano peggio delle SS, perseguitandoci ovunque andassimo e battendoci con i loro bastoni. Era il motivo per cui molti di noi esibivano occhi neri o teste ammaccate. Eravamo stati istruiti sul fatto che dovessimo rivolgerci a tutte le strisce con ‘‘Signor kapo, signore’’. Quando ci rapportavamo a un kapo, dovevamo stare sull’attenti, eseguire un ‘‘giù i berretti’’ secondo le norme — anche se, in realtà, nessuno di noi possedeva un berretto — quindi recitare la frase: ‘‘Numero [dando il proprio numero del campo] rispettosamente a rapporto’’. Se si riusciva a farlo nel modo più rapido e corretto, si potevano evitare le batoste. Ma quasi sempre avrebbero trovato un qualcosa di sbagliato e, di
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conseguenza, occorreva sorbirsi un colpo o, se uno era fortunato, un calcio ben assestato. E le cose non si alleggerivano fin quando veniva quasi buio. E comunque, prima che ci venisse permesso di entrare nell’edificio, quel giorno dovemmo subire un’altra dura iniziazione. Agli ordini del kapo numero 1, tutti noi — ed eravamo più di settecento — dovevamo entrare nel blocco attraverso una stretta porta, dopo la quale bisognava incamminarsi fin dove erano stati preparati i nostri dormitori. Addestrati dall’amara esperienza, secondo cui ogni comando doveva essere eseguito immediatamente, ci gettammo tutti insieme verso quella porta. I kapo avevano già iniziato a battere i più lenti. Pertanto, tutti volevano raggiungere il più presto possibile la porta che avrebbe potuto offrire un certo riparo. Ma alla porta la ressa divenne indescrivibile. La gente si spingeva, strapazzandosi e soffocando, schiacciandosi e calpestandosi a vicenda. E dietro, furiosi e rabbiosi, i kapo ci assalivano, ci picchiavano e scalciavano, e ci colpivano con i bastoni alla testa, alle schiene e alle mani. urla, gemiti, imprecazioni. Finalmente, la porta mi salvò. D’improvviso, mi catapultai lungo un breve corridoio ma il mio piede ad un certo punto s’incastrò in alcune scale inaspettate. La gente mi cadde sopra e da qualche parte i colpi continuarono a piovere su di noi. Più veloci che potevamo, ci rimettemmo in piedi e corremmo su per le scale. Benché senza fiato, raggiunsi con un balzo finale l’ultimo gradino. In piedi, proprio di fronte al corridoio, c’era un enorme kapo che se ne stava a gambe divaricate. I suoi colpi si abbatterono con l’abilità dell’esperto: le orecchie mi fischiavano, in bocca avevo il sapore del sangue e, perché non ammetterlo, i miei occhi erano pieni di lacrime. Raccogliendo le mie ultime forze, corsi in una grande stanza in fondo al corridoio. Ero terrorizzato e fuori di me. Caddi sul pavimento che era stato cosparso con della paglia. Dopo un po’, la stanza si riempì di prigionieri che si trovarono fianco a fianco, malconci, feriti, ansanti, umiliati, atterriti e completamente esausti. Romek mi si sdraiò accanto. Respirava greve e non parlava. Djunio invece mormorava: « Bastardi », nel tentativo di alleviare i suoi sentimenti repressi. Ma ciò non serviva assolutamente a niente. Ci stendemmo sulla paglia cercando di non pensare a quello 12
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che sarebbe venuto. Non per molto, però. Il corridoio ben presto riverberò del suono di pesanti stivali. Andavano da una stanza all’altra. Dopo un po’, il kapo numero 1 e l’SS con la pipa tra i denti apparvero sulla porta. Qualcuno urlò: « Sull’attenti! ». Noi saltammo su con alacrità. Tuttavia, non tutti riuscirono a drizzarsi in piedi allo stesso tempo. « Rivoltanti pezzi di merda! Figli di puttana!» urlò il kapo. Con fare lento, Pipa si levò la pipa di bocca; i denti bianchi brillarono tra le sue labbra carnose. La sua voce, quasi dolce, in un sussurro comandò: « Seduti ». Noi ci sedemmo, lentamente, non tutti in una volta. Prima che gli ultimi potessero farlo, un nuovo comando, più energico: « In piedi! ». Saltammo su. Qualcuno in ritardo, di nuovo, ma Pipa non sembrò notarlo. Con calma, egli fece cadere la cenere dalla pipa, battendo ritmicamente contro lo stipite della porta. urlò d’improvviso con tutta la forza: « Seduti! ». Noi ci lasciammo cadere a terra. « In piedi! Seduti! In piedi! Seduti! In piedi! Seduti! In piedi! ». E così via; non c’era fine. Non riuscivamo più a respirare, anche perché di colpo non c’era più paglia sul pavimento, bensì una grande quantità di pula, ovunque — nei nostri nasi, nelle nostre gole, nei nostri occhi. Il kapo e Pipa si erano praticamente dissolti in questa pula. Dalla nube di polvere arrivò la voce infaticabile dell’uomo delle SS: « Seduti! In piedi! Seduti! In piedi! ». Quando sarebbe finita? Mentre le mie ginocchia diventavano di cotone, il mio corpo diventava sempre più pesante sopra di esse. Non si riusciva a vedere più nulla. Per fortuna, non si poteva neppure udire alcun comando; se n’erano andati. Cademmo sul pavimento che solo poco tempo prima era stato coperto di paglia. Qualcuno corse alla finestra e cercò di aprirla. Di fronte alle finestre, non molto lontano, si ergeva la baracca delle guardie SS. « Chiudi le finestre! » urlò un tedesco. Quando colui che aveva aperto la finestra non riuscì a sentirlo, il tedesco sparò una raffica di mitraglietta in segno di avvertimento. E lo fu davvero. Nessuno osò più avvicinarsi alle finestre. Si stava facendo buio. Ognuno cercò di trovare un posto dove poteva. La nostra compagnia di Tarnov rimase insieme. Da un angolo della stanza giunse una preghiera sussurrata ad alta voce. 13
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Degli altri si unirono. un urlo assordante ci raggiunse dal corridoio: « State zitti! ». Calò la quiete, e ci addormentammo. Solo Djunio Beker si agitò, battendo il pugno sul pavimento in una rabbia impotente, e, con le lacrime che quasi lo soffocavano, mormorò: « Razza di bastardi! ».
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