Cumparsita

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ROMANZO



CUMPARSITA è il tango più inciso, ascoltato e ballato di tutti i tempi. Sono innumerevoli le variazioni stilistiche di questo meraviglioso tango che, negli anni, è diventato l’inno dei tangueros di tutto il mondo. La paternità di Comparsita — così era intitolato il brano originario — appartiene al giovane uruguaiano Gerardo Hernán Matos Rodríguez, denominato ‘‘Becho’’. Aveva appena 16 anni quando compose quella che doveva essere una semplice marcia studentesca per uno dei carri allegorici del Carnevale del 1916. Studente di Architettura all’Università di Montevideo, Rodríguez l’aveva dedicata a ‘‘La Comparsa”, il circolo studentesco al quale era associato. Per iniziativa di un compagno di studi dello stesso compositore, il suo spartito arrivò successivamente tra le mani del pianista argentino Roberto Firpo, il quale, dopo averlo integrato con un suo tango strumentale, lo eseguì per la prima volta nella confiteria “La Giralda” di Montevideo, modificandone il titolo in La Cumparsita. Matos Rodríguez vendette in un secondo momento, per una manciata di pesos, la sua composizione alla casa editrice Breyer. Enrique Maroni e Pascual Contursi scrissero un testo per il brano e lo intitolarono “Si supieras”, che fu interpretato per la prima volta da Juan Ferrari. La Cumparsita, però, raggiunse il massimo livello di popolarità nel 1924, quando Carlos Gardel la incise su un disco con l’accompagnamento musicale dei chitarristi José Ricardo e Guillermo Barbieri. Dal 2 febbraio 1998 La Cumparsita è stata dichiarata “Inno popolare e culturale dell’Uruguay”.


Titolo dell’opera: Cumparsita © Copyright luglio 2010 by Nicola Viceconti © Gingko edizioni - San Pietro Capofiume (BO) I EDIZIONE luglio 2010 Collana Baiguo ISBN 978-88-95288-20-8

Progetto grafico di copertina: © 2010 ATALANTE Foto copertina: Daniel Montaño y Natalia Ochoa, Teatro Golden, Roma. © 2009 DANIEL MONTAÑO. Foto retro copertina: Tango, Daniel Montaño y Natalia Ochoa. © 2009 DANIEL MONTAÑO. Foto sul risvolto di copertina: Nicola Viceconti. © 2010 GIUSEPPINA SABELLI. Foto a pag. 3 del testo: Iolanda Spagnuolo e Nicola Viceconti (1927). © 2010 NICOLA VICECONTI.

GINGKO EDIZIONI via Luigi Pirandello n° 29 40062 San Pietro Capofiume, Molinella, Bologna (BO).

Tel. 051.6908300 Fax: 051.6908397 www.gingkoedizioni.it www.fuggicalipso.net

Per il bicentenario dalla nascita dello Stato, l’Ambasciata Argentina ha riconosciuto al libro e al suo autore il patrocinio ufficiale per il merito di aver promosso e contribuito a far conoscere la cultura argentina all’estero.


PREFAZIONE di Alfredo Santucci

Credo fosse simile al dolore ‘‘sottile e definitivo” di cui parla Haraucourt in una poesia di cui tutti conoscono l’incipit. Un’anticipazione del “distacco estremo”. Un assaggio di ciò che si può soltanto supporre di poter provare spegnendosi e rinunciando al mondo, specie quando il mondo è tutto lì, nelle cose che si conoscono. Chi partiva era certo di non tornare più. Tuttavia, le più significative ondate migratorie italiane tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, quasi sempre per la ricerca di un lavoro, sono in qualche modo collegate da alcune caratteristiche che hanno a che fare con la vitalità. Ci si muoveva seguendo le notizie approssimative di chi era già andato. Le informazioni viaggiavano attraverso reti informali, queste ultime basate sull’amicizia, sui vincoli di parentela o sulla semplice origine comune. È noto come in tale sistema di richiami alcune regioni italiane abbiano mostrato una propensione, se non un’autentica vocazione, per una destinazione piuttosto che per un’altra. Così, mentre alcuni paesi di provincia si svuotavano, nel nuovo continente prendevano forma comunità speculari a quelle di provenienza. La solidarietà da una parte e la capacità di accogliere dall’altra, sono state tra i fattori determinanti per la genesi di certe preziose combinazioni che oggi chiamiamo ibridazioni culturali. Una sorta di rinascita dopo la morte, quindi. Su questo e sugli altri complessi aspetti dell’emigrazione, esiste ormai una nutrita produzione letteraria. Perché, allora, un romanzo che muove dalla Lucania degli anni Venti, s’intreccia nelle operose avenidas di una Buenos Aires in costruzione, torna col cuore in gola da questa parte dell’Oceano Atlantico e trova, infine, un inatteso epilogo nell’Argentina dei nostri giorni? Scriveva Max Frisch, in un acuto articolo del 1965 sui preconcetti dei cittadini svizzeri nei confronti dei lavoratori italiani: cercavamo braccia, sono arrivati degli uomini.

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Ecco, dietro la grande quantità di dati che oggi conosciamo e al di là degli autorevoli contributi analitici e storici, il fenomeno dell’emigrazione, come tutti gli altri, si sostanzia nelle persone e nei loro vissuti. Una lettura postmoderna della storia, non più univoca, rende ogni ricostruzione ‘problematica’, segue coordinate plurime, divergenti, alternative e frammentarie. Non la storia data per sempre, bensì le storie, quelle individuali, come ricchezza delle possibilità di interpretazione, quelle delle quali non ce n’ è mai a sufficienza. Cumparsita, quindi, è uno di quei frammenti che contribuiscono a comporre almeno una parte dell’incerto mosaico della vicenda umana. La prima cosa che colpisce è la sua struttura narrativa. Un racconto nel racconto. Un memoriale che progressivamente diventa diario per annotare, in una corsa contro il tempo, tutti gli indizi che possono tornare utili per attribuire senso alla vita di chi lo redige. E pare quasi che a scrivere sia proprio lui, don Domenico. Sembra, cioè, che il personaggio creato dall’autore del romanzo sia vivo o sia realmente esistito. Nicola Viceconti, alla sua seconda prova di narratore, sceglie di adottare un punto di vista rischioso per i vincoli diegetici che esso comporta. Tutt’altro che distaccato e al di sopra delle vicende create, si cala nei panni di un uomo anziano e malato per raccontare, con una voce che sa di sigaro e di buon vino, un mistero la cui soluzione sfugge al protagonista e lo oltrepassa. Originario di Acerenza, Domenico ha seguito da piccolo la propria famiglia su un piroscafo, il Principessa Mafalda, che era più grande del suo paese. È sbarcato in una Buenos Aires che sembrava un immenso cantiere. L’intraprendenza sua e dei fratelli ha consentito alla famiglia Labriola di affermarsi, ma non è al successo che il vecchio dedica le pagine del proprio diario. La riflessione è rivolta piuttosto a quelle cose che nel corso della vita lo hanno riempito di meraviglia e che non sono più le stesse, né potrebbero esserlo. Il tango nuevo lo fa arrabbiare. I turisti italiani, quelli che al Caffè Tortoni consumano in piedi, lui li guarda con distaccata ironia. Persino le persone appaiono indecifrabili, dal momento


che il viggianese Saverio, suo amico fraterno, ha fatto perdere le proprie tracce lasciandogli la responsabilità del giovane Raúl. Nel quaderno rivivono le serate estive in cui Domenico e Saverio si introducevano nelle feste private senza alcun invito, forti della loro giovinezza. C’è il tifo accorato per Nino Benvenuti, nella notte in cui cadde sotto i pugni di un Carlos Monzón affamato di pane e di riscatto sociale. E poi si percepisce, dall’osservazione discreta di alcuni episodi, il cambio drastico del clima, l’ingresso dell’Argentina in uno dei suoi momenti più bui, quello della dittatura militare. Ai momenti di ottimismo si alternano la nostalgia e il senso di esilio rispetto alle cose. Timore, forse, di un’altra partenza. ‘‘Io l’ho danzata, la mia vita’’ grida il vecchio protagonista che ha cercato, per quanto possibile, di afferrare la propria esistenza e di essere lui a condurla, come si conviene ad un uomo consapevole. Cumparsita è certamente un tentativo di risarcimento per tutti gli emigranti del sud d’Italia, ma è anche una dichiarazione di profondo legame con l’Argentina. Non è un caso che prima di questa edizione italiana il libro sia stato molto apprezzato nella sua traduzione spagnola. Quella di Nicola Viceconti è una scrittura documentata e realistica, eppure tutto concorre a restituire un’Argentina favolosa e lussureggiante oltre il dato reale, proprio come la giovinezza quando sfugge.

ALFREDO SANTUCCI è nato a Carpineto Romano nel 1958. Si occupa di temi legati alla comunicazione e ai mass media. Autore e regista di numerosi documentari e di alcuni cortometraggi di fiction, ha diretto anche dei commercials. Tra i riconoscimenti ottenuti, il Sacher d’oro 1998 (a Tano Cimarosa, per l'interpretazione del suo ‘‘Polifemo’’ ), e il Premio migliore regia al V-Art di Cagliari 1999. È stato conduttore radiofonico e televisivo (su Radio Due con Hit Parade e Dischi caldi, su Rai Tre con Rockottanta). Oggi svolge attività di speaker e doppiatore per produzioni audiovisive.

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NICOLA VICECONTI, 1963, vive e lavora a Roma. Laureato in Sociologia e in Scienze della comunicazione, si occupa di comunicazione e mass media. È appassionato di storia e di fenomeni sociali dell’America latina, in particolare dell’Argentina. Cumparsita, già pubblicato in lingua spagnola (Acercándonos Ediciones, Buenos Aires, 2009), è il suo secondo romanzo. Ha pubblicato in Italia Ballerini per un… caso (Edizioni l’Arciere, 2008). Il suo sito web è: www.nicolaviceconti.it.


Cumparsita

A Francesco, mio padre. Ai viggianesi, acheruntini e lucani di tut to il mondo. Agli argentini, italiani come noi .


I personaggi e gli eventi di questo romanzo sono frutto di fantasia e non corrispondono pertanto a persone e situazioni reali.


Fumar es un placer genial, sensual... ...Mientras fumo, mi vida no consumo porque flotando el humo me suelo adormecer.... Por eso estando mi bien es mi fumar un edén. * JUAN VILADOMAT MASANAS, FÉLIX GARZO

PROFUMO DI QUINTERO

a cenere del sigaro, ormai consumato, cadde. Un colpo di vento la fece volare, intatta, sulla pantofola, mentre il mozzicone mi rimase incastrato tra le dita della mano appoggiata al bastone. Me ne infischiai, e continuai a battere il tempo dell’orologio con il tagliasigari sul bracciolo di legno della poltrona. Era il 22 novembre 2006, una tipica giornata di primavera a Buenos Aires. Il vento tiepido dal nord annunciava l’arrivo della stagione calda. Gli alberi fioriti lungo il viale dell’ospedale oscuravano la luce del sole. Formavano una galleria di fiori colorati. Io fumavo beato, godendomi il paesaggio dalla finestra della stanza. Graciela, l’infermiera del turno pomeridiano all’Hospital General de Agudos ‘‘T. Alvarez’’, entrò con un vassoio. Portava un thermos, un vasetto con foglie di erba mate, una bombilla di metallo e un piattino di Alfajor, biscotti ripieni di dulce de leche. « Signor Domenico! Ci risiamo? Quante volte dobbiamo dirle che non può fumare? Butti via immediatamente quel sigaro! Tra poco passerà il dottor Serrano per la visita pomeridiana ». Rimasi immobile, continuando a fissare il vialetto alberato fuori dalla finestra. Passarono alcuni istanti. « Signor Domenico, si sente bene? ».

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* Fumare è un piacere geniale, sensuale... Mentre fumo, la vita non consumo perché mentre il fumo volteggia, solitamente mi addormento. Per questo mio star bene, il mio fumare è un paradiso.


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« Certo Graciela, mai stato meglio! Come ci si può sentire dopo aver assaporato l’aroma di un Quintero Pantelas, standosene comodamente seduto in poltrona? ». Lei accennò un sorriso, poi spalancò di corsa la finestra per fare uscire quel fumo denso dalla stanza. Mi rimproverò per la seconda volta mentre mi accompagnava a letto, attaccò di nuovo la flebo e, amorevolmente, mi coprì con il lenzuolo. Graciela era una bella donna, di circa cinquant’anni. Portava sempre i capelli raccolti. La direzione dell’ospedale lo imponeva a tutte le infermiere. I suoi occhi verdi risaltavano sulla pelle olivastra del viso. « È molto cara Graciela. Le sono grato per le attenzioni che mi rivolge, ma non posso fare a meno dei miei sigari ». Fumavo da sempre la stessa marca. Me li facevo mandare direttamente da Cienfuegos, Cuba, confezionati in preziosissime scatole da 25 pezzi. Sotto il materasso ne tenevo nascosta una, legata alla rete del letto. Averli a portata di mano mi tranquillizzava. Tentai di spiegare a Graciela l’importanza del sigaro per un fumatore come me, cercando di spogliarla del ruolo di infermiera. Forse ci riuscii. « Fumare un sigaro » le dissi, « per me è un momento di riposo. Mi rilassa. Insomma, mi provoca uno stato di benessere mentale. Quando lo fumo, mi abbandono ai pensieri, ai ricordi, ai momenti più importanti della vita. Oggi sentivo il bisogno di ricordare ». « Perché proprio oggi? » domandò lei, « è una ricorrenza speciale? ». « Il 22 novembre » risposi. « Lo stesso giorno, cinque anni fa, lo trascorsi affacciato alla finestra aspettando Raúl. Quel pomeriggio la gente passava in massa sotto casa per andare all’inaugurazione di Paseo Alcorta ». Graciela sospirò. Per un attimo interruppe quello che stava facendo, poi disse: « Ricordo perfettamente il giorno dell’inaugurazione di una nuova ala di quel centro commerciale. Era la fine del 2001, un periodo da dimenticare! C’ero anch’io quel pomeriggio. Mi ci portò mio marito ma non spendemmo neanche un peso ».


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Mi girai su un fianco, facendo avvitare su se stesso il tubo della flebo. Iniziai a fissare la luce che penetrava dalle fessure della persiana. « Stavo pensando a quel vecchio proverbio argentino » dissi a Graciela. « Quale? ». « Un argentino guadagna un peso e ne spende due! Mi pare sia così, o una cosa del genere ». Graciela sbuffò e sistemò il tubo della flebo. « Altri tempi, signor Domenico! ». Erano davvero altri tempi! Dal 2002, invece, i cittadini di Buenos Aires non poterono più comprare nulla. Tutto costava il doppio, il triplo. Il pane, il latte, la carne, perfino i sigari erano rincarati. La gente stentava ad andare avanti e non faceva acquisti che non fossero beni di prima necessità. Anche la mia elegante casa subì le conseguenze di quella terribile crisi. La manutenzione lasciava un po’ a desiderare e segni d’incuria, qua e là, si potevano vedere mano a mano che ci si avvicinava. Il giardino, incolto da qualche tempo, e le grondaie ormai arrugginite rappresentavano solo alcuni segni dell’abbandono. Erano gli effetti di quell’indispensabile “taglio alle spese” che dovemmo affrontare tutti noi argentini. Forti restrizioni alle quali nemmeno un benestante come me riuscì a sottrarsi. Certo, la mia era pur sempre una bella casa in un quartiere raffinato della città, tuttavia appariva senza trucco, un po’ spenta come una vecchia attrice di avanspettacolo andata ormai in pensione. L’avevo costruita con le mie mani, mattone su mattone. Fu una delle prime costruzioni che l’impresa edile Labriola Hermanos realizzò nel barrio di Palermo. L’avevo dotata di tutti i confort. Graciela terminò il suo turno. Era ormai pronta per andare a casa ma, come tutte le volte, le dispiaceva lasciarmi. Si appassionava molto ad ascoltare i miei racconti. Io la conoscevo da circa un mese, dal giorno del mio ricovero. Era un’infermiera che non si limitava all’assistenza clinica, o alla semplice somministrazione delle medicine. Andava oltre. La mia condizione di vecchio solo le ispirava


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tenerezza e i suoi slanci di affetto nei miei confronti m’imbarazzavano. Per la prima volta in tutta la mia vita qualcuno aveva trovato, tra le pieghe del mio caratteraccio burbero, un aspetto piacevole. Anche quando non perdevo occasione per brontolare, Graciela me lo lasciava fare. Sapeva che era l’unico modo per riuscire a rasserenare l’animo di chi, come me, era abituato da sempre a dare disposizioni e non tollerava di essere contraddetto. Sebbene fossi il più piccolo dei miei quattro fratelli, infatti, ho sempre organizzato l’attività dell’impresa di famiglia e gestito direttamente gli operai nei diversi cantieri sparsi per la città. Ho saputo fare bene il capo. Possono ben dirlo tutti, dai miei operai alla signora Paula, fedelissima segretaria che non mi ha mai mollato un solo giorno in quasi quarant’anni di lavoro. Graciela si cambiò e venne a salutarmi prima di andare via. « Sono curiosa di conoscere il seguito di questa storia. Domani continuerà a raccontarmi di Raúl, senza però perdersi in chiacchiere nel descrivere il piacere che prova quando fuma il suo sigaro ». La fulminai con lo sguardo. Facevo così ogni volta che qualcuno denigrava i miei piaceri, le mie passioni. Per me quello era un rito. Il rito della degustazione. « Non lo scoprirà mai! » le dissi. « Che cosa? ». « L’esaltazione del sapore di un Quintero, il suo inconfondibile aroma, soprattutto dopo un buon bicchiere di vino tinto, forte, pastoso, servito a temperatura ambiente ». « La prego, signor Domenico, non ricominci! Questa volta ci penserà il dottor Serrano a farle capire cosa è più importante per la sua salute! Ora cerchi di riposare! » replicò e uscì dalla stanza. Continuai a parlare come se Graciela stesse ancora lì, attorno al mio letto, a sistemare le medicine sul comodino e a riporre il termometro nella custodia. Parlavo a voce alta quasi come a volerlo urlare al mondo intero. « Il dottor Serrano può dire ciò che vuole! Preferisco vivere meno ma godermi i giorni che mi restano ». Il fatto è che sono sempre stato un fumatore incallito, e un


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buon bevitore. Nonostante i continui avvertimenti del mio medico curante, non ho mai pensato seriamente di rinunciare ai quei sigari cubani che mi fanno compagnia da più di cinquant’anni. Restai solo nella stanza. In quella vicino un’intera famiglia stava festeggiando la riuscita dell’intervento di Simòn, un commerciante di Rosario che da diversi mesi era in lista di attesa per un trapianto di cuore, finalmente eseguito. Mi guardai riflesso sul vetro della finestra. Quante cose nascondevano i solchi rugosi del mio volto: anni di lavoro in questa terra lontana, sacrifici, gioie e dolori ma anche grandi soddisfazioni. Ripercorsi con la mente il periodo della breve infanzia vissuto in Basilicata e il giorno della partenza. La mia famiglia lasciò il paese in terra lucana per emigrare nell’America del sud. Era una famiglia numerosa come tutte quelle di allora. Quattro figli maschi e due femmine. Mio padre era un agricoltore e mia madre una donna di campagna. Era il 1926 e avevo appena sette anni. Nel porto la nave tutta bianca mi apparve immensa, lo zio Giovanni in lontananza ci salutava dal molo. Mio padre, con gli occhi lucidi, seduto poco distante da noi, suonava il suo organetto e le note struggenti di quella ballata di paese facevano da accompagnamento allo sciabordio dell’acqua sulle murate della nave. Era l’ultimo saluto alla sua terra. Ricordo bene anche l’oceano, immenso come la nave. Non c’è un solo emigrante di quegli anni cui non sia rimasta indelebile nella memoria l’immagine della partenza. Finii con l’addormentarmi, adagiato su due cuscini così come me li aveva sistemati Graciela, con lo schienale del letto leggermente reclinato. Poco dopo le luci della corsia si spensero e rimasero accese solo quelle di emergenza, di colore bluastro, lungo tutto il corridoio. Le infermiere che avevano terminato il turno pomeridiano uscivano dall’ospedale per far ritorno alle proprie abitazioni. Come formiche impazzite si accalcavano sui numerosi colectivos. Il personale del turno di notte, frattanto, prendeva le consegne dalla caposala sulle terapie da somministrare ai ricoverati. Anche il dottor Serrano ricontrollava le cartelle cliniche prima di fare l’ultimo giro di visite. Lui sì che


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mi conosceva bene. Conosceva a menadito l’intera storia clinica del signor Domenico Labriola. Mi aveva preso in cura quando aveva 26 anni, appena laureato, e per altrettanti anni ha tentato invano di convincermi a smettere di fumare. Nemmeno l’infarto che mi ha colpito vent’anni fa è riuscito a spaventarmi. Ho sempre fumato sigari e bevuto vino lasciando dietro di me una scia di fumo e di grilli parlanti. Aveva insistito Serrano perché andassi lì in ospedale, per seguirmi di persona. Quando il dottore iniziò il suo giro incamminandosi per il reparto, dietro di lui l’infermiera spingeva il carrello carico di medicine e cartelle cliniche. La mia camera si trovava in fondo al corridoio. Serrano entrò come sempre senza bussare. « Buona sera Don Mimì! Come vi sentite oggi? ». Pochi mi chiamano così, e lui è uno di questi. È figlio di emigranti. Suo padre era spagnolo e la sua mamma italiana, calabrese. Da lei Serrano ha appreso i nostri modi, quelli della gente del sud. Quando si rivolge alle persone anziane degne di rispetto, dà del “voi”. È noto nella comunità degli emigranti come il “dottore degli italiani”. Feci un sobbalzo quando mi sentii chiamare, ma subito non potei fare a meno di punzecchiarlo con una delle mie solite frecciatine. « Dottore, un altro spavento del genere potrebbe far smettere di funzionare il mio cuore malandato » gli dissi. « Sarebbe la mia fine ma anche la sua, come medico. S’immagina che scandalo di fronte ai suoi colleghi? ». « Scandalo? E perché mai? ». « Un cardiologo di fama come lei che fa morire di crepacuore un suo paziente! Non le sembra un paradosso? ». Serrano non riuscì a trattenere una risata. Poi però diventò serio in volto. « Voi non perdete mai l’umorismo Don Mimì, e questo sicuramente mi agevola nel farvi da medico. Questa volta però ascoltatemi sul serio! Il vostro quadro clinico non è dei migliori. L’insufficienza respiratoria, ormai cronica, vi comporta difficoltà di respirazione soprattutto in caso di sforzi. Per non parlare del vostro fischio nel sonno. Su, avanti! Adesso giratevi. Controlliamo i polmoni ».


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Mentre l’infermiera mi aiutava a tirare su la canottiera, alzai gli occhi al cielo, sbuffando. Cercai invano la complicità nello sguardo di quell’unica donna che avevo di fronte, ma mi rendevo conto che non si trattava di Graciela, e, come un guerriero sconfitto, dovetti arrendermi alla volontà del dottore di sottopormi all’ennesima, inutile visita. « Forza Don Mimì, un colpo di tosse! Ecco, adesso un bel respiro e trattenete il fiato finché non ve lo dico io ». I colpetti, dati in ordine sparso lungo la schiena, echeggiavano suoni sordi. La cassa toracica si presentava allentata come la pelle di un tamburo lasciato per anni senza suonare e faticava a rispondere alle sollecitazioni. La mano di Serrano sembrava un martello. Due dita tese di una colpivano il dorso dell’altra in un movimento circolare lungo tutta la schiena. Quel giorno la visita durò più del previsto. Serrano mi prescrisse un trattamento farmacologico più potente. Mi spiegò che dovevamo stroncare la malattia per non aggravare il cuore già malato, e che bisognava contrastarla con nuovi antinfiammatori e broncodilatatori. « Ecco fatto » fece per congedarsi. « Anche oggi abbiamo finito con le visite. Vi ho prescritto una nuova cura e, mi raccomando, non fate impazzire le infermiere per prendere queste benedette medicine. Passerò domani a vedere come state ». Annotò la nuova cura sulla cartella clinica e l’infermiera riordinò il carrello per proseguire il giro. Visite, referti, radiografie e tante prediche. Cercavo di difendermi da tutto questo fingendo di non capire la gravità della mia situazione. Desideravo tornarmene a casa ma non mi lasciavano andare. A volte provocavo tutti quelli che mi giravano intorno, compreso il dottor Serrano. « Quando mi fate uscire da questa galera? » lo bloccai prima che se ne andasse. « Don Mimì, non abbiate fretta. Uscirete non appena i risultati delle analisi rientreranno nei valori normali. Ancora un po’ di pazienza e sarete dimesso, con le dovute accortezze, s’intende! ». « Si potrebbe sorvolare sulle “dovute accortezze”? Per oggi ne ho avuto già abbastanza ».


« Non vi dimenticate che avete ottantasette anni e per riacquistare un respiro sufficiente dovete recuperare il tono dei muscoli respiratori. Inizierà qui, in ospedale, la terapia riabilitativa funzionale. L’infermiera Graciela è specializzata in questo tipo di cura e la potete proseguire comodamente a casa vostra, non appena sarete dimesso ». Mi entusiasmai all’idea di essere assistito da Graciela. Sono molto affezionato a quella donna. L’esultanza però s’interruppe di nuovo non appena il dottore ripeté il divieto assoluto di alcool e fumo. « Neanche un sigaro ogni tanto? Lo sanno tutti che il fumo di sigari non va nei bronchi ». « Don Mimì me lo avete chiesto mille volte. L’uso di tabacco, in tutte le sue forme, può causare gravi patologie. Non c’è alcuna differenza con le sigarette. Voi dovete rinunciare definitivamente al fumo! ». Non gli risposi. Lui uscì dalla stanza e dietro l’infermiera lo seguì spingendo il carrello.

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Así se baila el tango! Sintiendo en la cara, la sangre que sube a cada compás… Así se baila el tango, mezclando el aliento, cerrando los ojos pa’ escuchar mejor… * ELIZARDO MARTÍNEZ VILAS (MARVIL)

VIEJO Y NUEVO

l mattino seguente venne a farmi visita Raúl; passava a trovarmi una volta a settimana. Mi abbracciò stringendomi forte e restammo così almeno un minuto. Oltre alla “solita commissione”, portò il giornale e un sacchetto di caramelle all’anice. Diceva che erano speciali per l’alito del fumatore. Conosco Raúl da venticinque anni, dal giorno della sua nascita. Sono il suo padrino di battesimo e, come ancora oggi accade nella tradizione delle famiglie del sud Italia, questo ruolo comporta una grande responsabilità. Sono il suo punto di riferimento, colui il quale deve dargli il buon esempio. Per me è più di un figlio e, come tutti i figli, non di rado mi fa incazzare. A volte mi sfotte chiamandomi cumpà. Altre volte mi chiama semplicemente Mimmo. « Hola cumpà. Que tal? Hai preso l’ospedale per un albergo? Forza, preparati, sono venuto a liberarti! ». Accennai un sorriso, apprezzando il suo sforzo di sdrammatizzare la mia permanenza in quel luogo. Subito dopo Raúl tirò fuori una bottiglia dallo zaino. « Ecco il vino che mi hai chiesto, dove lo metto? ». « Bravo ragazzo! Nascondilo nell’armadio sotto l’asciugamano. Hai portato il Fincado? ». « Sì. Fincado del 2005 ». Sembravamo due contrabbandieri nell’atto della consegna della merce, oggetto di quell’illecito traffico che scherzosamen-

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* Così si balla il tango, sentendo nel viso il sangue che sale ad ogni battuta. Così si balla il tango, mescolando il respiro, chiudendo gli occhi per sentire meglio.


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te avevamo battezzato la “solita commissione”. La consegna avveniva una volta a settimana. Al telefono dicevo a Raúl quale vino prendere in cantina, e lui me lo recapitava occupandosi di riportare indietro la bottiglia vuota della settimana precedente. Me lo facevo bastare per quelle fumate clandestine davanti alla finestra, tra una visita e l’altra. Dopo aver messo il vino al sicuro, Raúl mi raccontò dell’università. « Sai, Mimmo, ho superato un altro esame: ‘‘Tecnica dell’urbanistica’’ ». « Bravo Raúl. E adesso quanti te ne mancano per laurearti? ». « Un paio, e ho già scelto l’argomento per la tesi. Vuoi sapere il titolo? ». « Dimmi ragazzo! Sono tutto orecchi! ». « ‘‘Progettazione di un Sistema edilizio ambientale polifunzionale’’. È il progetto di un grande circolo sportivo multidisciplinare da realizzare a Rosario. La mega struttura prevede al suo interno uno stadio, il palazzo dello sport e un centro di servizi dotato di ristoranti, negozi e sala conferenze ». « Perbacco! » commentai. « Un progetto davvero ambizioso ». « Sì » disse lui tutto orgoglioso, « è una tesi di laurea molto complessa, ma ho accettato la sfida. La particolarità del progetto consiste nel fatto che ogni ambiente è dotato di impianti di termoregolazione graduale per garantire un microclima differenziato nei diversi settori ». Per un momento rimasi in silenzio. Sentire quel ragazzo trattare con scioltezza argomenti del genere, mi riempiva il cuore di gioia. Sembrava ieri che lo accompagnavo all’università per iscriversi alla facoltà di Ingegneria civile. Era appena maggiorenne e aveva già le idee chiare. Fin da piccolo Raúl è stato attratto dalle costruzioni. Mi chiedeva in continuazione come facevamo ad edificare case, tirar su ponti, asfaltare strade. Assillava suo padre per trascorrere una giornata al cantiere e, qualche volta, riusciva a convincerlo a portarselo dietro. Trascorreva le ore a sperimentare l’utilizzo degli attrezzi. Giocava con la livella a bolla, il setaccio, la spazzola d’acciaio, il frattazzo e il filo a piombo per realizzare muretti improvvisa-


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ti. Tutti gli operai restavano sbalorditi per la precisione con cui sistemava i mattoni. Durante quei giorni di visita al cantiere, Raúl correva da me con un foglio di giornale in mano, chiedendomi di preparargli il cappello di carta, come “quello che portano i muratori”. Io glielo confezionavo con cura, allora lui si prendeva cofana e cucchiara e, fiero del suo lavoro, iniziava la giornata. Aveva solo otto anni ma non si accontentava più di giocare con gli attrezzi. Voleva guadagnarsi la stima degli altri, lavorare con loro fianco a fianco, salire sulle impalcature. Era capace di mettere in atto qualsiasi stratagemma pur di ingraziarsi i manovali, affinché non lo considerassero più solo la mascotte del cantiere, ma uno di loro. E così è stato. Senza mai abbandonare la scuola, il mio caro ragazzo ha continuato di tanto in tanto a darci una mano. Appena aveva mezza giornata a disposizione, veniva in cantiere per affiancare suo padre, Saverio Manieri Banzi, capo mastro. Nel giro di pochi anni Raúl è diventato padrone di tutte le tecniche di lavorazione del settore edile. Quando decise di proseguire gli studi iscrivendosi alla facoltà di Ingegneria, io sapevo in cuor mio che tutta quell’esperienza accumulata avrebbe fatto di lui certamente un grande progettista. L’esperienza di Raúl nel mondo del lavoro, in fondo, è stata simile alla mia, pur con una differenza importante. Come lui, anch’io ho iniziato sin da piccolo a frequentare i cantieri. Nel 1932 la nostra piccola ditta Labriola Hermanos riuscì ad ottenere dei contratti con una grossa impresa che stava costruendo le nuove linee della metropolitana di Buenos Aires, e i miei fratelli mi affidarono a Salvatore il carpentiere, dal quale velocemente appresi la professione. Io mi sono fermato al cantiere però, prima alla manovalanza e poi alla gestione dei lavori una volta che l’impresa si è ingrandita. Raúl, dopo aver imparato a fare il muratore, non si è fermato. All’epoca del mio ricovero in ospedale stava concludendo lo studio di una scienza all’università per poi applicarla praticamente sulla materia. Studiava per diventare un ingegnere, e oggi lo è diventato! Quanto alla mia educazione, non ho recriminazioni da avanzare, né pentimenti. Lo studio, quando ero giovane, era destina-


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to a quei pochi benestanti che non lavoravano con le mani, e io le mani le usavo dodici ore al giorno! Erano altri tempi. Costruivamo case, edifici pubblici, hotel. Una volta ricevemmo persino un elogio da Peron in persona per aver realizzato in tempi record una scuola a Belgrano. Le soddisfazioni sul lavoro non sono mai mancate, soprattutto dopo la fase iniziale di sudore e sacrifici. Per questo sono orgoglioso di Raúl. Mi piace la sua caparbietà, il suo sguardo curioso, il suo desiderio di conoscenza. Ci mette passione nelle cose, e questo lo rende unico tra i suoi coetanei che, al confronto, sembrano immaturi. Quel giorno trascorremmo tutto il tempo della sua visita sul balcone. Stavamo bene. Tra una chiacchiera e l’altra anche lui bevve un bicchiere di Fincado. Parlammo di Saverio, suo padre, e poi di calcio e di tango. « Hai lo stesso sorriso di tuo padre » gli dissi. Lui non mi rispose. Levò lo sguardo al cielo e scrollò le spalle. Con un gesto brusco del braccio gettò via le ultime gocce di vino rimaste nel bicchiere, alché io mi pentii di quella frase e cambiai subito discorso, parlando del calcio e della nostra rivalità sportiva. Raúl, fin da piccolo, non ha mai perso un incontro del River Plate allo stadio El Monumental, mentre io, che ho trascorso gli anni dell’adolescenza nel barrio dei genovesi, non posso che tifare per il Boca Juniors. « I bene informati dicono che il vostro Higuaín giocherà il prossimo campionato in Europa, con il Real Madrid. Come farete adesso senza el Pipita? ». « Compadre que pasò? Ti bruciano ancora i due goal che vi ha infilato nell’ultimo superclásico del Torneo clausura? Quel giorno El Monumental era pieno di turisti, la maggior parte italiani, e tifavano tutti per il River ». Scoppiai in una risata. « Capisco che avete raccolto piume durante tutta la durata della partita » lo provocai, « ma come fate a dimenticare che anche quest’anno abbiamo vinto il campionato? ». Raúl accusò il colpo. Per stuzzicarmi mise la mano davanti


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alla bocca facendo finta di indossare una mascherina chirurgica. Facevano così i tifosi del River Plate quando incontravano quelli del Boca Junior, alludendo alla vicinanza dello stadio La bombonera al maleodorante fiume Riachuelo. Noi, invece, li chiamavamo gallinas per indicare che erano dei polli da spennare. Durante il superclàsico li ricoprivamo di piume. Per noi due, insomma, la fede calcistica è sempre stata sacrosanta e, nonostante i tentativi di convincere l’altro a cambiare squadra, né io né Raúl abbiamo mai pensato di poter commettere un simile tradimento. Ma c’è anche un altro argomento sul quale divergono le nostre opinioni: il tango! Al contrario di quello che sostiene Raúl, io ho sempre pensato che le nostre diverse posizioni non dipendano affatto dalla differenza generazionale. È una questione di atteggiamento, di predisposizione. M’infastidisce che Raúl non mostri il giusto apprezzamento nei confronti di artisti ritenuti icone del tango. Raúl prende lezioni da almeno sette anni a Villa Malcom, una milonga in fondo ad Avenida Cordoba. Tre volte alla settimana è lui stesso ad insegnare. Lo fa con passione all’Accademia di tango argentino, nella sede di Recoleta. Insegna tango nuevo, così lo chiama lui. Frequenta la milonga insieme a Sofia, la sua fidanzata. Sofia è una sua coetanea. Raúl l’ha conosciuta durante una festa all’università. Lei si è avvicinata al tango dopo anni di studio di danza classica e moderna al Centro culturale Borges. Vedere dei ragazzi così giovani attratti dal tango, è una meraviglia. La loro fortuna è di ritrovarsi a vivere la giovinezza in un periodo di rinascita del tango, com’è successo anche a me quando ho iniziato a muovere i primi passi imitando dapprima i miei fratelli maggiori e poi i ballerini nelle milongas. Gli anni Trenta erano finiti e stava per iniziare l’epoca d’oro del tango. In ogni quartiere della città aprivano confiterias e sale da ballo. Si ballava in modo più creativo rispetto a qualche anno prima. Io mi divertivo ad apprendere il nuovo stile. Era il tango salon, più elegante e coreografico, soprattutto per le donne. Sapevo ballare anche l’apilado, quello degli innamorati. Tutti i venerdì andavo alla Confiteria Ideal a sentire l’orchestra di Edgardo Donato. Ci andavo con Teresa Cosimato, un’amica di mia sorella Beatrice.


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Con lei ballavo solo quello stile. Sembravamo due amanti. Stretta a me in un abbraccio serrato, Teresa mi appoggiava la guancia sulla guancia e, con languidi passetti, ci facevamo cullare dal ritmo dell’orchestra. I suoi abiti avevano spacchi vertiginosi e Teresa li portava sopra delle scarpe con i tacchi altissimi. Io mi distinguevo in sala per il colore sgargiante delle giacche che indossavo. Avevo i capelli impomatati e sempre un sigaro nel taschino. I miei fratelli erano seduti al tavolo pronti ad incitarmi ad ogni giro di sala. Andavamo alla milonga due sere a settimana per svagarci dalla fatica del lavoro accumulata. Mi bastava ascoltare le note di un tango di Osvaldo Pugliese o di Carlos Di Sarli per riprendermi. Poi iniziava la magia, il momento dell’invito. Tutto secondo regole prestabilite che costituivano il codice non scritto della milonga. C’era il momento della presentazione, quello della prima conoscenza, preceduto rigorosamente dal gioco della mirada. Durante la cortina, il momento in cui le coppie si scioglievano tra una tanda e l’altra, i cavalieri accompagnavano le loro donne ai tavoli. In quel momento sceglievo quella da invitare. Così si ballava il tango negli anni Quaranta. Raúl, invece, balla in un modo strano, su una musica assurda che faccio fatica a capire. È una musica ‘sporca’, indefinita, suonata con tutte quelle diavolerie elettroniche. Una volta mi ha fatto ascoltare un brano nel quale un povero bandoneón, che per me rappresenta il cuore pulsante dell’orchestra di tango, era suonato al fianco di un’assordante batteria. Le sue note annegavano nel fragore. Se gli domandi qualcosa sul tango, Raúl non fa altro che parlare di tango nuevo. « Be’ » gli domandai, « come procede il tuo corso di tango? ». « Tango nuevo, vuoi dire? ». « Ah, già! Dimenticavo, lo chiami così! ». « Non ricominciare Mimmo » si schermì. « Tanto non c’incontreremo mai! Sei un malato di nostalgia. Le cose cambiano, anche la musica ». Mi fermai a riflettere per un istante, ma rimasi della mia idea. Per me i passi del tango sono sempre gli stessi. « Non posso accettare i cambiamenti! » gli dissi. « Il tango è


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tango, e va rispettato nella sua tradizione. Chi lo inquina lo porta alla deriva. L’orchestra, la voce, il ballo, le regole della milonga sono il tesoro accumulato da anni. Ragazzo mio, immagina che qualcuno venga ad agitare il tuo bel bicchiere di mate prima che tu lo beva, facendolo diventare torbido come il fango ». « Ma che dici? Chi te lo sporca il tuo mate! Anche voi negli anni Quaranta ballavate qualcosa che allora era nuovo! E il Canyengue ? Che mi dici del Canyengue? Non c’era già prima di voi? Per questo i compadritos vi prendevano per il culo! ». Nel corso di quella visita Raúl era diverso dal solito. Mi teneva testa nella conversazione, e faceva osservazioni alle quali non sapevo rispondere. Mi rendevo conto che mentre lui citava un fiume di date, nomi e luoghi, io stentavo a controbattere, rispondendo in maniera evasiva. Ero completamente disarmato e iniziai a trincerarmi dietro generiche difese del tango che erano già perdenti. Mi accorgevo che stavo solo dando fiato alla mia smisurata passione. Seguì un silenzio pesante. Poi, Raúl disse: « Scusami cumpà. Non volevo farti arrabbiare. Dai, facciamoci un altro goccio ». Prese la bottiglia e riempì di nuovo i bicchieri. Tentai di riportare l’argomento dove era partito: il bandoneón e la batteria, ma di nuovo Raúl mi zittì. Non riuscii a contraddirlo. « Furono gli emigranti dalla Germania a portare quello strano organetto » osservò. « Pensa che i contadini lo suonavano nelle loro feste. Il bandoneón non è uno strumento nato per il tango. Eppure non c’è orchestra di tango che possa farne a meno ». Interrompemmo la discussione, entrambi consapevoli che l’avremmo ripresa in un’altra occasione. Facevamo sempre così. Io avevo voglia di fumare ancora. Chiesi a Raúl di prendermi un sigaro dalla scatola nascosta sotto il letto. Lo accesi con tre boccate intense, una di seguito all’altra, e il fumo arrivò fino al piano di sopra. L’orario delle visite era scaduto. Raúl mi fece compagnia per altri dieci minuti, giusto il tempo di finire il sigaro, poi raccolse le sue cose, infilò la bottiglia vuota nello zainetto e mi salutò. « Cumpà, adesso devo proprio andare, Sofia mi sta aspettando ». Quando chiuse la porta dietro di sé, provai un po’ di amarez-


za per la discussione che in alcuni momenti aveva assunto toni troppo accesi. Mi alzai dalla poltrona con l’aiuto del bastone e mi avvicinai alla ringhiera. Aspettavo che quel caro ragazzo sbucasse dal vialetto alberato. Lui alzò la testa, i nostri sguardi s’incrociarono e ci salutammo con un cenno della mano. Mi sorrise e di colpo quel senso d’inquietudine svanì. Lo seguii con lo sguardo fino a perderlo di vista. Poi, sollevato, rientrai nella stanza.

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