Nandy - il ragazzo che venne dal freddo

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FRANCESCO MILLICH

NANDY

GINGKO

Il ragazzo che venne dal freddo

ROMANZO BAIGUO |4|


Copyright © 2010 FRANCESCO MILLICH © 2010 GINGKO EDIZIONI Molinella, Bologna. I EDIZIONE novembre 2010 Collana Baiguo ISBN 978-88-95288-23-9

In copertina: DISORDINI ALL’ALBA © 2003 Tk Fund. Aa-Gg. Progetto grafico di copertina: © 2010 ATALANTE

Titolo dell’opera: nandy - Il ragazzo che venne dal freddo

GINGKO EDIZIONI via Luigi Pirandello n° 29 40062 San Pietro Capofiume, Molinella, Bologna Tel. 051.6908300 Fax: 051.6908397 www.gingkoedizioni.it www.fuggicalipso.net

Tutti i diritti dell’opera sono riservati. nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, o usata in alcuna forma. ne è vietata la divulgazione a qualsiasi mezzo, senza previo consenso scritto accordato dall’editore e dall’autore.


NOTA DELL’AUTORE gli occhi espressivi, intelligenti del ragazzo mi scrutavano dalla copertina di un libro, all’interno della vetrina. Quello sguardo dal potere quasi magnetico sembrava volesse parlarmi, forse svelarmi un segreto. affascinato, rimasi ad osservarlo a lungo prima di varcare la soglia della libreria e acquistare quel volume. non mi ero ingannato: quel volto dai tratti grezzi, vagamente primitivi, apparteneva ad un giovane vissuto trentamila anni orsono. era stato ricostruito grazie all’opera sapiente, ispirata, minuziosa dei tecnici di un laboratorio specializzato nel ricomporre la fisionomia originaria di persone vissute in epoche anche remote. compresi allora ciò che quel ragazzo mi chiedeva: voleva che lo riportassi tra i viventi, che gli dessi una seconda vita, nella nostra epoca. Un amico biologo mi spiegò che, dal punto di vista scientifico, l’impresa sarebbe oggi quasi impossibile. Mi afferrai a quel “quasi”: una probabilità su cento mi sarebbe bastata per tentare quell’avventura attraverso il potere magico della letteratura. ammesso quindi che, senza dover fare appello ad un eccesso di “sospensione dell’incredulità,” con una virtuale manipolazione genetica si riuscisse a riportare in vita quel giovane — o più precisamente un suo fratello gemello (ma dove e in quali circostanze?) — occorreva riflettere seriamente sui diversi interrogativi che una simile operazione sollevava: che genere di esistenza avrebbe potuto condurre nella nostra società? Quali sarebbero stati il suo livello intellettivo, la sua capacità di adattamento, di socializzazione, il suo bagaglio filogenetico? chi si sarebbe occupato di lui durante la sua infanzia? che tipo di reazione avrebbe suscitato nei suoi coetanei e nella società in generale, con la sua morfologia atipica, i tratti grossolani del suo viso, la fronte sfuggente, il prognatismo accentuato? a queste domande immediate altre se ne aggiungevano: quale sarebbe stato l’atteggiamento dei mass media nei confronti di un simile fenomeno vivente? Se lo sarebbero conteso senza esclusione di colpi ? avrebbero cercato di sfruttarlo, di esibirlo in pubblico come fosse una

I


curiosità antropologica anziché un essere umano dotato di intelligenza e sensibilità? e come avrebbe reagito la comunità scientifica, i paleoantropologi, i biologi, gli specialisti nelle diverse discipline della scienza medica? avrebbero insistito per studiare a fondo quell’esemplare unico di uomo preistorico vivente, sottoponendolo ad esami clinici invasivi ? con quali esiti? e cosa ne avrebbero detto i custodi autoproclamatisi dell’eticamente corretto, del pensiero unico, il clero, i politici, i sociologi, i filosofi, gli editorialisti? avrebbero lodato o criticato aspramente gli autori di quell’operazione azzardata, magari considerandoli come degli apprendisti stregoni smaniosi solo di notorietà? e lui, il prodigioso ragazzo venuto dal freddo dell’ultima glaciazione, cosa avrebbe provato nel suo intimo, come avrebbe reagito alla consapevolezza della sua irrimediabile solitudine quale unico membro della sua comunità ancora in vita, costretto ad errare in un mondo alieno? come soccorrerlo se non grazie ad una coetanea che ascoltasse il suo grido, lo comprendesse e condividesse la sua sofferenza? I loro due mondi biologicamente diversi avrebbero potuto ricomporsi idealmente in una sfera tutta loro, sospesa al di sopra delle meschinità quotidiane? Inoltre, che giudizio avrebbe espresso quel ragazzo sulla nostra società, le nostre profonde contraddizioni, le ingiustizie sociali, il sottofondo di violenza che cova come la brace sotto la cenere, e la serie infinita di guerre e di stermini che hanno costellato la nostra storia? Sarebbe riuscito ad adattarsi o si sarebbe ribellato? In che modo? Tanti quesiti, tante sfide da accogliere e con le quali confrontarsi, ma che delineavano giorno dopo giorno i contorni di un progetto ardito ma concepibile: la realizzazione del virtualmente plausibile. valeva la pena di tentare, nella speranza che il risultato non avrebbe deluso troppo né il lettore odierno, né quel fanciullo dallo sguardo implorante, che ho arbitrariamente battezzato col nome di nandy.

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NANDY ai miei genitori. a Sergio e floriana e a Sarah e chiara per il ricordo.



PROLOGO



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ul greto del torrente impetuoso, a due passi dal bosco odoroso di muschio e resina, Asun attendeva trepidante di veder apparire la figura radiosa di Uma, la ragazza della comunità dei visi piatti, da poco entrata nei suoi sogni di quindicenne in preda ai primi palpiti d’amore. Aveva dialogato a lungo con lei nei giorni passati, a parole e gesti, mentre, seduti su quella sponda, osservavano distrattamente le acque limpide che scorrevano frettolosamente a valle. Le aveva parlato della sua famiglia, di sua madre, delle sue sorelle, e soprattutto di Ogan, suo padre, il capo della tribù degli uomini tarchiati, come li chiamavano i visi piatti. Asun era triste e addolorato perché Ogan era stato ucciso da un orso solo qualche giorno prima. Lo aveva trovato lui stesso, riverso in una pozza di sangue, con i solchi profondi delle unghiate sul petto e sulle braccia. Aiutato dai suoi compagni, lo aveva sepolto in una fossa vicino alla loro grotta, sopra un letto di foglie e fiori, con la mano destra sul cuore e il viso rivolto verso il sole calante, secondo il loro rito. Ogan portava sempre al collo una strana pietra blu dagli arcani poteri che Wohan, il loro dio, gli aveva fatto trovare imprigionata in un blocco di ghiaccio mentre inseguiva una renna. Quella pietra conferiva a suo padre l’autorità e il senno coi quali vigilava sulla sua comunità. Ma da quel brutto giorno era scomparsa. Dopo aver udito quel triste racconto, Uma gli aveva promesso un omaggio, una sorpresa, e Asun si era preparato a ricambiarla offrendole un oggetto che le parlasse del suo amore nascente per lei. Si era recato nella cava di pietra dura dove aveva appreso da suo padre l’arte di fabbricare gli utensili più diversi, dalle lame affilate per scuoiare la selvaggina e tagliare le carni, alle punte per le lance. Percuotendo con un legno duro uno sperone di roccia, ne aveva ricavato una scheggia lunga e piatta che, sotto i suoi colpi ben dosati, aveva assunto


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la forma di una foglia perfettamente simmetrica, dai bordi regolari, tanto sottile da lasciar trasparire, in controluce, l’ombra delle sue dita. Risciacquata nell’acqua tersa del torrente, gli era apparsa ancora più bella, grigia, venata di nero, scintillante sotto i raggi del sole. Asun le affidava il suo messaggio di armonia e amore per la bella Uma, pur sapendo che i visi piatti, sempre in lotta con loro a causa delle continue dispute sui rispettivi territori di caccia, avrebbero cercato di stroncare sul nascere quel gracile idillio. Preceduta da un vivace chiacchierio, Uma apparve sul limitare del bosco assieme a due compagne. Colmo di gioia, Asun osservò intensamente il suo volto dai lineamenti delicati, incorniciato da folti capelli castani, ondulati, i suoi grandi occhi chiari, il suo incedere aggraziato. Le si avvicinò sorridente e le porse il suo fragile pegno d’amore. Uma rimase incantata, affascinata. Afferrò delicatamente quella foglia diafana, ne accarezzò la superficie, i bordi quasi taglienti, temendo di spezzarla sotto il lieve sfioramento delle sue dita. « L’ho sottratta ad una roccia » le disse lui emozionato mostrandole le escoriazioni ancora fresche sulle sue mani. Uma sorrise. Si volse allora verso una delle sue compagne che le porse un oggetto, lo afferrò e lo mostrò sul palmo della mano libera al giovane che trasalì, riconoscendo la pietra blu di suo padre. Asun le chiese meravigliato dove l’avesse trovata, ma lei non rispose e abbassò lo sguardo imbarazzata. Asun ebbe un terribile presentimento. Afferrò tremante la pietra rotonda e piatta, metallica, di colore blu scuro, la premette contro il petto e cadde in ginocchio con gli occhi pieni di lacrime. Uma gli porse una tasca fatta di un intreccio di striscioline di pelle e munita di tracolla. Asun notò che era macchiata di sangue, il sangue di suo padre. La baciò, si levò in piedi e dopo aver introdotto la pietra nella sua guaina, con un gesto carico di una certa solennità, passò il capo nella tracolla. Av-


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vertendo il peso della pietra contro il petto, si sentì subito pervaso da una sensazione nuova, forte, mentre Uma lo osservava grave, cosciente di quanto quell’oggetto significasse per lui e felice di averglielo consegnato. Colmo d’amore e di gratitudine, Asun cercò allora di abbracciare la ragazza, ma in quel momento quattro uomini irruppero dal bosco, un anziano e tre giovani, appartenenti alla comunità di Uma. Brandendo le loro lance appuntite, con fare minaccioso, si frapposero tra la ragazza e Asun che raccolse in fretta la sua lancia per fronteggiare l’improvviso pericolo. Mentre i quattro uomini si disponevano in cerchio attorno al giovane per impedirgli di fuggire, Uma gli fece scudo col suo corpo. Ma l’uomo anziano le ordinò di togliersi di mezzo rimproverandola per essersi lasciata avvicinare da un membro di quell’altra comunità. Malgrado le sue vivaci proteste, fu rudemente allontanata da due dei giovani che, nella colluttazione, le strapparono di mano l’esile foglia minerale mandandola a frantumarsi contro i ciottoli levigati del greto. Affranta, incredula, Uma contemplò i frammenti di quell’oggetto tanto prezioso. Ruppe in lacrime e si chinò mestamente a raccogliere quanto rimaneva del suo sogno infranto. L’uomo anziano notò la pietra blu sul petto di Asun. Con fare arrogante disse che era sua e che doveva essergli restituita. Ma, alzandosi furente, Uma gli gridò che gliel’aveva data lei perché apparteneva a suo padre. Asun gli lanciò un’occhiata carica di disprezzo e gli disse che era un vigliacco perché aveva derubato un morto. L’uomo ribatté con un sorriso beffardo che quando lo avevano incontrato, quell’uomo tarchiato era ben vivo, ma stava cacciando sul loro territorio. Asun ebbe in quel momento la terribile conferma ai suoi sospetti: suo padre era stato assassinato da quei quattro manigoldi che avevano camuffato il loro delitto in un’aggressione da parte di un orso. In preda ad un cieco furore, con un gesto fulmineo conficcò la sua lancia alla base del collo di


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quell’uomo che crollò a terra con un sordo rantolo di dolore. Ritirata immediatamente la sua arma insanguinata, Asun fuggì precipitosamente inoltrandosi nel fitto bosco, mentre, riavutisi dalla sorpresa, assetati di vendetta, i tre giovani si gettarono al suo inseguimento. Il ragazzo imboccò un lunghissimo sentiero che conduceva fino alla sommità della montagna dove, tra cime sempre innevate, si apriva un colle che dava accesso ad un’altra ampia vallata. Vi era giunto una volta assieme a suo padre che pensava di trasferirvi tutta la loro gente per sfuggire alle continue minacce dei visi piatti. Con i suoi inseguitori minacciosi alle calcagna, Asun salì rapidamente lungo quel sentiero, aggirò rocce sporgenti dal suolo, attraversò una forra e un ruscello, si addentrò nuovamente nella boscaglia sperando invano di far perdere le sue tracce. Dovette affrontare uno alla volta, di sorpresa, quei giovani, ferendone due, ma fu colpito al ventre da un colpo di lancia che attraversò la pelle di renna che lo copriva. Da quel momento ebbe inizio il suo lungo calvario mentre un’improvvisa fitta nevicata ammantava di bianco il paesaggio di conifere. Quasi accecato dalla tormenta, premendosi una mano sulla ferita sanguinante, Asun continuò disperatamente la sua fuga finché scorse in una parete di roccia, alla sua sinistra, una minuscola grotta e vi si nascose stremato e sofferente. Poco dopo, con le scarse energie che gli rimanevano, riuscì ad occultarne quasi completamente l’entrata accatastandovi dall’interno delle pietre. Si adagiò sul suolo umido e freddo e notò che le sue mani e le sue gambe erano imbrattate dal suo sangue che continuava a sgorgare debolmente ma inesorabilmente dalla ferita. Indebolito e attanagliato dal gelo, si sentì mancare e comprese che la sua breve esistenza stava per concludersi. Pianse silenziosamente preparandosi a raggiungere suo padre nel giardino fiorito dei loro avi. Pensò a sua madre e alle sue so-


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relle che non avrebbe mai più rivisto. Ma i suoi pensieri si soffermarono soprattutto su Uma, il suo primo sogno d’amore, fragile come la diafana foglia minerale che le aveva offerto. Come quell’etereo messaggero d’amore, era stato ridotto in frantumi dalla crudeltà dei suoi assalitori. Ogan aveva ragione: la convivenza della sua gente con i visi piatti era impossibile. La loro volontà di dominio aveva armato la mano assassina di quei quattro uomini che, assieme a quel sentimento nuovo, nobile e puro sorto tra lui e Uma, avevano distrutto anche la speranza di una pacifica convivenza tra le due comunità, senza conflitti e senza odio. La neve continuò a cadere per ventimila anni imprigionando l’intero arco alpino sotto una spessa calotta di ghiaccio.



PARTE PRIMA

omne vivum ex ovo Ogni essere vivente nasce da un uovo WILLIAM HARVEY naturalista inglese



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l sole era già alto nel cielo di cobalto, l’aria tersa, pungente. Il vento glaciale che soffiava a folate rabbiose da settentrione traeva cupi lamenti dalle alte guglie di basalto e, aggredendo il candore sottostante, sollevava mulinelli di neve cristallina che sferzavano i volti arrossati dei frati incappucciati. Avvolti nei loro mantelli di lana scura, avevano lasciato da più di un’ora il loro convento appollaiato ad oltre duemilacinquecento metri d’altezza su quel colle del Gran San Bernardo, tra l’Italia e la Svizzera, che, dalla notte dei tempi, assisteva muto al passaggio di devoti pellegrini, pacifici mercanti e orde guerresche. Sul crinale tra due ampie vallate, il corteo si snodava silenzioso e pio, adempiendo il rituale pellegrinaggio alla statua della Vergine scolpita dalla secolare, illuminata opera degli elementi su un pinnacolo di rilucente granito rosa. Era proprio a lei, alla Madre del Figlio di Dio, che, in quell’ultimo giorno di maggio dell’Anno Domini 1892, i frati offrivano la loro prima escursione nell’aspro incanto di una natura dai riverberi trascendentali. Nella nuda parete di roccia che, un po’ più avanti, si ergeva verticalmente controvento, a lato del sentiero, essi già scorgevano l’inconfessata promessa di una tregua al loro tormento, quando un sinistro fragore preceduto da un secco scricchiolio annunciò lo stacco della frana. La massa informe di rocce e ghiaccio scivolò lungo la china ostruendo il cammino e si arrestò a pochi passi dai monaci. Nell’irreale silenzio che seguì emerse soltanto il sommesso mormorio di Padre Ambrogio, il loro superiore, il quale, imitato dai suoi confratelli, si era inginocchiato per rivolgere alla Madonna ferventi espressioni di riconoscenza per lo scampato pericolo. Poi si


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alzarono tutti, lentamente, e dalle loro bocche uscirono eccitati commenti mentre osservavano da vicino il drago dalle scaglie di pietra che giaceva inerte ai loro piedi. Ma subito ammutolirono alla vista di un oggetto sorprendente: sulla parete messa a nudo dallo smottamento era apparsa una minuscola grotta dalla quale spuntava un arto coperto da un pelo castano chiaro. Temettero dapprima che si trattasse di un animale selvatico, forse perfino un orso infastidito nella sua tana e pronto a vendicarsi. Ma dopo qualche attimo d’attenta osservazione, notando l’immobilità di quella cosa, Padre Ambrogio si avviò lentamente, con infinite precauzioni, su quel pietrame viscido e luccicante, sotto lo sguardo inquieto dei suoi confratelli. Giunto all’altezza della cavità, notò che non di un orso si trattava, bensì di un essere umano, un uomo vestito di pelli di animali, completamente dissecato. Era adagiato contro una parete di quell’angusto anfratto in cui la morte lo aveva colto chissà quanto tempo prima. Incoraggiati a raggiungerlo dalla voce concitata del loro superiore, i monaci si arrampicarono in fretta, come formiche, sul pericoloso e instabile ammasso di rocce. Si pigiarono urtandosi davanti a quell’apertura e spalancarono gli occhi alla vista dell’uomo mummificato, del suo volto scarnito, dalla pelle incartapecorita, i cui tratti risaltavano chiaramente sotto un’abbondante capigliatura color miele. Si trattava senza dubbio di un essere primitivo, preistorico. Sopraffatti da un’incontenibile emozione, si fecero istintivamente il segno della croce e rivolsero una preghiera alla Vergine affinché li aiutasse a fronteggiare quell’evento straordinario. Che fare? Come interpretare quel sorprendente ritrovamento? Superati i primi attimi di smarrimento, Padre Ambrogio disse che occorreva scendere subito al convento ad avvertire il Priore della strabiliante scoperta. La sua proverbiale saggezza avrebbe certamente indicato loro la condotta da seguire. Così fecero.


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Sulla cinquantina, paffuto e calvo, l’occhio vivo, il Priore era apprezzato per il suo paterno buon senso. Colpito da quella notizia, si recò subito sul luogo del ritrovamento, guidato da Padre Ambrogio e seguito, in fila indiana, da quasi tutti i frati del convento. Sotto un cielo fattosi inaspettatamente cupo e minaccioso, il Priore si inerpicò ansimando fino all’imboccatura della piccola grotta. Alla vista dell’uomo fossilizzato, comprese immediatamente che si trattava di una scoperta di grande interesse scientifico. I lineamenti grezzi di quel volto, le arcate sopracciliari in rilievo e le mascelle prominenti, non ricordavano nessuna delle razze a lui note, mentre la tecnica rudimentale del taglio e della cucitura delle pelli che indossava suggeriva un livello di civiltà assai primitivo. Il Priore rimase incredulo e affascinato ad osservare quella creatura che aveva probabilmente attraversato diversi millenni di storia dell’umanità, lasciandosi alle spalle l’età della pietra, per sbucare improvvisamente nell’era della locomotiva a vapore, del telegrafo e della fotografia. Si volse ad osservare i suoi confratelli che pendevano dalle sue labbra, curiosi, ansiosi e inquieti per l’arcano significato di quell’apparizione. Comprese allora quanto turbamento essa poteva recare alla loro vita conventuale fatta di silenzio, preghiera, lavoro ed elevazione spirituale. Malgrado l’interesse che quel fossile poteva rivestire per la comunità scientifica come per l’uomo della strada, si rese conto che sarebbe stato meglio se fosse rimasto rinchiuso per sempre nella sua grotta, nella sua tomba. Pensò infatti che, qualora si fosse diffusa la notizia di quella clamorosa scoperta, il convento e i suoi dintorni sarebbero stati investiti in breve dal chiassoso, pagano scompiglio di una fiera mercantile, e tutto ciò in onore di un uomo primitivo che di cristiano non aveva proprio nulla. « Quest’uomo deve essere vissuto molti secoli fa, forse perfino in un’epoca preistorica » disse con un tono pacato e rassicurante dopo qualche attimo di riflessione. « Il Signore


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lo ha riportato alla luce davanti a noi affinché gli dessimo una sepoltura in un luogo idoneo. È quanto faremo oggi stesso. Tuttavia, è nostro dovere proteggere la pace e la serenità del nostro chiostro ed evitare di attirare tanti curiosi che disturberebbero la nostra quiete e la nostra vita spirituale. Perciò, rientrando al convento, faremo tutti voto solenne che di questo ritrovamento non parleremo mai con estranei, fino al giorno in cui il Signore vorrà richiamarci a Lui ». Timorosi e maldestri, due giovani frati rimossero quindi dalla sua nicchia mortale quel corpo irrigidito, lo adagiarono sopra un mantello offerto da uno di loro e ne distesero incautamente le membra rattrappite provocando un sinistro scricchiolio di cartilagini e tessuti lacerati. Dietro quel misterioso fardello portato a braccia dai due monaci, il corteo funebre si snodò muto e assorto lungo il sentiero accidentato, in ripida discesa. Mentre i primi tuoni riecheggiavano da lontano, un’aquila che volteggiava in cerchio sopra le loro teste si gettò a picco su una povera marmotta ghermendola con i suoi artigli. L’uomo mummificato fu introdotto discretamente nella chiesa addossata al convento. Non trattandosi di un cristiano, anziché tumularlo nel loro cimitero, il Priore lo fece deporre in un gelido cunicolo sotterraneo che, partendo dalla cripta, sbucava in un incavo seminascosto della montagna, a qualche decina di passi di distanza. Chiuso alle due estremità da massicce porte di quercia con rinforzi di ferro, quel passaggio segreto era stato scavato nella roccia un secolo prima dai loro predecessori per assicurarsi una via di scampo qualora il chiostro fosse stato investito dalla furia devastatrice dei rivoluzionari francesi. In quell’oscuro, sinistro cunicolo, davanti alla salma deposta in una semplice e disadorna cassa di legno d’abete adagiata in un loculo, il Priore recitò un De profundis per l’anima dell’uomo primitivo, nella speranza che ne avesse una. Poi, sollevato per il modo in cui si chiudeva quell’in-


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quietante episodio, uscì dalla stretta galleria, richiuse la pesante porta e appese la grossa chiave di ferro ad un gancio infisso tra due pietre. Di quell’eccezionale ritrovamento e della presenza della mummia nel perimetro conventuale non si parlò più. Tuttavia, l’attenzione di tutta la congregazione finì per focalizzarsi nuovamente su quell’ospite misterioso, e ciò a causa di una serie di avvenimenti inconsueti, inesplicabili, a volte perfino tragici, che si produssero da quel giorno all’interno del convento. Ad onor dei frati, occorre precisare che anche in quelle dolorose circostanze il segreto rimase gelosamente confinato tra quelle massicce mura millenarie. Con una sola eccezione.

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l 31 maggio 1992, esattamente cento anni dopo il ritrovamento della mummia del Gran San Bernardo, la porta del convento situato su quel valico si aprì per lasciar entrare il dottor Giuseppe Pagani, un oscuro medico generalista di Torino. Quarantatre anni, statura media, l’aspetto grigio di un impiegato di banca, il dottor Pagani non aveva bussato a quella porta per recarsi a visitare un paziente, ma per sottoporsi lui stesso agli effetti terapeutici della pace conventuale, del religioso silenzio, dell’atmosfera di raccoglimento e serenità che aleggiava tra quelle mura. Dall’infausto giorno in cui la sua giovane e bella, troppo bella, moglie cecoslovacca, conosciuta durante una visita a Praga e subito sposata, lo aveva abbandonato per seguire un suo collega, un giovane dermatologo aitante e sportivo, il dottor Pagani era scivolato


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poco a poco in una profonda depressione. Era attanagliato dalla gelosia, oppresso da un dolore cocente, deluso della vita stessa tanto da meditare il suicidio. Si sentiva umiliato, offeso in ciò che un uomo possiede di più intimo e sacro: il suo orgoglio. ‘‘Quell’altro”, come lo chiamava, era più brillante di lui, aveva la specializzazione, partecipava a convegni a Parigi, Londra, Los Angeles e Tokio, e trovava il tempo per pubblicare. Era sempre abbronzato, anche in pieno inverno, come se fosse costantemente reduce da una vacanza al sole. Ed era anche attraente, questo doveva pur ammetterlo. In fondo, pensava il dottor Pagani, era umano che la sua Irma si fosse lasciata sedurre da quel giovane di successo che da qualche tempo aveva preso a frequentare assiduamente la loro casa, mentre lui, ingenuo com’era, non si era accorto di nulla. Ora «quell’altro» poteva offrirle un’esistenza assai più interessante e varia di quella che avevano conosciuto loro due da quando erano sposati. Aveva cercato di ragionare in questi termini, il dottor Pagani, di dare una spiegazione logica, naturale a quanto era accaduto sotto i suoi occhi, sperando così di rendere meno insopportabile il dolore che lo assillava. Ma col trascorrere dei giorni carichi d’affanno e col succedersi delle notti agitate, diventava sempre più pallido e malinconico. Era nel sonno che affioravano le sue peggiori angosce, liberate com’erano dal controllo della ragione: vedeva allora la sua Irma nuda nelle braccia muscolose del rivale, udiva le sue grida soffocate, i suoi mugolii, i suoi sospiri, i suoi guaiti di piacere, il suo respiro sempre più rapido, in un crescendo di voluttà, fino all’apice dell’amplesso amoroso, e a quel punto si svegliava di soprassalto, madido di sudore, col cuore in gola e si affrettava a inghiottire la pillola contro il panico che teneva sempre a portata di mano sul comodino. Come riuscire a sopportare un simile supplizio? Come liberarsi da quelle visioni sconvolgenti, angosciose?


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Il dottor Pagani non era più in grado di concentrarsi sul suo lavoro, sui suoi pazienti, e temeva d’incappare prima o poi in un grave errore di diagnosi, compromettendo la salute o addirittura la vita di un paziente a causa del suo stato. Per giunta, si era rimesso a bere, come faceva quando aveva la sensazione che la vita gli si rivoltasse contro. Ne era preoccupata anche Matilde, la sua devota e paziente segretaria che assisteva giorno dopo giorno al suo calvario. Dopo tanti anni di lavoro al suo fianco, aveva finito per affezionarsi a quell’uomo un po’ ingenuo ma fondamentalmente buono e onesto, disponibile a qualsiasi ora, che viveva la propria professione come una missione evangelica di assistenza al prossimo. Aveva capito fin dall’inizio che la giovane moglie del dottore era troppo seducente, troppo ben vestita e truccata per accontentarsi di un’esistenza in fondo scialba. Quella donna doveva per forza nutrire più elevate ambizioni, e quando se ne andò con quel bellimbusto, quel falso amico di famiglia, lei non ne fu minimamente sorpresa. Ma ora occorreva aiutare il dottore ad uscire dallo stato depressivo nel quale stava sprofondando. Si ricordò che lui le aveva parlato di diversi soggiorni fatti in gioventù nelle Alpi, di magnifiche escursioni in comitiva fino oltre i tremila metri di altezza. Diceva sempre che avrebbe voluto ritornare lassù per un paio di settimane alla ricerca delle sensazioni di allora. Perché non andarci ora? gli propose. Aveva letto su un settimanale che da qualche tempo il convento del Gran San Bernardo aveva aperto le porte al pubblico desideroso di isolarsi per qualche giorno nel silenzio di quelle spesse mura claustrali. Lo splendore della natura incontaminata e l’atmosfera di religiosità che vi regnava lo avrebbero aiutato a ritrovare se stesso e a superare quel momento critico. Il dottor Pagani ci pensò per un giorno intero e finì con l’accettare l’idea. Matilde prese contatto col convento e organizzò ogni cosa con la sua consueta sollecitudine ed efficienza.


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Fu Padre Anselmo, un frate sulla sessantina, con la barba bianca dalla quale faceva capolino un benevolo sorriso, ad accogliere il dottor Pagani. Lo precedette lungo un corridoio semibuio, un po’ tetro, lastricato di piastrelle rosse, lucidate a cera e fiancheggiato da grandi porte di legno d’abete, accuratamente verniciate di marrone scuro. Entrarono nell’ufficio del Priore che accolse il dottor Pagani con un sorriso un po’ forzato, mentre Padre Anselmo rimaneva in disparte, in piedi, in deferente attesa. Non era la prima volta che lo stress della vita moderna conduceva uomini d’affari, professionisti, impiegati e qualche operaio a chiedere aiuto al convento. Se da un lato la crisi delle vocazioni lasciava inoccupate diverse celle, dall’altro un numero crescente di laici venivano a soggiornarvi per periodi di una o più settimane. Erano accolti con sentimenti di fratellanza e solidarietà da altri uomini animati dalla fede cristiana e dal desiderio di soccorrere i loro simili in lotta contro le crescenti difficoltà di un mondo rude, dominato dall’egoismo e dall’indifferenza. Alto, asciutto, austero e di poche parole, il Priore incuteva rispetto e soggezione in tutti i frati. Al suo cospetto, anche il dottor Pagani era intimorito e un po’ smarrito. Se ne stava lì, in piedi, avvolto nel suo soprabito sbiadito e sgualcito, col volto disfatto, mal rasato, le borse sotto gli occhi spenti, in preda ad un improvviso grave imbarazzo. Avvertiva una vaga sensazione di colpa, come colui che chiede di essere ricoverato in ospedale senza poter definire con precisione i sintomi del suo male e teme ad un tratto di disturbare medici e infermieri per qualcosa che forse non è grave e che forse avrebbe potuto, o dovuto, curare da solo, magari con un po’ di riposo e qualche compressa di aspirina. Così, dinanzi all’altera figura del Priore, se ne voleva per non essere riuscito, piccolo e insignificante omuncolo quale si vedeva, a guarire da solo i suoi futili disturbi psicosomatici e per dover coinvolgere un’istituzione millenaria come quel convento in una faccenda


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personale, intima. Fu sul punto di voltarsi per uscire dicendo umilmente che ora andava molto meglio e che se ne ritornava a casa. Ma il Priore lo precedette: « So già tutto di te » gli disse, « Padre Anselmo mi ha parlato del tuo travaglio. Sii il benvenuto tra di noi. Tante anime in pena hanno trovato tra queste mura la forza di continuare a lottare. Lasciati guidare da Padre Anselmo, segui i suoi consigli e vedrai che in breve ti sentirai più forte e pronto a riprendere il tuo cammino ». Detto questo, il Priore lo congedò senza nemmeno averlo invitato ad accomodarsi in una delle due sedie impagliate poste davanti alla grande scrivania. Il dottore rimase deluso da quell’accoglienza fredda e frettolosa. « Il nostro Priore è molto occupato » si scusò il monaco quando furono nel corridoio. « Ma questo non significa che non abbia a cuore i problemi dei nostri ospiti ». Il dottore non rispose. Fu sistemato in una minuscola cella arredata in modo spartano, nella quale lo avevano preceduto la sua valigia e la sua inseparabile borsa contenente i suoi ‘ferri del mestiere’. Attraverso una piccola finestra incassata nel grande spessore del muro di pietra, osservò un attimo il panorama dai colori smaglianti, le cime innevate che si stagliavano nel cielo terso e luminoso. Poi vuotò la sua valigia e si adagiò sul letto di ferro mentre avvertiva la piacevole sensazione di aver trovato finalmente un rifugio tra quelle pareti che avevano resistito a secoli d’intemperie e di conflitti. Chiuse gli occhi. Nel silenzio totale, assoluto udiva soltanto il ritmo regolare del suo respiro reso più agile dalla finezza dell’aria. Una pace infinita stava lentamente impossessandosi delle sue membra e del suo cervello. Non oppose alcuna resistenza. Lasciò che il corpo e l’anima si abbandonassero fiduciosi alla quiete rassicurante di quel luogo. Stava per assopirsi quando udì bussare insistentemente alla porta. Andò ad aprire e si trovò di fronte un novizio in preda ad una grande agitazione.


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« Venga dottore, presto! Padre Ignazio è caduto dalla scala ». Il dottore afferrò istintivamente la sua borsa e seguì con passo celere il giovane. « È la serie nera che continua » disse costui in un tono adirato, « la maledizione! » soggiunse seccamente prima di sbucare in un cortile dove, accanto ad una scala a pioli adagiata al suolo, un gruppo di frati stava prestando le prime cure sommarie all’infortunato. « Ecco il medico » gridò il novizio facendosi da parte. Il cerchio di frati si aprì e il dottore si avvicinò all’uomo immobilizzato al suolo, che lamentava forti dolori alla schiena e al bacino ed era in uno stato palese di choc. Diede un’occhiata al tetto e calcolò mentalmente l’altezza da cui era caduto, circa quattro metri, abbastanza da causargli delle gravi fratture e delle emorragie interne. Ordinò che si chiamasse subito un’ambulanza e fece posare due coperte sul frate ferito che era scosso da violenti tremiti. Solo il personale specializzato poteva rimuoverlo senza troppi rischi. Nell’attesa gli rimase accanto per cercare di rassicurarlo. « Doveva capitare... » mormorò il frate con un filo di voce, « oggi è... si avvicini ». Il dottore posò un ginocchio a terra e accostò l’orecchio alla bocca del frate. « È il trentun maggio... l’anniversario » bisbigliò costui, « la mummia... la cripta... il sotterraneo... c’è Satana nel convento... era sul tetto... le disgrazie... Satana... l’uomo della grotta.. ». Padre Ignazio stava certamente delirando, pensò il dottore. Quando si rialzò, gli altri frati lo osservavano in un modo strano, con una certa diffidenza. Si erano inspiegabilmente ammutoliti e sembravano a disagio. Accompagnato da Padre Anselmo, giunse in quel momento il Priore che si chinò sul ferito e gli fece coraggio annunciandogli l’arrivo imminente dei soccorritori. Poi osservò


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in alto la grondaia divelta alla quale il frate si era aggrappato nel vano tentativo di evitare la caduta. Esaminò la scala, a terra, e notò che uno dei pioli era spezzato nel mezzo. La frattura era vecchia e i due monconi erano stati ricongiunti e rinforzati con un bastone della stessa lunghezza del piolo e ad esso fissato con del filo di ferro avvolto tutto intorno. Ma il filo di ferro, arrugginito, corroso, si era spezzato sotto il peso di Padre Ignazio. « La colpa è dell’incuria » disse a bassa voce a Padre Anselmo che osservava pure lui la scala. « L’incidente doveva capitare prima o poi. È quasi sempre l’uomo l’artefice dei propri infortuni ». Mentre il Priore si riavvicinava al ferito, Padre Anselmo osservò la grondaia. Gli parve strano che non avesse retto il peso di un uomo di corporatura normale e si promise di salire più tardi lassù per cercare di capire che cosa fosse accaduto. Così fece quando il povero Padre Ignazio fu portato via dagli infermieri. Cercò le impronte lasciate sulla terra umida dai piedi della scala e notò che quella corrispondente al montante sinistro era più profonda dell’altra, segno evidente che la scala era sbandata da quella parte. Palpando con le dita il fondo di quella fossetta, osservò che la terra era morbida, come se fosse stata rivoltata di recente, mentre nell’impronta di destra era più compatta. Riempì la fossetta con delle pietruzze e rimise la scala nel punto esatto in cui l’aveva posata Padre Ignazio. Quindi salì lentamente fino al tetto, facendo attenzione al piolo spezzato. Rimosse qualche tegola e vide che tre dei robusti ganci di ferro che sostenevano in precedenza la grondaia ogni sessanta centimetri, non erano inchiodati alle travi del tetto, come dovuto, per cui la grondaia aveva ceduto sotto il peso del frate trascinando con sé quei ganci. Ma i fori dei chiodi erano ben visibili nel legno scurito dal tempo. Dove erano finiti i chiodi? Lì attorno non c’erano. Chi li aveva tolti? Per quale motivo?


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Che ci faceva lassù Padre Ignazio, un uomo non più giovane, goffo e impacciato, che non era mai salito sopra un tetto prima di allora? Rimise a posto le tegole, scese cautamente a terra e cercò tutto attorno, tra l’erba e la ghiaia, ma dei chiodi non c’era traccia. Rifletté un istante. Sembrava che l’incidente fosse stato meticolosamente programmato: un piolo viene a spezzarsi sotto il piede, lo scossone impresso alla scala la fa vacillare, la terra molle sprofonda sotto il montante sinistro della scala, la quale sbanda improvvisamente da quella parte scivolando lungo il bordo della grondaia. Per riflesso, Padre Ignazio fa appena in tempo ad aggrapparvisi, alla sua destra, ma la grondaia cede e il frate precipita al suolo. Un piolo rotto e mal riparato, un sostegno a terra che viene a mancare, dei chiodi inspiegabilmente rimossi: delle tre cause concomitanti, solo l’ultima appariva inspiegabile, anche se una ragione poteva esserci. Semplici coincidenze? In quell’istante ricordò che Padre Ignazio un anno prima, in quella stessa epoca, aveva detto, spaventatissimo, di aver veduto un’ombra scivolare sopra quel tetto e di averla poi riveduta più tardi, in chiesa, scendere nella cripta passando attraverso le sbarre della porta di ferro, chiusa a chiave. Aveva pensato ad un’allucinazione dovuta forse al clima di fervore mistico che aleggiava nel convento ogni anno durante il mese di maggio dedicato alla Vergine Maria. Quella sera, nel refettorio, l’incidente era nelle menti di tutti i commensali, ma nessuno ne parlava. C’era qualcosa di sospetto, di arcano e grave nell’aria. Era il momento in cui il dottore doveva essere presentato ai frati. Tuttavia, le parole del Priore e le preghiere di tutti andarono all’infortunato fratello che stava soffrendo in una corsia d’ospedale e forse era in pericolo di vita. Il dottore sedeva accanto a Padre Anselmo. Voleva riferirgli quanto il frate gli aveva sussurrato all’orecchio, ma dal


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momento in cui il cibo era servito vigeva la regola del silenzio. Aspettò dunque che l’occasione si presentasse più tardi, e fu nella sua cella che poté finalmente riferirgliele. Padre Anselmo rimase in silenzio. Un silenzio che il dottore trovò strano: perché non dire subito che quelle parole erano frutto dello choc provocato dalla caduta e che non c’era nessuna mummia nel sotterraneo e tanto meno Satana in persona nel convento? Il frate, dal canto suo, era indeciso. Voleva stabilire un rapporto di fiducia con quell’uomo che aveva bisogno di lui e gli ripugnava cominciare con una menzogna. Optò per un approccio indiretto del tema scottante. « Padre Ignazio era certamente scosso quando ti ha sussurrato quelle parole » gli disse. « Vedi, da un lato è pur vero che il convento è stato colpito da una serie di disgrazie negli ultimi decenni, qualche incendio, delle epidemie di tifo, diverse intossicazioni alimentari, una serie di incidenti più o meno gravi e qualche caso di follia. Ma tutto sommato, forse non molto di più di quanto era accaduto nei secoli precedenti. Basta consultare gli annali del convento, nella biblioteca, per rendersene conto. Tutto vi è consegnato scrupolosamente. La superstizione è un difetto umano tra i più difficili da estirpare, perfino tra coloro che dovrebbero dare l’esempio ». « E quella faccenda di Satana e dell’uomo della grotta? » chiese il dottore. « È successo qualcosa esattamente cento anni fa. Allora i frati fecero voto solenne di non dire mai nulla in merito. E anche noi, loro discendenti, siamo vincolati da quel voto ». Il dottore rimase perplesso. Dunque, qualcosa di vero c’era in quelle parole pronunciate da Padre Ignazio sotto lo choc. E Padre Anselmo non gli avrebbe detto nulla di più. La curiosità lo spinse ad aggirare il problema. « Le infermità che colpiscono una comunità religiosa separata dal resto della popolazione possono celare informa-


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zioni interessanti dal punto di vista epidemiologico » disse. « Sarebbe un buon soggetto per una tesi di laurea. Mi piacerebbe dare un’occhiata a quegli annali durante la mia permanenza ». Padre Anselmo sorrise. Il dottore gli stava indicando che avrebbe potuto scoprire «casualmente» la verità, tramite i diari di bordo, senza che lui venisse meno al voto collettivo. Rifletté un istante. Ciò che desiderava ardentemente, per il bene della comunità conventuale, era che l’incomodo inquilino del sotterraneo fosse rimosso al più presto e li liberasse dalla sua malefica presenza. « Non sarà facile » rispose. Poi soggiunse con un sorriso ironico: « Anche se alleviamo cani San Bernardo, da noi non mancano i cani da guardia ».

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l segreto del convento impresse una svolta inattesa, stimolante al soggiorno del dottor Pagani. E, soprattutto, lo distolse dai suoi problemi personali. Sentendosi un po’ Sherlock Holmes, il medico torinese tentò da quel momento di saperne di più sulla misteriosa mummia maledetta, cercando di non insospettire i frati, cosa ormai impossibile in quanto il sommesso e incerto bisbigliare di Padre Ignazio al suo orecchio aveva creato echi talmente ampi da raggiungere i timpani di tutti gli inquilini del chiostro, compresi quelli sensibilissimi del Priore. L’infortunato Padre Ignazio aveva menzionato il sotterraneo. Occorreva scovarlo. Il dottore cominciò ad aggirarsi in lungo e in largo all’interno di quel-


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l’austero edificio e della chiesa adiacente, tenendo in mano il Breviario per darsi un contegno, inserendovi un dito a mo’ di segnalibro e aprendolo di tanto in tanto, come faceva don Abbondio il giorno in cui i due bravi lo aspettavano a quel fatidico bivio per comunicargli la sciagurata ingiunzione. Ma il dottore sottovalutava l’intelligenza dei frati che non credettero affatto alle sue pretese e maldestre meditazioni trascendentali. Pensavano che fosse semplicemente curioso, un po’ troppo curioso. E il dottore, dal canto suo, provava costantemente la sensazione di essere spiato: rumori di passi risuonavano alle sue spalle, porte si aprivano e si richiudevano al suo passaggio, frati sbucavano repentinamente dal nulla e passavano frettolosamente accanto a lui lanciandogli occhiate furtive. Non trovò alcuna traccia del sotterraneo, ma ebbe modo di osservare che la cripta, pure menzionata dal povero frate, doveva trovarsi, come tutte le cripte, nella chiesa, sotto l’altare, e che nell’abside la scalinata che probabilmente vi conduceva, era chiusa da una massiccia porta di ferro battuto. D’altra parte, curiosando nella biblioteca, seguito dallo sguardo sospettoso del bibliotecario (“Ecco uno dei cani da guardia’’ pensò), finì per notare, in diversi scaffali sovrapposti, accessibili soltanto per mezzo di una scala, un grande numero di volumi rilegati in tela blu, che portavano sul dorso solo una breve iscrizione, forse una data. Dovevano essere i famosi annali. Quelli dal colore più sbiadito, posti più in alto, erano certamente i più antichi, ma di quali anni? Dal basso non riusciva a leggere le date. Per sincerarsi sul contenuto di quei volumi, escogitò uno stratagemma. Chiese al bibliotecario di consultare il diario del convento relativo al 1918, col pretesto di interessarsi agli effetti della cosiddetta ‘‘febbre spagnola’’, che in quell’anno aveva mietuto milioni di vite in tutto il mondo, sulla popolazione di frati presenti in quell’anno nel convento. Riempì un breve modulo e lo consegnò al frate che lo studiò qualche se-


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condo prima di acconsentire. Il dottore lo seguì ed ebbe la conferma di quanto aveva sospettato circa il contenuto di quei volumi rilegati in tela blu. Padre Ignazio aveva detto che era accaduto qualcosa il trentuno di maggio e Padre Anselmo aveva precisato l’anno: un secolo prima. Quindi occorreva consultare il diario del mese di maggio del 1892. Dovette aspettare un intero pomeriggio, sfogliando alcuni libri, prima che il bibliotecario si assentasse per qualche minuto. Approfittò allora di quell’assenza per salire rapidamente sulla scala e constatare che la serie dei volumi passava dal 1891 al 1893. Il 1892 era stato rimosso. Riprese il suo posto prima del ritorno del bibliotecario, ma la sua mossa, ben inteso, era stata notata dagli altri tre frati presenti, che ne avrebbero certamente riferito ai loro superiori. Tra di loro c’era pure il giovane novizio che era venuto di corsa a chiamarlo quando Padre Ignazio era caduto dalla scala. Costui lo aveva osservato di sottecchi e sembrava che volesse dirgli qualcosa. L’assenza del volume fu comunque un’ulteriore conferma del fatto che esso conteneva un segreto. Ma dove lo avevano nascosto? Ne parlò, più tardi, nella sua cella con Padre Anselmo, il quale sorrise bonariamente. « Te l’avevo detto che non sarebbe stato facile » disse sedendo su una sedia impagliata, accanto ad un tavolino di legno scuro. « I libri, diciamo riservati, sono tenuti sotto chiave in una stanza a parte, in fondo alla biblioteca. Non vi si accede senza un valido motivo. Ma da qualche tempo si sta microfilmando tutti i volumi della biblioteca —un vero lavoro da certosini — ed è toccato ai giovani svolgerlo perché gli anziani non conoscono questa tecnica. Sappi che coloro che non hanno ancora preso il saio non sono vincolati da quel voto collettivo. Forse quel volume è già stato microfilmato, o potrebbe esserlo prossimamente... ». Seduto sulla sponda del letto, il dottore cercò di capire per quale motivo Padre Anselmo stesse facilitando la sua ricerca.


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Era evidente che non voleva tradire il famoso voto, ma sembrava tuttavia desideroso di fargli scoprire la verità. E qual’era la posizione del Priore in quella faccenda? Probabilmente voleva mantenere lo statu quo, altrimenti, col potere di cui disponeva, avrebbe già risolto il problema, qualunque esso fosse. C’erano perciò, apparentemente, due fazioni distinte tra i frati; quelli che desideravano che il segreto fosse svelato, e gli altri. Svelarlo per quale motivo? Forse per disfarsi di una malefica presenza e sperare di metter fine alla serie di disgrazie? Era inoltre possibile che qualcuno cercasse di coinvolgerlo in quella contesa interna? Ebbe la risposta a questa domanda la sera stessa. Nel coricarsi, posando il capo sul guanciale, sentì uno strano fruscio provenire dall’interno della federa. Vi trovò una fotocopia di una pagina manoscritta, con una grafia minuta, regolare, del famoso diario del 1892, messo all’indice. Era ciò che cercava. Vi trovò la descrizione di quanto era avvenuto quel giorno, la frana, l’apparizione della minuscola caverna dalla quale spuntava una gamba dell’uomo mummificato e la grande sorpresa e inquietudine che quell’avvenimento aveva suscitato nei frati. Erano menzionate pure le ragioni per cui quella scoperta doveva restare segreta e il voto collettivo che vincolava anche le generazioni future di frati del convento. Il cuore del dottore sussultò. Adesso tutto si chiariva: vi era realmente un fossile umano mummificato nel convento. Rivelarne la presenza avrebbe attirato l’attenzione dei media e quindi degli scienziati che l’avrebbero rimossa per studiarla nei loro laboratori e conservarla in un luogo adatto. Ma perché il Priore era contrario? Forse per non dover rivelare che i frati avevano occultato per un secolo quel reperto archeologico importantissimo? Perché la Chiesa sarebbe stata accusata di ostacolare la scienza? Su questo punto la cosa non era ancora completamente chiara. Ma chi gli aveva procurato


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quel foglio, correndo dei seri rischi? Pensò al giovane novizio. Anche lui aveva parlato di una serie incessante di disgrazie. E lo aveva detto con una certa collera. Aveva dunque corso il rischio di essere sanzionato e forse perfino espulso pur di fargli avere quel foglio? Ma cosa c’entrava Satana e quali erano i legami della mummia preistorica con la serie di disgrazie? Anche questi aspetti restavano da chiarire. Pagani strappò la fotocopia in piccoli pezzetti che gettò nel gabinetto. Quando, il mattino seguente, Padre Anselmo gli fece nuovamente visita, gli rivelò ciò che aveva trovato nella federa del guanciale. Il frate ne fu sorpreso, il che rinforzò il sospetto del dottore sull’identità del suo informatore. Comunque, ora avrebbe potuto parlare apertamente con lui di quella mummia rinchiusa in un sotterraneo segreto, visto che ormai ne era al corrente. Nessun frate aveva violato il voto di segretezza, nessun sacrilegio era stato compiuto. Ed era lui l’unico laico al mondo a sapere. Il frate rifletté un po’ prima di decidersi. Poi gli confermò quanto gli aveva rivelato in precedenza sulla serie di disgrazie che avevano colpito il convento durante il secolo scorso, molte delle quali nel mese di maggio. Il tifo e le intossicazioni alimentari avevano causato la morte di un numero rilevante di frati. Gli incendi scoppiavano nelle cucine, nel deposito di legname, nelle soffitte. I casi di follia, quasi sconosciuti prima, si erano moltiplicati: certi frati avevano visioni terrificanti, udivano voci strane che li chiamavano dall’aldilà, bestemmiavano, compivano atti osceni, usavano un linguaggio da suburra, segno evidente che Satana si era impossessato di loro e parlava attraverso la loro bocca. Si era fatto sovente ricorso all’esorcista, a volte con esito positivo, ma assai più spesso il frate impazzito finiva i suoi giorni rinchiuso in isolamento totale, onde ‘‘evitare il contagio”, come si diceva.


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Altri fenomeni paranormali si verificavano nel convento o attorno ad esso: una cagna partoriva un cucciolo con due teste, un macigno ruzzolava all’improvviso lungo una china e veniva a frantumare una vetrata della chiesa, un fulmine a ciel sereno colpiva una tettoia incendiandola. « Si direbbe che le forze del male bersaglino la nostra congregazione per punirci » disse il frate. « Ma di cosa? L’unica spiegazione, secondo me, è il fatto di avere imprigionato nel sotterraneo quel corpo dall’apparenza umana, mentre la frana di cento anni fa, altro avvenimento sospetto, lo aveva liberato dalla sua grotta rivelandone la presenza ai nostri confratelli di allora ». Il dottore ascoltava attentamente cercando di ragionare senza lasciarsi coinvolgere dall’aspetto surreale, irrazionale di quanto gli raccontava il frate. « Le forze del male » ripeté tra sé. « Questo frate ci crede come se si trattasse di una realtà oggettiva, capace di staccare massi dalla montagna, sconvolgere le menti e indurre mutazioni teratogene nel Dna dei cani. Qui si naviga in pieno Medio Evo. Come reagire? Se mi mostro scettico, Padre Anselmo si chiude e non mi dice più nulla. Quindi sarà meglio far finta di assecondarlo ». « Quale nesso esiste dunque tra le forze del male e la mummia? » chiese con naturalezza. Il frate pensò che la domanda non fosse ironica. « Questo per ora rimane un mistero » disse. « Ma di certo un legame ci deve essere. Satana — tu puoi non crederci — ha molte frecce nella sua faretra. Quel fossile potrebbe non essere altro che un cavallo di Troia, una sorta di Leviatano terrestre che servirà per il suo disegno di dominazione o di distruzione del mondo. In che modo? Non lo sappiamo ancora. Ma è certo che da quando è venuto alla luce ci sono state due guerre mondiali con ottanta milioni di morti. Durante la seconda di queste guerre è avvenuto il più allucinante mas-


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sacro di civili innocenti che sia mai stato perpetrato in tutta la storia dell’umanità, il genocidio di massa del popolo ebraico, pianificato e messo a esecuzione con agghiacciante freddezza da uomini che ogni sera ritornavano tranquillamente nei loro focolari ad abbracciare i loro cari. Chi aveva sconvolto le menti delle migliaia di uomini che perpetravano quotidianamente simili atrocità se non Satana stesso? Puoi immaginare cosa accadrebbe il giorno in cui mettesse in opera un nuovo piano diabolico contro l’umanità. Già nel 1962, durante la crisi di Cuba, il mondo si è trovato sull’orlo della guerra atomica, ossia della sua distruzione totale. Ho la netta sensazione che quella mummia laggiù faccia parte del nuovo piano satanico di distruzione dell’umanità ». « Perché non disfarsene, allora? » chiese il dottore. « Ho cercato di convincere il Priore a distruggerla, ma lui non crede alla mia tesi. Ha un’altra idea fissa. Mentre il suo predecessore di allora tenne nascosta la scoperta per preservare la tranquillità del convento, quello odierno crede che gli scienziati potrebbero vedere in quel fossile umano l’anello mancante nel processo evolutivo che dalla scimmia avrebbe condotto all’uomo. Egli pensa che la comunità scientifica — atea per vocazione — lo considererebbe come una prova schiacciante della validità della teoria darwiniana, mentre l’uomo è stato creato da Dio e non può certamente avere una scimmia come antenato. Allora, il Priore si chiede per quale motivo dovrebbe offrire ai nemici della chiesa un’arma con la quale essi la colpirebbero senza il minimo riguardo ». « Sì, ma nel frattempo quella mummia rimane qui. Cosa intende fare il Priore? ». « Per ora vuole che rimanga dov’è e che si mantenga il segreto. Ma siamo in molti a pensare che ci si dovrebbe sbarazzare dell’incomodo inquilino. In fondo, il voto collettivo non ci obbliga ad ospitare per sempre quella mummia malefica. Basterebbe farla sparire senza dire nulla a nessuno ».


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Il dottor Pagani rifletté qualche secondo, poi disse: « Mi sembrerebbe logico, ad ogni modo, sincerarsi sulla natura, l’origine, l’essenza stessa di quel fossile. Analizzando un semplice piccolo prelievo della sua pelle sarebbe possibile sapere molte cose su di lui, l’epoca in cui è vissuto, il suo grado di parentela con la specie umana e se è effettivamente un nostro antenato ». Camminando su e giù nella minuscola cella e lisciandosi la barba con le dita, il frate rifletté sulla proposta del dottore. Non aveva pensato alle analisi biologiche. «E se rivelassero la natura satanica del fossile? » si chiese. «In tal caso non ci sarebbe più la minima esitazione: il fuoco, l’incenerimento di quel corpo e la sepoltura a grande profondità delle ceneri, racchiuse in un’urna di piombo sigillata. Questo salverebbe l’umanità da eventuali catastrofi e in ogni caso riporterebbe la serenità nel convento”. « Buona idea » disse infine, « facciamo le analisi. Dato che sei medico, potresti occuparti tu del prelievo. Io so come accedere al cunicolo. Potremmo andarci assieme ». Il dottore esitò. Si era rifugiato in quel monastero con lo scopo di curarsi la depressione e vi era stato accolto fraternamente. Perché intromettersi in una faccenda che non lo riguardava, per giunta violando le disposizioni prese dal Priore? Quella azione era troppo rischiosa e lui non avrebbe avuto nulla da guadagnarci. Confidò la sua titubanza al frate che riprese pensieroso il suo andirivieni lisciandosi sempre la barba, fonte apparente d’ispirazione. Effettivamente, dopo un paio di minuti ebbe un’idea. « Capisco » disse « eppure, sono convinto che la visione di quella mummia preistorica dovrebbe interessare un uomo di scienza quale sei tu. Potresti ricavarne un articolo interessante e pubblicarlo ». Pagani pensò in quel momento al prestigio di cui godeva il suo rivale in amore per il solo fatto di pubblicare ogni tanto


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un articolo su riviste specializzate, cosa che lui non aveva mai osato fare. Si era tuttavia chiesto più volte se la sua Irma si sarebbe lasciata comunque irretire da quel tale qualora anche lui avesse allineato su uno scaffale del suo studio, bene in vista, numerose riviste contenenti le sue pubblicazioni. Questo lo avrebbe posto, per lo meno sul piano professionale, sullo stesso livello di quel suo infido collega, e lui non avrebbe provato il morso bruciante dell’invidia. Forse il buon frate aveva ragione. Quanto gli stava capitando ora, questa faccenda del reperto antropologico ben conservato, poteva rappresentare un’occasione insperata per scrivere finalmente qualcosa d’interessante e uscire dal suo grigio anonimato. I periodici specializzati si sarebbero contesi un suo articolo su un fossile umano nascosto da un secolo in un monastero. Ci sarebbero state delle interviste, forse persino la televisione. Si sentì pervaso da una sensazione euforica, inebriante. ‘‘Sì’’ pensò, ‘‘ecco un’occasione straordinaria per farmi anch’io un nome e sorprendere parecchia gente che mi crede già finito, incapace di un rilancio alla mia età. E al diavolo l’invidia. Forse è giunta l’ora della rivincita”. « D’accordo » disse infine a Padre Anselmo che cominciava a disperare, « lei apra discretamente le porte e io farò il prelievo ».



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