Ba i g u o 10 e B o o k
ALESSANDRO PUGLIESE
L’INTENZIONE DEI
BOSCHI
GINGKO
EDIZIONI
Titolo dell’opera: L’intenzione dei boschi © Copyright 2013 alessandro Pugliese © Copyright 2013 gingko edizioni san Pietro Capofiume (Bo) www.gingkoedizioni.it i edizione luglio 2013 Collana baiguo ebook gingko Progetto grafico di copertina: © 2013 aTalanTe
INDICE
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1 | i due come loro
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2 | il rifugio dentro la foresta
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3 | da timisoara al paese dei sogni
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4 | Al lavoro nei campi afosi
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5 | in città
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6 | Una dimora per italiani medi
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7 | Un gelido natale
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8 | nella candida foresta
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9 | Gli scontri in città
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10 | due piccoli colpi di ‘sopravvivenza’
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11 | Al campo del vecchio Joan
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12 | i lavori proseguono
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13 | Alla ricerca di un cambiamento
285
14 | La fine di ogni speranza
L’INTENZIONE DEI
BOSCHI
Ai due e a lei e poi a voi
Podul de Piatra Podul de Piatra sa dărâmat un venit apa şi la luat Vom faccia altul ae riu, Jos nella altul mai trainic şi mai frumos! Vom faccia altul ae riu, Jos nella altul mai trainic şi mai frumos! il ponte di pietra il ponte di pietra è crollato l’acqua è venuta e lo ha abbattuto ne costruiremo un altro, un altro che durerà e sarà ancora più bello! ne costruiremo un altro, un altro che durerà e sarà ancora più bello!
i due come loro
N
ella campagna marmorizzata dal gelo due uomini se ne stavano a fissare l’abitazione di mattoni rossi. Era una villetta a schiera, di testa, e includeva un ampio giardino. Ad est del giardino una distesa di terra si snodava piena di sbalzi e sterpaglie. Era quasi soffocata dalla vegetazione e in gran parte buia. Avrebbe dovuto ospitare un complesso residenziale fatto da altre villette a schiera, con un mini-market al centro, una piazzetta di cemento bianco rallegrata da due striminzite aiuole triangolari e un quadrato di verde per i giochi pubblici. Questo si vedeva dal cartellone pubblicitario. I lavori, però, si erano interrotti sei anni prima e adesso vi erano solo metri cubi di detriti e macerie, un casotto per attrezzi e tre sbilenchi bagni chimici per i muratori che vi avevano lavorato per qualche tempo. I due uomini avevano raggiunto la recinzione della villa attraversando il terreno. Sul confine, piantato in modo che si rivolgesse alla strada, una vecchia e tetra insegna montata su tubi innocenti informava dei lavori e del progetto, e si ergeva al di sopra della rete metallica
L’intenzione dei boschi
arrugginita. Dopo essersi arrampicati su quell’instabile impalcatura, i due erano saltati dall’altra parte. Il cartello era invaso da edera secca e annerita. La parte visibile del testo era deformata da una grande quantità di escrementi di uccelli. I due si stavano sfregando le mani per mantenersi caldi. Uno aveva trent’anni, e si chiamava Cledi, e non era italiano. Era rumeno. L’altro, di sei anni più grande, originario di una regione del sud dell’Italia, si chiamava Costantino. Entrambi avevano studiato ormai ogni minuzia della casa, visto che si trovavano lì da quasi un’ora. Erano esausti, e quasi assiderati. Le ginocchia cominciavano a dolere e tutti e due sbuffavano nuvoloni di vapore chiaro che si sperdeva in volute rarefatte sopra la loro testa, nell’aria gonfia di umidità. Infinite volte avevano cambiato posizione per stiracchiarsi come meglio potevano. « Mi fa male la testa » disse Cledi. Si frizionò le tempie sotto il copricapo lappoloso. Il compagno non disse niente, non lo guardò nemmeno. « La fortuna è che non ci sono inferriate » continuò. « È la terza volta che lo ripeti » rispose l’altro. Dopo una breve esitazione: « Per la miseria, aspetta a parlar di fortuna ». Era cupo e di cattivo umore. « Sta’ zitto » aggiunse. Prese a grattarsi nervosamente il mento con l’indice del guanto, e assunse una strana posa contemplativa. « Di’ un po’ » disse Cledi, dopo qualche secondo. « Pensi che dovremmo lasciar perdere? ». Costantino si voltò un breve istante a guardarlo torvo. « Voglio dire, non dobbiamo dar a conto a nessuno, in fondo ». 16
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« Dobbiamo dar conto allo stomaco, testa di mulo. Sta’ zitto » gli intimò Costantino. « Fammi il piacere ». Il suo sguardo tornò a focalizzarsi sulla casa. Cercò di penetrare il buio e parve ripercorrere una serie di traiettorie e direttrici che i suoi occhi avevano scandagliato e seguito in precedenza. Si fissò sul portone d’ingresso. Era blindato e di solido legno, ma non gli interessava. Non sarebbero entrati da lì. Nessuno sarebbe potuto entrare da lì. Il portone era sormontato da una lanterna. Il riverbero si gettava a ventaglio sulle ultime lastre di porfido del vialetto d’ingresso. Il bagliore giallastro che filtrava tra la bruma sospesa veniva inghiottito sul patio dentro due pozzanghere. Vi erano disposte a raggiera una dozzina di grosse pietre vulcaniche poco più in là. La luce non riusciva a penetrare i loro buchi neri, allungandosi timidamente su un lembo di rosmarino che cresceva sotto un abete rosso alto un paio di metri. « Ho un mal di testa che non ci vedo. Tutta questa umidità finirà per uccidermi » disse Cledi. « Non mi sono gelato le chiappe per niente » ringhiò Costantino. Si morse un labbro e si ingrugnì. « Ce ne torneremo a casa belli belli, vero? ». « A casa, come no » disse il compagno con sarcastica ironia, quasi fra sé e mormorando. « Accenderemo un bel fuoco, uno di quei grossi fuochi che ti scaldano fin dentro e mangeremo carne. Non lo sopporto più questo dolore ». Raccolto nella sua logora giubba, si frizionò l’interno della coscia e poi di nuovo le tempie. Entrambi sbuffarono aria calda sui nasi arrossati. Continuarono ad osservare la villa per interminabili minuti. Cledi, che appariva molto inquieto, si guardò at17
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torno diverse volte, anche se riusciva a distinguere ben poco. Avevano squarciato la rete metallica servendosi di una cesoia che avevano rubato in un negozio di fai da te. Cledi aveva distratto la commessa del reparto che stava all’esterno fingendo di parlare male l’italiano e cercando di farsi capire con una macchinosa gestualità, nel frattempo Costantino le aveva sfilato da sotto il naso l’arnese. Con la cesoia avevano aperto una feritoia grande abbastanza da consentirgli di infiltrarsi dentro la proprietà. Intanto, la notte, lì nell’inverno padano, si presentava placida e tagliente come una lama. Sulle loro spalle gravava una coltre pesante. Una landa desolata, inospitale, li circondava. Oltre il terreno dismesso si scorgevano i primi tetti dei casolari ristrutturati e alcuni vecchi fienili diroccati. Alle spalle della villa correva un terrapieno alto circa cinque metri che si perdeva nell’oscurità. Al di là scorreva il fiume, che era abitato da molta gente che conoscevano e da molti altri che non conoscevano, ma che avevano in comune con loro la cieca disperazione e l’insanabile miseria. A rotazione, a diverse lunghezze sul fiume, le forze dell’ordine li sgomberavano durante vari periodi dell’anno, anche in stagioni così fredde come quella. Cani, buldozer, ruspe e camion, e anche qualcuno vestito con cura che restava lì a guardare mentre lo sfacelo si compiva, riducevano in pochi istanti in poltiglia ed ammassi tutto ciò che trovavano. Quella gente diventava ancora più nomade di quel che si era promessa di non essere. Le donne, i bambini, gli anziani, in file filamentose e gravi, migravano verso altri boschi, verso altri fiumi, alla ricerca di diversi anfratti o solo di più ospitali radure un po’ meno umide. Ma se potevano non si allontavano dal fiume loro amico. 18
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Qualche chilometro più a monte, il terrapieno si appiattiva sul livello della campagna e sopra di esso emergevano i vecchi ponti a schiena d’asino che si inarcavano sul letto del fiume e su altri canali secondari, spesso limacciosi, che in estate si riempivano di uova di zanzare e di nugoli di moscerini. I pioppi, in file ordinate, grondavano acqua anche se non aveva piovuto, apparendo come elementi gotici surreali e respingenti. Al di sopra, nel cielo notturno, non una stella, né lo spicchio di luna più pallido. « Facciamola finita » sbottò Cledi. « Se aspettiamo ancora un po’ diventeremo due dannate statue di ghiaccio ». Costantino, come disturbato nel mezzo di una profonda meditazione, proprio nell’attimo in cui l’idea sta per giungere, sbuffò aria dalle narici. Chinò il capo. « Di’ un po’, testa di mulo » disse, « ripetimi cos’ha detto il tuo vecchio zingaro quando avete parlato nella vostra schifosa lingua ». « Non parlare così » disse Cledi. « Non sei nessuno per parlare così ». « Su, non rompermi la testa » disse Costantino. Cledi cominciò a sussurrargli quello che aveva detto il vecchio zingaro, che si chiamava Joan, quando erano andati a trovarlo al campo. Nel punto che interessava maggiormente a Costantino proseguì con un tono di voce cantilenante. « …che il colpo sarà facile come mandar giù un sorso d’acqua. Che i tizi sono giovani, più o meno come noi, che sono degli idioti e che non ci sono armi in casa... contento? ». Un camion grugnì sulla strada e lo zittì. Ci fu un cigolio prolungato e poi una sventagliata di fari che arrivò 19
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fino a loro. La bruma divenne bianca e spessa. Il terreno alle loro spalle venne spazzato come il cortile di un penitenziario da un proiettore sulla torretta, il cartello sopraelevato rimandò un brillio e loro si acquattarono istintivamente. Poi tornò l’oscurità e Costantino ruppe gli indugi. « Da’ un’ultima controllata alla roba e andiamo ». Cledi spalancò il sacco che si erano trascinati dietro e si mise a rovistarvi dentro, aiutandosi con la fiammella di un accendino. L’interno del sacco puzzava di rancido. Come di panni rimasti umidi troppo allungo. E si sommava all’afrore pungente che emanavano le ascelle della sua giubba. Cercò di non badarvi. Qualche secondo dopo si misero a correre attraverso il giardino, e si arrestarono quando ebbero raggiunto l’estremità della casa. Sentivano l’ansimare dei loro cuori in petto. Fecero il giro della casa e si fermarono davanti al bagno. Cledi aveva la fronte madida e fredda. La testa gli faceva male. Ad iniziare le manovre fu Costantino. Si mise a forzare lo scuro mentre Cledi gli dava le spalle e si guardava attorno. Benché la campagna si fondesse con l’ombra incombente della casa e non si vedesse a un solo metro di distanza, un’atmosfera elettrica, come di agguato e di imminenza, lo teneva teso come un muscolo allo spasimo. Cercò di rimanere concentrato e di non pensare alle pulsazioni delle tempie. Si trattava di una campagna fatta per indurre un uomo saggio, con la testa sulle spalle, a restarsene in casa propria al calduccio, fino a quando la luce del giorno non l’avesse scaldata e rincuorata per bene. Ma loro, evidentemente, non erano uomini saggi, non potevano permetterserlo. Non lo erano non per una questione di età; perché l’età 20
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nel loro caso non escludeva una grande mole di esperienze significative e un gran numero di problemi che ciascuno per sé aveva dovuto affrontare e risolvere per rimanere vivo. Il punto era che non avevano affatto un posto dove restarsene in pace e al calduccio, da uomini saggi. Possedevano soltanto una fatiscente baracca per lo più fradicia e putrescente, lassù da qualche parte nella gelida montagna, che neppure il sole più splendente poteva raggiungere. Quando da quelle parti calava la nebbia, tra i faggi e gli abeti, e il bosco diventava un posto orribilmente tetro, si ritrovavano ovunque fuorché in un ricovero per uomini saggi. Senza contare che lo starsene in quella baracca che avevano costruito con le loro mani e con materiali di fortuna rimediati ovunque, equivaleva a restarsene un po’ come allo scoperto, visto che la condensa che emanava dai loro respiri raggiungeva ben presto il soffitto e nel cuore della notte finiva per stillargli sulla faccia, sulle coperte e sui giacigli improvvisati. Così, non era affatto una questione di saggezza o di età, quanto di bisogno vitale e d’istinto improcrastinabile alla vita e alla sazietà. Costantino riuscì a infilare la staffa tra il legno e il muro e penetrò all’interno. A Cledi ordinò di mantenere l’asta dritta e di esercitare una leggera pressione lateralmente, dimodoché si allargasse ancora un po’ la fenditura. Quando Cledi sentì il legno ammaccarsi e comprimersi, mentre l’intonaco si sbriciolava, fece un cenno a Costantino e questi subentrò al suo posto. L’italiano, nel frattempo, aveva preso dal sacco una staffa di diametro maggiore. La infilò ora dietro lo scuro e continuò a forzare. Dopo un po’ il gancio cedette e Costantino diede un ultimo strattone. La parte inferiore dello
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scuro si staccò e poterono così lentamente tirarla con le mani. Un breve stupore di soddisfazione attraversò i loro volti. Cledi cavò via la staffa, la poggiò con cautela sull’erba e infilò il braccio all’interno come avevano convenuto. Riuscì a penetrare fino al gomito, ruotò il piantone e lo scuro si liberò del tutto. Non rimaneva che la questione del vetro. Costantino, che aveva gli strumenti del ladro professionista, usò la punta di diamante e cominciò a rigare la superficie liscia, disegnando una circonferenza come si vede fare nei film di criminali. Con l’altra mano applicò la ventosa e tirò via il cerchietto di vetro. Infilò il braccio nel buco e aprì la finestra. È fatta, pensò, sogghignando. Intimò a Cledi di mettersi in tasca la ventosa e la punta di diamante e di non perderle. Il sacco con gli arnesi poteva essere sacrificato, ma la punta di diamante e la ventosa era roba che valeva e che avevano preso in prestito, e bisognava riportarla indietro. Tanto più che per quel prestito avrebbero dovuto cedere una fetta della refurtiva. Se ve ne fosse stata! Il primo ad entrare fu Costantino. Temette che la porta del bagno potesse essere stata chiusa a chiave dal di fuori, ma verificò il contrario. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto chiudere a chiave la porta del proprio bagno prima di andarsene a letto? Salirono le scale e videro l’uomo e la donna che dormivano. Mantennero il fascio di luce azzurrognolo delle torce sopra i loro volti e provarono un po’ di invidia al cospetto di quella scena di tranquillità regolare fatta di un marito e di una moglie l’uno di fianco all’altra, giovani, comodamente distesi su un soffice e candido letto. Da 22
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quanto tempo loro non dormivano su un letto come quello? Anni! La donna aveva un bell’aspetto. Non aveva un viso volgare e duro come molte altre donne che vedevano ogni giorno. L’espressione di sonno che le ammantava il viso stirandole i lineamenti, cristallizzava in lei una bellezza simpatica, se così si può dire, facile e agevole. Forse compassionevole. Teneva la bocca lievemente schiusa e la nuca tirata all’indietro. Questo delicato sforzo faceva appena affiorare un rotondo e morbido pomo d’Adamo. L’uomo invece russava, le sue palpebre erano gonfie e a sprazzi deglutiva. Una mano rivolta sul dorso, accanto all’orecchio, lo imbalsamava in una posa di alt, di fermi tutti. Ma si trattava di una posa priva di qualsiasi autorità. Di ingenua insicurezza che si finge forza. Costantino si gettò su di lui come un gatto selvatico che si avventa su una farfalla che vola bassa. Gli tappò la bocca e premette più forte che poté, serrandogli il torace con le ginocchia e imbozzolandolo nel piumone. L’urto destò un immediato scompiglio. Il letto ondeggiò. La donna, di scatto, sobbalzò, e fece volare il piumone con un colpo delle ginocchia. Si mise ad urlare, con gli occhi sbarrati e senza capire veramente quello che stava accadendo. Cledi le tappò rapido la bocca mentre si allungava con l’altra mano a pigiare il pulsante della luce sul comodino. Quando la stanza fu illuminata si gettò su di lei. Le assestò un ceffone e le calcò ancor di più la mano sulle labbra. Non avrebbe voluto schiaffeggiarla, ma lo ritenne necessario. « Fa’ silenzio, puttana! » le urlò Costantino. Si ritrovarono tutti e quattro faccia a faccia o, per me23
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glio dire, le due vittime si ritrovarono dinanzi a due uomini dal viso coperto e deformato da un collant color carne. « Che cazzo guardi? » ruggì Costantino rivolto all’uomo, e gli assestò un violento manrovescio. Neanche lui, in fondo, avrebbe voluto farlo, ma un avvertimento del genere, soprattutto nella fase iniziale di un’irruzione come quella, serviva a disorientare i malcapitati. Era indispensabile. Cledi, per la verità, lo guardò con una certa apprensione temendo che potesse degenerare, ma badò a dissimularla. Per conto suo, tutto ciò che Costantino avrebbe fatto o avrebbe ordinato, sarebbe stato lettera divina. Il pover’uomo, imbozzolato come una gigantesca larva, gli occhi gonfi di sonno, il viso distorto, bofonchiò qualcosa di incomprensibile e si dimenò cercando di liberare le mani, ma Costantino, che lo teneva stretto stando a cavalcioni su di lui, gli assestò un secondo manrovescio e questa volta un sottile rivolo di sangue prese a scendere dalla narice dell’uomo. Cledi passò a quel punto ad attuare la fase scenica del piano. Puntò la lama del coltello a pochi centimetri dall’occhio della donna, e mugugnò in direzione di suo marito in modo da chiarirgli per bene la situazione. Gli disse che avrebbe avuto una donna guercia da quella notte, se avesse scelto di mettersi a fare l’eroe. Costantino lo istruì sul fatto che avrebbe iniziato a legarlo e che non avrebbe tollerato atti di ribellione. « Se fate i bravi » disse, « ci limiteremo ad alleggerirvi di qualche stupido oggetto che potrete ricomprarvi ». « Gente come voi » aggiunse subito dopo aver cavato dalla giubba un rotolo di shock per imballaggi, « ricom24
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pra sempre gli stupidi oggetti ». « Sta’ zitta tu! » Cledi urlò alla donna che singhiozzava. Alzò la mano per colpirla, ma non lo fece. Ruotò il polso muovendo il coltello. Costantino cominciò a fasciare all’uomo la bocca, poi passò lo shock attorno alla testa due volte. Legò il polso destro al polso sinistro e fece diversi giri di nastro attorno ad entrambi i polsi legandoli assieme a una delle sbarre della testiera del letto. Così immobilizzato, il poveretto parve rassegnarsi, ben comprendendo che non c’era molto che potesse fare. Costantino gli puntò l’indice contro e ribadì che: « Ce ne andremo senza toccarvi, se non fate sciocchezze ». Non si può sapere, ovviamente, cosa stesse passando per la mente di quell’uomo in quegli istanti. Bisognerebbe che diventassimo noi stessi delle vittime in balia di due uomini incappucciati nel cuore della notte, mentre dormiamo, in casa nostra. Toccava alla donna. Lei tremava, ma i nostri amici non avevano alcuna intenzione malevola nei suoi confronti. Sotto l’ampio pigiama si potevano indovinare le sue belle forme turgide di trentenne. Per metterle addosso una buona dose di strizza, un sano e utile terrore che sarebbe servito più a lei che a loro, Costantino scostò Cledi e le sussurrò a pochi centimetri dal volto che l’avrebbero ammazzata se non avesse fatto esattamente quello che le ordinavano. Cledi la trascinò per le scale. Dalla nuca e dal collo scoperto, un aroma di bagnoschiuma e di delicatezza gli riempì le narici. La donna continuava a tremare e i suoi occhi erano annacquati come due cavità sommerse e prive di luce. Giunti al piano inferiore, lasciò che Cledi la legasse
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L’intenzione dei boschi
a una sedia della cucina, la capigliatura arruffata e stropicciata dal sonno, e poi rimescolata dalle mani stesse di Cledi, i piedi nudi, bianchi come la cera e un po’ rossi lungo i contorni delle unghie. Costantino nell’altra stanza riempiva il suo sacco. Gettava di tutto all’interno. Una zuccheriera d’argento, due cellulari, una lampada stile Tiffany che stava sul grazioso scrittoio davanti alla porta. Arraffò con soddisfazione una telecamera e una macchina fotografica, infine rientrò in cucina e disse alla donna: « Togliti la fede! ». Ma la donna era legata e non poteva muoversi, naturalmente. I due si guardarono brevemente con imbarazzo. La donna strizzò gli occhi e pianse. Costantino le andò dietro e le sfilò l’anello dal dito, con delicatezza ma in fretta. Dopo, rivolto a Cledi, diede il via libera perché l’amico ritornasse al piano di sopra. Cledi salì le scale ed entrò nella stanza da letto e frugò, sotto gli occhi attenti dell’uomo, nei cassetti, nell’armadio, dentro i comodini. Riempì con avidità il suo sacco, senza dimenticare il portafogli dell’uomo, la borsetta della donna che si trovava in bella mostra sul comò, sotto lo specchio, e senza lasciare neppure un paio di banconote di piccolo taglio dentro un piattino di ceramica dai bordi dorati, insieme a tutte le monetine sparse accanto. Quando uscì dalla stanza trasse un sospiro di sollievo e si sentì leggero. Andò nello studiolo che stava di fronte e qui la sua felicità crebbe. Prelevò un pc portatile, un Hard Disk esterno, un cordless, vari oggetti di cancelleria e dopo che il sacco fu abbastanza pesante si fermò a riflettere nel vestibolo. Era incerto sull’eventualità di entrare nella stanza del piccolo. Se il bambino si fosse svegliato e lo avesse visto con quella maschera
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sul volto sarebbe stato un bel problema, sarebbe scoppiato un putiferio. Fa’ piano e fa’ veloce, si disse, risolvendosi e penetrando nella stanza. In Romania, al suo villaggio, aveva lasciato un figlio che si chiamava Marius, come il nonno. Aveva sette anni. Il Natale, che sarebbe giunto presto, laggiù in Romania non sarebbe stato molto generoso con lui. La sua famiglia, contadini, era troppo povera per permettersi un Babbo Natale e altre amenità all’occidentale. Il piccolo italiano che si trovava davanti agli occhi, invece, dormiva in mezzo a un vero parco di divertimenti. Era rivolto a faccia in giù, le spalle scoperte per metà in una confusione di lenzuola e cuscini. Con l’aiuto della torcia Cledi inquadrò inebetito il corpicino delicato, la nuca e il collo fragili come vetro translucido e sottile, poi cercò di muoversi quanto più morbidamente possibile. Giochi costosi rigurgitavano da ogni angolo. La scelta cadde immediatamente su un ultimo modello di Play Station. Come imbambolato, staccò i fili che la collegavano al monitor e afferrò il joystick. Si rendeva conto di compiere quei gesti con una strana, indecifrabile indolenza, al rallentatore, come se il suo corpo, le sue mani non gli appartenessero più e lui stesse ossservando gli arti di qualcun’altro, un uomo che si stava muovendo al suo posto e gli faceva vedere come fare. Quell’estraneo adesso gli mostrava il giocattolo, glielo avvicinava agli occhi e gli mormorava con una voce suadente e tentatrice che in Romania un ninnolo come quello avrebbe succhiato un terzo dello stipendio di un comune operaio. Bah, prendilo e non badarci, gli diceva l’uomo, porgendoglielo nelle mani e facendogli cenno di procedere spedito con qualcos’altro. Forza, pezzo di cretino, non vedi
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quanta roba c’è? Pensi che questo piccolo viziato ne soffrirà troppo allungo? Avvistò, lui e non più l’uomo che agiva al suo posto, la pila di contenitori per dvd. Ne afferrò una mezza dozzina e li mise in cima alla console nella mano libera, quindi si diresse sull’uscio dove aveva lasciato il sacco. Fece molta attenzione a non inciampare sui pezzi di costruzione sparsi un po’ ovunque sul pavimento, e, sull’uscio, prima di filarsela, restò ad ammirare ancora per qualche istante quel piccolo mondo incantato. Una profonda malinconia lo avvinse. L’odore acre e dolce dell’infanzia. La carta da parati luccicante di graziose stelline sui due muri che circondavano il letto. La mezza luna che si illuminava sopra la testolina ansimante. V’era il televisore che però non poteva prendere, una scrivania disseminata di pastelli colorati, matite, penne dalle curiose forme e una pila di fogli da disegno, alcuni dei quali imbrattati. Il fascio di luce della sua torcia fendeva la stanza e stille di tentazioni emergevano sotto forma di arcobaleni vivaci e accattivanti. V’era persino un vasetto di Pongo con tutti gli arnesini per modellarlo, e fu questo a cacciarlo nei guai. Perché non avrebbe dovuto lasciarsi intenerire. Entrò di nuovo al pensiero che suo figlio sarebbe impazzito per quella sciocchezza, così, a metà percorso, inciampò su un camion che non aveva notato e finì col perdere l’equilibrio. Cadde su un gomito, e urtò contro la scrivania, e il trambusto destò di soprassalto il bambino che istintivamente si tirò su, pigiò il pulsante della luce e lo vide con il collant sul volto. Il piccolo sgranò gli occhi, contrasse le gote e le labbra e cominciò a mandare strepiti del diavolo. Dannazione, si disse Cledi. 28
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Nell’altra stanza, il padre iniziò subito a mugolare come impazzito. La testiera del letto, urtando contro il muro, prese a tintinnare rumorosamente. Anche la donna, di sotto, udendo suo figlio andò in escandescenze. Si agitò sulla sedia, ruotò la testa facendo una girandola con i capelli, si accaldò e divenne tutta rossa e congestionata in volto. Per calmarla, Costantino sollevò in aria una mano minacciandola di colpirla, senza alcuna intenzione di farlo per davvero, e nel mentre guardò al soffitto in apprensione per quel che stava combinando il suo compagno. « Che diavolo succede lassù? » urlò. Cledi, dopo essersi rialzato, massaggiandosi brevemente il braccio intorpidito, si precipitò sul bambino e cercò di calmarlo. « È tutto sotto controllo, scendo » urlò a Costantino. « È tutto a posto, piccolo, non aver paura » sussurrò al bambino. Gli diede un buffetto sulla guancia e « Su, su, non è niente, è uno scherzo, stiamo giocando con tua mamma e con il tuo papà, adesso ce ne andiamo ». Ma il piccolo non si lasciò convincere, e mentre lui raccattava le ultime cose continuò a sgolarsi e a fare strepiti. « Mamma, mamma! ». « Sta’ zitto, maledizione. Ce ne andiamo ». Le urla risuonavano per tutta la casa. D’un tratto scattò dal letto come una bestiolina incredibilmente veloce e riuscì quasi a fuggire via raggiungendo le scale, ma inciampò sul sacco di Cledi e cadde gemendo di dolore. Suo padre, che adesso riusciva a vederlo, si agitò tanto che il letto, battendo contro il muro, fece precipitare a pochi centimetri dalla sua testa il grosso quadro che per poco non lo mandò al creatore. Cledi ebbe pena
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per il bambino. Lo agguantò con un balzo e lo aiutò a rimettersi in piedi. Il bambino cercò di mordergli la mano. Urlò. Poi Cledi lo strinse a sé e lo riportò di peso nella stanza. Qui lo scaraventò sul letto. « Ora, sta’ zitto » gli disse. Il piccolo, ritrovandosi adesso vicini quel volto sudato e deformato dal collant, la peluria delle sopracciglia accentuata e gli spuntoni della barba di tre giorni di Cledi che fuoriscivano dai pori della calza, assunse un’espressione timorosa e si mise a singhiozzare. Si rincattucciò con le spalle strette contro il muro. Le sue braccia si incrociarono sul petto come fosse stato appena bastonato, infine scoppiò in un pianto ancora più forte. « Guarda, me ne sto andando, non piangere, è tutto a posto » gli ripeté Cledi. « Vuoi muoverti? » si sentì urlare dal basso. « Che accidenti combini. Datti un mossa ». Cledi voltò le spalle al bambino, uscì di corsa dalla stanza e lo chiuse dentro a chiave. Mentre scendeva le scale i rimbombi dei piccoli pugni contro la porta echeggiarono come suoni di strumenti musicali tribali. I vicini, pensò Cledi. I dannati vicini avranno già chiamato gli sbirri. Forse ci aspettano di sotto. Siamo fottuti. Ma ormai la casa era precipitata nel caos e l’unica cosa da fare era svignarsela. Trovò ai piedi delle scale Costantino che lo guardava con molta severità. « Che diavolo… ». « Il piccolo » disse Cledi, appena comprensibile. « Dobbiamo andare... ». « Sì, filiamocela ». Il bottino era quello che era. Non c’era di che specu30
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larvi sopra, anche se non si erano illusi un solo istante di diventare ricchi. Perché, ovviamente, non si diventa mai ricchi! Si va in galera o si ritorna al riparo con qualche pezzo che può essere venduto per tirare a campare. Poteva esservi dell’altro, certo, oggetti di valore in una qualche cassaforte, ma non c’era da scommetterci. E poi non avevano più tempo. A Costantino, però, d’un tratto sovvenne in mente che si stavano comportando da veri pivelli, da ladri di galline. Chissà perché gli era sfuggita la catenina d’oro al collo della donna. L’aveva adocchiata sin dall’inizio, eppure gli era passata di mente. Si precipitò da lei e con un gesto di stizza le strappò via il gioiello dal collo e se lo mise in tasca. Poi, in due minuti, furono fuori, attraversarono il giardino, oltrepassarono ginocchioni la fenditura nella recinzione e, sollevando i sacchi pesanti sulle spalle, all’inizio un po’ barcollanti, si misero a correre con il fiato soffocato per i campi gelati. Quando ne ebbero abbastanza, si fermarono a prendere fiato, a preservare il cuore che voleva schizzargli fuori dal petto, al riparo di un’arcata di pietra di un vecchio ponte sotto il quale ormai non scorreva più nulla. Le spalle facevano male. Si massaggiarono allungo. Le luci del giorno stavano appena rischiarando la campagna. La brina luccicava. Le fronde gocciolavano e il terreno era appiccoso sotto i piedi. Costantino prese dalla tasca la collana d’oro della donna e la allungò a Cledi. « Dalla a tua moglie » gli disse. « Tieni, sarà contenta ».
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