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Primo premio sezione Narrativa-Romanzo
InediTO 2012-Premio Colline di Torino
Dello stesso autore gingko ha pubblicato
Cumparsita Due volte ombra
Il romanzo ‘‘Nora López - Detenuta N84’’ è stato presentato dall’autore all’undicesima edizione di InediTO - Premio Colline di Torino 2012. Nella sezione narrativa l’opera è risultata vincitrice tra le oltre centocinquanta proposte in gara. Il premio, organizzato dall ’associazione culturale “Il Camaleonte”, è stato consegnato il 12 maggio durante il Salone Internazionale del Libro di Torino. Ormai da dieci anni il concorso è un punto di riferimento in Italia tra i premi nazionali per opere inedite. Dal 2008 InediTO si pregia dell’Alto Patrocinato del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
il CluB atlétiCo il ‘‘Club atlético’’ fu uno dei Centri Clandestini di Detenzione e tortura (CCDyt) in funzione a Buenos aires durante l’ultima dittatura militare. Si trovava nello scantinato di un edificio di tre piani, ubicato nella zona sud della capitale argentina, in prossimità del famoso quartiere turistico la Boca. l’edificio apparteneva alla Polizia Federale e il nome venne assegnato dai militari per la sua vicinanza al ‘‘Club atlético Boca Juniors’’. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, le persone recluse in questo CCDyt arrivavano bendate, trasportate all’interno di veicoli e, una volta dentro, venivano fatte scendere per una piccola scala in un luogo buio e poco areato. Venivano quindi incatenate, private di tutti gli effetti personali e, cosa più umiliante, spogliate della loro stessa identità, attraverso l’assegnazione di una lettera e di un numero al posto del nome. il ‘‘Club atlético’’ era composto da due sezioni di celle dislocate l’una di fronte all’altra, tre sale di tortura, alcuni bagni, un’infermeria, una sala delle guardie, tre celle individuali e uno stanzone denominato “la leonera”. Nel Centro potevano accedere circa duecento detenuti per volta e, secondo una stima basata sulla valutazione delle lettere e dei numeri assegnati a detenuti in seguito liberati, si calcola un totale di circa milleottocento persone, la maggior parte delle quali risultano tuttora scomparse. approssimativamente una o due volte al mese, una ventina di detenuti venivano trasferiti (traslados) a un destino incerto. “traslado’’ era un eufemismo utilizzato dai repressori per nascondere l’assassinio dei detenuti. il gruppo di repressori assegnati a questo CCDyt operava fondamentalmente nella Capital Federal e nella zona della gran Buenos aires. il personale era composto da forze di sicurezza dell’Esercito e della Polizia Federale e agiva in contatto con altri CCDyt come la “Escuela de Mecánica de la armada” (ESMa), “Campo de Mayo” e “El Vesubio”. alla fine degli anni ’70 l’edificio fu demolito per permettere la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. alcuni degli elementi dell’infrastruttura del ‘‘Club atlético’’ vennero utilizzati per la costruzione di un altro CCDyt, denominato “olimpo”. alla fine della dittatura le associazioni per i diritti umani e i detenuti sopravvissuti individuarono il luogo e iniziarono a reclamare l’intervento del governo per avviare i lavori di scavo. oggi, sotto il ponte dell’autostrada 25 de Mayo, dove prima c’era il ‘‘Club atlético’’, sorge un totem come simbolo della memoria.
NICOLA VICECONTI vive e lavora a Roma. laureato in Sociologia e in Scienze della comunicazione, si interessa di storia e di fenomeni sociali dell’america latina, in particolare dell’argentina. Ha pubblicato ‘‘Ballerini per un... caso’’ (2008), arciere Edizioni; ‘‘Cumparsita’’ (2010), gingko Edizioni, già pubblicato in lingua spagnola da acercándonos Ediciones, Buenos aires; ‘‘Due volte ombra’’ (2011), gingko Edizioni, già pubblicato dallo stesso editore argentino. ‘‘Cumparsita’’ ha vinto il primo premio (sezione narrativa edita) al “iV Concorso Nazionale di Poesia della città di S. giorgio a Cremano2010”. a ‘‘Nora lópez - Detenuta N84’’ è stato assegnato il primo premio per la narrativa del ‘‘Premio nazionale Xi edizione di inedito 2012’’. la pagina dei romanzi di Nicola Viceconti è su Facebook. il sito web dell’autore è: www.nicolaviceconti.it.
NICOLA VICECONTI
N ORA l óPEz DEtENuta N84 Prefazione di FRANCESCO CAPORALE Postfazione di JUAN JOSÉ KRATZER Nota di OSVALDO LA VALLE
GINGKO
© 2012 NiCola ViCECoNti © 2012 giNgko EDizioNi i EDizioNE Novembre 2012 Collana BAIguO iSBN 978-88-95288-24-6 Progetto grafico di copertina: © 2012 atalaNtE in copertina: ‘‘Justicia 2001’’ © 2012 MaRCEla iNES FERNáNDEz titolo dell’opera: Nora López - Detenuta N84 giNgko EDizioNi via luigi Pirandello n° 29 40062 San Pietro Capofiume, Molinella, Bologna tel. 051.6908300 Fax: 051.4598447 www.gingkoedizioni.it www.gingkoedizioni.it/fuggicalipso Seguici su Facebook www.facebook/gingkoedizioni
i personaggi e gli eventi di questo romanzo sono frutto di fantasia e non corrispondono pertanto a persone e situazioni reali.
Tutti i diritti dell’opera sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, o usata in alcuna forma senza previo consenso degli aventi diritto.
PREFAZIONE di Francesco Caporale il 24 marzo del 1976 un golpe militare rovesciava in argentina il traballante governo di Maria Estéla Martinez de Peròn, detta isabelita, vedova del generale Juan Domingo Peròn, cui era succeduto dopo la sua morte, avvenuta il 1° luglio del ’74, dopo un trionfale rientro, nel ’73, che poneva fine a diciotto anni di esilio. il golpe, promosso dai vertici militari — il generale Jorge Rafael Videla, comandante dell’Esercito; l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, comandante della Marina; il generale di brigata aerea orlando Ramon agosti, comandante dell’aeronautica militare — si sarebbe presto rivelato il più feroce tra tutti i colpi di Stato consumati negli anni Sessanta e Settanta in america latina, tormentata regione che aveva già conosciuto, o avrebbe di lì a poco conosciuto, altre violente dittature, soprattutto nell’area del cosiddetto Cono Sur: Brasile, Cile, Bolivia, uruguay, Paraguay. a differenza degli “errori di immagine” commessi in Cile dal generale Pinochet con quella specie di golpe in diretta dell’11 settembre del 1973, i militari argentini scelsero la via del basso profilo, allestendo, alla vigilia del colpo di Stato, oltre trecentocinquanta centri clandestini di detenzione, ben occultati alla popolazione e all’opinione pubblica. Veri e propri gironi danteschi preposti alla eliminazione fisica di circa trentamila oppositori del regime, in massima parte pacifici giovani tra i venti e i venticinque anni, chupados, inghiottiti dalla violenza della repressione militare, uccisi e fatti sovente sparire con i cosiddetti “voli della morte”: di qui il triste neologismo di desaparecidos, scomparsi, divenuto un po’ il simbolo dell’argentina di quegli anni. Solo con il ritorno della democrazia, dopo il dicembre dell’83, si sarebbe scoperta quella sciagurata geografia del terrore capillarmente estesa in tutto il Paese attraverso la creazione di quegli oltre trecentocinquanta lager messi in piedi dal regime: nomi apparentemente innocui, la Perla, la Cacha, olimpo, El Vesubio, Club atlético, automotores orletti, che nulla avevano da invidiare, quanto a ferocia, ai campi di concentramento di nazista memoria. Raccontare tutto questo attraverso un romanzo non è, com’è
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FRaNCESCo CaPoRalE
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agevole immaginare, cosa facile: ma Nicola Viceconti ama, evidentemente, le imprese difficili. lo aveva già dimostrato — superando peraltro egregiamente la prova — con il suo precedente romanzo, « Due volte ombra », e lo conferma adesso con questo suo nuovo lavoro, in qualche modo complementare. Se in « Due volte ombra » il personaggio centrale era una candida sedicenne alle prese con la scoperta, fatalmente traumatica, della propria vera identità di figlia di una giovane desaparecida, in questo nuovo romanzo Viceconti si misura con un’impresa ancora più ardua, proponendo quale “io narrante”, per buona parte della storia, un ex torturatore, un “eroe del male”, un personaggio decisamente negativo, uno che stava dalla parte sbagliata: con il rischio, certamente non ignorato dall’autore, di una sorta di possibile transfert subliminale, di una irrazionale immedesimazione con le “ragioni” del protagonista, che sovente intervengono, seppure inconsciamente, tra lettore e “attore” della vicenda. luis Pontini, agiato immobiliarista nel flash-back che dà inizio al suo racconto, è infatti un ex capitano, Dario Romero, in forza, ai tempi della dittatura, al Club atlético. Va detto subito che quel teorico rischio, cui ho prima accennato, non lo corre, in concreto, il lettore di questo nuovo romanzo: è infatti la stessa famiglia di luis Pontini, scoperta la sua vera identità, a liquidarlo con un esplicito e inappellabile “Vergognati!”, che è poi il lapidario incipit del racconto e che rappresenta un po’ la sintesi verbale degli orrori di cui Pontini/Romero si era trent’anni prima macchiato. Nicola Viceconti, che conferma — oltre ad una non comune conoscenza e attenzione nella ricostruzione storica dei fatti narrati — una particolare sensibilità nel tracciare il profilo psicologico dei personaggi che animano le sue storie, ci conduce in una Buenos aires, per chi abbia avuto la fortuna di conoscerla, assolutamente autentica. Coinvolge, nella sua scrittura, la minuziosa e affettuosa descrizione di vie, di strade, di piazze, di confiterias, di luoghi e simboli di una città per molti aspetti magica, che fa da cornice a una storia angosciante, del tutto sovrapponibile a ognuna delle tante drammatiche storie che il mio lavoro di pm nei processi celebrati in italia su queste vicende mi ha consentito di conoscere. assolutamente perfetta è la rivisitazione dello sfondo dell’argentina degli anni Settanta, e viene quasi da chiedersi, leggendo, perché Viceconti non abbia scelto la strada del saggio
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PREFazioNE
storico, tanta è la cura del contesto sociale e politico su cui le vicende narrate si inseriscono. Ma la forza della narrativa è anche questo: rendere in qualche modo eterne, e insieme universali, storie altrimenti destinate ad essere travolte dalla caducità del tempo. luis Pontini/Dario Romero, Nora lópez, sua figlia livia, Ricardo giorgetti, diventano così metafora di qualcosa che non appartiene soltanto all’argentina di quegli anni, ma a tutti i luoghi del mondo, che ancora ci sono e temo ci saranno sempre, in cui l’uomo continua e continuerà ad imporre con la violenza ai suoi simili le proprie folli ideologie, il proprio fanatismo, i propri pregiudizi, il proprio integralismo politico o religioso. Questo, in fondo, ci insegnano i trecentocinquanta centri clandestini di detenzione messi in piedi nell’argentina di quegli anni: trent’anni dopo auschwitz, Buchenwald, Dachau, Mauthausen, la ferocia e la crudeltà dell’uomo non aveva, evidentemente, ancora toccato il fondo, se i militari golpisti erano riusciti a concepire, e realizzare, forme di sterminio ancora più brutali e disumane, come sembrano decisamente suggerire quei “voli della morte” attraverso i quali giovani intontiti da iniezioni di Pentotal venivano gettati vivi nelle acque del Rio de la Plata o dell’atlantico Sur. È questo cuore di tenebra, di cui l’umanità dovrà un giorno pur liberarsi, che diventa in definitiva il vero filo conduttore delle storie raccontate da Nicola Viceconti, il cui merito più grande sta proprio in questo suo quasi pedagogico impegno alla divulgazione di pagine di storia la cui memoria va assolutamente mantenuta viva alle nuove generazioni, per ragioni anagrafiche spesso distanti dalla conoscenza di quei fatti e degli orrori consumati in nome di una assurda follia collettiva. l’argentina di quegli anni rispose spesso con un cinico por algo serà, “per qualche motivo sarà accaduto”, alle continue sparizioni di giovani, che non era peraltro possibile far finta di ignorare, tutti sbrigativamente considerati comunque “sovversivi”. È in qualche modo un nostro preciso dovere morale porre riparo a quella ignobile indifferenza, e far sì che i giovani di questo millennio, argentini e non solo argentini, conoscano le atrocità consumate in quei terribili anni, e riscoprano i valori, oggi quasi smarriti, della tolleranza, della libertà, della giustizia sociale, dell’uguaglianza, della solidarietà: valori assolutamente
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indispensabili perché quel “cuore di tenebra” venga definitivamente estirpato. È questa, mi sembra, in sostanza, la direzione verso cui si muove il lavoro di Nicola Viceconti, cui va tutta la nostra gratitudine di lettori e di uomini del nostro tempo.
IV
FRaNCESCo CaPoRalE è nato nel 1951 ed è entrato in Magistratura nel 1980. attualmente è Procuratore aggiunto alla Procura di Roma, ed è stato il pm che ha celebrato i tre processi dello Stato italiano sui desaparecidos: — Processo nei confronti di Suarez Mason, Santiago omar Riveros, Juan Carlo gerardi, omar Hector Maldonado, José luis Porchetto, alejandro Puerta e Julio Roberto Rossin, tutti condannati per la morte di otto italo-argentini (sentenza del dicembre 2000); — Processo ESMa (sentenza del marzo 2006) a carico di cinque ufficiali della Marina argentina ( Jorge Eduardo acosta, alfredo ignacio astiz, antonio Vanek, Hector antonio Febres e Jorge Raul Vildoza), tutti condannati all’ergastolo per la morte di tre italo-argentini, angela Maria aieta e giovanni e Susanna Pegoraro. — Processo Massera (sentenza del marzo 2011 di non luogo a procedersi per sopravvenuta morte del reo). tutte le sentenze sono state confermate in Cassazione. « I processi non sono tutti uguali. Lo sono, o dovrebbero esserlo, nel rispetto delle forme, delle regole, delle garanzie processuali. Ma non lo sono, fatalmente, nel carico di emozioni, di coinvolgimento personale, di totale immersione nelle vicende che ne costituiscono l’‘‘anima’’, che i processi, sarebbe sciocco negarlo, possiedono in misura diversa. Perché diversa è la loro capacità di colpire, in maniera diretta, non solo chi li segua da comune spettatore, ma anche chi con essi, per motivi professionali, sia chiamato a misurarsi. Dico questo perché quando penso al processo per i desaparecidos non posso non ritornare con la mente alle sensazioni che provai quando, nel maggio del 1998, mi vidi recapitare nel mio ufficio quella trentina di faldoni processuali, accumulatisi nell’arco di quindici anni. […] E confesso di avere inizialmente provato un sentimento molto simile all’angoscia nel vedermi caricato di un compito che mi sembrò subito così difficile e “doloroso”. Per almeno quindici giorni passai tutto il mio tempo a divorare quelle migliaia e migliaia di pagine, uscendone fuori decisamente diverso da come vi ero entrato ».
INDICE
PREFazioNE di Francesco Caporale PARTE PRIMA — tutto Su tua MaDRE 17 33 45 57 67 79 89 99 111 119
l’iNCoNtRo CoN liVia Notti iNSoNNi Sulla SCENa DEl DElitto PoSta iNDESiDERata NoRa lóPEz - DEtENuta N84 lE CoSE NoN DEttE l’EQuiVoCo Di MaNuEl PalaBRaS ENCaDENaDaS iRoNia DElla SoRtE ¡QuE aPRoVECHE! PARTE SECONDA — RitoRNo a CaSa
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BuENoS aiRES aDDio uRla Dal SilENzio RiNgRaziaMENti PoStFazioNE di Juan José Kratzer Nota di Osvaldo La Valle
Sono state scritte tante cose sulla dittatura civilemilitare che si è verificata in argentina nel periodo compreso dal 1976 al 1983. un episodio che ha lasciato una profonda ferita a quelli della mia generazione. il fatto che uno scrittore europeo, italiano, senza parenti né amici diretti nel mio paese, prenda come oggetto del suo romanzo questa tragedia, mi risulta altamente emozionante e meritevole. grazie Nicola per coinvolgerti così in profondità, per il tuo coraggio e il tuo impegno. lEóN giECo *
* leòn gieco è un musicista, autore, compositore, interprete e cantautore popolare argentino. Nella sua carriera ha composto più di trecento brani e lavorato insieme a cantanti come Sting, Bruce Springsteen, Peter gabriel, Pete Seeger, Mercedes Sosa e Silvio Rodriguez. la sua peculiarità più sorprendente è la capacità di mescolare insieme il genere rock con quello folkloristico argentino, unitamente alle connotazioni sociali e politiche delle sue canzoni, sempre in difesa dei diritti umani, dei contadini (campesinos) e dei popoli indigeni.
N ORA l 贸PEz DEtENuta N84
A tutti coloro i quali si battono per smontare gli alibi che gli artefici del male creano a se stessi.
PARTE PRIMA Tutto su tua madre
L’INCONTRO CON LIVIA
Buenos Aires, sabato 8 maggio 2010
« Vergognati! » mi urlò in faccia mia moglie Patricia, uscendo di casa. Le fece eco Horacio, l’inquilino del piano di sotto che, dalla tromba delle scale, iniziò ad insultarmi ad alta voce. Restai solo, accasciato a terra, sul tappeto della sala da pranzo, dopo essere caduto nel tentativo di fermare mio figlio Manuel. Anche lui andò via scendendo le scale di corsa, insieme a tutti gli altri. Provai ad afferrarlo per un braccio, invocando il suo aiuto, ma nei suoi occhi non riuscii a intravedere nemmeno un briciolo di commiserazione. « Sei una bestia! Come hai potuto fare tutto questo? ». Poche parole, scagliate addosso con rabbia. Poi un’espressione di disgusto gli oscurò il volto. Iniziai a piangere, le lacrime irrefrenabili scendevano da sole e rigavano il mio viso contratto come se la luce del sole, di colpo, mi avesse accecato. Mi guardai riflesso nello specchio del mobile e notai gli occhi spauriti e gonfi. Li chiusi, credendo così di contenere il pianto. ‘‘Che fine indegna!’’ pensai. Io, che non ho mai regalato una lacrima a nessuno, nemmeno da piccolo, stavo piangendo per l’umiliazione subita e forse anche per paura. Sì, per paura! Fu la prima volta che provai quello stato d’animo. Rimasi immobile, mentre in lontananza il suono delle sirene della polizia si faceva più acuto. Le auto a fatica riuscirono a passare tra la folla inferocita.
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Erano venuti a prendermi e per un attimo mi rincuorai. Quando gli agenti entrarono in casa mi trovarono ancora a terra, immerso nell’odore nauseante di carne arrostita, misto a quello di vernice fresca, sparsa dappertutto.
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Pochi giorni prima, precisamente martedì 4 maggio, mio figlio Manuel mi aveva informato della partenza di Livia. L’aveva vista scendere dal taxi e varcare la porta d’ingresso dell’aeroporto. Senza farsi scoprire, l’aveva seguita fino al gate numero cinque, porta d’imbarco per i voli Alitalia, destinazione Roma. Quella di pedinarla, di scoprire quando avrebbe lasciato il paese, è stata una sua iniziativa. Deve aver intuito il fastidio che ho provato nel parlare con lei l’unica volta che ci ha visto insieme e avrà pensato bene di aiutarmi a sedare l’inquietudine che mi tormentava già da un po’ di tempo. D’altronde, come poteva non accorgersi delle notti che ho passato in bianco, rinchiuso nel mio studio, a cercare una soluzione? Come poteva non subire le conseguenze dei miei continui cambi di umore e delle violente liti in famiglia? La notizia di Manuel avrebbe dovuto farmi esultare di gioia, ma non andò così. L’entusiasmo per la partenza di Livia durò poco. La morsa dell’ansia che mi portavo dentro da giorni non si allentò neppure un istante e il timore che quell’addio potesse coincidere con il preludio della mia rovina iniziò a tormentarmi. Il primo incontro con Livia avvenne il 9 aprile, quando si presentò in casa. Un paio di giorni prima avevo ricevuto una sua telefonata, con la quale mi avvisava che sarebbe arrivata a Buenos Aires. Il suo ingresso nella mia vita fu un fulmine a ciel sereno. « Sono Livia, la figlia di Nora, Nora López ». Sentii un brivido lungo la schiena. Lasciai la cornetta del te-
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lefono alcuni istanti sperando di aver capito male quel nome. Quando provai a rispondere lei incalzò di nuovo. « Ho conosciuto Ricardo Giorgetti. Dobbiamo parlare assolutamente! Passerò da lei venerdì pomeriggio! ». Fu categorica e io acconsentii. Agii d’istinto. Di certo non per la preoccupazione di una sua denuncia — quella mi venne solo dopo quando iniziai a conoscerla meglio. Le concessi un appuntamento accettando una sfida, pensando presuntuosamente di liquidarla in poco tempo. Il tono provocatorio della sua telefonata mi aveva indispettito ed ero curioso di vedere se quella mocciosa avrebbe avuto la stessa grinta guardandomi negli occhi. A pensarci bene avrei potuto risolvere la questione di Livia Tancredi in un altro modo. Per uno come me non sarebbe stato un problema contattare vecchie amicizie e convincerla a non mettere più piede in Argentina. Forse agendo in quella maniera avrebbe smesso di ossessionarmi. Che idiota sono stato! Sarebbero bastate un paio di telefonate alle persone giuste per farla allontanare definitivamente dalla mia vita, dalla mia famiglia, e invece l’ho fatta accomodare nel mio studio e le ho presentato mia moglie e i miei figli. Purtroppo non avevo alternative. Da anni io non esisto più e uscire troppo allo scoperto sarebbe stato rischioso. Lo so che agli occhi di qualcuno potrei sembrare un vecchio smidollato, ma non è così. Ho preso la decisione di vederla perché, dopo aver trascorso una vita a compiere il mio dovere, pensavo che fosse un diritto non volere più seccature e vivere in tranquillità. Solo adesso mi sto rendendo conto di averla sottovalutata e di essere stato un ingenuo nel pensare di poterla gestire facilmente. Di fronte alla sua caparbietà, l’idea di affrontarla si è rivelata una scelta perdente. Ricardo mi aveva parlato del temperamento della figlia di Nora: “una ribelle che se non viene subito domata potrebbe creare problemi perfino a uomini come noi”. Così mi aveva
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scritto in una delle sue ultime lettere. Non commentai. Alcuni mesi dopo mi resi conto personalmente della sua tenacia. Devo ammettere che quando la notizia del delitto del corniciaio — come lo battezzarono i giornali italiani — rimbalzò fino a Buenos Aires, il pensiero di trovarmela tra i piedi mi sfiorò la mente, ma non gli diedi troppo peso. Dopo quello che era accaduto a sua madre, avrei dovuto immaginare la reazione di quella ragazza; invece sono stato superficiale nel non considerare che un figlio può essere capace di tutto pur di scoprire la verità sui propri genitori. Ho sbagliato nel ritenere poco probabile che una giovane ventenne potesse avventurarsi da sola fin quaggiù per ficcare il naso nei meandri più tortuosi della storia di questo paese. Gli inquirenti italiani definirono il delitto a sfondo passionale tra due amanti che di solito s’incontravano in un motel a ore a Spinaceto, una zona periferica della capitale o, come nel loro ultimo incontro, in un appartamento offerto in prestito da un’amica. La notizia aveva provocato un tam tam mediatico di grandi dimensioni e, per mesi, su tutte le riviste specializzate di cronaca nera non si parlò d’altro. Criminologi, psichiatri ed esperti del settore parteciparono a diverse trasmissioni televisive cercando di dare risposte scientifiche a un crimine così efferato. Intervistarono perfino Dario Argento, il noto regista italiano di film horror. La somiglianza del delitto con alcune scene di un suo vecchio film indusse una giornalista a chiedere a lui un’interpretazione possibile di alcuni simboli ritrovati sulla scena del delitto. Al principio la vicenda sembrava non coinvolgermi, poi, lentamente, sono stato trascinato nelle sabbie mobili di un passato che credevo sepolto da tempo. Senza volerlo mi sono ritrovato nel ruolo del regista, anzi dello sceneggiatore di un film, frettolosamente classificato dall’opinione pubblica a luci rosse, nel quale l’attore che interpretava la parte della vittima era il mio migliore amico e quello nel ruolo dell’assassino una vecchia conoscenza. Quando Livia venne a casa quel pomeriggio io ero da solo. Mia moglie Patricia era andata a trovare sua sorella a Rosario;
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con lei c’erano anche Manuel e Ana, i miei due figli. Avrebbero passato il fine settimana fuori città. Sapevano che sarebbe venuta a farmi visita una ragazza. Dissi che si trattava di un colloquio di lavoro per un’assunzione presso la nuova sede dell’agenzia immobiliare di Barrio Norte. Avevo mentito per preservarli da questioni che erano un fatto tutto mio e che loro non immaginavano lontanamente. Inoltre, pensavo di poter concludere l’incontro al massimo in un paio d’ore e di non rivedere Livia mai più. Mi sbagliai e da quel momento fui costretto a mentire ancora. « Vieni, entra! ». Aprii la porta e mi trovai di fronte una ragazza piuttosto minuta, con i capelli chiari spettinati dalla pioggia. Si presentò scandendo una frase con uno spagnolo che trasudava la pronuncia italiana. Al principio non la guardai con attenzione, non ne avevo interesse, anche perché ero molto infastidito dalla sua presenza e avevo fretta di mandarla via. Solo dopo qualche minuto, mentre conversavamo seduti uno di fronte all’altra, riconobbi gli stessi occhi azzurri di sua madre e la pelle chiara del viso segnata da lentiggini sparse sulle gote. « Mi dispiace per quello che è successo. Immagino che deve essere stato doloroso ». Livia si alzò e mi interruppe. Quella volta il tono della voce era più deciso e anche il suo spagnolo sembrava meno incerto. « Non sono venuta qui per sentirmi dire queste idiozie. Le ho già spiegato al telefono che non ho bisogno del suo pietismo, ma della sua confessione. Lei è a conoscenza di cose che devo assolutamente sapere! ». Il modo insolente di parlarmi, come se fossi il più idiota dei suoi coetanei, il suo sguardo sfrontato, fisso nei miei occhi, mi provocarono un impulso di rabbia che riuscii a malapena a reprimere. Provai un forte desiderio di prenderla a schiaffi e trascinarla fuori di casa. L’intrusione di quella sconosciuta nella mia vita cominciava ad irritarmi. E poi, la sua voce limpida e
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squillante mi fece tornare alla mente Nora il giorno in cui la prelevammo nella villa miseria.* Qualche volta accompagnavo anch’io Ricardo a caccia di sovversivi. Sdraiata in macchina, con la faccia rivolta verso il basso, Nora usò il suo stesso tono. “Lasciatemi, bastardi! Non avete alcun diritto!”. Ricordo ancora quella frase, alla quale seguì il silenzio. Un pugno di Ricardo dritto alla bocca dello stomaco le tolse il fiato facendola boccheggiare come un pesce fuori dall’acqua fino al Club.** Ce l’avevamo eccome il diritto! Eravamo autorizzati a fare piazza pulita. Prenderli tutti era il nostro dovere. Respirai profondamente, cercando di racimolare dentro di me la dose sufficiente di pazienza. Mandai giù un paio di sorsi di whisky e in qualche modo riuscii a dominare il desiderio di cacciarla via. Mi domandai se realmente conosceva aspetti privati della mia vita e di quella di Ricardo, così come aveva affermato al telefono. Per un istante pensai che stesse bleffando, che mi trovassi di fronte a una ragazza impazzita per la vicenda di sua madre. Per scoprirlo cambiai atteggiamento, mostrandomi più cordiale e cercando di assecondarla. « Ragazza mia, ho conosciuto Giorgetti tanti anni fa. Lavoravamo insieme in una grande azienda di Buenos Aires, poi ci perdemmo di vista, non capisco cosa posso fare per te ». « La smetta di fingere Capitano Romero! O preferisce che la chiami el Príncipe? ». Livia prese una foto dalla tasca e me la mostrò, senza togliermi lo sguardo di dosso, pronta a registrare ogni mia minima espressione.
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* Particolare tipo di insediamento urbano di Buenos Aires fatto di baracche e case precarie. ** Club Atlético.
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Era una foto che mi ritraeva in compagnia di alcuni colleghi di corso agli esordi della mia onesta carriera. Sorridente, vicino a un blindato, mostravo con fierezza i gradi di sottotenente sulla divisa immacolata. Se fino ad allora mi risultava difficile stabilire quanto Livia fosse legata al mio passato, sentendomi chiamare con il mio vero nome non ebbi più dubbi. Fu un duro colpo. Da anni avevo rimosso l’esistenza del Capitano Romero e nessuno si rivolgeva più a me in quel modo. Il mio vecchio nome risuonò in una zona della mente nella quale avevo posto un divieto di accesso. Una parte del cervello che Livia scardinò senza il mio permesso. Avrei dovuto immaginare la scoperta delle carte di Ricardo. Nonostante gli avessi detto più volte di fare attenzione e di tagliare in modo netto con il suo passato, Ricardo continuava a conservare i documenti in una borsa che era finita nelle mani di Nora. Dentro la borsa c’erano anche delle foto, cartoline, qualche documento e alcune lettere, “le più importanti della nostra amicizia” diceva lui. La valigia, ormai in possesso di Livia, costituiva una preziosa banca dati delle nostre informazioni. Non provai nemmeno a negare la mia vera identità. « Come fai a sapere il mio nome? ». « So tante cose sul suo conto! Adesso voglio conoscere il passato di mia madre, per questo sono venuta a Buenos Aires e lei non può rifiutarsi di aiutarmi! ». Quel pomeriggio dovetti accettare una serie di appuntamenti che Livia segnò scrupolosamente su un bloc-notes. In tutto ci vedemmo cinque volte, quasi sempre in centro, in una confiteria a Corrientes o nei giardini di Plaza San Martin. Tornò a trovarmi a casa soltanto una volta e fu in quella occasione che conobbe mia moglie e i miei figli. Livia posò la fotografia sul tavolo, istintivamente la presi tra le mani e mi soffermai a guardarla. Feci fatica a riconoscermi, i colori erano sbiaditi dal tempo e io apparivo molto diverso. L’immagine, però, della quale avevo perso memoria, costituiva
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la prova di chi fossi realmente. Livia usò quella e altre informazioni per farsi riferire tutto quello che sapevo di Nora López, sua madre, la detenuta N84. Maledii Ricardo e la sua imprudenza per avermi messo in una brutta situazione dagli esiti ancora oggi non del tutto chiari. Fui tentato di strappare la foto in mille pezzi, ma Livia mi avvertì che sarebbe stato inutile. Aveva passato allo scanner il materiale contenuto nella borsa e ne aveva conservato copia in un luogo sicuro. Mi sentii come un topo in trappola e di colpo ogni cosa che avevo attorno mi sembrò vacillare. Quella sconosciuta stava minando tutta la mia vita: la mia famiglia, il mio lavoro e soprattutto la mia identità, quella che avevo creato, secondo un piano prestabilito, con tutte le precauzioni possibili. All’improvviso avvertii una vampata di calore che mi avvolse le tempie. Le mascelle e i muscoli del viso si contrassero e dalla rabbia digrignai i denti, come un cane inferocito al quale avevano invaso il territorio. Le urlai con tutto il fiato che avevo in gola di andare via e di non farsi rivedere mai più; poi, con il dito puntato, l’avvertii di non abusare troppo della mia pazienza. Non so se s’intimorì per la mia reazione, ma di sicuro sentì tutto l’odio che provavo nei suoi confronti. E io percepii tutto il suo disprezzo. Mi avvicinai e il profumo acerbo della sua pelle mi arrivò dritto al cervello, risvegliando in me antichi sapori. Lei, invece, sentì l’odore del mio alito intriso di whisky e, disgustata, si voltò dall’altra parte per evitarmi. L’afferrai per il collo, chiusi gli occhi e lentamente iniziai a stringere. Sentivo il suo cuore pulsare nel palmo della mano e l’idea di poter intervenire sul suo battito, fino ad arrestarlo, mi restituì per un istante una sensazione di potere che avevo dimenticato. Livia non oppose resistenza e rimase immobile, in apnea, con lo sguardo rivolto al soffitto. L’unico movimento che fece fu quello dei muscoli della faringe per ingoiare la saliva che le
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* Cella del Club Atlético. ** Centro Clandestino di Detenzione situato nel quartiere Velez Sarsfield di Buenos Aires.
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era rimasta in gola. Passarono alcuni secondi e iniziò ad annaspare. Sul suo viso comparvero i primi segni violacei del soffocamento. La sua vita era nelle mie mani, ancora un attimo e l’avrei strangolata. Provò a pronunciare qualcosa, ma dalla bocca le uscì un suono gutturale, incomprensibile. Solo allora mollai la presa, lasciandola mezza svenuta sulla poltrona. Tossì più volte prima di riprendere a respirare regolarmente. Mi alzai per riempire ancora una volta il bicchiere di whisky. Livia rimase pietrificata, con entrambe le mani sul viso, come per proteggersi da un altro colpo. Quella volta si spaventò sul serio, la intravidi dallo specchio appeso alla parete mentre si lasciava andare in un pianto sommesso. Poi tornò ad essere la stessa che avevo sentito al telefono. « Lo so che potrebbe uccidermi, per uno come lei non sarebbe un problema, ma l’avverto che verrebbero subito a cercarla ». Scoppiai a ridere e l’eco della risata risuonò in tutta la stanza. « … a prendere chi? Il Capitano Romero non esiste da quasi trent’anni! ». Ironizzai per non mostrarmi preoccupato della sua scoperta. Era a conoscenza del mio passato e sapeva perfettamente di Dario Romero, il famigerato capitano dell’esercito. Sapeva anche di el Príncipe, l’appellativo che mi avevano attribuito gli altri militari. Erano i nomi della mia vecchia identità che avevo lasciato scolpiti nella leonera* del Club, nei sotterranei dell’Olimpo** e nelle anime di tutti i detenuti interrogati. « C’è una persona che sa del nostro incontro. Se entro un paio d’ore non avrà ricevuto una mia telefonata lei verrà subito denunciato ».
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« Figlia di puttana! Che cazzo ti sei messa in testa? Tu non sai con chi hai a che fare! ». Mollai un pugno sul tavolo, facendolo traballare. Livia provò ad alzarsi, ma la obbligai a sedersi di nuovo afferrandola per un braccio. Restammo in silenzio alcuni minuti, l’uno di fronte all’altra. L’unico rumore era quello della pioggia che batteva incessante sui vetri della finestra. Sembravamo due sfidanti prima di un incontro, ognuno concentrato a studiare le mosse dell’avversario. Fu allora che entrambi ci rendemmo conto di quanto fossimo indispensabili l’uno per l’altro. Al principio mi parve assurdo dipendere in qualche modo da lei, ma effettivamente era così. Dovevo riconquistare la mia tranquillità e quella della mia famiglia; soprattutto dovevo assicurarmi di poter continuare a vivere con l’identità di Luis Pontini. Per raggiungere l’obiettivo non mi restava che abbassare i toni e giocare d’astuzia. Anche Livia dipendeva da me. Per ricostruire il passato di sua madre non poteva rinunciare all’unica persona che sapeva come erano andate le cose. Fu così che, allo scopo di liberarmene, decisi di utilizzare le informazioni in mio possesso come merce di scambio. Livia prese la foto che avevo lasciato sul tavolo e la guardò per l’ennesima volta, poi accese la lampada sullo scrittoio per illuminarmi meglio il volto. Fu quella la prima volta che riuscì a vedermi bene da vicino, a controllare i lineamenti del mio viso. E anche se ero più vecchio di almeno trent’anni rispetto al giovane sottotenente sulla fotografia, notò la differenza del naso, degli zigomi e delle orecchie. « Un giovane ufficiale con una brillante carriera all’orizzonte che improvvisamente sparisce nel nulla. Cosa avranno pensato i suoi colleghi alla notizia della sua scomparsa? ». Prima ancora di chiedermi di sua madre, Livia volle sapere della mia trasformazione. Affrontare l’argomento significava anche raccontarlo a me stesso per la prima volta. La decisione di censurare il passato era stata una scelta drastica che mi ero
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_______________________________________ * Quotidiano argentino.
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imposto per chiudere definitivamente con la vita precedente. Inoltre mi sembrava la precauzione migliore da adottare per non rischiare di farmi scoprire. « Della mia desapariciòn si parlò poco » le risposi mentre infilavo la chiave nella serratura di uno dei due cassetti dello scrittoio. « Che significa? ». « Significa che nell’ambiente militare la notizia venne quasi ignorata ». « Insabbiata? ». « No, ignorata! Pensarono a un regolamento di conti, a una vendetta messa in atto da un sovversivo risuscitato o da un parente di qualche desaparecido. Eravamo alla fine dell’84 e il “Caso Romero” si rilevò una cosa di poco conto rispetto a quello che stava accadendo nel paese. I miei superiori e la maggior parte dei colleghi avevano ben altro a cui pensare ». « Già, erano impegnati a preparare le difese prima di essere risucchiati in tribunale » rispose, con un’espressione di disgusto stampata sul viso; io evitai di esprimermi sui processi, perché se l’avessi fatto avremmo discusso un’altra volta. Dalla sua risposta capii che era una di quelle persone presuntuose sputasentenze che pensano di sapere tutto della nostra storia. « Le cose andarono come ti ho detto. Ecco, leggi! ». Le mostrai un articolo di giornale che presi dal cassetto, uno dei pochi che la stampa dedicò alla vicenda. ‘‘Misteriosa scomparsa di un Capitano dell’esercito”. Livia lesse alla svelta: era un pezzo a tre colonne ritagliato dalla cronaca del Clarìn* del 30 novembre 1984. Si ipotizzava un sequestro per vendetta personale messo in atto da qualcuno che non venne mai catturato, ma la notizia era in secondo piano rispetto alle altre sulla situazione generale delle forze armate a circa un anno dal ritorno della democrazia.
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Spiegai a Livia che, per tutti i militari, quello era un periodo molto delicato, di grande incertezza. A chi poteva interessare la scomparsa di un membro dell’esercito in un contesto simile? Non importava a nessuno di un semplice capitano, i riflettori erano puntati sui vertici. E poi, due giorni prima della mia scomparsa era stato pubblicato Nunca Mas e in Argentina non si parlava d’altro. Livia ascoltava con interesse. Nelle sue rare interruzioni mostrò di sapere perfettamente a cosa mi stessi riferendo. In uno degli incontri mi svelò lei stessa di essersi documentata sulle azioni della Junta militar.* Conosceva anche il lavoro svolto dalla Conadep,** l’attività delle Madres,*** delle Abuelas **** e di tutte quelle associazioni che non fanno altro che sbandierare la difesa dei diritti umani. Per me, a distanza di anni, parlare dei problemi che colpirono l’esercito era come riaprire le ferite della sconfitta politica che subimmo. Una sconfitta politica, non militare. Sul piano militare vincemmo, facendo pulizia di tutti i sovversivi, senza aver avuto mai alcun riconoscimento. Il paese ormai era cambiato. Il lavoro della Commissione era stato consegnato nelle mani di Alfonsin e questo complicò molto la nostra situazione. In ventiquattro ore furono vendute quarantamila copie di quel maledetto rapporto. Quando mai prima di allora un gruppo di civili avrebbe potuto ficcare il naso nell’operato di un governo militare!
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* Giunta militare al governo dell’Argentina dal 1976 al 1983, composta dal generale Jorge Rafael Videla, rappresentante dell’Esercito, dall’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, della Marina, e dal brigadiere Orlando Agosti, dell’Aviazione. ** Commissione Nazionale sui Desaparecidos, costituita in Argentina dopo il ripristino della democrazia nel 1983. *** Associazione delle Madri di Plaza de Mayo. **** Associazione delle Nonne di Plaza de Mayo.
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* Fiume di Buenos Aires che divide il territorio della capitale da quello della provincia.
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E invece la Commissione per un anno ha spulciato nei registri delle nostre carceri, denigrando il nostro enorme lavoro e violando il segreto militare. Ha prodotto documenti, umiliando ogni singolo soldato al servizio della patria. Ha perfino raccolto le testimonianze di comunisti e di quasi tutti i sovversivi che erano sfuggiti alle operazioni di bonifica del paese. « E lei ne approfittò per uscire dalla scena inosservato. Andò così, vero? ». « Sì, era il momento favorevole per farlo. O lo facevo o rinunciavo per sempre! ». Chiusi gli occhi, appoggiai la testa allo schienale della poltrona e le raccontai del giorno della sparizione, quando mi recai all’appuntamento con Ricardo. « Decidemmo di vederci in uno spazio adiacente all’autopista verso l’aeroporto, in prossimità del Riachuelo.* Ricardo era già lì ad aspettarmi, seduto in auto, e aveva portato con sé tutto l’occorrente per il viaggio ». « Il viaggio? Quale viaggio? ». « Partimmo la sera stessa. Solo quando ci trovammo a un paio d’ore da Buenos Aires m’informò che eravamo diretti a Mendoza ». « Perché proprio Mendoza? ». « Perché lì avrei avuto potuto completare il piano. Ricardo aveva pensato a tutto e io mi fidavo ciecamente. L’unico mio impegno era quello di portare i soldi che avremmo dovuto consegnare appena giunti a destinazione ». « Si riferisce a una ventiquattrore piena di dollari? ». La domanda di Livia mi fece sobbalzare sulla poltrona. Come poteva conoscere anche questo particolare?
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Rapidamente passai in rassegna le lettere tra me e Ricardo. Ero certo di non aver mai letto o scritto una cosa del genere. Livia anticipò lo sforzo della mia memoria. « Ho sentito parlare di una ventiquattrore piena di dollari direttamente da Ricardo, l’unica volta che lo incrociai a casa. Quella sera aveva bevuto ed era in vena di raccontare gesta eroiche. Rideva sguaiatamente, mentre svelava a mia madre del raggiro che aveva fatto a due tizi di Mendoza ». Confessai della valigetta mai consegnata, senza dirle però com’erano andate realmente le cose. Non si trattò, infatti, di una semplice truffa di denaro, bensì di due omicidi che Ricardo eseguì personalmente per far sparire gli unici testimoni che sapevano della mia nuova esistenza. Il dottor Mario Coromock, chirurgo all’ospedale italiano di Mendoza, morì un paio di settimane dopo avermi operato. Un’auto pirata lo investì in una strada nei pressi di Plaza España. Juan Molino, detto el mago, venne trovato qualche mese dopo a casa sua con una pallottola conficcata nel cervello. Era il numero uno in tutta la regione di Cuyo per la falsificazione di documenti. La carta d’identità col falso nome di Luis Pontini fu il suo ultimo lavoro. Il chirurgo e il falsario erano gli unici a sapere della mia trasformazione e nella valigetta c’era la parcella che avrei dovuto pagare per assicurarmi il loro silenzio. Ricardo decise di farmi risparmiare quei soldi e cambiò programma: “Bisogna eliminarli! Non preoccuparti, sarà un gioco da ragazzi”, così mi disse uscendo dallo studio del dottore. Pianificò l’esecuzione dei delitti da compiere in tempi differenti e agì da solo. Prima fece fuori Coromock; cinque mesi dopo el mago. Per uccidere quest’ultimo dovette aspettare che fossero pronti i documenti con le nuove fotografie, che mi ritraevano completamente trasformato. Ci vollero cinque mesi per farmi crescere barba e capelli. Cercai di fargli cambiare idea, non volevo che li uccidesse. Fino ad allora era andato tutto liscio e temevo ripercussioni per un’azione del genere. Lui invece era
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convinto che lasciarli vivi sarebbe stato un azzardo troppo grande e che avrebbero potuto ricattarmi per sempre. Ricardo, dunque, mi aiutò molto a realizzare il piano che avevo in mente da circa un anno. Senza di lui non ce l’avrei mai fatta. Il giorno della scomparsa preparò la scena del sequestro nei minimi dettagli. Fece perfino una denuncia anonima al Clarìn dichiarando di aver assistito a un pestaggio nei confronti di un uomo in divisa nei pressi dell’autopista. Quando gli agenti della polizia federale arrivarono sul posto, trovarono la macchina parcheggiata con la portiera aperta ed evidenti segni di colluttazione. Il ritrovamento di alcune tracce di sangue sul sedile, un paio di bossoli di pistola e il tesserino militare lasciato in bella vista sul terreno fecero supporre un rapimento. A Mendoza poi mi trovò un alloggio sicuro, dove poter vivere tutti quei mesi al riparo da occhi indiscreti e dal mio stesso passato. Era il tempo necessario per abituarmi alla nuova identità, prima di tornare a Buenos Aires. Dovevo essere preparato, non si trattava di varcare un posto di blocco con un documento falso. Dovevo abituarmi all’idea di vivere realmente nei panni di un’altra persona con una nuova vita, un nuovo lavoro e, perché no, con una famiglia.
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Era l’ora di cena e Livia decise di andare via. Nel frattempo un vento gelido aveva spazzato le nuvole allontanando la pioggia verso sud. Decidemmo di incontrarci in centro il giorno dopo. Nonostante avesse il numero di casa, le dissi di contattarmi sul cellulare, volevo evitare che parlasse con qualcuno della mia famiglia. Si alzò dalla poltrona e si diresse verso la porta; io restai seduto con i pensieri assorti sulla mia storia. Lei esitò un istante ad uscire, poi mi rivolse una domanda che mi aspettavo. « Perché l’ha fatto? ». Non dissi una parola.
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Livia si era già data una risposta, le si leggeva negli occhi e la lasciai andar via con la sua convinzione. Non ritenevo importante spiegare a una giovane sconosciuta quali fossero state le vere motivazioni della mia nuova identità. Di sicuro mi aveva già etichettato come codardo per essermi sottratto alle responsabilità e per non aver affrontato l’eventualità di un processo. Perché avrei dovuto spiegarle che la mia scelta era stata coerente con l’ideologia che mi portavo dentro, per la quale avevo combattuto tanti anni? Era una questione di fede nei confronti della patria e dell’esercito, fino a quando non ero stato depauperato della forza. Fino a quando il ruolo del capitano era svanito nel nulla e con lui l’identità di Dario Romero. Non potevo continuare a far vivere un fantasma — non sarei stato capace di patteggiare con la nuova società disordinata che chiamavano democrazia. Amo l’ordine e non ci sarebbe stato più posto per un militare come me. Per questo dovevo morire come soldato e rinascere come uomo. E così allora che sono nato per la seconda volta con il nome di Luis Pontini. A differenza di Ricardo, che la sua Argentina se l’era portata dietro fino in Italia, io me la sono custodita qui a Buenos Aires. In tutta la mia vita non ho mai lasciato questa città, quasi avessi gettato l’ancora. Il primo incontro con Livia fu preparatorio per scavare nella vita passata di sua madre. Le carte di Ricardo le avevano lasciato immaginare che Nora fosse coinvolta nel processo di recupero e io ne ero la prova vivente. Prima di allora Livia come poteva saperlo? Era cresciuta ignara, credendo per una vita alle bugie di sua madre. Nonostante fosse contrariata uscì di casa a testa alta, come se il fastidio nel vedermi le avesse infuso ancora più coraggio nell’andare avanti.