GdM n.09 - 2011

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n.09

con il patrocinio di

Gennaio-Febbraio-Marzo 2011 euro 2,00 OMAGGIO

BRIANZA Ambiente 1962 Al via, a Consonno, un folle progetto urbanistico

DISNEYLAND, BRIANZA Il conte Mario Bagno, acquistate tutte le case di un piccolo paese alle pendici del Monte Brianza, le rade al suolo per costruire la capitale del divertimento. Che oggi è un cumulo di rovine. Storia di uno scempio che l’Italia intera ignora

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e ruspe arrivarono all’improvviso, dopo che pochi giorni prima avevano ferito la montagna con uno sbancamento che serviva ad allargare la strada per Olginate. A Consonno, poche centinaia di abitanti, una dozzina di case secolari in uno dei punti più suggestivi della Brianza lecchese, mezzo secolo fa, nel gennaio del 1962, si scatenò la lucida follia di grande ufficiale, il vercellese Mario Bagno. Acquistate da un’immobiliare tutte le abitazioni del paese, trasferì i consonnesi in una baraccopoli da cantiere e spianò tutto, a eccezione della chiesa e dalle canonica. Come racconta ancora un bellissimo documentario della Tv Svizzera del regista Cesare Bernasconi, in pochi anni realizzò un parco divertimenti ispirato a quello che Walt Disney aveva aperto nel 1955. Sogno che durerà una quindicina d’anni, per poi fallire e lasciare un paese spettrale. Un scempio che fa impallidire Punta Perotti.

In questo numero PAG.2 1982, Varedo vuol far fuori il passaggio a livello

Proposta delle Ferrovie Nord: un sottopasso per eliminare le sbarre nel centro del paese. Mentre i commercianti dicono di no, il Comune... PAG.2 Barlassina demolisce il cortile per mantenerlo

Alla Fametta, nel febbraio del 1982, al via lavori di ristrutturazione per creare alloggi comunali che preserveranno la vita sociale PAG.2 1943, quando i brianzoli rubavano il rame

Il comandante della stazione di Lissone coglie sul fatto un desiano nel cimitero di Muggiò: asportava gli addobbi funerari dalle tombe

servizi a pag. 12-13

1963 Desio

1973 Cesano Maderno

QUEL MOSTRO PERFETTO È UN COLD CASE BRIANZOLO

CHIAMAMI ANCORA PROF E ROBERTO SALÌ IN CATTEDRA

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l trionfatore dell’ultimo Sanremo, giovanissimo, con un’intera classe delle scuole medie cesanesi. È quanto emerge dagli archivi del fotoreporter Pietro Vismara. Sono le foto che ritraggono il professor Vecchioni nella sua classe, nel 1973, anno del

na mattina di febbraio di quasi cinquant’anni fa, l’Italia scoprì un nuovo mostro. I giornali strillarono il suo nome su cinque colonne: Italo Benito Giarrusso. L’accusa: aver ucciso a coltellate, in una sera di settembre dell’anno prima,

una ragazza di 16 anni di Varedo, Ornella Bancora, che se ne stava in un campo alla periferia di Desio col fidanzato, Angelo G. di 19 anni, ferito ma scampato. L’arrestato, 29enne, con qualche problema psichico, confessa ma poi ritratta. a pag.12-13

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suo primo e sfortunato tentativo al Festival. Il cantautore, che tra l’altro è nato a Carate Brianza da genitori sfollati da Milano durante la guerra, aveva già conosciuto, due anni prima, un po’ di notorietà con Luci a pag.16 San Siro.

I TANTI GRAZIE DI UN ANNO MEMORABILE Nel giorno del suo primo compleanno (siamo nati nel febbraio del 2010) il Giornale della Memoria riesce a tornare in stampa, grazie alla generosità di alcuni benefattori. Un anno di cui andiamo fieri perché in nove numeri e 132 pagine (da sfogliare ancora su www.giornaledellamemoria.it), abbiamo riportato a galla fatti e protagonisti di una Brianza ormai perduta.

Dalle storie tragiche ed eroiche di chi servì l’Italia nella Grande Guerra alle vicende, belle e terribili, della guerra di Liberazione, alle tante storie di cronaca del passato, dai sequestri alla diossina. E, ancora, i volti dell’immigrazione veneta, della Chiesa ambrosiana, delle tradizioni più semplici dei nostri paesi. Vite di uomini e di donne spesso non illustri, per pasa-

frasare il grande Pontiggia. Un anno in cui abbiamo avuto la fortuna di incontrare tanti amici: da fotografi come Attilio Mina e Pietro Vismara, a sostenitori come Paolo Pirola, presidente di Brianze, supporter della primissima ora, così come Angelina Familiari, direttore della Compagnia delle Opere di Monza e Brianza o come Stefano Blanco, direttore del Collegio

di Milano e lissonese doc. A questi ringraziamenti dobbiamo associare quelli per i negozianti che han voluto sin qui accompagnarci, proponendoci alla clientela. Un anno di sacrifici ma ricco di soddisfazioni. Un anno memorabile. Sperando che quello nuovo ci regali il supporto di qualche azienda o qualche amministratore illuminati. GdM

PAG.3 Sei anni in carcere per colpa di una simulatrice

Peppino, operaio di Agrate, accusato di sevizie da parte di una ragazza di Caponago. Ma nel 1955, la storia si ripete e allora i Cc scoprono che... PAG.8 1976, con i Magnan di Cantù in piazza

L’obiettivo di Attilio Mina nell’antico Carnevale degli stagnini coi visi tinti di nero. Tre pagine di fotografie PAG. 11 Erba, tornano i carri e i quartieri fanno festa

Nel 1982, dopo uno stop quasi ventennale, la città riscopre il Carnevale. Le cronache di una giornata indimenticabile PAG. 14 1982, annuncio shock della Snia: chiudiamo Varedo

Il gruppo tessile, dopo aver promesso il rilancio, cessa la produzione. Le testimonianze di chi c’era


Progetti 1982, togliere le sbarre

2 Genn. Febb. Marzo 2011

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Editoriale

Fra Consonno e la Snia Che bel numero, lasciateci dire cari lettori, quello con cui torniamo in stampa dopo qualche mese. La storia di apertura, quella di Consonno, lascia basiti ancora oggi. Uno scempio ambientale di proporzioni tali da far impallidire il celebratissimo ecomostro di Punta Perotti a Bari. Una vicenda surreale quella del conte Bagno che Paolo Pirola, in un bello quanto provocatorio intervento, definisce il Fitzcarraldo della Brianza. Una vicenda di quasi mezzo secolo fa che non può non far riflettere su come non sia stata ancora pienamente (ri)affrontata in questo territorio la questione dello sviluppo. Il combinato disposto di sindaci impoveriti dai patti di stabilità, cittadini smaniosi di capitalizzare le proprietà, imprese edili disposte a tutto pur di gonfiare i fatturati, insomma l’intreccio di interessi, più o meno leciti, che caratterizza la bolla immobiliare attuale, rischia di segnare pesantemente il futuro della Brianza: un’ipoteca paesaggistica ed ambientale che potremmo riscattare chissà quando e quale prezzo. Come il passato ha spesso insegnato, questa terra ha bisogno di sviluppo buono, che arricchisca tutti e non alcuni, lasciando ai primi tutti gli oneri (viabilità, inquinamento) e ai secondi tutti i profitti. La riconversione dell’exarea Snia a Varedo (della quale ricordiamo una prima chiusura avvenuta nel febbraio 1982), è per esempio un banco di prova decisivo: se prevalesse una logica speculativa su un’area di quelle proporzioni sarebbe un altro colpo durissimo a tutta la Brianza. GdM

VAREDO, DIVISA DAL PASSAGGIO A LIVELLO Le Ferrovie Nord vogliono il sottopasso, i negozianti no, il Comune convoca un tavolo. Con la Snia. Viabilità calda

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ia le sbarre a Varedo», titola L’Ordine della Brianza di domenica 21 febbraio. Al centro dell’articolo, firmato da Antonio Caputo, il passaggio a livello delle Nord all’altezza di Via Umberto che, come riporta la didascalia della foto, «taglia inesorabilmente in due parti la cittadina». E l’immagine mostra un’Alfetta scura, anziani ciclisti e qualche scooterista, fermi ad aspettare il passaggio del treno, probabilmente un diretto della linea Milano-Asso, oppure un locale, uno di quei treni che ferma nella vicina stazione. Secondo quanto riporta il giornale, le Nord proprio in quei giorni erano tornate alla carica, prospettando l’opera, cosa che era accaduta già una decina di anni prima ma senza esito. Uno degli scogli, anche in quel caso, era stato il possibile danno economico che poteva derivare agli esercizi commerciali della zona. E proprio i negozianti vicini alla ferrovia erano stati interpellati dall’Ordine. Enrico Franzini, titolare di una rivendita di calzature, negava obie-

zioni di questo tipo - «il mio commercio è basato più sui residenti che non sul cliente in transito», spiegava, «però è altrettanto vero che quando espongo i saldi, anche la persona non residente che è magari in coda, nota la mia vetrina». Gli faceva eco Giuseppe Mauri, cartolaio sulla stessa via, sostenendo la necessità di «abbassare i binari, come è accaduto alla Bullona, lasciando la stazione dov’è e formando con via Umberto, un ponte sulla ferrovia». Possibilista, invece, Alfredo Monti, panettiere e pasticcere, a condizione che l’opera venisse accompagnata «da un grande parcheggio per un centro commerciale», realizzabile, secondo il fornaio, «abbattendo i muri della Snia ormai inutilizzati e trasformandone l’area che si ricava». Sulla richiesta delle Ferrovie Nord Milano, spiegava l’articolo, era stato convocato un tavolo fra l’assessore all’Urbanistica, Giovanni Marzorati, le stesse Ferrovie Nord e il Consorzio del depuratore di Varedo, interessanto dai possibili lavori e appunto la Snia-Viscosa la quale, proprio in quei giorni, il 12

Il caso BARLASSINA, GIÙ IL CORTILE PER FARE ALLOGGI SOCIALI Ruspe in arrivo alla Fametta. Secondo quanto annunciava L’Ordine del 12 febbraio 1982, a Barlassina, stava per prendere il via la ristrutturazione del vecchio cortile situato in via Matteotti (foto). Il progetto comunale, firmato dall’architetto Ezio Cerutti, prevedeva «la parziale demolizione dell’ala interna del cortile, risultata la più fatiscente». Prevista inoltre «la sostituzione dei solai di legno tipici delle vecchie costruzioni, una una nuova struttura del tetto ee del manto di copertura». Spendendo 267 milioni di lire, l’amministrazione comunale puntava infatti a realizzare sei appartementi più relativi garage. La ristrutturazione, avvertivano dagli uffici comunali, avrebbe comunque preservato la struttura del cortile «una forma di vita associata ancora molto sentita dagli abitanti del paese, particolarmente dagli anziani che ne usufruiranno». Alla Fametta, infatti, era prevista la realizzazione di alloggi per soggetti svantaggiati e anziani. Come dire: case nuove ma vita vecchio stile.

Un’immagine del servizio dedicato a Varedo dal quotidiano L’Ordine della Brianza nell’82

febbraio per l’esattezza, annunciava la chiusura degli ultimi due reparti che producevano il fiocco (vedi anche servizio alle pagine 14 e 15). Era proprio Monti, il prestiné, a introdurre l’argomento: «Del resto la stessa Snia pare voglia utilizzare proprio le aree per realizzare capannoni artigianali ed abitazioni», osservava, aggiungendo che

«stando ai si dice sarebbe già stata costituita a questo proposito un’immobiliare con un capitale di 50 miliardi». Quasi 30 anni dopo, sottopassi-sovrappassi, parcheggi, centri commerciali, capannoni della Snia: tutto è rimasto in fase progettuale. E, stando a quanto è avvenuto in altre zone della Brianza, non è detto che sia stato un male.

La parola

RAME

C’è stato un periodo in cui erano i brianzoli a rubare rame e bronzo. Le cronache del 2 febbraio 1943, riportano alla luce il caso di Giovanni Dell’Orto, 46 anni, di Desio, colto sul fatto nel cimitero Muggiò. La notiza la riporta la Stampa che racconta dell’arresto dell’uomo da parte dell’aiutante di battaglia Giuseppe Tempini, comandante la stazione dei Carabinieri di Lissone, «che aveva scorto un individuo dai modi sospetti vagolare nel territorio della sua giurisdizione». Inoltratosi fra i monumenti e le lapidi, Dell’Orto «si mise a scardinare gli oggetti di bronzo che adornavano le tombe». Per le cronache, Tempini fu ucciso da un partigiano piemontese nei convulsi giorni del maggio 1945, perché il carabiniere l’aveva fatto condannare per borsa nera.

Le cronache 1982 Carpinelli guida gli avvocati

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n nuovo presidente per l’Ordine degli avvocati di Monza: è Sergio Carpinelli. Ne dà notizia L’Ordine del 24 febbraio 1982. Carpinelli, milanese, classe 1929, avvocato molto noto con studio a Desio, era stato scelto per guidare quanti praticano la professione forense nell’area monzese. Con lui, il nuovo consiglio formato da Giovanni Ciriello, segretario, Antonio Lombobarda, tesoriere e i consiglieri Mario Di Pisa, Filomena Fiorilli, Angelo Morrone, Giuseppe Pantò, Vincenzo Scioscia e Franco Stornelli. Il legale desiano in quegli anni era diventato una figura di livello nazionale, assistento alcune famiglia di industriali brianzoli colpite da sequestri di persona. Agli inizi della carriera, aveva patrocinato alcune cause di rilevanza nazionale, come quella contro Aci, Autodromo e il pilota Von Trips, per il tragico incidente del settembre 1962 che era costato la vita ad alcuni spettatori del Gran Premio, o come quella sul cosiddetto «Mostro di Desio», del febbraio 1963 e che raccontiamo alle pagine successive.

1950 L’accelerato deraglia a Seregno

L’

accelerato che arriva a sera da Milano ed è diretto a Chiasso è, nel febbraio del 1950, sempre carico di lavoratori seregnesi che tornano a casa. La sera del 6 febbraio, come racconta il Corriere Lombardo dello stesso giorno, il treno 128029 deraglia. Scrive il giornale: «Poco dopo il semaforo di Seregno e, ottenuto il via libera, riprendevala sua corsa ad andatura moderata per superare gli scambi», giunto però al primo incrocio di rotaie «aveva un sussulto e quindi usciva dai binari». Il locomotore rimaneva leggermente inclinato sulla sua destra «senza rovesciarsi». Fra i passeggeri «molta paura ma nessun ferito». Esattamente 10 anni dopo, nella vicina Monza (cfr. Giornale della Memoria n.1), un espresso proveniente dalla Valtellina deraglierà provocando una strage: 18 morti e decine di feriti.


Il processo1955, un operaio di Agrate accusato di stupro

PEPPINO È INNOCENTE MA SI È FATTO SEI ANNI Una giovane l’aveva fatto condannare ma sei anni dopo, in un caso simile, i Cc scoprono che si era inventata tutto

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uIl poverino s’era già fatto sei anni di carcere. Da innocente. Peppino Gervasoni, operaio di Agrate Brianza, era dietro le sbarre dai primi di gennaio del 1948, accusato di aver violentato l’allora neppure 20enne S. C., di Caponago, rinvenuta legata a un albero, mezza svestita e con segni di violenze sul corpo, la vigilia di Natale dell’anno prima. Peppino fu arrestato, processato e condannato, seppure davanti ai giudici del Tribunale di Monza, protestasse la sua innocenza. La svolta e la libertà per l’operaio di Agrate arrivava qualche anno dopo, come spiega la Stampa del 31 marzo 1955: «S. C. denunciava ai carabinieri di Agrate Brianza un episodio per molti lati simile a quello di cui era rimasta vittima in passato», scriveva il quotidiano, «secondo le sue affermazioni. Stavolta, la donna dichiarò di essere stata affrontata da due giovani che però sostenne di non conoscere affatto». L’autorità giudiziaria, mettendo in relazione l’episodio con quanto

accaduto anni prima, ordinò una rigorosa inchiesta affidandola ai Carabinieri di Caponago. Possibile che la stessa donna fosse rimasta vittima, in un lasso di tempo relativamente breve, di due violenze? «Stando a letto e simulando con straordinaria abilità di essere in preda al delirio, la donna tenne testa a tutti gli interrogatori del magistrato», riportava il quotidiano, «e ripetè con ampiezza di particolari, che denunciarono poi la fertilità della sua esaltata fantasia, il racconto dell’episodio di cui sarebbe rimasta vittima: aggressione, violenza, rapina e borseggio, e poi sevizie e quindi immobilizzazione e percosse». Ma alcuni giorni dopo, i Cc tornarono a interrogarla e, stavolta, S.C cadde in numerose contraddizioni: «Il sospetto che già si era fatto strada fra gli abitanti del sobborgo, che la conoscevano come una specie di esaltata e di maniaca, venne confermato dopo un ultimo interrogatorio dei carabinieri durato cinque ore, al termine del quale, in preda ad una crisi di pianto, la C. confessava di aver completamente inventate le

due aggressioni e dichiarava che il Gervasoni era innocente». Secondo il racconto della Stampa: «Non era mai stata neppure avvicinata da lui e non sapeva come e perchè aveva costruito tutto quel castello di basse calunnie, seviziandosi con le sue stesse mani e legandosi da se medesima all’albe-

La cerimonia

C Colo phone il Giornale della Memoria mensile di divulgazione storica www.giornaledellamemoria.it Registrazione presso il Tribunale di Monza. n. 1975 del 15/02/2010 Direttore responsabile: Giampaolo Cerri Redazione Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 redazione.gdm@gmail.com hanno collaborato: Leandro Cazzaniga, Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani, Walter Giussani, Annagrazia Internò, Gigi Molteni, Erminia Moretto (ricerche d’archivio), Daniele Villa Si ringrazia per l’amichevole collaborazione: Pietro Vismara, fotografo Progetto grafico e impaginazione: box313 (www.box313.net) Editore: Associazione Culturale Storia e Territorio Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 email: assostoria@gmail.com

DON GNOCCHI RINGRAZIAVA C’erano l’onorevole Meda, sottosegretario alla Difesa, i comandi militari e la associazioni mutilati. Come racconta il Corriere del 26 gennaio 1950, ad Arosio, nel locale Istituto grandi invalidi di guerra, viene innaugurato un busto a ricordo del benefattore, senatore Borletti. A scoprire l’opera, realizzata da Rosales, c’è anche il direttore, don Carlo Gnocchi che «ha illustrato il significato della cerimonia». Insiema ai membri della famiglia Borletti «un gruppo di mutilatini e orfani di guerra».

La proposta UN RONDÒ AL POSTO DELL’ULTIMA BARACCA VENETA? NO, FACCIAMONE UN MUSEO

Pare che, fino agli anni ‘80, ci abbia vissuto un’anziana signora veneta di cui si ricorda solo il cognome, Nardin. È una delle ultime baracche di Perticato rimaste. Chi da Paina di Giussano proceda in macchina verso Seregno o Cabiate la scorge sulla destra, circondata da erba altissima. Il legno delle pareti esterne pare aver retto ad anni e anni di freddo e intemperie e alla calura asfissiante delle estati. Le finestre sono semisocchiuse, la porta lascia intravedere uno spiraglio. Regge ancora la baracca della Nardin, salvo un avvallamento che si intravede sui coppi del tetto. Chissà se le tante persone che passano di lì ogni giorno in auto sanno che quella è stata

ro dove per ben due volte in sei anni si era fatta trovare da contadini della zona in preda a convulsioni isteriche oppure svenuta». La giovane era stata inizialmente rinchiusa in osservazione nel manicomio giudiziario di Aversa ma lì, i medici l’avevano giudicata sana di mente, malgrado una perizia di parte, chiesta dai suoi familiari a una specialista del Paolo Pini di Milano, la dottoressa Alabastro, l’avesse definita seminferma. Riportata in Brianza, la donna il 31 marzo si apprestava ad affrontare il giudizio del Tribunale monzese l’indomani. La sentenza sarà dura: sette anni e quattro mesi con il riconoscimento della seminfermità mentale. In aula la giovane ammetterà le proprie responsabilità e anche di essersi scritta alcune lettere di minatorie.

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una casa abitata da gente coraggiosa, arrivata sin qui mezzo secolo, carica di dolori e di voglia di riscatto. Chissà se qualcuno si sofferma a pensare, anche per un solo istante, a quanta vita sia passata fra quelle assi di legno. Pare che i comuni di Mariano, Giussano e Seregno stiano per realizzare una rotonda, abbattendo quella baracca. Ma cari amministratori, perché non restaurarla? Perché non fare, nell’area circostante, un museo dell’immigrazione veneta? Le risorse necessarie non dovrebbero essere difficili da reperire (pensiamo alla stessa Regione Veneto), in un’operazione che metterebbe insieme la storia e il marketing territoriale.

Stampa A.G. BELLAVITE Via I maggio, 41 23873 Missaglia (Lc) Stampato su carta ecologica EFC, con inchiostri a base vegetale.


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CONSONNO 1962

Genn. Febb. Marzo 2011

Nella foto di Alessandro Casiello, il «minareto» costruito a Consonno dal conte Bagno

Storie Follia urbanistica sui monti lecchesi

DISNEYLAND, BRIANZA

L’incredibile epopea di Mario Bagno, il conte-industriale che comprò e rase al suolo il borgo di Consonno per farne un parco giochi ma lasciando dietro di sé un paese fantasma

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a data del disastro è scritta nella carta bollata di un atto pubblico: 8 gennaio 1962. Quel giorno di quasi mezzo secolo fa, davanti a un non precisato notaio, comparvero i rappresentanti delle famiglie Verga e Anghileri, socie dell’Immobiliare Consonno Srl. La società stessa è al centro di una transazione, una compravendita: ad acquistarla è un distinto signore, nativo di Vercelli, Mario Bagno, classe 1908, impresario edile in grande (strade e aereoporti). Sebbene la repubblica, costituita da meno di vent’anni, abbia abolito i titoli nobiliari, Bagno si fregia del titolo di Conte di Valle dell’Olmo ed è pure, orgogliosamente, grande ufficiale. Apponendo le loro firme in calce al documento, i Verga, gli Anghileri e il conte decretarono, non solo la cessione delle quote di una sconosciuta società, ma l’inizio di uno dei più clamorosi scempi paesaggistici d’Italia: la distruzione di Consonno, borgo dell’Alta Brianza, che guarda il Lago di Como. L’immobiliare infatti possiede tutte ma proprio tutte le case che compongono il paesino, poche centina-

ia di anime, adagiato a 650 metri sul fianco orientale dello stesso Monte Brianza. Un retaggio feudale, probabilmente ma sta di fatto che in pezzo di carta bollata stanno tutte le costruzioni di quel villaggio, in-

cluse chiesa, canonica e cimitero. Non solo, della proprietà trasferita fanno parte 140 ettari di campo e di bosco bellissimi: a Consonno domina il castagno e nei campi, dove gli ultimi contadini delle Brianza,

quelli che stanno resistendo al richiamo della fabbrica giù nel piano, coltivano un sedano che è rinomato, venduto al mercato della vicina Olginate che, dal 1928, a seguito degli accorpamenti amministrati-


vi voluti dal Fascismo, ne è anche il municipio. Passare da un padrone di casa all’altro può essere una storia di ordinaria amministrazione per i consonnesi, si può trattare semplicemente di dover pagare la pigione a uno piuttosto che agli altri. Se non che, Bagno Mario da Vercelli, è un lucido visionario: ha deciso che quel fazzoletto di Brianza verdissima, incastonato in mezzo alle Prealpi, debba diventare un paese dei balocchi, senza Pinocchio e Lucignolo. Alla gente del luogo, s’è presentato alla fine del 1961, come futuro padrone di casa, perché probabilmente, ancor prima dell’atto notarile, l’accordo era già fatto. Fa arrivare una sola parola: «rilancio». E prima che i Consonnesi riescano a capire che cosa sia tanto decaduto, e da dove, tale da giustificare un’azione del genere, sentono il rombo e l’odore di nafta delle ruspe: Bagno è riuscito ad ottenere dal Comune l’autorizzazione a trasformare la mulattiera che da Olginate conduce in paese in una strada vera e propria. La gente di Consonno osserva un po’ preoccupata il bulldozer fare a pezzi il bosco, spianare, macinare sassi e terra. Qualche anziano probabilmente leva una preghiera a San Maver, il san Maurizio patrono dell’antico borgo. L’epifania del rilancio arriva qualche mese dopo alla firma dal notaio: le stesse ruspe che hanno sfregiato la montagna, stavolta puntano sull’abitato. Anticipando una famosa scena del secondo Amici Miei II di Monicelli, i tecnici piombano in Via del Rizzolo, via della Spinada, via Chiesa da basso, la toponomastica tipica di quel borgo, e danno ordini perentori: «Qui, giù tutto». Solo che qui, a differenza del film, non la burla non c’è. O forse, Mario Bagno è uno scherzo del destino. Sta di fatto che la gente deve trasferirsi in fretta e furia in una baraccopoli da cantiere che il conte ha fatto predisporre, e osservare attonita la demolizione del proprio paese, delle proprie case, dei propri ricordi. Una scena degna di qualche teatro di guerra, i cui le truppe occupanti spiano le case dei civili sconfitti. Anni dopo, nel lontano Medioriente, gli Israeliani avrebbero fatto lo stesso con le case dei kamikaze a Gaza o in Cisgiordania. Ma almeno quelli sapevano di aver avuto un congiunto che aveva deciso di fare il terrorista e togliere, oltre la propria, anche la vita altrui. Ma che cosa avevano fatto i Consonnesi? Nel 2004, un bellissimo documentario della Tsi-Tv svizzera italiana, Insonne Consonno firmato dal registra Cesare Bernasconi, ripropone l’assurda storia del paese spianato, attraverso la voce di alcuni «superstiti». Un fratello e una sorella che con la loro madre, hanno resistito nelle baracche del conte e un altro consonnese rimasto a vivere là. Il loro racconto è un sommesso grido di dolore: raccontano, come rivivendoli con terrore, i momenti delle ruspe che tirano giù muri, tetti, che annullano piazzette e crocicchi, che fanno sparire i luoghi dove ognuno ha mosso i primi passi, riso e scherzato con gli amici, giocato a nascondino. Il conte Bagno però persegue una sua idea creativa, un sogno piccolo industriale: fare di Consonno la capitale del divertimento. È l’antesignano delle odierne Mirabilandia e

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Idee in circolo

Ci vorrebbe l’Unesco

Interventi, il conte Bagno rivisitato

FITZCARRALDO SOTTO IL RESEGONE Paolo Pirola, presidente dell’Associazione Brianze, rilegge provocatoriamente la figura dell’industriale e il suo sogno brianzolo

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hi sogna può muovere le montagne». Così recitava Klaus Kinsky nei panni di Brian Sweeny Fitzgerald, meglio noto come Fitzcarraldo, nel celebre, omonimo film di Werner Herzog. Anche la Brianza, anni fa, ha avuto il suo Fitzcarraldo: il famigerato Conte Bagno. Costui, più che muovere, spianava le montagne. Solo per permettere alle coppie di sposi che banchettavano al matrimonificio di Consonno la classica foto di rito con sullo sfondo il Resegone, appunto nascosto da un mammellone che le instancabili ruspe del Conte provvidero ad eliminare. O, quantomeno, a rettificare. Fitzcarraldo voleva edificare un Teatro dell’Opera nel cuore della foresta amazzonica, risalendo cascate e orridi, tra indios ostili e serpenti velenosi… Il Grande Ufficiale Mario Bagno, improbabile conte di Valle dell’Olmo, si accontentò della Zanicchi e dei Marcello’s Ferial, tra le ben più ospitali prealpi lombarde e le accoglienti braccia dei geometri locali. Non c’erano i Verdi, le sovrintendenze se la intendevano sotto sotto, il sole dell’avvenire scaldava le menti e i cuori degli italiani. Consonno! Fu una sorta di leggenda, che correva di paese in paese, per la Brianza dei mitici anni ’60. Per chi, come me, era allora bambino, la prima visita a Consonno - in sella sul serbatoio della fiammante 250 Guzzi di mio papà (l’Airone)- fu uno sballo: la porta d’entrata era vigilata da due armigeri - finti anche questi - in posizione di guardia. «A Consonno il cielo è più azzurro», stava scritto sugli striscioni che accoglievano i visitatori. Pagode, forti apache, minareti, cannoni… le mille e una notte che turbinavano nelle nostre teste di bambini cresciuti a western, pirati e tughs della Malesia, presero forma e sintesi a Consonno: la Disneyland

«de noantri», anzi de «domà nunch» . Ebbene, contro il buon senso che indica il conte Bagno quale figura simbolo della speculazione edilizia, io invece voglio qui, postumo, pubblicamente ringraziarlo. Mi ha fatto felice da bambino e, a distanza di decenni, mi fa felice oggi. Da bambino perché mi ha regalato qualche ora di sogno; da adulto perché, paradossalmente per una sorta di eterogenesi dei fini, lo speculatore ha salvato dalla speculazione una grande area verde. No, non sono pazzo. Basta scavallare la montagna, o andare su Google Earth, e osservare Galbiate. Lì vive l’ecologista più famoso d’Italia, anch’egli - come Consonno - parto degli anni ‘60: il re degli ignoranti, Adriano Celentano. Ebbene, sembra di precipitare nelle pagine meravigliose de La cognizione del dolore, di Carlo Emilio Gadda, quando nel 1963 l’ingegnere descrive la Brianza pastrufaziana ai piedi del Resegone-Serruchòn. «Di ville, di ville!», scrive, «di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchòn orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri - esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramonatano e il papero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchòn e lungo le pioppaie del Prado. Di ville! Di villule! Di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, “digradano dolcemente”: alle miti bacinelle dei loro laghi». Invece, nella grande area che circonda Consonno, la Natura ha ripreso il sopravvento sulla stupidera umana.

L’Unesco dovrebbe farne un patrimonio dell’umanità. Consonno, o meglio lo scheletro che ne rimane, dovrebbe essere tutelato così com’è e offerto alla memoria collettiva, non solo italiana e brianzola ma mondiale. Quello infatti che accadde, quasi mezzo secolo fa, in questo piccolo borgo appoggiato sulle verdi pendici del Monte Brianza merita d’essere ricordato ab aeternum. E non solo per quanto dissesto sia stato possibile produrre, sulle persone e sull’ambiente, sotto lo scudo della «proprietà privata» senza che alcuna autorità politica frapponesse ostacolo. La storia di Bagno e dei suoi buldozer infatti segnala l’insipienza dell’ambientalismo nostrano: gli ecologisti avrebbero dovuto fare un sacrario di queste quattro mura piene di calcinacci, un monumento, un monito permanente a quale e quanto sia il potenziale distruttivo dell’uomo. Consonno giudica poi, e duramente, l’inadeguatezza della nostra informazione, che ci ha raccontato le tante Punte Perotti d’Italia nascondendoci questo cammeo brianzolo. Invece questo luogo incredibile dovrebbe restare un simbolo. Gli amministratori di Olginate, anziché progettarci centri benessere o villette a schiera, dovrebbero pensarci su e, facendo un ripasso di marketing territoriale, trasformare Consonno in una nuova capitale della coscienza civica, un museo dell’ambiente sventrato. Intanto, oggi le macerie del conte Bagno, come scrive Paolo Pirola nel bellissimo e provocatorio articolo qui a fianco, fanno misteriosamente da argine alla speculazione edilizia marciante a Nord di Milano e segnatamente in Brianza. Un giorno ci chiederemo se sia stato peggiore il nobile asfaltatore vercellese o certi sindaci brianzoli con i loro piani generali del territorio. GdM


6 Genn. Febbr. Marzo 2011

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Web & dintorni

Cliccare Las Vegas Insonne Consonno è il documentario che la Tsi, tv della Svizzera italiana, dedicò al paese fantasma sette anni fa. A firmarlo è stato Cesare Bernasconi, regista che più volte si è interessato alla Brianza, per la serie Storie. Un documentario unico, ancora oggi visibile negli archivi online della tv cantonese. Per recuperarlo, basta andare all’indirizzo internet www. larsi.ch, cliccare su «Storie» ed inserire il titolo del documentario, o semplicemente la parola «Consonno», nella funzione di ricerca. In alternativa, si può cercare il filmato su Google, inserendo il titolo esatto della trasmissione e aggiungere «Tsi». Usciranno anche molti link a blog e a siti che ne parlano, perché il filmato è certamente un cult per molti appassionati di Brianza ma anche di architettura e di ambiente. In 50 minuti e 56 secondi di interviste e immagini molto belle, incluse quelle originali degli anni ‘60 quando Tsi si era già occupata della Las Vegas brianzola, Bernasconi racconta la storia apparentemente surreale di questo borgo appoggiato sulle pendici del Monte Brianza. Su YouTube invece, digitando «Consonno» come chiave di ricerca, si possono vedere decine di video amatoriali fra le rovine della città fantasma, incluso un bellissimo (ma breve) superotto degli anni ’60 e due minuti e mezzo dello scellerato rave della Summer Alliance che, nel luglio del 2007, si abbatté su quel che restava del paese dei balocchi. Chi invece vuol ricostruire la storia incredibile di questo paese, deve passare necessariamente da Consonno. it, il sito che raccoglie materiali, ricerche, testimonianze (come quelle di queste pagine), foto d’epoca. Lo gestisce Giovanni Zardoni, insieme all’Associazione Amici di Consonno che, ogni anno, organizza la festa di San Maurizio (18-21 settembre), in cui la diaspora consonnese si ricompone e i tanti paesani dispersi ritornano. Foto suggestive, come quelle di queste pagine, si trovano poi su www.flickr.com.

Gardaland e coevo di Disneyland. Un teorico del balocco per famiglie. In breve, sul pianoro ripulito dalle mura secolari, compare una cittadella dai tratti esotici: una lunga costruizione a tre piani, presidiata da un incredibile minareto. Nascono giardini con pagode, piramidi, templi arabeggianti, arrivano da Cinecittà, grandi scenografie dismesse da qualche film d’ambientazione biblica. La nuova Consonno pare il frutto di un mazziere impazzito di Mercante in fiera. Inizia la stagione dell’oro. Consonno comincia ad attrarre stelle e stelline dell’Italia del boom, il grande salone delle feste ribolle di gente e di note. Le serate all’ombra del minareto sono popolate da Milva, Walter Chiari; si suona si canta, la gente arriva, da Lecco e dalla Brianza, supera la scenografia castellana (simile alla porta di un grande cassero) e entra in un mondo magico, si affaccia al bar, magari si ferma per il pranzo al ristorante oppure va a fare shopping nei tanti negozi che, proprio dall’edificio centrale, si affacciano lungo la strada. Come ricordano gli anziani intervistati dalla Tsi, i sabati e le domeniche, Consonno è popolata da sposi freschi di cerimonia, inseguiti dai loro fotografi fra i giardinetti e la pagoda. E poi c’è lo sport. In un raro filmato del 1965, ripreso dal documentario di Bernasconi, il conte appoggiato alla ringhiera con il verde della campagna alle spalle, distilla i suoi progetti con un inconfondibile accento piementese, a cominciare dal ciclismo: «Farò il circuito in quella zona là, è uno dei più belli per la zona panoramica quasi d’Europa; vorrei dirlo forte perchè forse un circuito così, se avrò i mezzi, non ci sarà uguale. È piccolino ma molto elegante». Non solo parole: ogni anno arrivano lassù, inseguiti da migliaia di tifosi, i campioni delle due ruote, a partire da quello che domina in quei giorni, il francese Jacques Anquetill,o i giovani virgulti italiani, come Gianni Motta, che vince la prima edizione della corsa l’11 agosto del 1967. E non solo bici: «Lì sotto», prosegue l’intervista, «farò il campo di calcio, il campo della pallacanestro e del tombarello - proprio così alla piemonteisa, anziché tamburello - , che è uno sport in declino; qui vengono i campi da tennis, delle bocce, e da minigolf, di là dovrà venire la pista del pattinaggio, luna park e uno zoo di bestie da parco e giardino. Un grande zoo, con un grande ristorante popolare con orchestrine curiose, è vero, per attirare tutto il pubblico naturalmente». Bagno indossa cappello a falda larga e un gran cappotto chiaro, fuma sigarette con un lungo bocchino e tiene al guinzaglio un bassotto. Un ricco signore à la page degli anni ‘60, un gran cummenda dai modi raffinati che è anche un pazzo lucido e pieno di soldi: la collina dinnanzi gli nasconde lo spettacolo del Resegone? Lui non esita un attimo e invia le ruspe a sbassarla di qualche decine di metri. Perché, come assicura uno dei tanti cartelloni fatti issare sopra le strade: «Qui a Consonno è tutto meraviglioso». La piccola Las Vegas della Brianza attira anche dei villeggianti: un’ampia proporzione della struttura, composta di tanti miniappartamenti, viene data in affitto per

La testimonianza IL BELLO DELLA DECADENZA La prima volta che vidi il paese avevo quattro anni. Consonno era già un paese «fantasma», per certi versi, ma di sicuro ancora non vi regnava la decadenza attuale. Conosco ogni strada, ogni sentiero, ogni piccolo e forse insignificante particolare, perchè i miei genitori affittarono un appartamento al «palazzo orientale», dove si trova il minareto. Un bilocale che divenne la nostra casa di villeggiatura. So che può sembrare stranissimo, eppure è così. I miei amavano la montagna: le ferie di Natale e quelle estive le trascorrevamo là. Non eravamo soli: con noi, alcuni fra i miei zii e altre famiglie della Brianza. Eravamo più o meno una quindicina di bambini. Le corse in bicicletta giù per la discesa fino alla piazzetta di fronte al bar-ristorante, con il proprietario del bar che ci regalava le caramelle; i giochi organizzati nella vecchia balera, le arrampicate sui ponticcioli e sui massi, con i genitori che ci gridavano dietro; le innumerevoli cadute, gli scherzi ai turisti e ai vecchietti dell’albergo, la caccia alle rane nella fontana divenuta poi stagno. (...) Le passeggiate su Monte Mario, quando andavamo a castagne o a funghi, gli acquazzoni estivi che ci inzuppavano fino alle ossa mentre eravamo fuori nei prati... E poi la sera, tutti davanti al fuoco, a cantare canzoni alla chitarra. Ricordo nitidamente

Il ragazzo della via Gluck (...) Francesca (da www.consonno.it)


HOTEL PLAZA E DINTORNI Il 24 aprile 1976 mi sono sposato felicemente con Gianna, la festa l’abbiamo fatta presso l’Hotel Plaza nella magica dell’allora «Las Vegas» della Brianza. Posto incantevole, da sogno, avveniristico. Ricordo che tutti gli invitati rimasero a bocca aperta nel vedere un così bel posto. Tony Cassano (...) era un giorno infrasettimanale del giugno del 1973. Consonno aveva imboccato la strada del lento abbandono, ma ancora qualcosa viveva nei suoi bar e nelle vetrine dei suoi negozi. Ma aleggiava un sinistro alone di morte, quasi imminente. Ricordo benissimo quel giorno perché ci portai la mia ragazza, divenuta poi mia moglie, che, nonostante fosse di Lecco, non era mai salita in quello strano posto. Ricordo un gelato preso seduti nei tavolini di un bar, che all’interno, aveva delle foto in bianco e nero di corridori ciclisti (...) Edoardo Serafini (...) un luogo della mia infanzia che non avevo idea di dove si trovasse perchè mi ci portavano da piccola. Sono del 1967. Ricordo perfettamente l’atmosfera di irrealtà e la salita per arrivare in questo indefinibile luogo.Venivamo da Brugherio e questa era una gita ripetuta del fine settimana. Nathalie

Il fotografo L’OBIETTIVO DI ALESSANDRO FRA LE MACERIE DI BAGNO Le immagini di queste pagine sono di Alessandro Casiello, 28 anni, vimercatese. Informatico di professione in una grande azienda di telecomunicazioni e scatta per passione e per dna familiare, essendo figlio di un fotografo professionista che ha accompagnato spesso. E proprio con una vecchia macchina di Casiello sr, una Cosina degli anni ‘80, Alessandro ha cominciato i primi servizi. Sul sito specializzato www.flickr.com, gli scatti di Casiello si trovano sotto l’account Spl33n_82. Oltre alle bellissime 21 fotografie su Consonno, ci sono ritratti, nudi e immagini di città di grande suggestione.

7 Genn. Febb. Marzo 2011

CONSONNO 1962

I ricordi

l’estate e molti decidono di godere la frescura della mezza montagna, non disdegnando neppure un po’ di vita notturna e i negozi sempre aperti che fanno tanto lungomare romagnolo. Ma il sogno terribile di Mario Bagno piano piano si incrina. Cambia l’Italia, cambiano gli italiani, cambia il concetto di divertimento. L’astronave consonnese, col suo missile-minareto puntato verso il cielo, assume, giorno dopo giorno, l’aspetto triste del residuato. La gente smette di salire, gli affari vanno a picco. Finché non ci si mette anche la natura che, con il nobile piemontese ha un conte aperto da oltre un decennio, quando aveva mandato le sue ruspe a ferire le pendici del Monte Brianza. Nel ’72 succede che la strada letteralmente frana. È già accaduto nel ’66, l’anno dell’alluvione di Firenze: le piogge torrenziali di quel novembre avevano fatto colare su Consonno metri e metri cubi di fango. Ma l’Italia guarda agli Uffizi allagati e nessuno si cura del dissesto di Consonno che non scalfì minimamente i piani di Bagno: ripara, consolida, si mette a costruire. È un segnale però: il monte e il bosco, feriti, hanno lanciato un altolà. Stavolta, la terra e la strada vengono giù quando anche i conti stanno andando a rotoli e tutti finiscono per precipitare assieme. Il vecchio conte vercellese chiude le attività, abbassa le saracinesche, spranga i locali, coltivando sogni di ripresa e di rilancio. Ha ormai più di 80 anni e rimugina sulla riconversionel della sua creatura. Anziano, immagina di far rinascere Consonno come piccolo paradiso della terza età. E affitta l’Hotel Plaza a fratel Alberto Bosisio, un religioso, che porta lassù gli anziani ospiti delle sue residenze. Nel documentario della Tsi, si può vedere il frate che si aggira fra gli anziani ospiti della struttura, ricostruendo la disposizione dei locali nel precedente utilizzo: «Ecco, qui c’era il night». Ma nel 2007, se ne va pure lui. Bagno invece se n’era andato nel 1995, ma per l’ultimo viaggio. A Consonno rimangono solo i pochi scampati al conte, meno di una decina, che vivono nella canonica. Su di loro, fra la fine di giugno e i primi di luglio di quell’anno, si abbatte la furia di un rave party, con centinaia di giovani scatenati richiamati sin lì da tutta Europa: tre giorni fra musica a volumi folli, alcol a fiumi, droghe sintetiche e vandalismi di ogni genere. I Carabinieri li controllano a distanza. D’altra parte, siamo o non siamo nella capitale del divertimento?


8 Genn. Febb. Marzo 2011

CANTÙ 1976

Carnevale. 1976 Bambini e giovani canturini nelle strade della città

I GIORNI DEI MAGNAN Maschere molto semplici, a base di sughero annerito: gli stagnini. Un servizio di Attilio Mina ci riconsegna, a distanza da 36 anni, le feste carnascialesche a Cantù

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’è stato un tempo in cui il Carnevale era una festa semplice, in cui contava appunto semplicemente che la carne valesse, in attesa della penitenza della Quaresima. C’è stata una stagione in cui le persone, ma più frequentemente i ragazzini, si vestivano in maschera con grande semplicità, senza far ricorso a costumi o travestimenti particolari. C’è stata l’epoca dei magnan, degli stagnini. In quel di Cantù, la tradizione carnascialesca per definizione era quella. Per mascherarsi bastavano alcuni vecchi vestiti e annerirsi la faccia col sughero bruciato sulla fiamma del gas per ricordare la fuliggine che stava sul volto di chi ripuliva le canne fumarie. Due tocchi facili facili e la faccia diventava quella di uno stagnino provetto. Il resto lo faceva l’allegria e lo stare insieme.Nelle epoche passate la gente saliva dalle campagne in

paese per far festa. Una tradizione che si era assopita e che un gruppo di giovani ha resuscitato a metà degli anni ’90, riportandola a splendore in una città che, negli anni, ha visto anche strutturarsi un Carnevale vero e proprio, con tanto di sfilata, carri allegorici e biglietto d’ingresso. Le foto di queste pagine, uno dei tanti bellissimi servizi che hanno costellato la carriera di Attilio Mina, mostrano una festa del 1976, per le strade canturine. Lo stile Magnan è ancora forte anche se si vedono già alcune varianti sul tema: trucchi clowneschi, capelli colorati, schiuma da barba destinata di lì a poco a diventare un must anche un po’ grossolano di ogni Carnevale. L’obiettivo del fotografo marianese, in uno struggente bianco e nero, coglie volti, smorfie, sorrisi di una Cantù giovane e spensierata, che ha voglia di stare insieme, di divertirsi, di far festa nella tradizione

dei padri e dei nonni. Oggi, quasi quarant’anni dopo, quegli scatti destano certamente una punta di commozione. Sarebbe bello che chi vi si riconosce, chi ritrova in queste fotografie il ragazzino che fu, scrivesse al giornale per raccontare quale emozione quelle immagini hanno destato in lui

Il fotografo ATTILIO, OCCHI SUL MONDO I lettori l’avevano già conosciuto per un bellissimo servizio sulle baracche venete a Perticato. Attilio Mina è fotografo ma anche videomaker, saggista e scrittore. Dopo aver fatto fotogiornalismo per agenzie e periodici, da Grazia Neri a Photo, da Panorama ad Abitare, si è dedicato all’insegnamento (Istituto sperimentale d’arte di Monza, Ied, Scuola umanitaria, Liceo Modigliani Giussano). Dopo aver abbandonato la fotografia per anni, Mina ha ripreso a scattare. Oggi punta l’obiettivo sugli scorci più suggestivi delle montagna lariane, per la gioia degli amici che lo seguono su Facebook.


9 Genn. Febb. Marzo 2011

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Chi li ha visti?

Gli stagnini di 40 anni fa Chi si rivede nello stagnino di quasi 40 anni fa? Il Giornale della Memoria cerca i Magnan immortalati dall’obiettivo di Attilio Mina nel 1976. Chi si riconosca in queste foto può inviarci una via email a redazione.gdm@gmail. com oppure scriverci a Giornale della Memoria, via Giusti 32/c, 20833 Giussano (Monza Brianza), raccontandoci l’emozione che ha provato rivedendosi ragazzino, il ricordo che ha di quella festa, i nomi degli amici con cui la condivise. Pubblicheremo i vostri racconti nel prossimo numero. Così che la vostra personale memoria diventi la memoria di tutti.


10 Genn. Febb. Marzo 2011

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Di chi si parla

Il Venerdì è grasso! A metà degli anni ’90 si sono fatti in quattro per riportare in vita l’antica tradizione del Carnevale poi, dopo anni di feste chiassose, alla fine dell’anno scorso hanno deciso di mettersi in proprio, distinguendosi dalla celebrazioni del ufficiali canturine. Sono i Magnan di Cantù, costituitisi in associazione. Quest’anno il Venerdì grasso, che cade l’11 marzo, se lo gestiranno in proprio, sfilando con i propri carri agricoli nelle vie cittadine. Notizie e aggiornamenti sulla pagina Fecebook «I magnan di Cantù».


Tradizioni Sfilate dopo venti anni a Erba

CARNEVALE, IL GRAN RITORNO

11 Genn. Febb. Marzo 2011

Nel febbraio di quasi 30 anni fa, la festa in maschera tornò a risuonare per le vie cittadine: carri, scherzi, gente allegra. La cronaca di quelle giornate così come la raccontò L’Ordine

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Sopra, una pagina de L’Ordine della Brianza. Sotto, maschere canturine immortalate da Mina

te “il cretino” intento al suo lavoro, circondato da benestanti o meglio ‘furbi patentati’ che ne deridono l’operato e vivono da parassiti». In città, l’ex-partigiano erbese Enrico Rivolta ha da poco dato vita a una lista civica - Brianza - che lo aveva portato in consiglio comunale e che poteva essere considerata di buon grado la progenitrice della successiva Lega Lombarda e attuale Lega Nord (cfr. Il Giornale della Memoria n.03 aprile 2010). E per le vie di Erba sfilava anche il prototipo della famiglia brianzola: la propone uno dei rioni cittadina, Cassina Mariaga, «una famiglia Brambilla, stipata nell’auto, seguita da un carrello carrozzina». Il rione Bindella andava sul sicuro con un soggetto iper-tradizionale: Biancaneve e i sette nani: «Arbusti, verde, una capanna e i bucaneve sparsi sul tappeto verde. Intorno a un tavolino i piccolissimi nani sono intenti a giocare e a posare per i fotografi». Molto lombarda anche la scelta del quartiere Incino che proponeva «una sceneggiata sulla falsariga dei legnanesi, intitolata Un matrimonio in parodia: visi abbruttiti e segnati da troppe rughe». Gli anni ’80, quelli del cosiddetto riflusso dopo la sbornia ideologica, quelli che i sociologi si affrettarono a definire dell’edonismo, erano

Le altre feste DA BRIOSCO A CARATE Sei carri, fra cui uno ispirato a Garibaldi e alla sua storia di liberatore d’Italia, uno che ripropone Pinocchio e Geppetto, un altro con gli eroi disneyani Paperino e Paperone: è il Carnevale del 1982 a Briosco, secondo la cronaca de L’Ordine della Brianza del 28 febbraio. Una partecipazione corale del paese, si scrive, ma anche della frazione di Capriano. Nella stessa pagina resoconti anche delle feste a Nova Milanese, «Carri come a Viareggio», scrive il giornale, e a Carate, dove la sfilata viene definita «fantasmagorica». Nella stessa pagina, però, anche un commento serio di una giornalista, Anna Motta, che riflette su questa grande attesa carnascialesca. «Colpisce questa voglia disperata di divertirsi», scrive chiedendosi se «non sia appunto, disperata». E argomenta: «Da mesi andiamo registrando su queste pagine di un’ondata di licenziamenti quale mai si è verificata in Brianza, l’allargarsi dell’epidemia della droga, il crescere della violenza giovanile e non. Sorge il sospetto», conclude, «che la “carnavalitudine”di quest’anno non sia allegria ma una fastidiosa irritazione della pelle. E ci si gratta. E va bene, tanto è per un giorno. Purché l’irritazione non aumenti».

appena cominciati. La Brianza, come l’Italia, aveva voglia di tornare la privato, alle cose solite e sicure, al calore della famiglia, dimenticando, seppure per un momento, le durezze di quei giorni, con l’inflazione che mangia gli stipendi, il lavoro che si perde, l’eroina che falcidia tanti giovani e la pazzia che arma

ancora la mano di alcuni terroristi o dei sequestratori. «Il corteo finisce», annotava il cronista de L’Ordine, «molti seguono quasi magnetizzati quella sfilata, che ha entusiasmato tutti, specialmente gli adulti. Tutti per un attimo hanno rivissuto un carnevale di vent’anni fa»

ERBA 1982

arnevale passione brianzola. L’Ordine di domenica 28 febbraio 1982 era tutta una cronaca dei vari festeggiamenti che coinvolgono paesi e cittadine. A quello di Erba, viene dedicata quasi una pagina intera, quella solitamente riservata all’Alta Brianza e Vallassina. «Dopo vent’anni gli erbesi hanno riscoperto il carnevale», titola il quotidiano, con un occhiello che recita: «Carri allegorici e bontemponi per le strade della città». Proprio così, per ben due decenni, la cittadina aveva rinunciato a festeggiare. L’articolista, che si sigla «G.P.» non spiega le ragioni: molto probabilmente gli anni che vanno del ’62 all’82 sono quelli in cui era cresciuto l’impegno politico e religioso di molti, specialmente giovani. Anni di lotte e di contestazione, nei quali forse il Carnevale e le sue feste erano stati visti come fuga, un po’ troppo leggera, dal reale e dai suoi problemi. Forse. Sta di fatto che in quel febbraio di quasi trent’anni fa, le vie cittadine videro il riesplodere dello scherzo e della voglia di divertirsi. «La gioia di ieri non è scomparsa», scriveva L’Ordine, «si parla ancora di quel carnevale diverso, rivissuto per la prima volta dopo anni di congelamento. Una tradizione», si proseguiva, «che la città aveva ibernato e che oggi è tornata proponendo un insperato e suggestivo spettacolo». Dal racconto, quell’edizione del rinato Carnevale pare esser stata ricchissima: «Le mascherina sparse tra la gente» , scrive il giornalista, «riproducono la “nostalgia”: una pantera rosa, cappuccetto rosso, damine dell’800, tigrotti, qualche arabo e una minutissima coccinealla un po’ triste, forse non capisce quel movimento, il perché di tutta quella gente». Poi, ovviamente, arrivano i carri: «La carrellata ha inizio con un enorme televisore preceduto dal “museo degli orrori”, visi sfatti e sguardi cattivi. È la “casa gioventù” che con un’impiccagione del mezzo di imbalsamazione, offre il patibolo dell’antenna. La guerra», conclude, «all’ipnosi dello schermo». E dire che la tv commerciale stava muovendo ancora i primi passi, ben lontana dallo strapotere attuale. Eppure gli Erbesi ci ridevano su, consapevoli di una dipendenza che era in arrivo. «Sembra d’essere a Viareggio», commentava un passante, «non è proprio la stessa cosa ma è comunque molto bello». Ancora carri allegorici: «Un’enorme fetta formaggio avvolta da topi apre la parodia della crisi, grazie alla quale tutti mangiano». Non mancava, nella festa ritrovata, qualche sentimento protoleghista: un carro raffiguran-


12 Genn. Febb. Marzo 2011

Cronaca Tutta l’Italia guarda alla Brianza

QUEL MOSTRO DA MANUALE Due fidanzati aggrediti in un campo. Lei, 16 anni, viene uccisa. Lui si salva e, quattro mesi dopo, riconosce l’omicida. Un disadattato che ammette ma poi ritratta. Morirà in carcere

DESIO 1963-1968

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onfessano i mostri di Desio e Laglio», urla su cinque colonne il Corriere di Informazione, giornale della sera, del 31 gennaio-1febbraio 1963. L’«ultima della notte», come riporta un bollino accanto alla testata, è tutta incentrata su due casi di cronaca risolti brillantemente con due confessioni. A Laglio, sul Lago di Como, uno scaricatore 25enne, aveva ammesso d’essere l’assassino di una vedova più vecchia di lui di 32 anni. L’aveva conosciuta in un’osteria, diventandone l’amante e quando lei gli aveva detto di voler troncare la relazione, perché c’era un altro, lui aveva perso la testa uccidendola. Il fatto era avvenuto due mesi prima ma l’omicida era stato messo alle strette dai Carabinieri che l’avevano fatto confessare. Storia analoga per l’altro mostro, quello brianzolo. Anche in quel caso un delitto avvenuto molto tempo prima, per l’esattezza il 23 settembre, risolto dall’Arma dopo lunghe indagini e dopo una piena confessione resa dall’assassino, tale Italo Benito Giarrusso, 29 anni, nativo di Nova Milanese, ma residente a Desio, operaio disoccupato, ultimo di sei fratelli. L’omicidio era avvenuto in una tarda sera settembrina in una via isolata di Desio, la Via Caravaggio. Sono quasi le 22, ormai buio e qui si sono appartati due fidanzatini, Angelo G. e Ornella Bancora, di 21 e 16 anni. Lui, siciliano, vive a Desio; lei, brianzola, abita a Varedo. E a Varedo si sono conosciuti. In fabbrica, sotto gli immensi capannoni della Snia, dove Angelo, un bel giovane moro con una faccia alla James Dean, fa il caposquadra e lei, Ornella, volto solare, incorniciato dai capelli neri e corti, lavora alla linea. Sono arrivati in sella al motoscoter di lui. E se ne stanno in un prato là vicino, coperti da un cespuglio. «Si baciavano», scriverà qualche giornale. «Parlavano, ascoltando una radiolina a transistor», preci-

Italo Benito Giarrusso. Arrestato per l’omicidio di una16enne, diventa il mostro di Desio

serà qualche altro quotidiano, più attento alla moralità pubblica degli anni ‘60, affrettandosi a precisare che erano fidanzati da poco ma «già avevano deciso di sposarsi». Angelo e Ornella comunque non possono mettere in conto che qualcuno, sbucato dal nulla, li aggredisca con furia bestiale. Prima lui, alle spalle, colpito da diverse coltellate, poi lei, raggiunta da un fendente che recedeva l’arteria femorale. L’assassino così com’è venuto, se ne va, senza curarsi di verificare se i due ragazzi siano morti o vivi. Come un automa, addirittura inciampa nello scooter di Angelo, lanciandogli contro un’assurda invettiva in dialetto brianzolo: «Va via disgraziato, tu e la tua motoretta», come il ferito racconterà ai Cc. È lui a dare l’allarme, trascinandosi, insanguinato, fino alla baracca del custode di un vicino cantiere. Luigi Cani, il primo soccorritore, sente i lamenti del giovane alle 21,45. Lo raccoglie, lo adagia sulla sua branda, lo sente implorare di

occuparsi della sua ragazza, là fuori. Raggiunge il prato e trova Ornella, ferita, respira ancora, parla. Come riporta L’Unità del 24 marzo 1965, seguendone la testimonianza in Corte d’Assise, la ragazza ha il fiato di supplicare: «Mi aiuti, sto morendo» e poi, ancora, «Angelo, dov’è Angelo?». C’è appena il tempo di portarla in ospedale che muore: troppo profonda la coltellata, troppo grave la ferita. Angelo invece si salva. Nello stesso ospedale, a Desio, le loro vite si separano per sempre. Le modalità dell’aggressione, la ferocia dispiegata fanno pensare al raptus di un maniaco sessuale, un guardone che stesse spiando i due fidanzatini. E infatti, nei giorni immediatamente successivi alla sanguinosa aggressione, le indagini della Tenenza dei Carabinieri a Desio si erano orientate sull’ambiente dei voyeur e di quanti avevano commesso reati a sfondo sessuale. Un giovane monzese, già denunziato per un’aggressione analoga,

viene fermato per un giorno intero e sottoposto a un serrato interrogatorio ma il suo alibi risulta veritiero. Si brancola nel buio fino alla fine di gennaio dell’anno dopo. Quando è lo stesso Angelo a recarsi dai Carabinieri, confidando i suoi sospetti. Ad aggredirlo è stato uno che abita nella sua stessa via a Desio, Italo Benito Giarrusso appunto. Le ricostruzioni, secondo i giornali dell’epoca, sono diverse. Una spiega che Angelo lo ha riconosciuto incrociandolo in una trattoria, guardandolo negli occhi. L’altro, apparentemente confuso, incrociando il suo sguardo, lascia cadere la posata con cui sta mangiando e se ne va. Un’altra fonte invece dice che l’aggredito sarebbe trasalito sentendo parlare Italo Benito Giarrusso: è lui, l’uomo che, in una sera quasi quattro mesi prima, gli aveva distrutto la vita. Sta di fatto che i militi si precipitano a fermare il Giarrusso. Quando lo


fermano, dice alla mamma Teresa, di non aver fatto nulla. È un giovane problematico: disoccupato e seriamente malato di tubercolosi, fatto che lo spingerebbe a bere frequentemente. Una vita non facile la sua. Intanto la madre gli è matrigna: la sua è morta nel ’36, quando lui aveva due anni. Quando ne aveva 11, aveva visto i partigiani venire a casa sua a prendersi il padre. Era stato il 4 maggio 1945, la guerra è finita da qualche giorno ed è scattata l’ora della vendetta. Giovanni Giarrusso, maresciallo della Brigata nera, viene fucilato. «Dirigeva la banda musicale», scrive Gino Mazzoli sulla Stampa del 1 febbraio 1963, «sembra che non abbia mai partecipato ad azioni di rastrellamento o torture di partigiani. Ma questo fatto non gli salvò la vita. Fu fucilato su un prato alla periferia di Desio». E sempre in un campo fuori città, quello in cui viene uccisa Ornella e ferito Angelo, si compie il destino di Italo Benito Giarrusso: per gli inquirenti è subito colpevole, per i giornali è immediatamente il mostro. C’entra il suo vissuto - la malattia, la familiarità repubblichina vista come marchio di infamia a pochi anni dalla guerra - il suo volto bovino, sgraziato, con due occhiali da sole che ne celano lo sguardo assente, appoggiate su due orecchie troppo grandi. Italo Benito Giarrusso è un mostro perfetto. E non può che confessare: al giudice istruttore, a Monza, ai carabinieri di Desio. Dice di aver agito in preda a un raptus: «Erano felici, non ci vidi più e li accoltellai», titola a tutta pagina La Notte del 31 gennaio, che invia a Desio, uno specialista di nera, Massimo Cianetti che sbatte il mostro in prima pagina e lo distrugge così: «Un maniaco sessuale, minato dalla tubercolosi e più volte ricoverato in case di cura per gravi scompensi psichici». Anzi, si spinge a ipotizzare che il mostro di Desio «risulterà probabilmente responsabile di altre aggressioni a coppiette avvenute nella zona». Ma già la descrizione che il giornalista, così convintamente colpevolista, offre ai lettori è sconcertante: «È un giovane alto, magro, con i capelli biondicci e risponde perfettamente alla descrizione dell’assassino fatta a suo tempo da Angelo G.». Ma nella foto di prima pagina, in cui si vede l’arrestato uscire dalla Procura di Monza, Italo Benito Giarrusso appare tutt’altro che magro e con i capelli scuri. E solo una delle tante incongruenze che accompagnano il caso (vedi box), che l’avvocato desiano Sergio Carpinelli, difensore, comincerà, di lì a poco a mettere in fila. Già due anni dopo, al tempo del processo in Corte d’Assise, qualche quotidiano comincia a parlare di «presunto colpevole». Ma ormai il mostro è mostro. Malgrado, ritratti la confessione e poi, lungamente, si protesti innocente. Nel processo di primo grado gli daranno 14 anni, riconoscendone la seminfermità mentale. In appello gli ridurranno la pena di due anni. Non sconterà tutto perché il 25 settembre del 1968, a sei anni esatti da quella orribile notte di Desio, morirà nel carcere marchigiano di Fossombrone. «Il bruto omicida di Milano, morto in cella per collasso», scriverà la Stampa di Torino dell’indomani

13 Genn.Febb. Marzo 2011

C

Di chi si parla

La lotta della sciura Teresa

Uno dei tanti articoli con cui i giornali nazionali seguirono il processo del mostro di Desio

Processi 1965 e 1966, in Corte d’assise

LA CONFESSIONE PIÙ CHE LE PROVE Malgrado la strenua difesa dell’avvocato Sergio Carpinelli, i due giudizi si risolvono in condanne a 14 e poi a 12 anni. Periti divisi

D

ue processi, due condanne. Italo Benito Giarrusso non riuscirà mai a staccarsi dall’appellativo infamante di «mostro di Desio», affi bbiatogli nelle prime ore del suo arresto, il 31 gennaio del 1963. Nel processo davanti alla seconda sezione della Corte di Assise, a Milano, nel marzo del 1965, presieduta dal giudice Curatolo, la difesa del disoccupato desiano proverà a smontare la tesi accusatoria del pubblico ministero Gresti. A patrocinare il presunto omicida è un avvocato della sua città, Sergio Carpinelli. Il legale l’aveva patrocinato nei giorni successivi l’incriminazione e proprio a Carpinelli, Giarrusso aveva offerto la sua prima ritrattazione. Ne dava notizia il 9 febbraio il Corriere della Sera: «Ritratta l’uomo che confessò di aver ucciso la Bancora». Secondo il quotidiano, l’accusato «si sarebbe deciso a confessarsi colpevole unicamente per sottrarsi allo stretto interrogatorio cui i carabinieri lo sottoponevano da 36 ore e forse anche con il morboso proposito di vedersi indicato come protagonista di un fatto di sangue che per la sua gravità aveva destato notevole impressione in tutta la zona». Nel dibattimento Carpinelli, dopo aver chiesto la seminfermità mentale per il suo assistito (convinto che sia assunto inizialmente la paternità dell’omicidio in preda alla mitomania), punta sulle incongruenze della linea accusatoria, a cominciare dal riconoscimento del Giarrusso, a opera del sopravvissuto. Uno dei testi ascoltati, il primo ad accorrere, parla di «luogo buio e coperto da una leggera nebbiolina». Malgrado ciò Angelo G. vede o crede di vedere un uomo «biondiccio, magro, alto 1,65», tre dati che non rispondono in niente all’aspetto del presunoto omicida che ha i capelli neri, «corvini» dice qualcuno, è piuttosto in carne e sfiora il metro e ottanta di altezza. Lo scampato lo riconosce in una pizzeria di Desio, mentre mangia una pizza. Angelo, che è col fratello, ha un fremito, gli pare di ricordare quel volto. Chiede di farlo parlare con un escamotage e appena sente le sue parole, gli pare di riconoscere la voce dell’assassino che s’allontanava, mandando al diavolo. E lui, si dice e dice al fratello. Ma aspetta due giorni prima di andare in caserma, «convinto che si sarebbe tradito da solo». Altro fatto sconcertante, i due sono vicini di casa, da tempo, ma il fidanzato ferito dice di averlo visto per la prima volta in quel locale di Desio, la sera del riconoscimento. In aula vengono sentiti anche i carabinieri

autori delle prime indagini, quellli che raccolsero la confessione del Giarrusso. Sono il maresciallo Antonino Mura, brigadiere Francesco Can, che accompagnarono il reoconfesso sul luogo del delitto per una ricostruzione di cui però Carpinelli fa notare la mancanza della verbalizzazione. «Sarà stato smarrito», dicono i sottufficiali e il presidente ammonisce il loro superiore, il tenente Salvatore Gangitano, quando per giustificarsi dell’assenza del verbale, ricorda che il presunto omicida aveva fornito alibi falsi. È la verità. Giarrusso aveva raccontato d’essere stato al cinema, al Centrale di Desio, vedendo I pirati, «un fim a colori». Versione ripetuta anche in aula e confutata dallo stesso presidente: «Non è vero, Giarrusso. Al Centrale davano Anni ruggenti, ed era in bianco e nero», gli contesta Curatolo. In aula, il Mostro accusa apertamente l’Arma di avergli estorto la confessione. «Avevo paura, mi avevano detto che arrestavano tutta la mia famiglia», dice secondo quanto riporta il cronista de L’Unità del 23 marzo 1965. Giarrusso continua: «E poi giù, pum, calci, sberle mi han fatto saltare un dente, vuol vederlo?». E l’accusa vacilla anche quando viene chiamato a deporre il direttore dell’Upim di Porta Volta, a Milano, dove secondo la prima confessione resa, il Giarrusso dichiarò di aver acquistato il coltellino a due lame con cui avrebbe poi aggredito la coppietta. Gianfranco Sacchi, direttore di quel grande magazzino, nega decisamente che da loro siano in vendita «coltelli bitaglienti». Ovviamente, anche pubblico ministero e parte civile portano testimoni e prove: Giarrusso è un maniaco sessuale, sosterranno citando un episodio della sua gioventù e cercheranno di far dire lo stesso alla matrigna (vedi box a fianco), sottolineando come il figliastro dormisse con un coltello sotto il cuscino. Divisi anche i periti incaricati di valutarne la salute mentale: per un paio di psichiatri Giarrusso è chiaramente folle, tanto da richiedere un’ulteriore perizia al manicomio criminale di Reggio Emilia. L’accanita difesa dell’avvocato Carpinelli sarà vana: Giarrusso si prende 14, riconsciuto seminfermo di mente. La condanna verrà confermata in Appello, il 20 gennaio 1966, seppure con uno sconto di pena di due anni. Una sentenza che non convince. «In ogni caso prove concrete che il Giarrusso sia effettivamente il cosiddetto “mostro di Desio” non ve ne sono», spiega l’Avanti del 21 gennaio

Teresa Mongiardini gli voleva bene come un figlio, anche se Italo Benito l’aveva partorito un’altra, la prima moglie di suo marito Giovanni Giarrusso, quando lui, l’ultimo di cinque figli, aveva solo due anni. E forse, per averlo tirato su lei, non aveva mai esitato a sentirlo suo. Anche quanto Italo, intorno ai vent’anni, cominciò a svagolare, mostrano i segni della malattia mentale che la costringeranno a ricoverarlo in neurologia. Dovette fare tutto lei perché Giovanni non c’era più: la guerra se l’era portato via, quella guerra feroce fra italiani, che s’era combattuta in Brianza. Giovanni era un maresciallo delle «Resega» che in zona ne aveva combinate troppe, ma quando i partigiani vennero a prenderlo, a casa, a guerra finita da almeno una decina di giorni, lei aveva urlato che lui era solo il direttore della banda musicale, che non aveva mai ammazzato nessuno. Non bastò: lo fucilarono. Con questa storia e con questa sofferenze, la sciura Teresa vide arrivare i Cc a casa sua, in una fredda sera di gennaio. Si presero l’Italo Benito, sussurrandole che aveva fatto una cosa orribile, mesi prima, nella strada che da Desio andava a Nova. Se la ricordava quella sera di settembre, l’allarme l’avevano dato proprio dall’Aurora, dove lei faceva la cuoca: urlavano, piangevano, parlavano di coltellate. E ora incolpavano quel suo ragazzo difficile. Che prima di andarsene le giura, sulla tomba del padre morto di non entrarci. E poi i Carabinieri e il giudice istruttore a Monza, che le facevano domande per sapere se lui l’avesse mai insidiata, fino a costringerla a dormire nel ballatoio, se fosse un esibizionista. E lei che aveva ammesso, convinta di farlo ricoverare anziché finire in carcere. E anche il fatto del coltello sotto il cuscino non era un’abitudine ma era accaduto una notte soltanto, perché suo figlio non stava bene. Niente, non le credettero e le sentenze furono pesanti. Ma la sciura Teresa non s’arrendeva: era stata già dall’avvocato Carpinelli per giocare l’ultima carta, vale a dire la domanda di grazia al presidente della Repubblica. Era convinta che gliela avrebbero concessa, a quel suo figlio malato, da sei anni dentro e condannato con quelle prove così confuse. Ma un giorno di settembre del 1968, i Carabinieri tornarono. «Signora Mongiardini», le dissero, «suo figlio è morto».


14 Genn. Febb. Marzo 2011

Qui e sotto, nelle foto di Pietro Vismara, i reparti Snia in cui si produceva il fiocco

Cronache La Snia-Viscosa chiude gli ultimi reparti

LA SIRENA NON SUONA PIÙ

VAREDO 1982

Il 9 febbraio 1982, il grande produttore di fibre artificiali, dopo aver promesso il rilancio, cessa le ultime produzioni. Siamo tornati ai cancelli con gli ex-operai di quell’epoca di Claudio Calvi

F

ar rivivere la Snia nelle parole dei testimoni dà la sensazione di un grigio che si rianima, tornando colore. Siamo davanti all’ex viale di ingresso della fabbrica con un capannello di ex dipendenti, tra di loro Fausto. «La prima volta ho varcato questo cancello nel 1963», racconta, «con la neve ben spalata ai lati. Questo viale ha visto intere generazioni, varedesi e non. La Snia era un organismo che ad ogni fine turno si rianimava. Le risate, gli scherzi, la stanchezza, l’entusiasmo, c’era di tutto». «Già», gli fa eco Carlo, «fino a un certo punto lavorare in Snia è stato motivo d’orgoglio. Ti sentivi all’avanguardia». Oggi ci vuole fantasia per immaginare vita dentro questa scena da spaghetti western, mancano solo i cespugli che rotolano attraverso quello che adesso è un mondo desolato. «Certo, qui non c’è più nulla», Carlo scuote la testa, «e se pensi che sono bastati vent’anni per creare questa desolazione…». Giorgio è di fianco. Guarda l’ingresso e sorride, amaro. «Lì dentro ci ho passato una vita intera. Sono entrato in Snia che avevo quindici anni, ne sono uscito a 50, vedete voi cosa posso provare davanti a questo abbandono. Ho fatto ancora in tempo a vedere una industria in espansione che ricordava

con orgoglio che qui, primi in Europa, negli anni trenta si erano prodotti i filati elastici. Allora c’era entusiasmo, ogni nuova lavorazione la sentivi una conquista tua. I macchinari nuovi li raccontavi a cena, come fossero parte di vita della famiglia. Poi lentamente è cambiato, non sappiamo neanche noi come». Già, le cose cambiano… Luigia, impegnata ad inseguire un nipotino, ricorda una azienda d’aiuto alle famiglie. «C’era il Cral che organizzava viaggi e soggiorni di gruppo. La Snia offriva una mutua interna, le colonie estive a Chiavari e al Mottarone e l’asilo nido interno era d’aiuto ai genitori e faceva crescere i figli. La Snia era sempre vicina alle famiglie dei dipendenti. Mi ricordo che la Befana dell’azienda intratteneva i bambini e poi dava un dono a tutti. È un po’ diverso da come si lavora adesso». Già, è diverso, penso, e dico.

Giancarlo, ex delegato. «Per un lungo periodo i dirigenti ci hanno tenuto che gli operai si sentissero parte fondamentale dell’azienda», ricorda. «Ogni anno venivano organizzate visite agli impianti per i figli dei dipendenti che così vedevano cosa facevano mamme e papa nelle ore in cui mancavano da casa». Giancarlo è stato anche presidente del Cral: « Lo diventati nel 1980. Allora si era passati da una gestione volontaria ad una collegiale che prevedeva la partecipazione dei quadri aziendali e del consiglio di fabbrica. Il peso dei numeri permetteva di tutto. Si organizzavano gite culturali, eventi sportivi, offerte a costi ribassati». Si interrompe. È stato lavoratore Snia di seconda generazione, gli tornano i racconti del padre, Umberto. «Fin dagli anni venti la Snia aveva migliorato il livello della vita varedese. Lo spaccio aziendale rappresentò la possibilità di prezzi bassi e la mensa una

bocca in meno da sfamare. Per non parlare degli alloggi che l’azienda assegnò ai lavoratori». Quando si parla degli anni ’30, automaticamente lo sguardo punta i capannnoni più antichi, monumenti di archeologia industriale. «Durante la guerra all’interno della fabbrica c’era una cellula partigiana. Un giorno i tedeschi presero gli operai che uscivano e li misero al muro. Li tennero lì per ore, finchè il podestà e i dirigenti non si persuasero a rilasciarli. Le strade di Varedo in quei giorni erano vuote». La guerra e l’immediato dopoguerra, con Mario che ricorda un periodo da «recuperanti», i veneti che giravano per i monti della grande guerra per raccogliere ferro, venderlo e farne cibo. «Vicino al Seveso c’era tanto piombo. Era quello dei contenitori degli acidi, che quando si rovinavano venivano buttati. Nei decenni le rive erano divenute una miniera. Il piombo lo pagavano bene». Piombo, paradigma di una Snia non del tutto salubre. «Molta gente ci è morta per quello che facevano qui. Si è incominciato a chiedere sicurezza, ma poi… ». Poi, silenzio, come quello di oggi. «Ho capito davvero che la Snia era morta», dice Rosella, «quando, per la prima volta, non ho più sentito le sirene dei turni. Tutta la vita del paese era scandita da quei suoni. La principale era quella delle 8, le altre intorno alle 17 ». Già, poi, c’è stato il silenzio. Sulla Snia e un po’ su Varedo. Un silenzio che in fondo, purtroppo, dura ancora. Ma chissà che domani...


15 Genn. Febb. Marzo 2011

P

Progetti sull’area

Sviluppo ma sostenibile Sindacato 1970, lo scontro con la proprietà

CI BATTEVAMO PER LA SALUTE E LA SNIA SCELSE LA SERRATA Giancarlo Boffi, in azienda dal ’59, membro del consiglio di fabbrica, ricorda le lotte per le condizioni di lavoro

L

a chiusura della Snia di Varedo è la storia di un trentennio di lotte e di un progressivo ridimensionamento, come ricorda Giancarlo Boffi, già dipendente della Borsani (azienda varedese che diventerà Tecno) e dal ’59 della Snia. Sindacalista all’interno del consiglio di fabbrica dal 1970, è stato anche Presidente del Cral. L’atto finale della Snia Varedo è datato 2004…. Ero già da un decennio fuori dall’azienda ma ricordo bene il disorientamento che prese Varedo alla fine di quell’agosto. Gli ultimi lavoratori dell’ex Snia, divenuta Nylstar, dopo le vacanze estive si ritrovarono a confrontarsi con la realtà di una richiesta della cassa a zero ore da parte dell’azienda. In pratica fu sancita la sospensione di ogni produzione. Quali furono le cause che vennero addotte? Già allora la crisi mondiale fu indicata come ragione della scelta. In realtà erano i costi di produzione che non potevano competere con quelli decisamente inferiori di alcuni paesi europei e asiatici. Cosa era la Snia nel 2004? Era un pachiderma architettonico di cui ormai Varedo non percepiva granchè la presenza. Sicuramente però non era inutile per le decine di lavoratori che in quegli anni ancora «rappresentavano» la fabbrica. Seppur c’era la percezione che la Snia fosse in dissoluzione, fu duro confrontarsi con la fine di una sicurezza economica e il taglio netto delle professionalità acquisite e dei rapporti con i colleghi. Giancarlo, da ex sindacalista si ricorderà bene degli anni ’70 … Al centro delle lotte iniziali fu la richiesta di un mutamento dal punto di vista della sicurezza. Non era più accettabile che gli operai lavorassero rischiando così tanto per la propia vita. Alcune produzioni erano troppo dannose per la salute. Ricordo reparti in cui l’aria era irrespirabile ma fino ad allora la certezza del posto di lavoro aveva impedito ogni tipo di domanda. Ci si fidava, tutto lì, poi però con la crescita di una coscienza sindacale non si potè più accettare che fosse normale ammalarsi o morire

I caponnoni della Snia a Varedo nello stato di abbandono attuale

per far guadagnare di più l’azienda. Subito la Snia rispose alle richieste con delle chiusure di reparti. Già, e analizzate ora, erano già segnale di quello che sarebbe accaduto. È da aggiungere comunque che il progresso tecnologico aveva portato all’automazione di alcune lavorazioni, il che ridusse ulteriormente il numero dei lavoratori. Le esternalizzazioni e la fine della ricerca sospesero il ricambio non consentendo l’ingresso di una nuova generazione in Snia. Dunque, quell’azienda che in altra parte del giornale mostriamo modello per quel che riguarda gli interventi verso le famiglie dei lavoratori, scelse lo scontro frontale. È così. La gestione illuminata della fabbrica che era partita dagli anni ’30, progressivamente si estinse tanto che nel maggio del 1970 l’azienda preferì lo scontro frontale con i lavoratori pur di reprimerne le rivendicazioni. La causa scatenante fu la richiesta del premio di produzione. La situazione precipitò e gli scioperi si tramutarono nella serrata del maggio 1970. In fondo, i rappresentanti dei lavoratori chiedevano solo il riconoscimento dei propri sforzi su eventuali ricavi dell’azienda. A quegli scioperi però la Snia rispose con 4mila sospensioni dal lavoro. Quattromila famiglie si trovarono improvvisamente senza una mensilità e fu pesante, per Varedo e paesi limitrofi, confrontarsi con quella situazione. Come finì? Se ne uscì con un accordo al ribasso, l’azienda accettò di corrispondere un premio economico inferiore a quanto richiesto, i lavoratori accettavano l’accordo come un riconoscimento del proprio ruolo nelle fortune della Snia. Ma quei giorni furono uno spartiacque. Da quel momento ci fu un continuo modificarsi della natura della fabbrica. Sempre meno commesse, sempre meno lavoratori nei reparti e, di conseguenza, sempre meno persone a fine turno per le strade del paese fino all’agosto 2004, quando la vita nei reparti Snia divenne definitivamente memoria e la fabbrica un’ area dismessa

«Quella di ricostruire una memoria della Snia di Varedo è la nostra prima intenzione», dice Claudio Calvi, presidente di Varedofutura, associazione nata da poco ma già al lavoro sulla memoria della comunità. Da intervistatore (nei servizi a fianco), diventa lui l’intervistato. Snia memoria di Varedo? Di più. È la Snia che ha creato la società varedese come oggi la conosciamo e oggi la sua area può garantire una rinascita e una crescita nella nostra comunità. Ma per questo va fatta attenzione. Non è tutto uguale e anche se oggi ogni valore pare mischiato e una parola può sembrare simile ad un altra, non è così. Una cosa è lo sviluppo, un’altra è sfruttamento. C’è un cambiamento che può far crescere ma anche uno che può uccidere. Varedo fino a oggi è rimasta una identità sia come territorio che come visione. Il rischio è che il ribaltamento architettonico di un’area grande quanto il suo doppio possa annientare questa prerogativa. Come garantirsi? Mantenendo una identità. È nel mantenimento di questo valore, parola abusata ma sempre fondamentale, la discriminante tra un futuro auspicabile e un altro che non può essere accettato. Varedo è oggi davanti a una scelta istituzionale.. Il problema del rapporto dei cittadini con la politica, oggi, non è più quello di tifare per una parte. E neanche di ritenere a priori, una parte eticamente più «titolata» dell’altra. Di fronte a una campagna elettorale i cittadini dovrebbero, soprattutto chiedere. Vale a dire? Candidati, quale concezione di Varedo avete? Per difendere la nostra identità di territorio, quali e quanti «no» siete disposti a dire? E soprattutto, quale è il vostro progetto sull’area Snia e sulle ville? Avrete la forza e l’autonomia per far rispettare, anche di fronte agli affari, la memoria e le prospettive della nostra comunità? Sono queste le domande fondamentali, perché nel cuore delle risposte a esse, all’interno della rinascita delle ville, al centro del ripensamento dell’area Snia, stanno tutte le possibilità di futuro della nostra comunità. Un futuro che comunque deve partire innanzitutto dalla consapevolezza di ciò che è stato il nostro passato. Perchè, come scriveva Mario Rigoni Stern, «a fare l’identità sono innanzitutto i sentieri sotto la neve», cioè la direzione dalla quale siamo venuti. G.C.


16 Genn. Febb. Marzo 2011

Roberto Vecchioni fra i regazzi delle scuole medie di Cesano nelle foto di Pietro Vismara

Eventi Vecchioni in cattedra

CESANO 1973

CHIAMAMI ANCORA PROFESSORE Il trionfatore di Sanremo, docente di lungo corso nella scuola italiana, 28 anni fa aveva insegnato in città

C

hiamami ancora amore ha stregato tutti gli Italiani e gli ha fatto vincere l’ultimo Sanremo. Ma Roberto Vecchioni, classe 1943, al Festival c’era già stato, nel marzo del 1973, con un brano, L’uomo che si gioca il cielo a dadi, che ebbe poca fortuna. D’altra parte allora, sul palcoscenico dell’Ariston, trionfava il melodico doc e i cantautori, come testimonierà anche Lucio Dalla con la sua 4 marzo ’43, o qualche anno dopo Vasco Rossi, non erano capiti. Vecchioni era agli inizi della sua carriera, ci stava provando anche come autore per altri cantanti e aveva annusato un po’ di celebrità due anni prima quando, nell’album Parabola, aveva azzeccato la bellissima Luci a San Siro. Incerto se dedicarsi full time alla carriera musicale o se proseguire con l’insegnamento di latino e greco nella scuola, dove era entrato grazie alla laurea in Lettere presa alla Cattolica, Vecchioni proprio nell’anno di Sanremo stava in cattedra a Cesano. Le foto, bellissime, spuntano dall’archivio del fotoreporter cesanese Pietro Vismara, professionista di lungo corso che in quel periodo lavorava per La Notte, quotidiano della sera milanese dove, con tutta probabilità, quegli scatti finirono, proprio nei giorni sanremesi.

Foto gioiose, con una classe intera (e forse più di una) intorno al «prof» diventato celebre. Immagini che ci riconsegnano l’atmosfera della nostre scuole di quasi trent’anni fa, con le femmine ancora con i grembiuli neri mentre i maschi se ne erano liberati da un pezzo. Volti di ragazzini e ragazzine che, a 13 anni, paiono molto più grandi degli studenti di pari età oggi. Pettinature cotonate, camice con i collettoni, in generale una gioventù più semplice di quella attuale. In mezzo a loro, il professore sorrideva allegro, col capello lungo che i suoi 30 anni esatti gli permettevano. Che classe era quella? Chi erano gli studenti che si accalcarono intorno a Vecchioni in quel giorno festoso? In uno degli scatti, su una parte di lavagna non coperto dai ragazzi, si può scorgere un pezzo di numero romano che fa pensare a una terza. Chiunque si riconosca in questi scatti può contattare la redazione, telefonandoci (0362-285087) o inviandoci una mail (redazione. gdm@gmail.com). Pubblicheremo i ricordi di quella giornata. D’altra parte sono molteplici i legami del vincitore di Sanremo con la Brianza. Non bisogna infatti dimenticare che il cantautore nacque a Carate, dove i genitori, napoletani emigrati a Milano, erano sfollati per la guerra

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