Il Giornale della Memoria n.05-06/2010

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n.05/06

ARRIVEDERCI A SETTEMBRE

Giugno/Luglio 2010

Il Giornale della Memoria

euro 2,00 OMAGGIO

VA IN VACANZA BRIANZA

scrivete a redazione.gdm@gmail.com

Cronaca. 1950-1970, la grande immigrazione

GENTE VENETA

Arrivati a migliaia, spinti da povertà e alluvioni, dal Veneziano, dal Polesine, dal Trevigiano, costruendosi baracche o adattandosi alle case peggiori. Religiosi, intraprendenti e laboriosi, si sono integrati presto facendosi apprezzare

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ario faceva il turno alle Acciaierie Riva di Caronno e poi correva a lavorare nella pensione di Senago dove viveva. Mirella rimaneva anche 13 ore in fabbrica, per pagarsi la casa. Silvana, ad appena 12 anni, tirava un carretto di casalinghi: «È arrivata la cavagnina», urlava per le vie di Paina. E poi la storia di Elio, che racconta del suo arrivo a Lazzate, quando con i fratelli arrangiarono un fuocherello per scaldarsi. «Come gli indiani», dice oggi. O quella di Giulietta, che dei primi inverni brianzoli, ricorda il rigore dell’inverno, perché aveva «le scarpe di spago e non aveva il cappotto», ché in Veneto non era così freddo. Sono le storie, fiere ed esaltanti, dei Veneti di Brianza, che proponiamo con un documento eccezionale: le foto delle ultime baracche di Perticato, abitate dagli immigrati polesani fino alla metà degli anni 70.

In questo numero PAG.2 Il salumiere di Carate che era re del ring

Nel giugno 1955, Cesare Bagnoli, operaio della Vismara, era l’idolo del pugilto della Brianza PAG.3 1980, Cantù in subbuglio: la vogliono sotto Monza

Allarme per l’elezione in Regione del dc Sergio Cazzaniga, ispiratore della provincia di Brianza PAG.3 1970: il rodeo di auto si trasforma in mega rissa

A Monza arrivano in 30mila per seguire le acrobazione ma i posti sono molti meno. Invasione di pista e cariche

servizi a pag.6/10

1979

Spareggio per la A

1957 Montagna assassina

MONZA, GRANDE ILLUSIONE PER 3500 TIFOSI BIANCOROSSI

QUANDO LA SEGANTINI FECE PIANGERE GIUSSANO

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na domenica di giugno e quattro amici che decidono di andare ad arrampiare in Grignetta. Hanno tutti intorno a venti anni, tre sono di Giussano, la quarta è una giovane di Inverigo. Quando sono ormai vicini alla cima,

a squadra del bomber Silva era arrivata quasi al traguardo di un campionato cadetto trionfale. Rimaneva l’ultimo scoglio: lo spareggio col Pescara, squadra temibile ma alla portata del Monza. Il primo luglio di 31 anni fa, dalla città

della Villa Reale partì un piccolo esodlo: migliaia e migliaia di tifosi si misero in viaggio per Bologna, sede dello spareggio. Alla fine si mossero 3.500 persone. Non bastò: al D’Allara i biancorossi, irriconoscibili, persero con un netto 2-0. a pag.17

PAG. 4 Ore 9,30, il marescialo deve morire

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Nel luglio del 1982, a Lissone, il comandante dei Carabinieri si trova in mezzo a una rapina di terroristi.

guidati da Angelo Turati, socio Cai del suo paese e il più esperto del gruppo, precipitano rovinosamente: qualcuno alle spalle del capocordata ha perso l’appiglio, trascinando il gruppo nel baratro. Si salverà solo Angelo. a pag.19

MEDA 1976, IL VELENO TINTO DI ROSA Una nube rosa. Le prime testimonianze di quello che accadde alle 12,40 del 10 luglio 1976, parlano di una nuvole dal colore tenue. Rosa appunto. Quando il reattore dell’Icmesa di Meda cedette per il grande calore accumulato all’interno e con un fischio potente del fumo compresso fu sparato nel cielo di Brianza, a tutto si poteva pensare me-

no che alle giornate drammatiche che si sarebbero prodotte di lì a poco. Dopo una settimana di verifiche, accertamenti, mezze ammissioni, analisi e controanalisi e mentre le gente accusava i primi disturbi da intossicazione, fu chiaro che dietro quel colore gentile, nell’aria s’era sprigionato un veleno mortale: la diossina.

La stessa che, pochi anni prima, veniva usata dall’aviazione americana per defogliare la jungla vietnamita e cacciare i vietcong. E fu un doppio veleno: perché per mesi, forse per anni, quell’incidente inquinò i rapporti, seminò divisioni e contrapposizioni fortissime. La gente soffrì per la paura della malattia e della mor-

te, per sé ma soprattutto per i figli; per le case lasciate e abbattute, per le attività economiche sospese, a volte per sempre. Soffrirono le donne che, temendo di partorire figli deformi (anche per la forte propaganda abortista), chiesero e ottennerole interruzioni di gravidanza. servizi a pag.11/14

PAG.14 Quando la Brianza impazziva per i Mondiali

Nel 1970 e nel 1982, con i campionati di Messico e Spagna, le città brianzole conoscono feste monstre PAG.20 Il mare al Villoresi. Il Canale diventa spiaggia

Nella Brianza povera del dopoguerra, in migliaia usano il corso d’acqua come una piscina. Talvolta fatalmente PAG.22 Lo Statuto dei lavoratori? All’Autobianchi fu così

A 40 anni dalla legge 300, la testimonianza di come la novità fu vissuta nella grande fabbrica di Desio oggi sparita


Il personaggio Stella pugilistica

2 Giugno/Luglio 2010

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Editoriale

Istantanee dal passato È un numero di cui andiamo fieri quello che avete in mano, cari lettori. Non per le cose che siamo riusciti a recuperare negli archivi ma per l’eccezionale materiale fotografico che siamo in grado di offrirvi. Parliamo del commovente biancoenero con cui Attilio Mina, scrittore e fotografo brianzolo, colse, a metà degli anni 70, la realtà delle baracche venete a Perticato. Sulla scorta di questo stupendo materiale, siamo andati alla ricerca delle storie di alcuni dei tanti Veneti arrivati in Brianza, negli anni 50 e 60. Ci siamo imbattuti in vicende personali toccanti, fatte di coraggio, sacrificio, dedizione alla famiglia, lealtà. Un campione casuale della fierezza veneta che ha fertilizzato la terra di Brianza. Altre bellissime immagini scandiscono i servizi di queto numero. Sono quelle di Pietro Vismara, fotografo che dai primi anni 60 racconta la cronaca brianzola e non solo nei maggior quotidiani italiani. I suoi bellissimi scatti documentano, 34 anni dopo, il dramma di Seveso e illustrano le mobilitazioni sindacali in una fabbrica che non c’è più: l’Autobianchi di Desio, raccontando il quarantennale dello Statuto dei lavoratori. L’immagini sono uno strumento eccezionale per raccontare la realtà: l’obiettivo coglie dettagli, sfumature che la parola scritta difficilmente riesce a fermare. GdM

L’OPERAIO DEI SALAMI È RE SUL RING Caratese di nascita, si allena a Seregno, lavora a Casatenovo. Bagnoli incanta

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a Brianza tirava di boxe. Negli anni 50, i Brianzoli impazzivano letteralmente per la nobile arte. Palestre storiche erano vive e affollatissima come l’Accademia pugilistica seregnese mentre a Carate, gli Amici del pugilato caratese organizzavano serate boxistiche all’Oratorio maschile, con grande partecipazione, come quella di cui dà notizia il Cittadino del 4 giugno 1955. Attrazione di quella serata Cesare Bagnoli, classe 1930, caratese, peso mediomassimo, idolo del pugilato locale. O meglio, per il fatto che il Cesarone, come lo chiamavano tutti, incrociasse i guantoni nella palestra di Seregno del patron cavalier Nino Malerba, era anche l’idolo di Seregno. Non basta. Come scrive il giornale di cinquantacinque anni fa, essendo un operaio della Vismara di Casatenovo (bei tempi, si dirà, quando gli atleti avevano anche un lavoro normale), il boxer brianzolo era pure stra-amato dai casatesi, che lo consideravano un loro figlio adottivo. Insieme alla montagna e al ciclismo, in quegli anni, lo sport del ring catturava la passione di migliaia di persone. A destarla erano stati, negli anni precedenti, alcune glorie locali, che rispondevano al nome di Formenti, Mezzadri, Ballabio e Fermieri, tutti seregnesi, e il caratese Mottadelli, campione lombardo 1954. Bagnoli, alla metà degli anni 50, è senza dubbio «il» pugile della Brianza. Ha dalla sua un ruolino di marcia trionfale: su 60 match da dilettante, ha riportato 11 vittorie per

aver messo fuori combattimento l’avversario, «di cui una all’estero», scrive orgogliosamente Amilcare Crippa, l’autore dell’articolo. Poi ci sono 42 vittorie ai punti («quattro all’esero») e otto pari. Solo sei volte, il Cesarone era stato sconfitto, il che faceva un incontro ogni dieci. Le pagine più belle, Bagnoli le aveva scritte a Costanza, in Germania, il 14 novembre di due anni prima, quando aveva messso k.o. il tedesco Bajer, bissando il 15 a Siegen «vittoria ai punti con Wick». Professionista dal 1954, il caratesecasatese aveva incrociato i guantoni con i migliori pugili nazionali. Il 31 marzo di quell’anno, anche con il torinese Giorgis «mettendo in luce tutte le sue qualità positive ma anche qualche difetto: il malvezzo, ad esempio, di far partire il destro

Il numero

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è il numero dei posti della Villa di Maria Ausiliatrice, exVilla Caprotti, a Triuggio, che le suore salesiane hanno destinato agli esercizi spirituali famminili. Ne parla il Cittadino del 28 agosto 1948, sotto il titolo «Triuggio, oasi di pace», scrivendo «di signorine composte e allegre». Con la vicina Villa S.Cuore fa del comune il centro di spiritualità della Brianza.

Mediomassimo dal pugno pesante, Cesare Bagnoli si esibiva anche negli oratori

senza armonizzare la traiettoria col gioco di gambe, perdendo così efficacia ed esponendosi a pericoli non trascurabili». Secondo il giornalista del Cittadino, Bagnoli sa «meglio difendersi che non aggredire». Ma boxando, boxando, l’operaio della Vismara aveva cominciato anche ad attaccare. Proprio in quel

1955, al Principe di Milano, tempio pugilistico meneghino, il 23 marzo, aveva messo fuori combattimento il francese Leperd, «già nel primo tempo, con due poderose sventole». Il che fa prevedere al Crippa «una carriera sicuramente splendida, se da parte dell’interessato ci sarà sempre tenacia e volontà di intento».

La truffa 1943 Angela, ladra di biciclette

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’Italia era in mezzo al bailamme e forse lei, l’Angela, pensava che nessuno avrebbe dato troppo peso alla sua furbata. E invece la giustizia, inesorabile, fece il suo corso, anche mentre il Paese andava in disfacimento. Il Corriere della Sera del 9 settembre 1943, riporta infatti la singolare vicenda di un’operaia tessile monzese, Angela R., di 21 anni, denunciata per truffa. La giovane aveva ottenuto da due conoscenti, Baldassarre Ravasi e Fiorina Riboldi, entrambi di Cinisello, altrettante bici. A entrambi, la monzese aveva raccontato di avere assoluta necessità del velocipede.Una sola giornata, aveva detto, e poi l’avrebbe riconsegnato. Ma Angela aveva rivenduta prima l’una e poi l’altra bicicletta a due sorelle, ignare delle loro provenienza illecita. Il giornale racconta che la polizia aveva fermato la ragazza, ottenuta rapidamente la confessione e recuperato i mezzi. La truffatrice era stata denunciata a piede libero. Mentre i legittimi proprietari recuperavano i mezzi, le acquirenti non riuscivano a riavere indietro le 1.400 lire pagate, l’Angela ormai non le aveva più.

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Politica 1980, polemiche sui futuri assetti territoriali

ALLARMI, VOGLIONO CANTÙ SOTTO MONZA L’elezione al consiglio regionale del dc Cazzaniga scatena le polemiche: è l’ideologo della Provincia della Brianza

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emico pubblico numero uno di Cantù: Sergio Cazzaniga. Nel giugno del 1980, nei palazzi della politica cittadina, nelle aziende che contano, nei ritrovi soliti della vita canturina, questo nome viene associato a una jattura: il possibile passaggio della città del mobile alla futura provincia di Monza. Ma perché questo signore, dal nome potentemente brianzolo, spaventa tanto la gente di Cantù? Di quali poteri dispone? Quali prerogative può esercitare? Sulla cronaca canturina della Provincia di Como, sabato 14 giugno, Emilio Magni chiarisce tutto: Cazzaniga, da Cesano, già presidente del Consorzio trasporti per l’Altomilanese è un neoconsigliere regionale democristiano fresco di elezione al Pirellone. Scrive il quotidiano comasco che «è riuscito nel suo intento, quello di essere eletto consigliere», ed ha avuto «24mila 502 preferenze». E il titolo, in un articolo di taglio centrale, non usa perifrasi: «In regione l’uomo che vorrebbe Cantù nella Provincia di Monza». Il sommario è sibillino: «La campagna elettorale portata avanti facendo della Brianza provincia un vero e proprio cavallo di battaglia. Quali danni se il grande progetto fosse veramente approvato?». È il giornalista stesso a prevenire il lettore: «Perché stiamo dando tanta importanza a questa notizia che in apparenza non dovrebbe nemmeno riguardare il Canturino né la nostra provincia?», chiede retoricamente. La risposta è netta: «Perché Sergio Cazzaniga è uno dei politici che vorrebbe la provincia della Brianza e in questa nuova provincia fosse incluso il Canturino». Nel caso i

3 Giugno/Luglio 2010

C Colo phone il Giornale della Memoria mensile di divulgazione storica www.giornaledellamemoria.it Registrazione presso il Tribunale di Monza. n. 1975 del 15/02/2010 Direttore responsabile: Giampaolo Cerri Redazione Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 redazione.gdm@gmail.com

lettori non avessero afferrato il concetto, Magni esplicita: «In altre parole Sergio Cazzaniga è l’uomo che desidererebbe vedere Cantù finire in quella che è già stata prospettata come la provincia di Monza». Il peggio, spiega il giornale, è che a favore dell’idea c’è uno dei politici più in vista della Brianza, Vittorino Colombo, oltre ai sindaci di Besana, Giuseppe Giovenzana, e di Seveso, Francesco Rocca . «La Brianza», chiarisce, «lo abbiamo detto mille volte, non è una realtà amministrativa, è semplicemente un’impressine, un’idea, un simbolo molto ben radicati nella popolazione ma che correrebbero il rischio di scomparire nel caso a questi sentimenti si cercasse di dare una conformazione giuridica». Magni parla «di un progetto che fa acqua da tutte le parti», senza entrare troppo nel dettaglio, limitandosi a osservare come sia eccessivamente ricalcato da soluzioni relative ai trasporti dell’area, «ma una provincia deve tenere conto delle altre mille esigenze, degli altri mille problemi da risolvere e soprattutto di numerosissime realtà cui non si può passare sopra». Infatti l’implicito che pervade tutto l’articolo e un altro, dello stesso tenore, comparso il 30 maggio - «Cantù rischia di finire nella provincia di Monza» - è che il disegno è cam-

panilista, che quelli della «Brianza milanese» certamente avrebbero da sottomettere, soggiogare i brianzoli canturini. La storia politica recente non ha dato modo di verificare gli scenari e la congiura: le province di Lecco e Monza sono arrivate oltre

vent’anni dopo, e Cantù è rimasta saldamente lariana, in un’altra repubblica, dove i democristiani della Brianza milanese, che accarezzavano la grandeur della grande provincia, e quelli del Canturino che «tifavano» Como, non ci sono più.

La pubblicità

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga, Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani, Walter Giussani, Annagrazia Internò, Gigi Molteni, Erminia Moretto (ricerche d’archivio), Daniele Villa Si ringrazia per l’amichevole collaborazione: Pietro Vismara, fotografo Progetto grafico e impaginazione: box313 (www.box313.net) Editore: Associazione Culturale Storia e Territorio Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 email: assostoria@gmail.com Stampa A.G. BELLAVITE Via I maggio, 41 23873 Missaglia (Lc) Stampato su carta ecologica EFC, con inchiostri a base vegetale.

TALCO IN LIQUIDAZIONE «Un grave errore», titola il Cittadino del 21 luglio 1948. Ma quello che sembra un articolo e, come si usava allora, un richiamo pubblicitario dell’industria monzese Siade, esposto nella stessa pagina, e l’errore sarebbe «partire per la villeggiature senza aver dato un’occhiata alla grande liquidazione»

La polemica

La rissa

MUGGIÒ, CARICATURE ANTI-DC

PISTA INVASA, ARRIVA LA CELERE

«Padroni, borghesi, beghine, signori non sono buoni per i lavoratori». A Muggiò, la campagna elettorale del giugno 1970, per le comunali, aveva fatto registrare l’esordio delle satira politica. La sezione comunista «Giovane Guardia», negli ultimi giorni di propaganda, aveva sfoderato un manifesto con tanto di caricatura dei maggiorenti dc del paese. Caricature precise, alcune delle quali contrassegnate dai titoli accademici o professionali. C’erano un paio di «ins», per insegnanti, un «ing», due «geom», un «rag», due «dr» e anche un don, stranamente non raffigurato in volto. Tutti griffati con tanto di scudo crociato, il simbolo della Democrazia cristiana. «Cittadino, operaio, giovane», ammoniva il manifesto, «Muggiò ha’ (con uno strano accento sulla a) una realtà operaia che non rispecchia affatto i candidati d.c. Vota per partiti a base popolare». Sulle pagine del Cittadino del 14 giugno, Giuseppina Silva, candidata Dc, rispondeva all’ironia con l’ironia: «Ringrazio: solo dopo 18 anni di servizio mi è stato fatto l’onore di un ritratto».

Overbooking con rissa all’Autodromo di Monza. Accade sabato 6 giugno del 1970, quando nel circuito fu programmato il Rodeo automombilistico, manifestazione di acrobazie motoristiche. Un evento che, evidentemente, era piaciuto ai brianzoli e non solo che si erano ritrovati in almeno 30mila a Monza. Peccato che i posti a sedere fossero 10mila meno. E proprio la messe di quanti, con regolare biglietto, erano rimasti in piedi, aveva creato lo scompiglio. Come raccontava il Cittadino del 14 giugno, molti di questi mancati spettatori si erano riversati nella pista stessa bloccando la manifestazione. Una bagarre che aveva indotto il commissario di Ps, Strada a giudicare «impossibile far proseguire lo spettacolo perché la presenza del pubblico sulla pista aveva creato una situazione pregiudizievole per gli spettatori e per i piloti». Mal gliene incolse: il pubblico si abbandonava a una violentissima protesta, «distruggendo o danneggiando gli impianti dell’autodromo», con i pochi agenti presenti obbligati a chiamare la Celere di riforzo da Milano, accolta da «un fitto lancio di oggetti di ogni tipo, sassi, pezzi di legno, sbarre di ferro divelte». Solo un agente del commissariato cittadino finiva all’ospedale ma decine erano i contusi. Un milanese di 17 anni, M.R., e un desiano di 19, R.M., venivano tratti in arresto per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e addirittura incendio.


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Terrorismo1982, rapina mortale in pieno giorno

9,30 UCCIDETE IL MARESCIALLO

Giugno/Luglio 2010

LISSONE 1982

Ph. Pietro Vismara

Il comandante dei Carabinieri di Lissone, Valerio Renzi, si reca a ritirare la posta ma appena entra in piazza Cialdini si scatena contro di lui un inferno di piombo. Ci sono le BR

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na mattina calda d’estate. Venerdì 13 luglio. Anche Lissone, in quella giornata del 1982,come tutta la Brianza, è ancora piacevolmente stordita dalla festa per il Mundial spagnolo appena vinto e che dipinge di tricolore molti balconi e finestre. E qualcuno, intorno alle 10, in piazza Cialdini, può aver pensato a quei botti - tanti e ripetuti, da sembrare una raffica di mitra - come a una coda dei festeggiamenti per gli Azzurri. E invece era una proprio un mitra ad aver sparato, anzi più di uno: 70 colpi contro l’Alfetta dei Carabinieri, non appena la macchina militare era entrata in piazza, in prossimità dell’ufficio postale. In quell’auto c’è Valerio Renzi, laziale, reatino, 44 anni, da otto comandante della stazione di Lissone. Come fa tutte le mattine, intorno alle 9,30 arriva con l’auto di servizio all’ufficio postale, per ritirare la corrispondenza destinata alla caserma. Ai primi colpi, tenta una reazione riuscendo solo ad aprire la portiera e a scivolar fuori dalla macchina scura. Niente da fare. Troppe ferite, troppo piombo in corpo, solo il tempo di spirare. Come scrive Giacomo Citterio su L’Ordine, quotidiano che uscì per circa un anno in Brianza proprio in quell’82, «qualche ora dopo la spietata esecuzione del maresciallo di Lissone è giunta una telefonata al quotidiano romano Il Messaggero, nel corso della quale una voce anonima maschile rivendicava l’assassinio. La voce avrebbe detto che ad agire è stato un commando di un gruppo eversivo di sinistra denominato Prima posizione che, secondo gli inquirenti sarebbe vicino a Prima linea». Dunque, a due anni di distanza

dalla feroce esecuzione, a Monza, dell’ex-direttore dell’Icmesa di Meda, Paolo Paoletti (cfr. Giornale della Memoria, n.2), il terrorismo si riaffaccia in Brianza. In questo caso, non si tratta di un omicidio pianificato ma delle conseguenze di una rapina. Quando la macchina dei Cc entra infatti nella piazza di Lissone, è iniziato da pochi istanti un assalto all’ufficio postale: cinque uomini armati sono entrati all’interno urlando e brandendo pistole e mitra, altri, almeno due sono al volante di una Ritmo e di una 131 che attendono fuori, le auto del commando. Poi, uno dei rapinatori urla le parole che avrebbero cambiato il corso di quella giornata «I carabinieri!». È in quel preciso momento che i due autisti, scesi dalle rispettive auto, si avvicinano alla macchina dell’Arma, forse a quattrocinque metri, e scaricano i loro mitra sul povero Renzi: il lunotto anteriore dell’Alfetta viene bucherellato e il sottufficiale investito in pieno, riuscendo solo ad aprire lo sportello di guida. Il commando quindi risale sulle due auto e si dà alla fuga: tutto avviene in pochi secondi tanto che, nella concitazione, una bomba a mano, tipo «ananas» rotola a terra, probabilmente dai giubbotti di uno degli assalitori. È questo particolare, unito alla ferocia dell’esecuzione, che indirizza subito gli inquirenti, a cominciare dal capitano Biga di Monza, verso la pista terroristica. Le macchine vengono rinvenute, la sera stessa, nella zona di Niguarda a Milano e i carabinieri si concentrano a lungo su una Talbot, rinvenuta qualche ora dopo a Cazzaniga di Monza. In serata, come spiegherà, sempre Citterio, su L’Ordine di domenica 18 luglio, tre giovani di Desio

I commenti, Luigi Losa L’ITALIA UNITA SOLO PER POCO La morte di Valerio Renzi, oltre che per l’efferatezza dell’esecuzione, stordì i brianzoli perché arrivava nel clima festaiolo del post-mundial. La stessa piazza che aveva fatto da sfondo all’uccisione o quella, antistante la chiesa, che aveva visto due giorni dopo, migliai di persone raccolte in preghiera, pochi giorni prima ribollivano di gente festante per le gesta di Pablito Rossi. Luigi Losa, attuale direttore del Cittadino e, allora, firma di prestigio de L’Ordine parlò di «un nuovo struggente contrasto di immagini, suoni e ricordi». Quando, durante il funerale, la banda della città attacca L’inno di Mameli, «nella commozione ritorna alla mente il groppo in gola di felicità che, solo pochi giorni fa, queste stesse note suscitavano in tutti». L’Italia unita dei fratelli Mameli, scrisse Losa, «è già finita; è durata poche ore».

vengono fermati alla frontiera di Chiasso: stavano tentando di espatriare e si vuol capire se fossero in qualche modo legati ai fatti di Lissone. Ma le rivendicazioni sono parecchie. All’Ansa di Milano, il giorno stesso dell’omicidio, chiama la colonna Walter Alasia della Brigate rosse: «Rivendichiamo l’esecuzione del maresciallo all’interno di un’operazione di esproprio proletario», detta una voce anonima. Nel pomeriggio, un altro anonimo chiama Radio Popolare, sempre

a Milano, come accadeva spesso in quegli anni. E ancora rivendica la morte di Renzi, attribuendola alle Br. Stessa rivendicazione, intorno alle 18, sempre a Milano, ma stavolta alla redazione de la Repubblica. In questo caso la voce dettaglia un risvolto militare dell’attacco di Lissone: «È stato usato un mitrogliatore sovietico calibro K49». Di matrice opposta, alle 18,30, una rivendicazione che giunge al Gazzettino, redazione di Verona. Sono i neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari ad assumersi la paternità dell’orribile delitto. Mentre i telefonisti della morte si affannano per potersi attribuire l’ennesima esecuzione, ad Anna Luisa Renzi, moglie del marescialo e ai suoi figli, poco più che bambini, Luca e Alessandro, la vita è cambiata per sempre. «Scorgendo la sua esile figura scolpita in un dignitoso dolore», scrive, sempre per L’Ordine, Emiliano Ronzoni, raccontando le esequie, «molti tra la folla non hanno saputo trattenere le lacrime»


STEMO TUTTI BEN

Volti felici nella precarietà. A metà degli anni 70, il fotografo Attilio Mina documenta le residue baracche venete

A metà degli anni 70, a Perticato, nei pressi di Mariano, alcuni veneti vivevano ancora nelle casette di legno costruite qualche decennio prima. Attilio Mina, fotografo, le immortalò Il libro Vivere in baracca fotografie di Attilio Mina, testi di Bruno Orlandoni supplemento a Fotografia italiana n. 227 giugno 1977, pagg. 24 edizioni Ediphoto Un reportage ormai reperibile solo in alcune biblioteche o, potenza di Internet, ancora acquistabile online a 10 euro (www. obiettivolibri.it). Mentre l’obiettivo di Mina (www.attiliomina.it) percorre la dignitosa baraccopoli brianzola, Orlandoni racconta le tecniche di costruzione, descrive l’uso degli spazi e inquadra sociologicamente e a livello urbanistico il fenomeno.

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ll’epoca la chiamavano fotografia «concerned», dall’inglese «coinvolti»: chi la praticava cioè si immedesimava nell’oggetto che fotografa, parteggiava per lui, militava spesso dalla sua parte. Erano gli anni, fra ’70 e ’80, della fotografia e dei fotografi «sociali», degli Uliano Lucas e dei Tano D’Amico. Attilio Mina, 64enne, marianese, autore di numerosi saggi sulla fotografia e scrittore, era uno di loro. Col suo obiettivo scandagliava, rigorosamente in bianco e nero, gli angoli più scabrosi della realtà di quel tempo. Dai campi nomadi, ai disabili gravi dell’Anfass, dagli anziani nell’ospizio, dai matti (ancora da slegare) alle spogliarelliste dei night di provincia. Tante diversità, talvolta inguardabili, nell’Italia di 40 anni fa. A metà degli anni ’70, la macchina fotografica di Mina entrò nelle ultime baracche venete di Perticato, frazione di Mariano, fissando nel tempo una povertà che era scandalosa, nella Brianza di allora. «Ci andai, col sacro fuoco del militante, di chi voleva denunciare il fatto che ci fossero persone, fami-

glie, che vivevano ancora in quella enorme precarietà». Un click dopo l’altro, Mina racconta la vita fra assi di legno fra ai margini dei paesi brianzoli, l’esistenza nelle casine da Tre porcellini, fra i campi, il cui verde non si riesce neppure a immaginare. «Come accadeva sempre con le persone che ritraevo», ricorda oggi Mina, «li frequentai a lungo, diventandone amico, finché scattavo senza quasi essere più percepito». Le famiglie polesane che vivevano lì, lo ammisero nelle loro case minime, squadrate: un ambiente d’ingresso e, in genere, due camere ai lati. Dentro, un mare di dignità «Oggi, riesco a guardare a questi scatti con un occhio diverso: togliendo la denuncia, l’invettiva, restano i dettagli di una vita piena di decoro ancorché precaria». E poi, indicando, fra gli scatti, una cucina con un lavello appoggiato alla parete di legno, dice: «Vede questa cucina? È piena di decoro, di calore: questa gente dice “è casa mia”». Il suo Vivere in baracca uscì come supplemento a Fotografia italiana, del giugno 1977. Ventiquattro pagine emozionanti. Ancora oggi

5 Giugno/Luglio 2010

BRIANZA 1950-1970

L’immigrazione veneta in Brianza, storie di gente fiera


Lazzate 1951, una famiglia dal Padovano

6 Giugno/Luglio 2010

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Riflessione sui fatti

Così il futuro non fa paura È senza dubbio un documento eccezionale il servizio fotografico che Attilio Mina ci ha concesso e di cui potete vedere alcuni scatti in queste pagine. Alcuni sono totalmente inediti, perché non furono utilizzati per Vivere in baracca, la pubblicazione che uscì in supplemento a Fotografia italiana, nel 1977. Un bianco e nero che fa vibrare di commozione e che ci consegna, quasi quarant’anni dopo, un pezzo di storia della Brianza rimosso dai più. Foto che mostrano i volti degli ultimi immigrati veneti abitare, con dignità e decoro, le baracche che, venti anni prima, si erano costruiti loro predecessori, in fuga dalla povertà o dalle alluvioni. Oggi, Veneti e Brianzoli sono così compenetrati da differenziarsi ormai solo per i cognomi, pochissimi infatti parlano ancora la lingua del Trevigiano, del Veneziano, del Padovano, del Polesine, le tante zone di partenza della grande immigrazione iniziata con i primi anni 50, con la valigia «di cartòn», come ricorda anche l’intervista qui a fianco. A unire gli uni e gli altri, la religiosità forte di cui è intessuto il vivere e dalla quale deriva quel senso di responsabilità che permea il lavoro, altro grande punto di contatto che ha accomunato gli uni e gli altri. Veneti che sono stati protagonisti, negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, della crescita straordinaria di questa terra. E ricordare che molti partirono dalle quattro pareti in legno di una baracca non può che obbligarci a guardare con fiducia a qualsiasi difficoltà il futuro ci voglia mettere davanti GdM

EMIGRANTE, PAROLA ODIATA Elio Marchioro, piastrellista, decoratore e poi pittore, ricorda l’arrivo, con i fratelli. Anni di fatica, di voglia di riscatto, di nostalgia sempre nascosta per la casa di Chiara Marchioro

E

lio Marchioro, classe 1930, da Ponte Longo (Padova). È uno dei tanti veneti arrivati in Brianza nei primi anni ‘50. Con i fratelli, Gino, Sergio e Alfredo, si stabilì a Lazzate dove svolse molti lavori senza mai trascurare la passione per la decorazione, che aveva appreso in Veneto, fino a dedicarsi alla pittura. Sua una serie di cento dipinti che ripropongono gli scorci più belli del borgo e di cui è stata realizzata una mostra nel 2002. Lo ha intervistato la nipote, Chiara, 23enne giussanese, laureanda in Scienze della comunicazione all’Università Cattolica. Perché pensaste di emigrare in Lombardia? Siamo stati invogliati dai parenti che avevamo a Cermenate: venivano a trovarci e son venuti anche prima della guerra. Addirittura partivano in bicicletta, due, tre cugini a venirci a trovare in Veneto. E ogni volta ci invogliavano, raccontandoci di questa Lombardia, di questa Milano, dove il lavoro era abbondante. Quando partiste? Nel 1951, la nostra era una famiglia dedita all’edilizia, l’intento era di fare un’impresa di costruzioni a Milano. Infatti, divise le cose che avevamo, siamo partiti. I classici emigranti con la valigia di “cartòn”. Siamo arrivati di sera, stremati. Come gli indiani, abbiamo acceso il fuoco fuori, per mangiare qualcosa, nella cascina che avevamo affittato. Quando hanno visto fuoco, la gente è venuta a vedere: hanno visto il camion con i mobili, e noi. Era novembre, quasi nell’imbrunire, con questo fuocherello, qualcosa da scaldare e tutti intorno. Eravate i primi veneti a Lazzate? No, ce n’erano già un paio di famiglie. Abbiamo cominciato a lavorare. La sera stessa, quelli che erano arrivati là a vedere quel fumo, ci hanno chiesto cosa sapessimo fare. Sergio, che faceva il muratore, trovò subito un posto. E quando dissero che cercavano un piastrellista non mi tirai indietro, anche se per cinque anni, in Veneto, ero stato garzone di un decoratore imparando quel mestiere che sognavo di fare. Speravo di andare a lavorare in una ditta di cartelloni pubblicitari a Milano, metre Sergio aveva trovato un impiego alla Motta. Poi vi metteste in proprio... Fu proprio Gino, tempo addietro, a metterci in contatto con dei muratori a Milano. Fu così che io, Sergio e anche Alfredo che avevo solo 13 anni, ci siamo messi insieme. Zoccoli di legno, bicicletta e via:

Scene di vita nell’ultima baraccopoli veneta di Perticato, alle porte di Mariano Comense

tutti i giorni a attaccare piastrelle. Quante ne abbiamo attaccate... Come stavate? Eravate felici? Ho sempre sofferto la qualità di emigrante, non mi sono mai adattato alla vita dell’emigrante. Per questo, quando a sera venivo a casa, cercavo i miei pennelli e i miei colori. Ogni sera imbrattavo tutta la casa, tutti i mobili, perché volevo fare il decoratore per mobili, l’arte per la decorazione degli interni. Ma era un settore che già era in calo, andava forte allora il mobile commerciale. Allora gli appartamenti sorgevano a Milano come funghi, allora bisognava mettere dentro mobili in tutte le maniere piccoli, grandi, e l’arte vera e propria era un po’ messa in disparte. Rimpianti? Dovresti farti un capannone, mi diceva qualcuno. Figurati! Dove trovavi la possibilità? Quando anche Gino si è messo nelle piastrelle, io ho preferito lasciar stare: il mio intento era iniziare con l’arte. Il piastrellista lo farò, dicevo, ma io nel cuore ho l’arte. C’è poco da fare: ero nato per l’arte, che poi non sia diventato nessuno, ma non ha importanza. Vendevi i tuoi quadri? Mi presentavo, facevo vedere i lavori che facevo. Uno due posti mi dicevano «belli, ma…». Dissi ad Alfredo, che mi accompagnava, «andiamo a casa». Sulla via del ritorno ci fermammo a Desio, dove c’è un

grande magazzino, che acquistava dipinti, non belli ma per fare arredamento: le case venivano su come i funghi a Milano, e avevano bisogno di attaccare su queste pareti squallide. Mi dice:” vuoi lavorare?” e allora mi danno dei modelli, dei suggerimenti, mi caricano la macchina di tele, e son venuto a casa: ho iniziato a dipingere. Quand’è che ti sei dedicato esclusivamente alla pittura? Nel 1965. Ho lasciato l’attività di piastrellista e mi son messo a dipingere. Così per anni, finché anche il commerciale è venuto meno, allora mi sono messo a fare le miniature, poi anche lì è iniziata un po’ di crisi e ho ceduto l’attività. L’ultimo lavoro che ho fatto, è stato dipingere Lazzate in cento dipinti, che il comune ha acquistato come documento storico. Come ti sei trovato i primi tempi che sei arrivato? Altra cultura, altra gente, altro dialetto: qualche volta “ho fatto le lacrime”, perché all’età di 20 anni ho dovuto lasciare la casa che amavo, il mio paese. Sono ricordi che rimangono dentro tutta la vita. A 20 anni dover lasciare gli amici, i pochi amici, perché nella vita non se ne può avere tanti ma quei due o tre sono amici veri. E la propria casa, il proprio paese: per me è stata una cosa terribile. Per i tuoi fratelli? Sergio non ha subito: altro temperamento, altro carattere, altra

sensibilità. Anche l’Alfredo, ma poiché era molto giovane, ed è entrato subito nell’ambiente. Ma io e Gino, che era il maggiore, ne abbiamo risentito moltissimo. Se avessimo potuto la parola «emigranti» l’avremmo cancellata dal vocabolario. Oggi vedere quelle persone che arrivano dall’estero, dall’Africa in quelle condizioni di emigranti, mi fa veramente morire il cuore. Non ti è mai venuto il desiderio di tornare in Veneto? Sempre ma non ho potuto farlo, anche perché sono nati figli, si sono affezionati al paese, a Lazzate. Non ne ho mai neanche parlato del desiderio di tornare nel Veneto. Loro, probabilmente lo capivano, ma non gli ne ho mai accennato. Come vi hanno accolto? Molto bene, eravamo i primissimi e probabilmente a Lazzate non immaginvano che ne sarebbero arrivati tanti altri. Un paese che contava 2200 abitanti, nel giro di dieci anni, arrivò a 5mila, non è stato facile per i Lazzatesi. tuttavia noi siamo stati accolti bene, anche perché sai la famiglia Marchioro ha sempre dimostrato di saper convivere, di essere gente civile, che sa trattare. E poi siamo cattolici praticanti e questi paesi lombardi ci tengono molto. E ci hanno voluto bene. La famiglia Marchioro, credimi, è stata molto ma molto rispettata in paese


VARDA CHE BEO LA LUNGA LEZIONE DI MAMMA DORINA Fernando e Dorina Gibellato, dalle campagne veneziane alle fabbrica della Brianza. Dicendo sempre grazie alla vita. Il racconto del figlio

Dorina Daniele col marito Ferruccio Gibellato. Sotto, il figlio Enzo in una foto scolastica

V

arda che beo”, ossia “guarda che bello”. Quando si andava in treno, magari per tornare in Veneto, d’estate, mia madre mi educava continuamente alla bellezza». Enzo Gibellato, veranese, classe ’57, storico dell’arte e docente nella scuola superiore, dice di sé «d’essere stato veneto fino ai 14 anni», fintanto cioè che i genitori, terminata la scuola, non lo spedivano dai nonni a Pegolotte, vicino a Chioggia, provincia di Venezia. Magari, assieme ai fratelli, sulla 600, dell’ autista Atm, veneto pure lui, che arrotondava facendo da chauffeur nei giorni di ferie. «E quando tornavo, i miei amici mi sfottevano per via di quell’accento strano che mi portava a sostituire le zeta con le esse, persino nel mio nome, che pronunciavo “Enso”». «Beo» era un’aggettivo frequentissimo nel vocabolario di sua madre, Dorina Daniele, arrivata in Brianza col marito, Ferruccio Gibellato, ai primi degli anni 50. Ma non dai campi piatti e verdissimi del Chioggiotto, dove terra, cielo e mare si fondo in una luce senza pari. No, i Gibellato, in fuga da un presente di ristrettezze come migliaia di altri veneti in quegli anni, approdarono prima nel Vigevanese. «Mia madre fece la mondina», ricorda il professore, «mio padre s’arrangiò a fare il calzolaio». Contadini entrambi, in una terra che ormai non consentiva di mettere nemmeno insieme il pranzo con la cena, partirono alla ricerca di un barlume di benessere, fuggendo da un presente piuttosto duro. «Ricordo che quando passarono in tv il film Novecento di Bertolucci, e mia madre vide la scena in cui, nella grande cascina, in tanti mangiano la polenta al profumo di

aringa, lei non poté fare a meno di commentare, sommessamente: “Noi eravamo così”». Beo, dunque. Perché «beo» era l’espressione con cui ci si rivolgeva ai bambini, «ti se’ beo». Beo, perché nelle case venete, c’era, di fondo, una religiosità potente che rendeva grati d’ogni cosa. Bei erano i fiori, che i polesani, i trevigiani, i veneziani, i padovani coltivavano sui balconi delle loro case brianzole, spesso portandosi le sementi dal Veneto, quando si rientrava da una vacanza. «Li mettevano nelle latte, nei barattoli grandi di pomodori, aperti alla sommità» e le terrazze delle case, anche umili, diventavano un tripudio di colore. «Una mia vicina, un’anziana brianzola lo ricorda spesso “I Veneti: poverini, ma sempre con tanti fiori”». E povera la gente veneta lo era davvero ma con una voglia di riscatto enorme. «C’era il culto della fabbrica», osserva il professore, «come sicurezza, come avvenire, come solidità». E ricorda di quando la sorella aveva trovato un impiego in un grande negozio di abiti da sposa, a

Monza, e i genitori si opposero, fermamente: «La fabbrica non si lascia». Accadeva semmai che la fabbrica lasciasse a casa qualcuno, magari dall’oggi al domani, senza troppi convenevoli. «Un settembre forse alla metà degli anni ’80: una lettera stringata licenziava mia madre, dopo 25 anni di lavoro». Venticinque anni a fare cerniere e serrature: «A far buchi, milioni di buchi nell’alluminio, tanto che a sera, mi mettevo a toglierle le limaie, le schegge, dalle mani. E poi, di punto, in bianco una lettera». Gibellato ricorda che se ne andò, da solo, dinnanzi alla fabbrica, con un cartello: «Non si calpesta così la dignità delle persone». Le mani di Dorina e Ferruccio, a sera, nere di fatica, sono l’immagine che lo ha accompagnato per anni, «tanto che in casa, sul lavandino, oltre al sapone, c’era quella pasta speciale che usano i meccanici per sgrassarsi». Dorina, dopo otto ore di serramenti, metteva a tavola il marito e quattro figli, con la stessa immutabile dedizione. «Un senso del dovere immane, con cui facevo i conti quando dovevo

studiare o prendermi delle responsabilità», dice, «e il paragone con i miei genitori scattava sempre». Una casa, quella dei Gibellato, dove la vita non era dunque una passeggiata ma nella quale il clima era sereno. «Non ci si lamentava, anche se la fabbrica era terribilmente diversa dai campi a perdita d’occhio, dove si lavorava sostenendosi col canto; non si malediva, se le nostre case non erano le cascine dove, a sera, ci si ritrovava tutti quanti sull’aia a parlare sino a notte fonda: di animali, sementi, amici partiti, sposi, guardando sempre le stelle, quasi perdendosi. Nelle case popolari della Brianza invece, gli orizzonti di cielo erano inesistenti». Una casa in cui risuonavano gli stornelli tipici, cantati «con voci stridule come cornamuse»: «Me compare Giacometto/el gavea un bel gaeto» (un bel gallo). Di quegli anni, ricorda i conti, fatti al tavolino, insieme al padre, quando, ogni quindici giorni, arrivava il salario, la quindicina, «ed era proprio così, una busta con i soldi e un cedolino con i conteggi». Gibellato padre, non troppo ferrato con i numeri, si faceva aiutare da Gibellato figlio a ricontrollare: c’erano le ore di lavoro, lo straordinario, le ore in nero, quelle straordinarie in nero. Quel tavolo al quale, ancora ragazzino, la madre, mentre lavava i piatti, gli dettava le lettere da inviare ai parenti in Veneto: «Dighe che stemo tutti ben». La corrispondenza era un rituale irrinunciabile, forse l’unica forma di nostalgia verso i luoghi e i volti lasciati. «Carta e buste, in casa, non dovevano mai mancare», rammenta, «in genere si partiva col parlare del tempo, poi le novità nostre e degli altri parenti qui e del potersi vedere a Natale». Nella luce bassa della cucina, un ragazzino seduto al tavolo scrive su un foglio bianco, mentre una donna col grembiule gli dà le spalle, maneggiando stoviglie e piatti: «E scrive grande, ben, che il nonno non vede ben». Gente semplice, molto religiosa, i Gibellato come tutti i Veneti in genere. «Te to segnà?» vale a dire «ti sei segnato?» era il refrain che accompagnava l’uscita di casa di ogni figlio: Dorina non transigeva su questi piccoli gesti di devozione. Così come sulle medagliette benedette della Madonna o di Sant’Antonio, rigorosamente apposte sulle canottiere, per essere il più vicino possibile al corpo. «Da ragazzino, quando facevamo ginnastica a scuola, erano per me un grande imbarazzo». Eppure, soprattutto il culto del Santo, di Antonio da Padova, era vivissimo tra i Veneti dell’immigrazione. «Un santo taumaturgo, che guariva, una venerazione enorme». Sono gli anni in cui, dove si istallano i Veneti spuntano le edicole votive: «A Verano, alla fine di via Grandi, la signora Ginevra ne fece costruire una, sempre circondata da gigli profumati». «Una religiosità elementare ma potentissima», dice Gibellato, «un’osmosi di verità, che, una volta più grande, all’università, magari incontrando altre idee sulla vita, ho dovuto verificare e riconoscere vera, anche per me». Educato a «vardar» le bellezze intorno, l’«Enso» aveva imparato a guardare tutto con la medesima gratitudine

7 Giugno/Luglio 2010

VERANO 1952

Verano anni 50, immigrati da Chioggia


Paina,1957. Da Caorle via Senago

8 Giugno/Luglio 2010

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Di chi si parla

All’Estero oggi 5 su 100 Erano 260.849 i veneti che vivevano all’estero (il 5,4% della popolazione attuale della regione) nel 2008. L’ultimo «pezzo» della grande migrazione iniziata nella seconda metà dell’ 800 e di cui fa parte anche il filone brianzolo. Un fenomeno che, nel suo complesso, vide oltre 3 milioni di Veneti lasciare le proprie case, fino al 1976. Oggi all’Estero la maggior parte di italiani di origine veneta risiede in Argentina (31.823) Brasile (57.052) e Svizzera (38.320) ma sono addirittura milioni i cittadini di quegli Stati che hanno origine nel nostro Nord-Est. È il caso del Brasile dove, negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná e Espírito Santo ci sono città che si richiamano a quelle di origine: Nova Schio, Nova Bassano, Nova Brescia, Nova Treviso, Nova Veneza, Nova Padova e Monteberico.

MARIO, TUTTO LAVORO, PUGNI E FAMIGLIA Anni in acciaieria, in cima a una gru, e sul quadrato di una palestra a tirare di boxe. La vita forsennatamente felice di Mario Rorato

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tavo a petto nudo per il caldo bestiale, dentro una cabina di una gru, su per aria, in cima al capannone, colavo l’acciaio» così Mario Rorato, classe 1938, da Caorle (Venezia), ricorda il suo primo lavoro in Lombardia, alle Acciaierie Riva di Caronno Pertusella Era il 1957. Mario era andato in Lombardia perché a casa, c’erano tre fratelli distrofici, e i campi - a San Donà del Piave, dove i suoi si erano successivamente trasferiti non bastavano più alla famiglia. Viveva a Senago, in una pensioncina di famiglia, che si manteneva lavorando in cucina e facendo il factotum. Giornate lunghissime: sveglio alle cinque per fare il primo turno in fabbrica, a dar da mangiare a un forno che sputava fino a 250 tonnellate di acciaio, poi alle 14, correva alla pensione Saleri, così si chiamava, a far pulize e tutto quello di cui c’era bisogno. Quindi, alle 18, inforcava la bici e via, verso Garbagnate, dove coltivava il suo amore più grande: la boxe. «Ero un welter leggero», e mentre lo racconta gli occhi brillano. Uno che non aveva paura, Mario Rorato, dall’uppercut veloce, che una volta, da sparring partner, a Milano, stese anche un giovane Nino Benvenuti. «Ho fatto 16 incontri ufficiali», ri-

corda, «e non sono mai andato giù». Anzi una volta, a Sondalo, quando gli organizzatori, gli “consigliarono” di far vincere una locale stellina, lui lo mise knock out tre volte: «Eh, voleva picchiare», sospira, «e io schivavo e poi - pam! - menavo». Quella volta, un arbitro compiacente, lo squalificò per scorrettezza: «lo scrisse anche la Gazzetta, ma avevo vinto io». «Ci davano si e no 1000-1500 lire», dice, «e ogni lunedì, se vincevo, il signor Roberto Riva, il titolare, me ne dava altre 5mila». Anni di botte e di spensieratezza. Una volta, di ritorno a sera, con un compagno di gara, dalla Stazione centrale decisero di prolungare

Anni 70, Mario Rorato, al centro, con due colleghi, di in una pausa di lavoro alla Breda di Sesto

verso il night Cupola verde: «Aveva vinto le solite 1.500 lire», sogghigna, «e ne spendemmo 3.500 a testa». E, a notte fonda, via per Caronno: all’alba, anche quella volta, c’era da fare il primo turno. Una furia della natura, Mario Rorato, di una forza spropositata, spesso messa alla prova sul lavoro, con sfide e prove di ogni genere. Come quella volta che si prese sulle spalle un pezzo di 192 chili, facendogli fare un lungo tragitto: «In palio c’era una damigiana di vino», rammenta, «che poi lasciai ai colleghi che, all’epoca, ero praticamente astemio». Fu poco dopo, quando comparve l’Asiatica, che Rorato scoprì bacco

e tabacco: il medico gli disse che, contro quell’influenza che spavaentava tutti, occorreva fumare e bere molto. E lui ammazzava il virus arrivando anche a quattro pacchetti di sigarette al giorno. A imbrigliare Venere ci aveva pensato, nel 1962, Silvana Striatto, trevigiana, classe 1940. L’aveva conosciuta a Perticato, dove viveva con i cugini e poi l’aveva inseguita fino a Jesolo, dov’era in vacanza da alcuni parenti, in sella alla sua Mondial, non prima d’esser passato per Udine, a chiudere i conti con la sua vecchia fiamma. Con lei mise su famiglia - tre figli nel ‘63, nel ‘66 e nel ‘73 - e continuò a lavorare come un forsennato. Dimessosi dall’acciaieria per coprire l’errore di un collega - «o c’andava di mezzo un bravo friulano» - si impiega nell’Officina Gorla, nei pressi del laghetto di Giussano. «Facevo tutto: benzina, riparazioni, lavavo le auto: un anno, alla vigilia di Natale, arrivai a farne 22». Un dipendente d’oro, Rorarto Mario da Caorle, tanto che il titolare, una volta all’anno, lo portava a pranzo «con tutta la famiglia». E gli dispiacque, al Gorla, quando Mario se ne andò per la grande Breda. «Furono alcuni autisti a convincermi a far domanda, sapendo che avevo fatto il gruista». Del suo ingresso sotto i giganteschi capannoni di viale Sarca, Mario ricorda bene la prima prova sulla gru. «Salii in cabina in un attimo, presi il primo carico, arrivai sul punto della colata: da terra mi fecero segno di spostarmi appena di qualche centimetro: in poche manovre avevo fatto la colata e senza i pericolosissimi schizzi d’acciaio che, appena il giorno prima, avevano spedito quattro operai in infermeria». Lo proposero anche per una categoria superiore, «ma non lo fecero per non irritare la commissione interna» ricorda. «Ma qualche giorno dopo l’ingegnere mi picchiò sulla spalla dicendo: “Rorato, dal mese prossimo cinque lire d’aumento”»


Paina 1966, fuga da Caorle

LA LAGUNA DISTRUSSE LA CASA E NOI PARTIMMO Mirella Muner arrivò in Brianza dopo che l’alluvione del 1966 le aveva portato via tutto. Ricominciando da capo

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Nello scatto di Attilio Mina il particolare di una cucina economica alimentata a legno

l maiale, salvammo solo il maiale: l’acqua si portò via le galline e tutto il resto». La signora Mirella Muner, 71 anni, vive a Paina dal 1966, da quando cioè l’acqua della laguna di Venezia inondò tutta la pianura circostante. La sua casa, poco fuori Caorle, venne presa in pieno e tutto finì «drio acqua», dietro l’acqua: dalle galline «al parquet, appena posato nelle camere». E l’acqua, anni prima, a più riprese aveva spinto molti veneti del Polesine, ad emigrare, molti dei quali in Brianza. E alcuni parenti, in quel novembre di quarantaquattro anni fa, Mirella li aveva anche lei in quei paesi a nord di Milano. Naturale, con l’unica casa sommersa dall’acqua dell’Adriatico, cercare rifugio, «con la madre e le sorelle», da quei cugini trapiantati in Brianza, . E l’arrivo a Paina non fu esaltante. Le case che riuscirono a prendere in affitto, erano quelle vuote da anni. E piuttosto malconce: «Mi fece impressione vedere i cartoni al posto dei vetri». Ma non c’era tempo per crucciarsi, non c’era tempo per la nostalgia della casa perduta, «un amore, che c’eravamo sistemati poco alla volta”, c’era da arrangiarsi, c’era da lavorare. Per Mirella Muner, il primo impiego è in tessitura a Birone, come una matta a lavorare ai telai dove, dopo le 10 ore della giornata, capitava di tornare tre ore dopo cena. «Siamo arrivati a fare anche 13 ore, ricorda». E i primi tempi, non furono tutte rose e fiori. «Le lombarde», così chiamano ancora oggi le brianzole, «ce l’avevano con noi, per questa disponibilità a lavorare ed erano gelosissime della loro professionalità, tanto che il mestiere lo dovevi rubare». Di quegli anni, la signora Mirella ricorda come un’ossessione i debiti: «Ne eravamo pieni: c’era sempre una scadenza, una cambiale da pagare e per questo si lavorava, si lavorava sempre» perché, rammenta, «dovevamo sistemare la casa, tirar su i figli, i soldi non bastavano mai». E una certa nostalgia per i frutteti dei conti Marzotto, dove lavorava. Laggiù, nel Veneto. «Ma non della mia casa», dice, «quella era una ferita che non si rimarginava: vederla in balia dell’acqua che porta via tutto, tutto ciò per cui ti eri sacrificata». E la tristezza poi di vederla, dopo 20 anni: «L’avevamo già venduta ed era disabitata. Praticamente diroccata: con le piante sul tetto. Fu una pena. Una pena enorme»

9 Giugno/Luglio 2010

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Il libro a tema

Gli albanesi eravamo noi Si intitolava L’Orda e ricordava a tutti, ai Veneti in primis, la loro storia di migranti. È uno dei molti libri scritti da Gian Antonio Stella, firma di punta del Corriere della Sera, fustigatore implacabile dei vizi e delle furbizie della politica italiana fotografati ne La Casta edito, come l’altro, per Rizzoli. Cinquantasette anni, veneto di Asolo (Treviso), originario di Asiago e cresciuto a Vicenza, Stella ha ricordato ai suoi corregionali i decenni della sofferenza e della fatica dell’emigrazione, di quando, come recita il sottotitolo del libro stesso «gli Albanesi eravamo noi». Dal libro è nato poi uno spettacolo teatrale, portato in scena da La compagnia delle acque, e un sito internet (www.orda.it) che raccoglie dati e informazioni «per capire, discutere di emigrazione, immigrazione, razzismo».


10 Giugno/Luglio 2010

Paina, 1952. Dal Trevigiano a un cortile brianzolo

BOCCIATA PERCHÉ NON PRONUNCIAVO LE DOPPIE Giulietta Striatto quando arrivò in treno a Seregno, il giorno di San Martino, era una bambina di otto anni. Ecco i suoi ricordi

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l treno si fermò a Seregno e lei cercò, sul binario, il volto dello zio. Tutte le donne Striatto erano partite alla volta della Brianza, in treno. Era l’11 novembre 1952, San Martino, e Giulietta aveva 8 anni, viveva a Ca Tran, nei pressi di Roncade, nel Trevigiano: campagna, campagna e ancora campagna. Dove la gente, da una cascina all’altra, non essendoci il telefono, si chiama col fucile». «Un viaggio infinito», ricorda oggi, «partimmo a sera per arrivare al mattino seguente». Gli uomini e i ragazzi di famiglia seguivano con i camion, dove avevano caricato i pochi mobili e «la liquidazione del padrone: patate, grano, frutta». Ma quella mattina, a Seregno faceva piuttosto freddo: «Ricordo che passando per Mestre, la gente ci canzonava: “Andate a mangiare la nebbia”». Lo zio Striatto, inquadrò quella ventina di donne e bambine e, a piedi, le condusse fino a Paina. «Ricordo che gli chiesi: “Ma zio, dove andiamo?”». E lui indicò un campanile lontano che, a fatica, si vedeva. E quella strada sassosa non finiva mai. «Zio, zio, dimmi quand’è», ripeteva quella bambina, stanca di un lungo viaggio e impaziente di vedere la sua nuova casa. Dell’arrivo in Brianza, Giulietta ri-

PAINA 1952

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h sciur, l’è arriva’ la cavagnina». Era il grido che annunciava il carretto, pieno di casalinghi: stoviglie, pentole, piatti, laddove un tempo c’erano le cavagne, ossia le gerle. A tirarlo era Silvana Striatto, 12 anni, arrivata da poco, con le tante cugine da Roncade, profonda campagna trevigiana. «Fu il mio primo lavoro», presso un commerciante di Paina, e Silvana, accompagnava la titolare per il circondario, vendendo per strada. «Giovedì eravamo fissi a Perticato», ricorda, «e poi giravamo. E spesso mi impiegavano anche nei “mestieri di casa”». Un carretto pesante da tirare ma a Silvana, la cavagnina, piaceva lavorare così. Forse perché l’aria aperta le ricordava la campagne dove era cresciuta, là a Ca’ Tran, con il lebo, l’abbeveratoio per le mucche, dove coi cugini faceva scivolare un po’ di gasolio rubato alla mietitrebbia, per poi osservare lo spettacolo delle, le gocce oleose, librarsi nell’acqua. «Una volta, un cugino mi schizzò in faccia quel carburante”, ricorda, «e io non dissi nulla, per paura di mia nonna Amabile, il vero capofamiglia, donna severissima ma finì che mi procurai una lesione alla cornea». Forse perché le mancavano i grandi spazi, i campi di soturco a perdita d’occhio, le pannocce da pulire sull’aia ma, a Silvana, la fabbrica stava stretta: quando, anni dopo, lasciò il carretto per un ciabattificio

Il nano di gesso uguale a quello di qualsiasi villetta. Nella baracca, un grande desiderio di normalità

corda appunto il gran freddo: «Non avevamo cappotto», dice, «che in Veneto la temperatura era migliore e avevamo scarpe di corda: l’inizio fu difficile davvero». Alcuni zii avevano vissuto in baracca, «decorosamente: fuori, la domenica apparecchiavano mettendo la tovaglia bianca. E i lombardi, che allora non ne utilizzavano, pensavano che usassero le tende». Poi, quei primi Striatto, si erano spostati in paese, in una corte, dove

arrivò anche lei: «Arrivammo presto e la prima cosa che vedemmo fu un gruppo di vicini di casa che facevano la prima colazione, seduti sulle scale esterne. La cosa mi parve strana. Loro ci guardarono con curiosità». La cascina non era propriamente un paradiso: «L’impatto fu duro», rammenta, «in un angolo c’era il letamaio e la nostra porta era vicina ai bagni, che erano comuni: d’estate, fra la puzza e le mosche,

Paina, 1952 da Roncade in Brianza

SILVANA, CAVAGNINA DI 12 ANNI Il primo lavoro di Silvana Striatto fu la vendita ambulante di casalinghi

a Santa Valeria di Seregno, prima, e per la trancia dei Vergani, a far compensati, le esperienze furono brevi e restò per pochi anni. «Meglio, i mesté», come fece poi per 20 anni: a servizio dai Mariani di

Seregno, tanto da aver visto crescere «il Giacinto», l’attuale sindaco della città. «Quando ho smesso di lavorare: abbiamo pianto tutti, io e loro», svela, non senza una punta di commozio-

non era piacevole». Qualcuno, nel gruppo delle ragazzine si lasciò scappare un «ma dove ci avete portato?». Nessun problema di integrazione «con i lombardi» (molti anni dopo, avrebbe sposato un brianzolissimo Cesana). Salvo a scuola: quell’anno, Giulietta ripeté la terza elementare: «Da veneta, non pronunciavo le doppie e mi bocciarono». La scuola italiana, allora, sapeva essere gratuitamente feroce

ne ancora oggi, a distanza ormai di molto tempo. Anni in cui, oltre a fare i mestieri, a sera si mettevano a lucidare le specchiere che produceva un loro parente: «Ore e ore di carta vetrata». Un giorno, quando c’era da consegnare l’ultimo stock di specchiere, chiese al marito, Mario (nella foto, accanto, insieme a lei, ndr), di prendersi un giorno di ferie dalla Breda: «Non fu un grande affare: guadagnammo 11mila lire mentre un suo giorno di ferie ne valeva 15», ride oggi. Ma c’era da fare: i figli da crescere, la casa da tirar sù, e non ci si diceva mai di no al lavoro. Gente veneta a Paina: «Ci si frequentava e ci apprezzava molto fra parenti», spiega, «ma non è che volessimo stare solo fra veneti». Il piacere di riparlare la lingua dell’infanzia, la lingua del cuore ma non certo la voglia di chiudersi in un ghetto affettivo, anzi. Tant’è vero che Silvana, col marito, per lunghi anni, hanno animato la festa della Cascina dell’Oca, dove si radunava mezzo paese. A unirli ai brianzoli, oltre alla medesima passionaccia per il lavoro e l’intraprendenza, c’era lo stesso, fortissimo, sentimeto religioso: «Ricordo don Franco, parroco per tanti anni a Paina», dice Silvana, «che quando capitava una messa con tanti veneti, magari una ricorrenza familiare, ci diceva sempre che il nostro modo di “sentire” la festa, di fare festa, gli piaceva davvero moltissimo»


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10 luglio 1976, dalla Icmesa di Meda si sprigiona diossina

GIORNI AL VELENO

MEDA- SEVESO 1976

Giugno/Luglio 2010


12 Giugno/Luglio 2010

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Riflessione sui fatti

Lo sviluppo possibile Le foto, bellissime, che illustrano queste pagine si devono alla professionalità e alla passione di Pietro Vismara (si veda scheda nelle pagine seguenti), che le realizzò, in quegli anni, per i giornali per i quali lavorava. Seveso fu la madre di tutti i disastri ambientali, prima che la tragedia indiana di Bophal, con la sua spaventosa ecatombe di vite umane, venisse a oscurarne il triste primato. A Seveso, ancora oggi, è legata una direttiva europea in materia ambientale, che stabilisce vincoli piuttosto severi alle attività industriali. Ricordare tutto quel dolore, tutta quella paura; ripercorrere il lungo incubo che accompagnò migliaia di Brianzoli, non è un esercizio di voyeurismo cronachistico. Serve a tener presente come la terra di Brianza, insieme alla Terra tutta, debba essere tutelata e difesa. A non dimenticare mai che non ci può essere sviluppo senza rispetto dell’uomo e dell’ambiente in cui vive. GdM

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ieci luglio 1976. Era un sabato, un qualsiasi sabato d’estate. La gente della Brianza attendeva alle solite occupazioni: c’è chi quella mattina aveva fatto qualche ora di straordinario in fabbrica, chi aveva lavato l’auto e chi era stato a far le compere per la settimana. Altri si preparavano a fuggire la calura con una passeggiata sulle Prealpi, un tuffo al Lago o una puntata, da mattina a sera, nel mare di Li-

guria. Una giornata come le altre, alla fine, per migliaia di persone se non fosse stato per un inconveniente tecnico, un banale incidente a un macchinario. La gente non sapeva ma quella data stava per scriversi in maniera indelebile nella storia di ognuno. A Meda, all’Icmesa, fabbrica chimica della Givaudan, dell’industria svizzera Hoffmann-La Roche A.G. di Basilea si producevano prodotti cosmetici e erbicidi. E in questo stabilimento, intorno

alle 12, nel reattore, l’impianto di raffreddamento del cloro va in corto, si blocca e, per la grande pressione sviluppata, le giunture non reggono, per cui, con violenza, una nube - rosa, diranno i testimoni - si sprigiona, come da una pentola a pressione impazzita. Ma nel cielo di Meda, quel giorno, con un fischio che terrorizza queli che lo odono si volatilizza una molecola dalla tossicità spaventosa: è la tetraclorodibenzo-para-diossina, nota a chimici con la sigla Tcdd. Una sostanza che,

anche i dosi minime, può essere nociva, se non mortale. La diossina è l’Agente Orange, il defoliante con cui, fino a pochi anni prima, gli Americani innaffiavano la jungla vietnamita, per combattere le truppe del Nord e i guerriglieri vietcong. Un veleno micidiale. La notizia arriva a tutt’Italia solo alcuni giorni dopo, quando il Giorno e il Corriere della Sera cominciano a parlarne. Da quel momento, farà il giro del mondo ma non col nome del luogo dove l’incidente accade


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Cronologia di un dramma

Seveso in dieci date

ma in quella dove la nube si dirige e dà i primi segnali di sé, Seveso, dove gli animali al pascolo - ce n’erano ancora molti in Brianza, 34 anni fa - cominciano a morire. La città diventa il centro di un caso mondiale di inquinamento industriale. Seveso viene presa d’assalto da schiere di militari con maschere antigas, di carabinieri e poliziotti che la perimetrano rendendone alcune zone off-limits. Arrivano anche politici di opposti schieramenti, arrivano da Milano e non solo

i raggruppamenti più estremistici: la storia dell’Icmesa costituisce un esempio perfetto dell’odiosa «irresponsabilità dei padroni». Migliaia di persone devono lasciare le case. Per alcuni, quelli che abitano nelle zone A1 e A5, circa 200, non ci sarà mai rientro: quelle abitazioni risultavano contaminate e andavano abbattute. Con gli indennizzi ricevuti, ricostruiranno altrove. Soffrono in molti. La gente ha paura per sé ma soprattuto per i propri figli. I genitori sono disperati, affol-

lano i centri medici, realizzati nelle scuole, fanno la fila con i figli per i prelievi di sangue. A settembre, con la comparsa di una violenta cloracne a deturpare i volti dei bambini, si diffonde il panico. Un incubo che spinge molte donne a richiedere l’aborto terapeutico per i figli che portavano in grembo. Altre, al contrario, decideranno di portare a termine la gravidanza, partorendo figli sanissimi. E il dubbio che la diossina stia si-

lenziosamente avvelenando tutti accompagnerà migliaia di persone per diversi anni. Le indagini epidemiologiche diranno che non sarà così, anche se quei dati sono tutt’oggi contestati da alcuni comitati di cittadini. Una quantità di dolore e di paura che gli oltre 200 miliardi di lire pagati dalla Givaudan (100 milioni di euro attuali), a vario titolo e varie parti in causa, non indennizzerano mai completamente. Non c’è moneta che ripaghi il terrore

10 luglio: sabato, ore 12,40, il reattore dell’Icmesa a Meda va in stallo, la temperatura al suo interno è elevatissima e un valvola di sicurezza cede, lasciando fuoriuscire una nube rosa 11 luglio: Paolo Paoletti, direttore di stabilimento, rientrato dalle ferie perché avvertito dal suo vice dell’incidente, si reca dal sindaco di Seveso, Francesco Rocca, informandolo. 12 luglio: viene informato l’ufficiale sanitario che inizia le prime verifiche. Non sembrano esserci stati danni alle persone. 15 luglio: si segnalano i primi casi di intossicazione di persone e moria di animali. L’ufficiale sanitario chiede ai sindaci di delimitare e isolare le aree: viene individuata una zona a maggior rischio, la A, e una di minore pericolorisità, la B. Scattano gli avvisi alla cittadinanza e divieti di consumare ortaggi o frutti raccolti in quelle zone. 22 luglio: si moltiplianco i sintomi dell’intossicazione per decine e decine di persone. Aumenta la moria di animali. 23 luglio: la Givaudan comunica alle autorità sanitarie che nella nube sprigionata c’era in parte diossina. I risultati delle analisi italiane confermano la presenza elevata di Tcdd nei campioni di terreno. 24 luglio: i sindaci di Media e Seveso, con alcune ordinanza, ufficializzano la zona A, per un’area di una quindicina di ettari a sud dello stabilimento Icmesa. Si prevede l’evacuazione entro i due giorni successivi delle popolazione presente in questa area. La notizia viene diffusa in tutta Italia. 26 luglio: oltre 200 persone di Meda e Seveso, residenti all’interno della zona A, vengono evacquate e alloggiate in un motel di Bruzzano. Decine di aziende, agricole e industriali, devono sospendere le attività 24 agosto: i comuni limitano ulteriormente le restrizioni per la zona A mentre per la B vengono bloccate le attività che possano alzare polveri dal terreno. Limite di velocità a 30 km/orari. 2 settembre: si registrano i primi violenti casi di cloracne sui volti di alcune centinaia di bambini. A Seveso la paura aumenta


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MEDA - SEVESO 1976

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Il fotografo NELL’OBIETTIVO DI PIERO Cormanese, classe 1945, Pietro «Pierino» Vismara inizia a fare fotocronaca nel marzo del 1962, lavorando con tutti i quotidiani di Milano, fra cui La Notte, di cui era corrispondente, la Stampa di Torino l’Ansa e altri periodici. Oggi collabora con Cittadino, Giorno e Cronaca Vera.


NOTTI MUNDIAL IN BRIANZA Un capannone diventato una curva ultrà a Giussano, caroselli di auto fino all’alba a ogni vittoria, sconosciuti abbracciati per strada. Brianzoli impazziti per l’Italia mondiale di Daniele Corbetta

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aolo Rossi apre, Tardelli regala l’immagine dell’urlo e Altobelli chiude il discorso. Il tedesco Breitner non riesce a guastare la festa italiana: l’epicentro è Madrid, le scosse si avvertono lungo tutta la penisola e dureranno per una notte intera. È l’11 luglio 1982, la Nazionale di calcio italiana batte in finale per 3-1 la Germania Ovest di Rummenigge e si laurea per la terza volta campione del mondo. «Italia non farci svegliare da questo magnifico sogno»: più di cinquecento brianzoli salutavano così l’ingresso in campo degli undici scelti da Enzo Bearzot per l’ultimo atto del Mundial, davanti allo schermo-stadio di Giussano, allestito all’interno di un capannone. Trombe, tamburi, bandiere e fischietti non erano da meno, utili nell’accompagnare il grido «Italia, Italia, Italia», che accomunava la città lombarda allo Stadio Santiago Bernabeu di Madrid, massimo teatro della vicenda. Il silenzio non si fece aspettare: le note dell’inno di Mameli richiamano l’attenzione, Giussano, Madrid e con loro le altre città italiane si alzano, portandosi una mano al petto: «Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta…». Tutto è pronto e l’epica sfida può avere inizio: la tensione degli sportivi presenti allo schermo-stadio di Giussano è potuta esplodere solo nel secondo tempo. «Alla rete di Rossi è successo il finimondo, a quella di Tardelli le pareti sono tremate, a quella di Altobelli si è arrivati al limite della pazzia», scrive un giovane Maurizio Losa, futuro vicedirettore di Rai Sport, sulle pagine sportive de L’Ordine di martedì 13 luglio 1982. La fossa dei leoni, nome di battaglia della torcida giussanese, accoglieva dunque il triplice fischio come una benedizione: andate e festeggiate, si dia inizio al carosello. Così in compagnia di evviva e di

Una Mini decapottabile dipinta di tricolore, con i tifosi sul tettino. La passione dei brianzoli, nel ’82, fu senza limiti

Espana ’82 i protagonistix FRA PERTINI E BEARZOT Re Juan Carlos consegna nelle mani di Dino Zoff l’ambita Coppa del Mondo: il capitano quarantenne può mostrarla all’Italia intera. È una delle istantanee del Mundial, che si accompagna all’urlo di Marco Tardelli dopo il provvisorio 2-0 alla Germania Ovest e allo scatto che ritrae sull’aereo Pertini, Zoff, Causio e Bearzot, impegnati in una partita di scopa, con la Coppa al centro del tavolo. Tra gli eroi del Bernabeu, come non citare Paolo Rossi? Squalificato nelle stagione 1981-82 per la vicenda calcioscommesse, sarà capocannoniere del torneo e futuro Pallone d’oro, oppure il giovane Beppe Bergomi, titolare nella partita più attesa a soli diciannove anni. Il successo è passato anche attraverso la classe di Gaetano Scirea, compianto libero della Juventus e ai suoi compagni di reparto Claudio Gentile, Antonio Cabrini e Fulvio Collovati. Illuminante, a centrocampo, Giancarlo Antognoni che saltà la finale, alle cui spalle stava Lele Oriali, mediano cantato da Ligabue e che all’epoca viveva a Desio. Davanti, fra talento e potenza, Bruno Conti, Francesco Graziani e «Spillo» Altobelli. D.C.

clacson imbufaliti, la folla tricolore ha invaso le strade della Brianza, come ricordano le parole de L’Ordine: «Giussano a Seregno in mezzo a due ali festanti di folla, dietro a un camion che ritmicamente lanciava coriandoli di carta e le note dell’inno d’Italia attraverso un megafono installato sulla cabina». E la paralisi delle strade seregnesi non tardò ad arrivare: un serpente di auto avvolte da bandiere bianco rosse e verdi occupa il centro cittadino, alternandosi con camion, trattori e addirittura con una motofalciatrice trainante un carrello zeppo di tifosi impazziti. La meta è piazza Roma, crocevia dei festeggiamenti. Quarantaquattro anni dopo l’ultimo successo mondiale (Francia, 1938) l’Italia è di nuovo in festa. Il cammino per arrivare a tanta gioia non è stato dei più facili: prima un girone in sordina, segnato dai pareggi con Polonia, Camerun e Perù, poi la svolta con l’Argentina di Maradona, segnata dalle reti di Tardelli e Cabrini. Ma l’opinione pubblica non concedeva ancora molto credito a Zoff e compagni: ci vogliono tre gol di un redivivo Paolo Rossi, messi a segno contro il Brasile di Zico, per far esplodere la gioia degli italiani. Poco dopo le sette di sera, biciclette, moto, auto e camion si sono riversate nelle strade di tutta la Brianza, bloccando il traffico dell’ora di punta: «…nessuno però ha protestato, anzi, chi faceva ritorno a casa dopo il lavoro si è unito volentieri alla gioia di una città, di una nazione, per l’impresa da poco compiuta», come sottolinea L’Ordine di martedì 6 luglio 1982. E durante il match è ri-sbocciato l’amore tra l’Italia e «Pablito», criticato fino ad allora: ora la «Fossa dei leoni» giussanese ne canta le gesta, dopo il secondo gol ai carioca. Il futuro capocannoniere dei mondiali spagnoli realizza una dopcontinua a pag.16

La cronaca Meda Tragedia nella notte magica

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a notte dell’11 luglio 1982 rimarrà legata ad immagini festanti, di gioia, urla, canti e risate. L’Italia è campione del mondo, ma per una famiglia seregnese l’entusiasmo si è trasformato in tragedia, spedendo tristemente nel dimenticatoio Rossi, Tardelli e compagnia al seguito. Dopo il fischio finale un giovane di 17 anni ha inforcato la sella della sua Vespa, desideroso di raggiungere gli amici a Meda, per festeggiare la vittoria del Mundial. Radio accesa e via, ma in prossimità di un incrocio, lo schianto fatale: una Fiat 128 con a bordo una famiglia medese investì il ragazzo, probabilmente per non aver rispettato la precedenza. Questo fu sbalzato a diversi metri di distanza, ricadendo con violenza sull’asfalto. In primis i soccorritori furono i passanti, quindi l’ambulanza, rallentata dai caroselli: la corsa all’ospedale di Seregno prima e a quello di Niguarda, poi furono inutili, a causa delle gravi lesioni riportate nello scontro con l’automobile. Nel cuore della notte il giovane seregnese perde la vita, con l’urlo di gioia strozzato in gola.

15 Giugno/Luglio 2010

SEREGNO, GIUSSANO 1982

Sport 1982 Italia campione del mondo in Spagna


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BRIANZA 1970-1982

Giugno/Luglio 2010

continua da pag.15

pietta anche in semifinale con la Polonia, aprendo le porte alla finalissima di Madrid, il cui esito tutti conosciamo. Rileggiamo L’Ordine a celebrare il trionfo, sfondando in una dimensione parallela, che oggi, 28 anni dopo, è ancora più difficile comprendere,. Il pensiero corre veloce al 1945, al ritiro delle forze tedesche: «I più anziani sono riandati con la memoria e i loro ricordi a tanta festa, sono fermi alle giornate della liberazione, al dopo guerra. Anche se il clima allora, era diverso. L’Italia ha riscoperto il tricolore, troppo spesso lasciato in un canto…». Non solo, ci si è anche resi conto di quanto sia piacevole passare una serata in compagnia, come testimonia Renzo, di Paina: «Vedere le partite così è certamente un’altra cosa, molto meglio che stare in casa davanti al televisore». Chiude Enrico, anch’egli abitante della frazione di Giussano: «Lo sport va vissuto e questo mi sembra un modo bello per viverlo tutti assieme». Cronache che fanno capire quante cose ci siamo perduti con l’uscita dal mondiale sudafricano

Costume Maga brianzola predice il trionfo

ITALIA CAMPIONE, LO DICONO LE CARTE Da Italia-Brasile in poi, l’Ordine consulta un’indovina che legge il titolo nei tarocchi

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ra già tutto scritto, tanto vale non emozionarsi per esiti che già si conoscono e concentrarsi su altro: una maga brianzola ha lasciato lo zampino nel successo azzurro. Prima della sfida fra Italia-Brasile, sull’edizione de L’Ordine uscita domenica 4 luglio, alla vigilia dello storico match, appaiono le dichiarazioni di una presunta maga brianzola, che con decisione spazza via ogni dubbio sulla sfida tra azzurri e verdeoro: «Vincerà l’Italia, sarà un successo duro, sofferto, di misura». Nessuna invenzione, parola delle carte, che a dir suo, non sbagliano mai. A presentare questo strano personaggio è Emiliano Ronzoni, giornalista di punta del quotidiano e attuale direttore del Parco della Valle del Lambro. «La stanzetta in cui ci riceve non ha niente del classico clichè usato da maghi e cartomanti. La sua voce non è cupa, ma sa di terra brianzola, usa cadenze ed espressioni che sono solite risuonare nei mercati di paese». La cartomante è precisa : «C’è un atleta malato, pensa troppo alle femmine e perde i colpi…ce n’è anche uno che non va, ma in questo caso è solo

perché proprio non sa giocare a pallone». Fra i lettori qualcuno sorride, qualcuno ironizza e assesta agli scettici il primo colpo: Italia-Brasile termina 3-2, vittoria sofferta e di misura, come era stato pronosticato dalle carte. Ronzoni torna così dall’indovina, che sceglie di avvolgere nel mistero la sua identità, non divulgando informazioni su di sé. E il gioco continua: arriva il turno della semifinale con la sorprendente Polonia e il quotidiano ritorna a far visita alla maga brianzola, in caccia di pronostici positivi. L’Italia è già da corsa, tutto facile. Ma della finale al Bernabeu con i Tedeschi che dire? «È vittoria certa», la maga non lascia dubbi, l’Italia trionferà nettamente contro la Germania, dato che fra le carte è uscita quella della Fortuna, legata a Successo e Trionfo, secondo la teoria dei cartomanti. Così L’Ordine potrà titolare: «L’Italia ha giocato in dodici: una maga li spingeva al gol!». Nessun dettaglio sull’identità della maga, anche se le vendite di copie del quotidiano brianzolo volarono letteralmente. Come gli Azzurri di Bearzot.

Messico 1970. Italia-Germania 4-3 tripudio fino all’alba

E RIVERA ILLUMINÒ LA NOTTE DI SEREGNO Brianza in festa nella notte dell’Atzeca, nella partita più bella della storia. L’Italia di Valcareggi perse poi la Coppa Rimet contro il Brasile di Pelé ma tornò a casa con onore

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a partita del secolo». Sono passati quarant’anni dall’incredibile Italia-Germania 4-3 e ancora la si nomina tutto d’un fiato, tirando il respiro solo dopo aver pronunciato la «e» finale. Era il 17 giugno 1970 e i protagonisti di quella che si presentava come una semplice semifinale dei Mondiali messicani, probabilmente neanche s’immaginavano quello che sarebbe successo. È l’Italia di Gigi Riva e Sandro Mazzola, potenza e classe, contrapposta all’esperienza e alla solidità della Germania Ovest, capitanata dal leggendario Franz Beckenbauer: la sfida va in scena allo Stadio Atzeca di Città del Messico, davanti a più di centomila persone. Boninsegna fa subito il suo dovere, portando in vantaggio gli azzurri, ma al novantesimo minuto esatto Schnellinger riporta il risultato in parità. I supplementari entrano di diritto nella storia del calcio: Gerd Muller realizza l’1-2, Burgnich pareggia, Riva riporta in vantaggio l’Italia, che è raggiunta ancora da Muller. Al terzominuto di supplementari Bonimba ha ancora la forza di scattare e di mettere in mezzo all’area tedesca un invitante pallone per Gianni Rivera. Il golden boy del calcio italiano non sbaglia e il 4-3 è storia già scritta, mandando in delirio folle di italiani da ogni parte del mondo. Il Cittadino del 20 giugno 1970 riporta il tripudio degli sportivi se-

L’impresa dell’Atzeca contro la Germania generò un’ondata di entusiasmo in tutta Italia

regnesi: «…il centro di Seregno è stato teatro caroselli di macchine a clacson spiegati, con sventolio di decine e decine di tricolori». E siamo alle 3 di notte. Nulla importa se il giorno dopo, un giovedì qualunque sarà una giornata di lavoro: «…l’incredibile frastuono, spettacolare per la sua nota di improvvisazione e tripudio, è durato sino all’alba…». Non da meno sono stati i comuni vicini: «I tifosi locali hanno poi prolungato la loro festa formando lunghe colonne e dirigendosi verso i centri vicini di Desio, Giussano, Meda, Carate, Verano ed Albiate, dove hanno alternato canti a grida d’esultanza di “Italia, Italia!”».

La finale e l’avversario è il temibile Brasile di Pelè il 21 giugno, nuovamente all’Atzeca, dove per l’occasione si radunano 107mila spettatori, ma tra le due formazioni c’è troppa differenza. Pelè apre le marcature, Boninsegna pareggia, ma l’Italia crolla sotto le giocate della “Perla nera”. Al termine dell’incontro, chiusosi sul 4-1 per i verdeoro, Burgnich, a cui toccò il compito di marcare il numero dieci brasiliano, dirà «Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo». E tutto l’entusiasmo italiano? Sparito con la sconfitta? La Brianza rende comunque onore ai vice-

campioni del mondo, come racconta l’edizione del 27 giugno del Cittadino, che titola: «Vince il Brasile ma si esulta egualmente». Insomma, il clima di festa non è stato intaccato dal sogno svanito: «Al termine della partita, che ha falciato tante speranze italiane, un folto gruppo di persone ha voluto egualmente manifestare col solito carosello di macchine al suono spiegato di clacson e con lo sventolio di tricolori per le vie del centro». La Nazionale di Valcareggi non avrà vinto il Mondiale, ma si è ritagliata un posto d’onore nella storia dei Mondiali. E nel cuore degli sportivi della Brianza e di tutta Italia.


Sport 1979, il Monza perde lo spareggio per la serie maggiore

SCIOLTO AL SOLE IL SOGNO DELLA A

17 Giugno/Luglio 2010

Tremilacinquecento brianzoli festosi l’avevano accompagnata fino a Bologna, ma la squadra di Massimo Silva cede di schianto a un volitivo Pescara di Daniele Corbetta

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a stazione ferroviaria di Monza straborda di persone. È la prima domenica di luglio e la scena che appare è surreale: nelle prime ore del mattino è in partenza un treno speciale, in direzione Bologna. I protagonisti dell’esodo sono caratterizzati dai colori biancorossi, onnipresenti su capi d’abbigliamento, bandiere e striscioni: il Monza va a giocarsi contro il Pescara lo spareggio per accedere alla serie A. È il 1 luglio 1979, giornata che sarà riconosciuta unanimemente come la più importante nella storia del calcio monzese e in generale di quello brianzolo. L’A.c. Monza, allora guidato dal presidente Giovanni Cappelletti, è al terzo tentativo consecutivo di salita nella massima serie italiana. I due anni precedenti al ’79, ottimamente giocati, erano stati compromessi da sconfitte all’ultima decisiva giornata. Comprensibile allora l’aspettativa dei tifosi, che si riversano in oltre 3mila verso l’Emilia. Già il lunedì seguente all’ultima di campionato, che ha sanzionato l’arrivo a pari punti di Monza e Pescara, La Notte titola senza mezze misure: «Forza Monza!». L’augurio del quotidiano della sera milanese non poteva altro che essere per la squadra biancorossa, ricordando inoltre che «Brianza fa rima con speranza» e proponendo un’intervista a un raggiante Cappelletti. Si arriva così al fatidico giorno: quella mattina, alla stazione di Monza, c’è anche Giorgio Fumagalli, all’epoca diciassettenne con il cuore a tinte biancorosse: «Sembravamo tantissimi, era un bellissimo spettacolo» ricorda oggi per il Giornale della Memoria. «Ho ancora impressa l’immagine alla partenza del convoglio, quando tutti ci sporgemmo dai finestrini per salutare e sventolare sciarpe e bandiere». Giorgio è un monzese doc, del quartiere Cederna, e all’età di quindici anni entrò per la prima volta

Storia centenaria I FASTI DI MR SIMMENTHAL L’Associazione Calcio Monza e Brianza nasce il 1˚ settembre 1912, con il nome di Monza Fbc. L’anno dopo, diventata A.c. Monza, esordisce in terza categoria. Inizia una lenta ascesa che culmina, nel 1951, nella conquisa della B sotto la guida di Annibale Frossi. Nel 1955 Gino Alfonso Sada, titolare della Simmenthal, diventa il presidente della società e inaugura una stagione di successi, fino ai primi anni ’60, tanto che nel ’65 gli viene intitolato lo stadio nel 1965. Nel ’72 Giovanni Cappelletti assume la presidenza: dopo un pessimo campionato in B, arriva la vittoria della Coppa Italia di serie C e il Torneo Anglo-Italiano, nel ‘76. Nella sua storia quasi centenaria, il Monza non è mai riuscito a raggiungere la A, perciò il triennio 1976-79 è considerato come il periodo d’oro. Nel 1982 scende in C1 e poi rimane a pendolo per alcuni anni con la serie cadetta. Da allora un nuovo stadio e un fallimento.

allo Stadio Gino Alfonso Sada, dove si disputava Monza-Mantova, terminata con la vittoria dei brianzoli. Fu un colpo di fulmine, un amore che è continuato anche a distanza di trent’anni, passando anche per l’adesione alle Brigate Biancorosse. «L’attesa e i preparativi furono davvero straordinari, senza dubbio si tratta della trasferta con la più alta partecipazione di sempre. La città era completamente biancorossa, c’erano striscioni e bandiere, ovunque perché il match era molto sentito da tutti i cittadini e anche dagli abitanti dei comuni limitrofi, come Villasanta, Lissone e Vedano».

La truppa brianzola giunge così alla stazione di Bologna, dove viene organizzato il corteo, scortato dalle forze dell’ordine, diretto allo stadio Dall’Ara. «Si unirono a noi le persone giunte in Emilia con pullman e auto. Allo stadio toccammo circa tremila cinquecento presenze». Ma la presenza pescarese non fu da meno, anzi fu una vera e propria invasione: come ricorda il Cittadino di giovedì 5 luglio che racconta di «emigrazione di massa abruzzese, si parla di tre treni e ben duecento pullman, senza far conto degli innumerevoli mezzi privati». I biancoazzurri sono 30mila. «Una volta entrati abbiamo notato che la curva a noi riservata, la San

Luca, era già stata occupata dagli abruzzesi. Abbiamo dovuto farci largo tra i nostri avversari, ma in ogni caso rimanemmo intimoriti da così tanta affluenza e calore. Al fischio d’inizio si sentivano solo loro». In particolare Giorgio sottolinea il maggiore entusiasmo dei pescaresi che, durante i 90 minuti, risultano il vero e proprio dodicesimo uomo in campo. Sarà per il tifo preponderante, sarà per il grand caldo o per la paura del traguardo ma il team brianzolo s’impalla, cincischia, fa registrare una partita scialba. «Un Monza complessato battuto nello spareggio», scrive il Cittadino che aggiunge: «La squadra di Magni ha giocato contratta per l’emozione che ha attanagliato i suoi pur validi giovani». Stessi toni sul Giorno, che apre con «Pescara in A; brianzoli nervosi e spenti (mai un vero tiro in porta)». Massimo Silva, bomber che ha accompagnato con i suoi gol il Monza allo spareggio, non è bastato. La maggiore esperienza abruzzese ha fatto il resto: il Pescara, dopo un’ora, si trova sul 2-0 e liquida la pratica brianzola, spostando la concentrazione sulla festa per la promozione e relegando al ruolo di intrusi i tremila monzesi. «Delusione? Beh, certo, fu davvero molta», racconta ancora oggi con amarezza Giorgio, « perché avrebbe potuto essere un bel trampolino di lancio per Monza e per la Brianza, ma così non è stato. Purtroppo», conclude, «ora allo stadio Brianteo per le partite di cartello ci sono al sì e no 1.500 spettatori». È questo l’altro grande rimpianto di Giorgio ha un rimpianto: che il Monza non riesca a raccogliere il seguito che aveva all’epoca. «Sono anni che non si vede una bandiera su un terrazzo. E pensare che ci si trovava fra amici per fabbricarle, per poi girare in motorino sventolandole». Quel che è stato, è stato. Il 1˚luglio ’79 rimane nella memoria dei monzesi come un grande giorno, il più lungo nella storia biancorossa

MONZA 1979

Rara azione del Monza: la sforbiciata di Massimo Silva sfiora il palo all’inizio del match


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18 Giugno/Luglio 2010

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Dove approfondire

Alpinismo in digitale «Con i miei andavo sempre al mare ma poi mio padre morì nel 1953 e da allora si restava a casa. Che cosa si poteva fare a Monza in quegli anni? L’oratorio e la montagna». Così Nando Nuseo in una bella intervista-video che si può trovare nell’archivio digitale ModiSCA, una vera e propria biblioteca online per tutti coloro che amano la montagna, con risorse sotto licenza creative commons e quindi aperte per un uso non-commerciale. Autori dell’intervista, in cui lo scalatore monzese ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera alpinistica, è stata realizzata da Sabrina Bonaiti e Alberto Benini. Cliccare su http://biblioteca.modisca.it/items/filmati/interviste/12

Montagna/1 1960, l’impresa dello scalatore monzese

LA CIMA PRIMA DELLA NAJA Alla vigilia del servizio militare, Nando Nusdeo decide di arrampicare sulla Grande di Lavaredo seguendo una via che, anni prima, era stata fatale concittadino Scalvini

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a cartolina l’aveva come caricato a molla. La chiamata militare per Nando Nusdeo, g iovane monzese con la passione per la scalata, era stata come uno shock. Prevedendo un lungo periodo di inattività in grigioverde, s’era messo ad arrimpicare come un forsennato. Il Cittadino del 9 luglio 1960 riportava infatti la sua ultima impresa prima di partire militare, titolando: «Il monzese Nusdeo scala la Cima Grande di Lavaredo e poi passa alla naja». Il giornale rivelava infatti che, «la domenica precedente con Giorgio Bonfanti aveva compiuto l’escursione sulla parete nord-est della Brenta alta: una gitarella a tempo di record, che poteva bastare a iscrivere il suo nome fra i protagonisti della stagione». L’appetito, anche per gli scalatori, viene mangiando, così il 16 giugno Nusdeo «si piazza alla base del Gran Pilastro della Tofanadi Roces in compagnia di Taldo Vasco: guarda un poco in su e decide di ripetere la via Costantini-Apollonio». Passa la notte all’aperto, in un «sacco piuma», come si diceva 62 anni fa, essendo ancora chiusi i rifugi in zona. Di buon mattino, l’attacco alla parete. Nel punto che tradì Roberto Scalvini «Le difficoltà iniziali sono un aperitivo: un quinto grado che prelude al sesto superiore dell’intera via». Traversata tosta, si giunge presto a una fessura «sbarrata da piccoli tetti». L’arrampicata libera spesso non basta è c’è da piantar chiodi nella roccia. Si procede per ore in questo modo, sino «a un buco verticale che viene superato per giungere sotto i tetti» che caratterizzano la parte centrale di questa parete. «L’arrampicatore», garantisce il Cittadino, «non conosce lo sgomento: ma un brivido l’attraversa dopo il primo tetto: qui l’amico monzese Renato Scalvini, sei anni fa, non riuscì ad andare oltre». Scalvini, riporta la stessa cronaca, «fu tradito da quella roccia friabile e marcia», la stessa che «rallenta l’andatura sino al massimo della prudenza». La scalata deve però continuare, perché la conformazione della roccia, in quei passaggi, non consente di sostare: «Ancora dei tetti, poi un’enorme pancia che costringe a denti stretti, poi alcune fessure e camini, poi una placca gialla che apre sulla cima dello spigolo». Ore 20, dopo un’arrampicata estenuante, «il Nando» raggiunge la cima del Pilastro. Ma non è quieto, quella cartoli-

La via seguita da Nosdeo sul Lavaredo. Sotto, Nando, secondo da destra, con alcuni amici. (Foto Teresina Airoldi, ModiSCA)

Sulle vette del mondo DAL RESEGONE ALLE ANDE «Il nostro era un alpinismo operaio», ama ripetere Nando Nusdeo, monzese classe 1938. E l’operaio Nando l’ha fatto davvero e a lungo alla Cgs di Monza, dopo un diploma professionale. A quindici anni comincia ad arrampicare con i Pell e Oss monzesi su Resogone e Grigne e, nel 1961, diventa accademico del Cai. Molte le imprese legate al suo nome: la Via Bonatti sul Grand Capucin, lo Sperone Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses , le pareti nord delle cime di Lavaredo (Via Comici e la Via Cassin), la parete ovest del Dru. Negli anni 60, si impegna in spedizioni all’Estero rimaste memorabili, come quella alle Torri del Paine (Patagonia) nel ’62, dove conquista la Torre Sud, dedicandola a Don Alberto M. De Agostini, il famoso prete-esploratore. Lo stesso anno, con il lecchese Giuseppe Det Alippi, sulla tremenda parete Nord dell’Eiger, salva due inglesi in difficoltà e per questo è premiato con l’Ordine del Cardo. Tre anni dopo, nel ’65, conquista la Cordillera Blanca (Aguya Nevada), mentre nel ’68 lo troviamo in Afghanistan sul Lunko occidentale e, nel ’69, in vetta all’Alpa Mayo (Cordillera Blanca. A 62 anni, nel 2000, raggiunge la cima dell’Amadablan, a quota 6854 metri.

na azzurra è come un chiodo nel cervello che può togliere solo provando ancora cuore e muscoli sulle pareti dolomitiche e il monzese si trova un altro compagno di arrampicata: il lecchese Casimiro Ferrario, uno dei mitici Ragni. Con lui vuole attaccare la direttissima sulla parete Nord della Cima di Lavaredo. Una via internazionalmente ambita. Furono dei tedeschi, per primi, ad aprirla, guidati da Dietrich Haasse, seguiti, due giorni dopo, da una cordata italiana con Maestri e Holzer. Imprese che furono seguite di poco dalle scalate di francesi, svizzeri e austriaci, tutte un po’ in gara le une con le altre. «Ma il giovane lavoratore monzese non è ancora stella di prima grandezza da presenziare a queste “prime”: in fondo una ripetizione di tal genere significa solo mancanza di mezzi finanziari; non minore solidità dell’audacia», chiosa il Cittadino. Diedri strapiombanti che sporgono fino a 20 metri Il 27 giugno, prime o non prime, Nando Nosdeo arriva a Misurina e «si “beve” in tre ore lo spigolo giallo per la via Comici sulla Cima piccola di Lavaredo che attacca l’indomani ancora al buio - sono le 4,30 - alternandosi col compagno di cordata. Un attacco duro quello, come spiegano gli esperti è il pezzo forse più difficile. Quando arriva notte, i due scalatori fanno il bivacco sotto i diedri strapiombanti «che misurano circa 120 metri». L’alba dell’indomani si porta con sé una sorpresa poco gradita: la neve, che frusta i due irrefrenabili alpinisti, chiamati a superare strapiombi «che si sporgono sino a 20 metri». A sera, anche quell’ennesima prova è superata e i due possono fare un bivacco ristoratore in un terrazzino fra le pareti. Ma è freddo, ancora tanto, troppo freddo lassù. Il 30 giugno, per fortuna, la neve cessa ma “i camini, i tetti sono innevati e le mani congelano” e la salita si fa drammaticamente pesante. Un sforzo, ancora, col cuore, oltre che con i muscoli e con la tensione nervosa e la Cima è conquistata. Con una sopresa: sulla vetta trovano una cordata di scalatori tedeschi che li aveva preceduti di pochissimo da un’altra via. Il monzese e il lecchese arrivano stravolti ma, come accade sempre in imprese impervie e avversate dalle condizioni atmosferiche, col cuore gonfio di orgoglio. Lassù le Dolomiti, l’Italia e tutto il mondo che riescono ad abbracciare con lo sguardo è ora molto più bello


Montagna/2 1957, sciagura sulla Segantini

E LA GRIGNETTA FECE PIANGERE GIUSSANO

19 Giugno/Luglio 2010

Quattro amici poco più che ventenni, in una bella domenica di giugno, scalano la storica parete prealpina. Ma di colpo la cordata precipita: muoiono in tre, si salva il capocordata

Arrampicata sulla Segantini, in una foto d’epoca. Sotto, Giuliano Dell’Orto e Achille Vergani, vittime dell’incidente

le cresta, può guardare a perdita d’occhio, quel pezzo di Lombardia. Forse le nuvole si diraderanno, forse si vedrà giù da basso, anche la Brianza dischiudersi, forse si riconosceranno i paesi, si indovineranno le case. Forse. E invece no, perché Turati, mentre sta facendo un balzo ulteriore verso la Segantini, sente le corde tirarlo giù con una frustata terribile.Sente il suo corpo sfiorare le pareti, picchiare sugli spuntoni, si sente perso in un volo senza fine. Oh Madonna, aiutaci. Poi il buio, il silenzio, il sonno. Riapre gli occhi nel letto 23 dell’Ospedale di Lecco. Scrive il Corriere Lombardo, un giornale della sera uscito il lunedì, che «giace in un grande camerone, in fondo a un lungo corridoio al primo piano: egli è stato giudicato guaribile in 25 giorni per trauma cranico, ferite lacero contuse, abrasioni multiple, ematoma alla regione lombare sinistra e grave choc traumatico». Non sa, Turati, che i suoi amici sono stati meno fortunati. La Grignetta se li è presi tutti e tre. Uno di coloro è scivolato, tirando giù tutti e quattro. I Ragni e il Cai di Lecco, guidati dal grande Riccardo Cassin, ne hanno recuperato i corpi a fatica. Cinque ore, ci sono volute per tirar su le salme da un burrone di 300 metri dove erano precipitate. Achille Vergani è vivo quando i soccorritori lo individuano. Incosciente ma respirava ancora. Gli uomini delle squadre di soccorso, mentre issano la barella, pregano che ce la faccia, che la sua vita sia risparmiata. Ma perde troppo san-

gue e mentre sono alle viste del rifugio Porta, Achille esala l’ultimo respiro. I tre amici si ritrovano nell’obitorio dell’ospedale dove cominciano ad arrivare, increduli, i familiari. Il Corriere lombardo racconta che la notizia arriva a Giussano, nel tardo pomeriggio della domenica: un lampo di dolore che spezza le risate dell’oratorio e le chiacchiere nei bar. Tra i primi ad arrivare sono il fratello di Turati, Angelo di 27 anni. L’indomani mattina presto, anche suo cognato Erminio Barzaghi e Gianluigi Zorloni. Tre famiglie distrutte piangono tre vite troppo brevi. Progetti, sogni, attese e desideri precipitati nella morte, come loro tre lungo la parete maledetta. A Giussano e a Inverigo,dopo lo sbigottimento e lo choc, è il momento della preghiera, per chi ha fede, o

della riflessione per chi non ne ha. L’anonimo cronista mette insieme qualche notizia sulle vittime. Giuliano Dell’Orto studiava al Politecnico, dove sognava di diventare architetto. La domenica si trasformava in cronista sportivo, come corrispondente di alcuni giornali. Alle spalle una famiglia benestante, il padre lavora in banca, a Cantù ed è molto noto per esser consigliere provinciale del Coni; la madre cura la casa e si occupa di Giuliano e del fratello. Nessuna notizia di Luisa Ciceri, l’impiegata di Inverigo, ma è facile immaginare lo strazio del paese, degli amici della scuola o dell’oratorio, di quanti l’avevano incontrata la sera prima, lungo il corso, scambiondo un saluto o un sorriso e che il mattino dopo, andando al lavoro, dicono a mezza voce che «la Luisa non c’è più»

GIUSSANO 1957

E

rano partiti di buon mattino, poco prima delle 7, da Giussano. Si annunciava una domenica calda anche se il cielo, quel 23 giugno del 1957, era coperto. Tre giovani amici, tre appassionati della montagna: Giuliano Turati, ventenne, Giuliano Dell’Orto, 19 anni, e Achille Vergani, classe ’34. Obiettivo, la mitica Cresta Segantini, sulla Grignetta. Vanno con l’auto del Vergani, anzi l’auto del papà di lui, scomparso l’anno prima. Da quel momento Achille aveva dovuto pensare, insieme alla mamma e alla sorella, all’aziende di compensati, bene avviata dal padre. E c’era riuscito molto bene, malgrado la giovane età. Il terzetto diretto a Lecco fa una sosta a Inverigo, dove sale Luisa Ciceri, un’amica di Vergani di Inverigo, 19 anni e già un lavoro da impiegata in un’azienda della zona. Forse fra Achille e Luisa c’è più di una simpatia, forse sta nascendo un amore. Forse. Arrivati a Piani Resinelli, il gruppo di amici assiste alla messa domenicale. Altri scalatori e i semplici escursionisti della domenica li vedono nella chiesetta, seduti vicini, con gli zaini ai piedi, sereni e belli come lo si può essere a vent’anni. Il tempo di rispondere alla benedizione del sacerdote, col kyrie eleison, che la Grignetta li vede incolonnarsi nel verde verso le rocce imperiose. Non sono ancora le 9,30 che i quattro sono a imbracarsi ai piedi della parete. Giuliano Turati è un esperto, è iscritto al Cai del suo paese. Da scalatore provetto, ha affrontato pareti impervie come le rocce della Val Masino. In vetta alla Grignetta c’è già stato varie volte, è lui che guida la cordata. Intorno alle 13 e 30, i quattro raggiungono la Lingua, circa 250 metri dalla cima che è avvolta dalle nubi. L’ascesa è stata faticosa, certo, ma senza particolari problemi: e l’allegria mitiga lo sforzo dell’arrampicata. Malgrado sia un giugno caldo, tanto che a Milano la gente fa i bagni nel Villoresi, l’altitudine rende l’aria piuttosto fresca. Giuliano Turati punta la vetta, procede di appiglio in appiglio, misura gli appoggi, cerca con lo scarpone gli anfratti giusti nella parete di roccia. Sotto gli amici lo seguono, osservando i suoi spostamenti che segnano gli accosti sicuri. Il gruppo già pregusta la cima e l’indicibile soddisfazione di chi ha ragione della montagna e, dal-


20 Giugno/Luglio 2010

Costume 1940-50, il Canale è una spiaggia dove talvolta si muore

IL MARE AL VILLORESI La Brianza povera del dopoguerra sfugge i primi caldi domenicali sulle rive del grande corso di irrigazione che dal Ticino raggiunge l’Adda. E talvolta il bagno è fatale

BRIANZA 1944-1955

I

l mare di molti brianzoli per decenni è stato il Villoresi. Nella Bassa Brianza, ai primi caldi estivi, i ragazzi correvano a cercare refrigerio nelle sue acque e a prendere il sole sulle sue sponde piuttosto irte. Al Museo della fotografia contemporanea di Cinisello, si possono ammirare gli scatti in bianco e nero di Francesco Patellani, che riproduciamo in queste pagine. Ritraggono il Canale alla fine degli anni ’40, trasformato in uno stabilimento balneare a cielo aperto. Ragazzini a decine e tanti giovanotti, con costumi che arrivavano all’ombellico, ronzare, come mosconi, intorno ai gruppetti di belle ragazze, inguainate in mise perlopiù intere, anche se si scorge qualche temerario due pezzi, ancorché castissimo nella foggia. È la Brianza popolare e ancora povera, che non conosce, per la maggior parte, la vacanza piccolo borghese nelle pensioncine liguri o di Romagna o, qualche anno più tardi, negli appartamenti della Riviera di Ponente o nelle prime seconde case di Villa Simius. Una Brianza che, la domenica, programma la gita al Canale, sistemandosi nei campi di granturco confinanti, all’ombra di qualche alberello, per poi salire sulle alte sponde e andare a immergersi nelle acque freschissime che arrivano dal Ticino. Acque allora pulite e non ancora avvelenate dall’Olona o del Garbogera, destinati a diventare ricettacolo di scarichi civili e industriali. Acque insidiosissime, per la forte corrente e per le sponde talvolta cementificate, dove era difficile trovare appigli. E poteva succedere che, di tanto in tanto, qualcuno nel grande Canale lasciasse la vita. Se ne trovano notizie anche nelle cronache del 1944, mentre la guerra si avvicinava. Il Cittadino del 5 agosto racconta la fine Fortunato Ravasio, 19 anni, abitante nella frazione San Damiano a Monza. Nel pomeriggio di martedì 3, «si era recato a prendere un bagno nel Canale in località S.Albino». Sceso in acqua, «un grave malore lo assaliva qualche tempo dopo e, benche egli fosse un capace nuotatore, venne travolto dalla corrente». Il giornale racconta che «alle sue invocazioni di aiuto accorsero alcune persone le quali non riuscivano ad evitare che il poveretto venisse attirato in un mulinello nel sifone». Venne pescato poi dalla parte opposto, «quando, però, non gi rimanevano che pochissimi istanti di vita». Vano, il tentativo di strapparlo alla

Dopoguerra, l’Italia cerca la spensieratezza a lungo negata. La domenica ci si tuffa nel Villoresi

morte con la respirazione bocca a bocca: «Dopo le constatazioni di legge fatte dal maresciallo Di Feo», concluse l’anonimo articolista, «il cadavere venne trasportato all’abitazione». Sfogliando un’altra edizione del giornale monzese, quella del 23 luglio 1955, ci si imbatte in un’altra storia di giovane bagnante che cercando di sfuggire la canicola, si trovò ad andare incontro alla morte. Per una singolare coincidenza era proprio di S.Albino, dove undici an-

ni prima Ravasio aveva perso la vita. Si chiamava Mario Brambilla, classe 1939 e chissà quante volte i suoi genitori gli avranno ricordato la morte di quel giovanotto di San Damiano. Anzi, forse quel giorno del 1944, sarà accorso pure lui, sulle rive del Canale, attirato dalle urla dei soccorritori e dal trambusto conseguente.E invece le cronache raccontano che sabato 22, «due uomini della cascina Offelera di Agrate, alle ore 20, videro affiorare dalle acque del Vil-

loresi un corpo inanimato» quello di Mario Brambilla. Il giovane «era tornato mezz’ora prima dal lavoro, subito recatosi al canale per un bagno». Secondo le ricostruzioni, era stato «colto da capogiro o malore, improvvisamente cadeva in acqua dall’argine senza essere in condizioni di far fronte al pericolo. La corrente lo travolgeva e il giovane miseramente annegava». Il Canale, per l’ennesima volta, non aveva perdonato


21 Giugno/Luglio 2010

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Di chi si parla

Progetto brianzolo Nella foto di Angelo Cremonesi, ne Il Canale Villoresi (Selecta), la prima chiusa

Cronaca 1970, annegamento a Paderno Dugnano

LA CORRENTE ASSASSINA

Il gioco di pomeriggio d’agosto, per tre ragazzini di Seregno, si trasforma in tragedia. Il Villoresi di colpo ne porta via uno, Francesco. Lo ritroveranno solo al tramonto

U

n bagno nel Villoresi», la proposta, in quel caldo pomeriggio d’agosto del 1970, aveva convinto tre ragazzini di Seregno, Francesco, Paolo e Mauro. Tre ragazzi pieni di vita. Hanno, rispettivamente, 17, 16 e 14 anni. Solo un mese prima, erano stati a ballare e a cantare per le vie della città, esaltati alle prestazioni della Nazionale ai mondiali del Messico. Non si sa, quel venerdì, avesse lanciato l’idea, fatto sta che tutti e tre avevano inforcato le biciclette e si erano avviati verso Paderno Dugnano, vicino al casello numero 4 delle Ferrovie Nord. Lì, grazie a un pontile che attraversa il Canale, bagnarsi e più semplice e più sicuro e la cosa è fondamentale, perché nessuno, nel terzetto, sapeva nuotare. Il gruppo di amici aveva escogitato un sistema per mettersi a mollo nella corrente fresca che arrivava dal Varesotto: uno seduto sul pontile, l’altro immerso ma tenendosi

Grandi musei MEMORIA FOTOGRAFICA Il Museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo costituisce un formidabile giacimento di cultura fotografica. Nella sede di Villa Ghirlanda (via Frova, 10) sono conservati importantissimi fondi fotografici ma anche 20mila volumi sul tema. Centro di vari iniziative culturali, il Museo propone mostre di grandi maestri. Info: www.museofotografiacontemporanea.org

alle gambe penzolanti del primo e l’altro ancora, a ridere e scherzare con loro sull’attraversamento di legno. «La facile combinazionesi ripeteva ormai da diversi giorni con notevole divertimento da parte dei ragazzi», scrisse il Cittadino del 22 agosto, l’edizione che riprendeva dopo la pausa estiva. Quell’innocente divertimento si

era infatti trasformato in tragedia: intorno alle 17, toccava a Francesco bagnarsi mentre Mauro stava sopra, a far da presa. All’improvviso, forse per un malore, forse, come scrive il giornale, «per un improvviso colpo della corrente», Francesco lasciava la presa e spariva sott’acqua, fra la disperazione dei due amici.

Le loro urla e il loro pianto richiamavano gli abitanti delle case vicine e quindi i carabinieri che accorrevano con i Vigili del Fuoco. Sono loro ad avvisare la famiglia di Francesco, in via Arienti. Per ore, i sommozzatori lo cercano ma molti altri ispezionano il canale, per un lungo tratto più a valle del punto dove il ragazzo era sparito. C’era la speranza che il ragazzo fosse riuscito a nuotare nella corrente, riemergendo più avanti e magaari, stremato, fosse aggrappato a qualche cespuglio, incapace di muoversi e di chiedere aiuto. Ma a sera, intorno alle 21, quando anche l’intensa luce di agosto si era ormai affievolita, le acque del Villoresi restituivano Francesco, ma senza vita. I somozzatori ne ripescavano il corpo «sotto gli occhi esterrefatti del padre». Quel ragazzino per il quale aveva sperato probabilmente una vita laboriosa e serena, che aveva tenuto in braccio tante e tante volte, era lì, sdraiato sull’erba, ormai livido per il freddo. Il sole al tramonto illuminava lo strazio di un padre, il dolore impotente dei soccorritori e il Villoresi che continuava a scorrere, impetuoso, verso l’Adda

Realizzato in 13 anni, dal 1877 al 1890, il Villoresi è un canale di irrigazione che collega il Ticino, all’altezza della diga del Pan Perduto, all’Adda, lungo un percorso di 86 chilometri che taglia una vasta area della Lombardia, a nord di Milano. Tributario di vari corsi d’acqua e torrenti. Porta il nome del suo progettista, l’ingegner Eugenio Villoresi, monzese e figlio di Luigi, direttore dei giardini della Villa Reale. Nato appunto come opera di sostegno all’agricoltura, per lunghi anni servì ai trasporti, visto che per lunghi tratti era navigabile. Riceve, in tutto o in parte, le acque di molti corsi d’acqua: Arnetta, Olona, Bozzente, Lura, Guida, Nirone, Cisnara, Lombra, Garbogera, Seveso, Lambro, Molgora, Trobbia, Vallone ed il naviglio della Martesana.


22 Giugno/Luglio 2010

Anniversari Quarant’anni dalle legge 300/1970

LO STATUTO IN AUTOBIANCHI

DESIO 1970

Dopo l’Autunno caldo del 1969, nel maggio dell’anno dopo, arriva la legge che tutela i dipendenti delle aziende oltre i 15 addetti. Nella grande fabbrica desiana andò così di Daniele Corbetta

N

ell’aprile del 1970 l’Autobianchi di Desio conta 3.952 dipendenti. Quell’anno, in tutta Italia, a maggio, entra in vigore la legge 300, meglio nota come Statuto dei lavoratori: una norma che sancisce molti diritti a favore dei dipendenti, anche se solo nelle aziende sopra i 15 dipendenti di organico. Un legge che si applicava all’Autobianchi di Desio dove nel gennaio del 1971, gli addetti erano saliti ancora, fino a quota 4.321, richiamando nella fabbrica piccoli negozianti, artigiani e impiegati locali, oltre ad un forte flusso di veneti, bergamaschi e meridionali, attirati da paghe relativamente alte. L’impatto fu formidabile anche dal punto di vista urbanistico: l’area verso la ferrovia venne occupata dallo stabilimento e il profilo urbano ne fu notevolmente condizionato. Renzo Di Bernardo è entrato all’Autobianchi nel 1968, lavorando in attrezzeria, alle prese con torni, frese e stampi, rimanendoci fino alla chiusura, nel ’92. «Con lo Statuto dei lavoratori», ricorda Renzo, «lo Stato ha portato a compimento il percorso di una legge figlia di quello che successe nelle ditte di tutta la penisola, con il movimento operaio che richiedeva una serie di norme che regolamentassero la vita in fabbrica». Fino al 1970 esisteva solo il contratto nazionale del lavoro, che però non era sufficiente a soddisfare le

Nelle foto di Pietro Vismara, alcuni momenti di lotta sindacale all’Autobianchi di Desio

esigenze del mondo lavorativo: le iniziative di lotta partirono a cavallo tra il ’67 e il ’68, da tutte le fabbriche del nostro Paese, Brianza compresa, sfociando negli articoli dello Statuto. In particolare, il 1970 fu un anno caldo per il colosso desiano: si dovette far fronte al recente assorbimento da parte della Fiat, con la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori di Torino, che usufruivano di vantaggi economici se raffrontati con i salari brianzoli.

Arrivare ad ottenere lo Statuto non fu un’impresa delle più semplici. La «lotta» si basò anche sullo sciopero del cottimo, al quale seguì una particolare forma d’intimidazione: «Per farci riprendere il cottimo ci diedero delle multe, che poi furono recapitate direttamente a casa, generando stupore e preoccupazione nelle nostre mogli, alle quali prima magari potevamo nascondere l’esborso non calcolato», afferma Di Bernardo.

Non solo: Renzo racconta che al momento dell’uscita dalla fabbrica per prendere parte ad uno sciopero le guardie erano solite mettersi presso i tornelli, intimidendo gli operai. «Scioperare era un nostro diritto, che pagavamo rinunciando a parte dello stipendio, con la consapevolezza che queste persone avrebbero segnalato gli scioperanti alla dirigenza, in particolare i primi, quelli che trascinavano fuori gli altri». Renzo ne ha una per tutti, in


Così nasce la legge

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FRA DI VITTORIO E BRODOLINI, LA LEGGE DEI LAVORATORI

Giugno/Luglio 2010

S

Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, conosciuto come legge numero 300 del 20 maggio 1970, recante «norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento», è uno dei capisaldi del diritto del lavoro italiano, entrato in vigore il 12 giugno di quarant’anni fa. Un’acquisizione, quella dello Statuto, cui i sindacati guardavano da tempo. Nel 1952, Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil, invocà a più riprese una riforma dell’intera materia, fino ad arrivare a Giacomo Brodolini, ministro socialista del Lavoro e della previdenza sociale che, nel 1969, richiese l’istituzione di una commissione nazionale per la redazione di una bozza di Statuto. Sarebbe stato lui stesso a chiamarlo Statuto dei diritti dei lavoratori, anche se non riuscì a vedere la legge perché morì nel luglio dello stesso anno. Lo Statuto si divide in sei titoli: uno dedicato al rispetto della dignità del lavoratore; due dedicati alla libertà ed alle attività sindacali; uno al collocamento, uno alle disposizioni transitorie e uno alle disposizioni finali e penali. In particolare l’articolo 1 sancisce la libertà d’opinione del lavoratore; quindi nel primo titolo sono apposti dei divieti per i datori di lavoro in merito al controllo dell’operato dei dipendenti e sono sanciti migliori controlli sulle condizioni di salute.

particolare per gli impiegati: «L’Autobianchi era sempre nell’occhio del ciclone, non si è mai avuto un mese senza scioperi. Ma i colletti bianchi rimanevano arroccati nella palazzina centrale. Agli scioperi alcuni si nascondevano». In questo ambiente si arriva al fatidico 20 maggio 1970, che il Il Metallurgico, mensile della Federazione italiana operai metallurgici-Fiom di Milano, del giugno ’70 celebra così: «L’esistenza di questa legge, non darà soluzione automatica ad ogni abuso, ogni illegalità, ogni atto di discriminazione, di limitazione delle libertà dei lavoratori da parte del padronato. Ancora una volta, la conquista di una legge a favore dei lavoratori non presupporrà la sua automatica applicazione. Ancora una volta, il suo integrale rispetto è affidato all’azione vigilante, all’intervento diretto dei lavoratori». Parole profetiche visto che ottenere l’applicazione della legge non fu semplicissimo. Anche all’Autobianchi: «La Fiat, azienda organizzata, cercava di ridurre al minimo l’impatto della nuova normativa, vista come una legge che dava molte possibilità ai dipendenti». Tuttavia Renzo ricorda anche svolte in positivo: «Lo Statuto ha fornito un ottimo strumento ai lavoratori: se usato bene la sua forza era notevole. Prima della sua introduzione, nelle catene di montaggio c’erano passerelle con i camminamenti, dove i sorveglianti control-

lavano l’attività degli operai. Ma erano inutili: ognuno in catena sapeva quanti pezzi doveva produrre alle fine della giornata, rendendo inutile un controllo esterno. Dopo lo Statuto questo fu vietato: ebbe grande importanza, permettendo di lavorare con maggiore tranquillità, senza intaccare la produzione». Naturalmente anche l’attività sindacale ne trasse benefici: il nostro cicerone, membro del consiglio di fabbrica, ricorda che «ci si riuniva fuori dai cancelli, nel prato davanti allo stabilimento.

La Storia

Bianchina e A112

Grazie allo Statuto ci furono dati il diritto di assemblea e quello di affissione. Inoltre fu regolarizzato il controllo delle visite mediche e dei provvedimenti disciplinari». La conseguenza diretta, in casa Autobianchi, fu l’accordo quadro del 5 agosto 1971, dove fu regolarizzata e regolamentata la dipendenza fra la fabbrica desiana e la Fiat. Renzo ricorda con piacere quei giorni: «Si era raggiunto un obiettivo, grazie alla presenza di uno spirito particolare. Avevamo messo insieme un gruppo che dava ri-

sposte a tutto. Abbiamo sviluppato competenze oratorie e comunicative, tant’è che alcuni di noi poi si sono inseriti all’interno della politica locale e regionale». Una sola ombra nei ricordi di chi ha speso ventiquattro anni nella storica fabbrica brianzola: «quando passo dall’area dello stabilimento ho sempre un rammarico; non c’è più nulla che ricorda la presenza della fabbrica». Dei capannoni che videro produrre la Bianchina non c’è più nemmeno l’ombra

L’Autobianchi nasce nel 1955, ma affonda le sue radici nella Bianchi, fondata nel 1855 da Edoardo Bianchi. In primis furono bicicli, poi velocipedi, tricicli a motore e quadricicli, fino ad arrivare al 1899, anno di costruzione della prima vettura Bianchi. La fabbrica cambia assetto in seguito alla seconda guerra mondiale, trasformando nel 1939 il reparto costruzione e dedicandosi esclusivamente alla produzione di veicoli militari. Al termine del conflitto la Bianchi incontrò diverse difficoltà economiche per riconvertirsi alla produzione di automobili: occorreva l’aiuto di un’impresa di grosse dimensioni. Nacquero così dei contatti con Fiat e Pirelli, da cui scaturì l’accordo che generò l’Autobianchi, con sede a Desio: siamo nel 1955. Due anni dopo esce la Bianchina, coupè a due posti e prima utilitaria postbellica. Quindi ci furono le versioni special cabriolet, panoramica, quattro posti, a testimonianza del grande successo della vettura. Prima dell’assorbimento da parte della Fiat del 1968 vennero prodotte la Primula, la Giardiniera e la A111. I gioielli più brillanti usciti in seguito dalla fabbrica di Desio furono la Panda, a partire dal 1980 e la Y10, dall’85. Nel ’92 si arriva però al capolinea: lo stabilimento di Desio viene definitivamente chiuso e la produzione della Y10 passa all’Alfa Romeo di Varese. Nel 2002 l’area dove sorgeva la ditta è stata smantellata, concludendo nel luglio del 2003 con l’abbattimento della «torre piezometrica», ultimo simbolo dell’ex-capitale dell’auto lombarda. D.C.


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Veronica, Il Circolo, Mariano Comense

Aurelio, Il Mio Macellaio, Villa Raverio

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