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Pagina successiva: M. Hoque, Lost in movement Fonte: Flickr
spazio
s. m., dal lat. spatĭu(m). Nell’intuizione comune, luogo vuoto entro cui si collocano e si muovono i corpi e che appare illimitato, tridimensionale e indipendente dal tempo | (mat.) ente astratto costituito da punti, la cui dimensione è data dal numero di coordinate introdotte per rappresentare i punti stessi e la cui struttura è determinata dal modo in cui viene definita la distanza fra essi: spazio ordinario; spazio euclideo, non euclideo
movimento
s. m., dal lat. movēre. Il muovere, il muoversi; moto, spostamento. In pittura, scultura e architettura, impressione di moto prodotta dalla particolare disposizione delle figure o degli elementi della composizione, dall’alternarsi delle luci e delle ombre ecc.; in un’opera letteraria o teatrale, dinamicità del ritmo narrativo
Politecnico di Milano Scuola di Architettura e Società Tesi di laurea triennale in Scienza dell’Architettura
CRITERI UTILI ALL’ELABORAZIONE DI UNA METODOLOGIA PER LA PROGETTAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO Analisi critica del rapporto tra spazio e movimento nella teoria di Bernard Tschumi Studenti: Ludovica Barcucci - 796187 Giulia Crotti - 795975 Relatore: Prof.ssa Antonella Contin 21 settembre 2015
INDICE
ABSTRACT
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INTRODUZIONE
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EVOLUZIONE DELLO SPAZIO URBANO Età antica Medioevo Periodo classico Periodo dello sviluppo industriale XX secolo
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IL MOVIMENTO COME PRESUPPOSTO PER LA CONCEZIONE DELLO SPAZIO Bernard Tschumi: spazio, azione, movimento, evento Il contributo Situazionista L’autonomia dell’architettura
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LA VILLETTE: LO SPAZIO DEL MOVIMENTO 45 Parc de La Villette, modello di flessibilità 45 Punti, linee e superfici: gli artifici della “mediazione astratta” 48 PRINCIPI TEORICI E STRATEGIE PROGETTUALI Multiplicity: dalla scena fissa al movie set Contest and object: dall’indifferenza alla corrispondenza Event spaces: architettura a breve e a lungo termine
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CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
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Pagina precedente: B.Tschumi, L’invention du parc. Grafite, 1984 Fonte: B. Tschumi, Event-cities 2, The MIT Press, Cambridge (Ma), 1994
ABSTRACT
La ricerca si pone come obbiettivo quello di indagare il concetto di movimento e, in particolare, le dinamiche che interessano il rapporto tra il movimento dei corpi, con le azioni e gli eventi che questo implica, e la prassi architettonica. Questa studio è finalizzato all’elaborazione di alcune strategie che dovrebbero costituire dei criteri importanti per la progettazione dello spazio pubblico contemporaneo. A livello metodologico, inizialmente, lo studio è stato portato avanti attraverso un’analisi storica di alcune fasi fondamentali dello sviluppo della città, condotta attraverso tre testi di riferimento: Espacements, figure di spazi urbani nel tempo di Françoise Choay, La città nella storia di Lewis Mumford e Histoire de l’Architecture di Auguste Choisy. Partendo da un confronto tra due esempi fondamentali, l’Acropoli e il Foro, si cercano di descrivere alcune tipologie di spazio pubblico urbano che hanno caratterizzato la storia della città fino ad oggi e la relazione tra queste e il movimento delle persone interagenti al loro interno. Dopo questa prima indagine storica, la ricerca si è occupata di approfondire il tema del rapporto tra spazio e movimento, letto attraverso il pensiero di Bernard Tschumi e affrontato in particolare all’interno della raccolta di saggi Architettura e Disgiunzione. In un contesto storico in cui il concetto di movimento è stato troppo spesso escluso dal dibattito teorico e dalle pratiche progettuali, fatta eccezione per alcuni casi specifici come le sperimentazioni artistiche di alcune tendenze di avanguardia o per determinate esperienze ascrivibili al contesto del Movimento Moderno (si pensi alla Promenade Architecturale lecorbuseriana), Tschumi si pone in contrasto con il pensiero all’epoca prevalente in architettura e si propone di dimostrare come i principi su cui si è fondata l’architettura tradizionale sono da collocarsi in un piano inferiore rispetto ad altri principi più adatti ad esprimere lo spirito della contemporaneità, e che si concretizzano nei concetti di movimento, azione, evento. Tschumi afferma infatti che «non c’è architettura senza azione, non c’è architettura senza eventi, non c’è architettura senza programma.»1 e questo poiché l’utilizzo di uno spazio implica necessariamente l’intrusione dinamica e talvolta violenta di un corpo all’interno dello spazio stesso, con le azioni e il moto che questo implica. Il movimento acquista quindi un ruolo di grande rilevanza nella progettazione degli spazi pubblici, che per loro natura, sono fatti per ospitare un grande numero di persone e, di conseguenza, una molteplicità di interazioni dinamiche differenti. La concretizzazione programmaticamente più significativa delle teorie espresse in Architettura e Disgiunzione è rappresentata dal progetto del Parc de La Villette, il cui concorso fu indetto nel 1982, e che fu vinto appunto dallo stesso Tschumi. Prerogativa del Parco è quella di essere spazio vuoto, capace di permettere l’intercambiabilità di oggetti, persone ed eventi. La concezione teorica e pratica del parco si basa sulla sovrapposizione di tre sistemi indipendenti di Linee, Punti e Superfici ma l’elemento di rilievo che riesce effettivamente a dare vita a interessanti interazioni dinamiche non è rappresentato tanto dal sistema delle Folies, che costituiscono il layer di Punti di una griglia ordinatrice del parco stesso e B. Tschumi, La Violenza dell’Architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 97
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che, di fatto, realizzano l’architettura in senso stretto, ma piuttosto dalla sovrapposizione e dalla intersezione di una green e di una grey infrastructure, di spazi verdi e di percorsi (Superfici e Linee). Dopo aver condotto lo studio critico sui saggi di Tschumi, si è cercato di estrapolarne i principi fondamentali e, attraverso una valutazione critica di questi e di alcune sue opere, di elaborare delle strategie che dovrebbero costituire dei criteri importanti per la progettazione dello spazio pubblico contemporaneo. Queste strategie, enunciate e illustrate nel dettaglio nell’ultimo capitolo, assumono delle definizioni specifiche: Multiplicity: dalla scena fissa al movie set; Contest and object: dall’indifferenza alla loro coincidenza; Event Spaces: architetture a breve e a lungo termine.
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Pagina precedente: Night Traffic going around the bend, 1962 Fonte: R. Wilkerson, The Suburban Legend!, Tumbrl
INTRODUZIONE Un elemento che è stato responsabile di profonde metamorfosi in tutta la nostra maniera di visualizzare il mondo esterno, tanto da un punto di vista percettivo quanto da uno estetico, è certo il movimento. Ma cos’è che distingue il movimento odierno da quello di sempre? Credo si tratti in definitiva, della sua artificialità, ossia dell’intervento di forze meccaniche nella produzione di un tempo diverso da quello naturale. E dicendo naturale, intendo non solo fisiologico ma anche cosmologico, dipendente comunque dalle forze che non esulino da quelle direttamente emananti da impulsi motori naturali. Il movimento dell’aereo, dell’automobile, del missile, non ha nulla che vedere con il movimento dell’uomo, implicito alla sua costituzione fisica […]. In effetti: fintantoché il movimento dell’uomo e delle cose e degli altri organismi viventi poteva essere riportato ai ritmi essenziali della natura: anni, mesi, giorni, battiti del polso, respiri, maree, e via dicendo, il trascorrere del tempo veniva inteso evidentemente, come sincrono alla natura stessa. La velocità ottenuta dall’uomo – anche mediante il ricorso a forze non sue (cavallo) – era pur sempre identificabile con eventi e fenomeni naturali. Oggi, dall’inizio della cosiddetta era tecnologica, la velocità sta alla base di buona parte della nostra vita di relazione. Sollecitati da continui impulsi dinamici, immessi in un’incessante marea di eventi motori, siamo divenuti succubi di questa nuova dimensione. G. Dorfles, Nuovi riti nuovi miti, Skira, Ginevra-Milano 2003 pp. 126-127
Il grado di sviluppo dei sistemi di trasporto e di comunicazione odierni ha comportato, nell’ambito della contemporaneità, una significativa riduzione delle distanze fisiche e virtuali ad ogni scala, da quella umana a quella globale, con un conseguente aumento delle velocità di ogni spostamento. Ciò implica che in uno stesso spazio – pubblico ma non solo – possano oggi trovarsi a convivere una pluralità di individui eterogenei sotto diversi punti di vista (età, cultura, provenienza, status sociale e mentalità) che rappresentano modi di vedere il mondo e di vivere sensorialmente lo spazio estremamente differenti. In un tale contesto la percezione dello spazio non può più essere rappresentata attraverso un’immagine statica, ma deve essere considerata in termini del costante dinamismo che la caratterizza. Questo perché l’uomo contemporaneo entra in simbiosi con una serie di forme-linguaggio, di espressioni e di costruzioni, al cui centro non è posta più un’immagine – e una soltanto – che riassume l’ideale e restituisce l’identità nell’unicità, ma un’immagine in grado di rappresentare contemporaneamente più forme idealizzate al suo variare, restituendo allo stesso tempo sensi e sensazioni diverse al suo mutare. Non una, ma più immagini concorrono oggi alla definizione di uno spazio nuovo, che l’uomo vuole il più possibile dinamico e flessibile, elastico e mutevole, uno spazio in grado di interagire con il suo movimento e la sua assoluta interscambiabilità. Se lo spazio è costantemente caratterizzato dalle azioni che lo interessano, esso lo si può allora individuare, rappresentare – e progettare – in un sistema in movimento in grado di restituire tutte le variabili dinamiche di tipo fisico e percettivo, di restituire cioè lo spazio nel movimento stesso, attraverso l’intera performance visiva costituita da una successione di visioni distribuite in una dimensione temporale generalmente riconosciuta nella sequenza: passato, presente, futuro. 15
Ăˆ a partire da queste considerazioni che si sviluppa la domanda di ricerca, la quale si pone lo specifico obbiettivo di individuare alcuni criteri metodologici che rappresentino delle strategie di progettazione dello spazio urbano contemporaneo, considerato come spazio del movimento e della molteplicitĂ dei movimenti.
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Pagina precedente: R. Doisneau, Le meute, 1969 Fonte: Pinterest
EVOLUZIONE DELLO SPAZIO URBANO
Nel tentativo di inquadrare nel contesto della realtà urbana contemporanea la relazione tra movimento e architettura, si è ritenuto importante, ai fini di una valutazione complessiva, una ricostruzione storica dell’evoluzione delle città, dello spazio urbano e dei suoi elementi architettonici fondamentali, con il fine di comprendere la loro capacità di “farsi eventi”, ovvero di generare situazioni di movimento ben precise e condivise. Ripercorrendo le origini delle civiltà urbane, si osserva come, in una fase iniziale, l’idea di movimento sia stata in contrasto con il fenomeno dell’urbanizzazione e della formazione dei primi nuclei urbani. In particolare, infatti, una forma di esistenza sociale dinamica – il nomadismo – è stata progressivamente sostituita da un regime di vita stanziale all’interno di insediamenti, che costituirono i nuclei sociali per la formazione dei primi villaggi e, di conseguenza, delle prime realtà proto-urbane. Questa fase rappresenta un punto di svolta per le ragioni alla base dei movimenti umani, che non saranno più una necessità di sussistenza sociale, ma una scelta razionale e volontaria degli individui. Come sostiene Lewis Mumford «La vita umana oscilla tra due poli opposti: il movimento e lo stanziamento […]. A ogni livello di vita si rinuncia alla mobilità in cambio della sicurezza e all’immobilità in cambio dell’avventura.»1 Prendendo in esame la storia della civiltà occidentale e dell’evoluzione dello spazio urbano, si osserva come specifici caratteri di alcuni suoi elementi abbiano variamente determinato l’idea di movimento, anche senza influire necessariamente sulla forma urbana complessiva. Un punto di svolta, in tale senso, è costituito dal XIX secolo e dalle profonde trasformazioni innescate dalla Rivoluzione Industriale, che ha comportato una serie di cambiamenti drammatici nella struttura culturale e sociale e, conseguentemente, una crescita esponenziale nella scala delle città. La Rivoluzione Industriale ha determinato un aumento demografico senza precedenti e una conseguente radicale trasformazione dello spazio urbano in termini soprattutto di estensione e concentrazione, che si è concretizzata in modo particolare in una crescita sproporzionata delle zone più marginali e periferiche. All’interno del libro Espacement, figure di spazi urbani nel tempo, Françoise Choay conduce una ricerca analitica sullo sviluppo delle città occidentali in termini di cambiamenti di “scala urbana”, dimostrandone l’evoluzione attraverso descrizioni spaziali della città. Ad ogni fase storica, a partire dal Medioevo, corrisponde un particolare tipo di spazio. Lo spazio urbano della città medioevale viene definito da Choay di contatto, quello del periodo classico di spettacoli, quello del XIX secolo di circolazione e, infine, quello del XX secolo di connessione. Con l’intento di individuare un contesto teorico di riferimento all’interno del quale collocare attualmente il rapporto tra movimento e architettura, si ritiene necessario ripercorrere le fasi fondamentali della storia della città occidentale, rivolgendo, in particolare, l’attenzione all’analisi delle modalità di relazione dinamica tra individui e spazi urbani.
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L. Mumford, La città nella storia, Volume I, Tascabili Bompiani, Milano 1981, p. 15
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ETÀ ANTICA La Choay, in Espacements, conduce la sua analisi sullo spazio urbano e sulle dinamiche comuni che lo interessano nelle varie fasi storiche a partire solamente dall’epoca medievale, senza considerare i periodi storici precedenti e, in particolare, l’età antica. Si ritiene necessario, a tal proposito, integrare questa lacuna conducendo un’analisi sulla civiltà greca e su quella romana, prendendo in considerazione due elementi dell’urbanità che, simbolicamente, incarnano a pieno l’idea di spazio pubblico: l’Acropoli per la Grecia e il Foro per Roma. Un parere autorevole, in tal senso, è costituito dalla figura dello storico francese Auguste Choisy, che in Histoire de l’Architecture, parla in particolare delle dinamiche che si verificano muovendosi all’interno dell’Acropoli di Atene, che viene descritta come «una composizione pittoresca di scene successive»2, in cui statue ed edifici di misura differenti, collocati a distanze diverse, risultano bilanciati rispetto ad un oggetto centrale, il Partenone. Gli edifici sono presentati quasi sempre da punti di vista angolari – la vista frontale risulta eccezionale – e la varietà e i particolari hanno sempre un posto accanto alle grandi masse. Sono proprio tali viste d’angolo a creare una vera e propria dinamica di movimento dato che spingono a scoprire il non-visto, o comunque tutto ciò di cui si ha una percezione solo parziale. Quattro sono le scene di cui parla Choisy: di fronte al Partenone, subito al di là dei Propilei, avvicinandosi al Partenone e, in ultimo, in prossimità dell’Eretteo3. Si tratta di una sequenza dinamica molto simile a quella che verrà poi teorizzata nel XX secolo da Le Corbusier con il concetto di promenade architecturale. Il pittoresco dell’Acropoli non sta in ciascuna delle sue vedute, bensì nella loro successione apprezzabile con il movimento e la direzionalità costituisce la qualità di questi spazi che invitano al movimento. Ma il carattere di “disordine” degli elementi che compongono l’Acropoli in modo pittoresco è solo apparente, c’è infatti un equilibrio interno percepibile in particolar modo quando l’intero luogo è visto da lontano. L’unità di effetto, come riporta Choisy, è ottenuta facendo sì che
A. Choisy, Histoire de l’Architecture, Tome premier, Librairie Georges Baranger, Paris 1929, p. 410 Nella “prima scena” lo spettatore si trova di fronte a una vista asimmetrica ma bilanciata dei Propilei. Al centro sorge il grande porticato dorico. A destra e a sinistra dell’edificio sono situati rispettivamente il grande edificio della Pinacoteca e un’ala di dimensioni minori. L’asimmetria è bilanciata dalla statua di Agrippa collocata di fronte all’edificio della Pinacoteca e al tempio di Atena Nike che sorge su un alto basamento di fronte all’ala minore. Choisy spiega che la dimensione ridotta dell’ala di sinistra è dovuta alla necessità di non nascondere la silhouette del tempio che si staglia contro il cielo. La geometria del luogo conferma questa interpretazione, mostrando com’è ordinata l’intera scena. Choisy scrive che niente è in apparenza più irregolare di questa composizione. La “seconda scena” si svolge oltrepassati i Propilei. Qui la figura centrale è quella della statua di Atena Promachos il cui basamento risulta obliquo rispetto allo spettatore. Dietro la statua s’intravede l’Eretteo. Il Partenone appare di scorcio, a destra. Anche in questo caso la visione è di tipo asimmetrico, ma comunque bilanciata. Nella “terza scena” l’avvicinamento al Partenone avviene diagonalmente. In questo modo è assicurata una vista armoniosa dell’intero complesso. Diagonalmente l’osservatore scorge l’Eretteo. Choisy dimostra come la promenade architecturale garantisca “une raison d’ètre” alla relazione fra tema, struttura e forma. M. Landsberger, La lezione di Auguste Choisy. Architettura moderna e razionalismo strutturale, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 97-98 2 3
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In ogni scena che si succede domini un motivo principale: essi privilegiano la vista d’angolo e non quella frontale utilizzata solo come mezzo eccezionale e stabiliscono fra i volumi un equilibrio ottico che sia in grado di conciliare la simmetria dei contorni con la varietà e l’imprevisto dei dettagli. […] Come nell’Acropoli, in nessun’altra composizione, si realizza questo ideale di varietà e armonia, che pare contraddistinguere tutto il lavoro di Fidia. A. Choisy, Histoire de l’Architecture, Tome premier, Librairie Georges Baranger, Paris 1929, p. 420
La descrizione della sequenza visiva dell’avvicinamento all’Acropoli viene condotta all’interno del testo di Choisy come se questa dovesse essere filmata da una cinepresa, trascendendo la mera descrizione del luogo. Per questa ragione essa viene citata da Sergej M. Ėjzenštejn, che a tal proposito scrive: «È difficile immaginare una sequenza di montaggio per un complesso architettonico composto in maniera più sottile, inquadratura per inquadratura, piuttosto che quella che creano le nostre gambe camminando attraverso le costruzioni dell’Acropoli»4. Nelle prospettive accuratamente poste in sequenza, presentate da Choisy, Ėjzenštejn trova la combinazione dell’effetto di montaggio raggiunto grazie alla giustapposizione in sequenza delle inquadrature. Il cineasta riflette sulla durata desiderabile di ogni immagine, ritenendo possibile l’esistenza di una differente relazione fra l’andatura del movimento dello spettatore e il ritmo degli edifici stessi, una solennità temporale provocata dalla distanza fra le costruzioni. Se l’architettura greca trova la sua più alta rappresentazione nell’Acropoli e nel tempio poiché la religione costituisce l’elemento di coesione della collettività e per questo anche i luoghi pubblici sono caratterizzati da elementi costruiti in analogia al tempio stesso (cfr. i Propilei d’ingresso all’Acropoli), la civiltà romana invece, costituita per lo più da popolazioni sottomesse, molto differenti tra loro per origine e per cultura, si identifica nella costruzione dei luoghi pubblici della città, in cui tutta la popolazione, indipendentemente dalla propria origine, può sentirsi rappresentata: i teatri, gli anfiteatri, le terme, ma soprattutto il Foro. Possiamo cogliere attraverso un paragone tra l’organizzazione spaziale e la composizione di due luoghi fondamentali per la vita pubblica, come l’Acropoli e il Foro, la differenza di mentalità tra la cultura greca e quella romana. L’Acropoli risulta, come descritto sopra, composta attraverso la giustapposizione apparentemente disordinata e casuale di scene diverse e sembra essere costituita da una serie di elementi disposti nello spazio in equilibrio tra loro perché ben bilanciati nelle proporzioni e nelle distanze, ma senza seguire una regola rigida. Questo determina nelle persone che la percorrono una certa libertà di movimento che le porta a scoprire e piacere l’architettura.
Pagine successive: A destra: Pianta e viste prospettiche dell’Acropoli di Atene; A sinistra: Pianta e vista prospettica del Foro di Augusto a Roma Fonte: A destra: A. Choisy, Histoire de l’architecture, Tome premier, Librairie Georges Baranger, Paris 1929, pp. 412, 414, 415, 416, 418; A sinistra: http://benicultura.it/?p=14527
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S. M. Ejsenstejn, Selected works, I. B. Tauris, London 2010, p. 60
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I fori imperiali (di Cesare, di Augusto, ecc.) risultano organizzati, per certi versi, in modo profondamente differente. Per prima cosa c’è sempre una regola del tutto evidente che stabilisce la distribuzione dei suoi edifici e che si concretizza in una simmetria dei fronti che culminano sempre nell’elemento architettonico più importante costituito dal tempio. Tutti gli edifici sono quindi disposti lungo un asse longitudinale che costituisce una caratteristica di forte direzionalità. Questa direzionalità verso il tempio è quella che corrisponde al movimento che si è portati a fare percorrendo il Foro: è come se l’uguaglianza e la simmetria dei due fronti laterali spingessero verso il centro della piazza e determinassero lo spostamento lungo l’asse centrale in una sorta di percorso di ascesa progressiva verso la divinità. L’architettura si trova in questo caso a determinare un movimento in qualche modo più forzato.
MEDIOEVO In accordo con la descrizione della Choay, la città medioevale si presenta come uno spazio delimitato, in cui l’elemento di recinzione (le mura) ne concretizza al meglio la sua immagine simbolica esteriore. Le mura definiscono i limiti fisici dello spazio urbano, ma ad una chiusura esteriore corrisponde un’apertura verso l’interno e negli scambi che intercorrono tra le persone. Proprio in tal senso, in Espacements, la città medievale viene descritta come spazio di contatto. Questa definizione risulta particolarmente pertinente anche in riferimento alle interruzioni della cinta muraria rappresentate dalle porte, che costituiscono appunto i punti di contatto con il mondo esterno. Questi punti di contatto incarnati dalle porte, grazie soprattutto alle figure dinamiche di mercanti e viaggiatori, costituiscono una concretizzazione dell’idea di movimento fra la vita urbana e quella extraurbana. Attraverso le porte infatti si assiste all’inizio o alla fine di un viaggio, o al completamento di una tappa, e si manifesta l’atto di ingresso o di uscita dalla città. Ma l’idea di flusso attraverso la cinta muraria non è di certo l’unico elemento di dinamismo che caratterizza le città medievali. È tuttavia una ragione religiosa a dare vita al movimento attraverso lo spazio urbano interno alle mura, che si materializza nelle celebrazioni rituali quali processioni e cortei che percorrono precisi itinerari attraverso le
Pagina successiva: Sopra: Porta della Torre dell’Elefante, Cagliari; Sotto: Sarlat, Dordogne Fonte: Sopra: Foto delle autrici; Sotto: F. Choay, Espacement, figure di spazi urbani nel tempo, Skira, Milano 2014, pp. 46-47
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strade per poi giungere infine alla piazza principale e alla cattedrale che la caratterizza.5 Emanuele d’Alfonso in Commenti e Aperture su Espacements, sottolinea proprio questo aspetto: «La chiesa deve essere considerata una specie di centro sociale […]. Per una ragione o per l’altra, un flusso ininterrotto di persone, sole, a piccoli gruppi, o a migliaia percorreva le serpeggianti strade della città diretto ai portali della chiesa. Di qui ci si metteva in viaggio e qui si ritornava.»6 In tale contesto la prospettiva umana è sempre costituita da una visuale limitata che accentua l’effetto di verticalità: le strade sono strette e incanalate e affiancate da sequenze di case che si susseguono l’una accanto all’altra lasciando pochi spazi vuoti. Le strade appartengono ai pedoni nella loro totale estensione, tanto che non vi sono marciapiedi e si configurano, per questa ragione, quasi come un’estensione dello spazio domestico.
PERIODO CLASSICO7 La città che si identifica con questa fase storica viene definita dalla Choay attraverso l’espressione di spazio scenico che esplicita al meglio il carattere urbano proprio di questo periodo, differenziandosi notevolmente dalla realtà della fase precedente. La città si mette così in mostra e la metamorfosi avvenuta tra spazio urbano del Medioevo e quello della cultura classica è ancora più evidente in Francia, in quanto le città sfuggono all’influenza del Rinascimento italiano, che nel XVI secolo ha inciso quasi solo sui castelli reali e sui parchi ad essi adiacenti. Per questo le città, pur conservando la vecchia trama medioevale, si rinnovano ergendo solo edifici e ornamenti, statue e fontane, senza eccedere in abbellimenti. In generale, tuttavia, gli spazi risultano decisamente più ampi e arieggiati, con numerose piazze, grandi spianate e lunghe passeggiate e, al tempo stesso, si assiste ad un processo di progressiva eliminazione delle casualità e della differenziazione: le città diventano
A tal proposito L. Mumford riporta: «Con qualche importante eccezione i principali edifici medievali non sorgono al centro di spazi vuoti, e non è possibile accostarsi ad essi lungo un vero e proprio asse. Questa organizzazione dello spazio la si ebbe solo nel Cinquecento, per esempio con la grande piazza di Santa Croce a Firenze; e fu solo nell’ Ottocento che i perfezionatori delle città, incapaci di apprezzare il sistema urbanistico medievale, abbatterono gli edifici minori addensati intorno alle grandi cattedrali per creare immense superficie simili a parchi, come quella davanti a Notre-Dame di Parigi. Così facendo distrussero l’essenza stessa della concezione medievale, basata sulla segretezza, sulla sorpresa, sull’ apertura improvvisa, sulla spinta in alto e sulla ricchezza dei particolari scultorei fatti per essere visti da vicino.» Questa riflessione risulta particolarmente interessante perché sottolinea sinteticamente le differenze nel rapporto dinamico tra individui e cattedrale nel corso dei secoli. Nel Medioevo queste erano fatte per essere osservate staticamente in senso frontale e dovevano prescindere da una distanza anteriore sufficiente a permettere di essere apprezzate nella loro totalità. Nel Cinquecento si pensò per la prima volta a progettare una traiettoria privilegiata di osservazione dinamica della cattedrale lungo un asse principale (Cfr. Santa Croce a Firenze) fino ad arrivare all’Ottocento, secolo in cui si diffuse la tendenza di collocare la cattedrale come elemento isolato all’interno di un grande spazio vuoto. Questo per permettere di osservare e apprezzare la Chiesa a 360° in tutte le sue angolazioni e in tutti i suoi particolari, favorendo un movimento di tipo circolare. L. Mumford, Op. cit., Volume II, pp. 386-387 6 E. D’Alfonso, Commenti e Aperture su Espacements in Espacements, figure di spazi urbani nel tempo, Skira, Milano 2004, p. 122 7 Si ripropone qui la scansione cronologica effettuata da F. Choay in Espacements, intendendo con “Periodo classico” il periodo storico risalente al XVII e XVIII secolo. 5
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regolari, le facciate affini, della stessa altezza e caratterizzate da una geometria dell’ornamento che esprime l’universalità dell’uomo e della ragione. La recinzione continua a permanere come elemento urbano ma assume solamente una valenza simbolica perdendo la sua originaria funzione difensiva. Alcune parti della cinta muraria scompaiono progressivamente dando vita a nuovi flussi che le attraversano, a nuove continuità spaziali e ad un’apertura verso il mondo esterno decisamente maggiore rispetto al passato. In questo contesto, il rapporto tra uomo e spazio pubblico si modifica anche in termini di movimento e di flussi. Le nuove strade non appartengono più ai pedoni, e la scala che le aveva fin’ora caratterizzate inizia a distanziarsi da quella dell’uomo e ad avvicinarsi progressivamente a quella della circolazione su ruote. La mobilità lenta è adesso relegata ai margini delle strade, sui marciapiedi, che nascono proprio in questo periodo e che interrompono la continuità di chi circola a piedi. Gli spostamenti si trasformano anche in termini di una maggiore velocità e le distanze tendono ad accorciarsi. Infine, iI sistema di collegamento e i flussi che lo caratterizzano non sono più caotici e labirintici, né determinano un lento disvelamento della città, ma sono organizzati in una rete piuttosto articolata, più aperta verso l’esterno e in grado di garantire una maggiore profondità del campo visivo.
PERIODO DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE La Rivoluzione Industriale costituisce un momento di profonda e radicale trasformazione della struttura urbana e delle dinamiche che l’avevano interessata fino a questo punto. Le trasformazioni interessano soprattutto le sue dimensioni e la popolazione che vi risiede. Si assiste, in primo luogo, ad un fenomeno di espansione fisica verso l’esterno in cui i sobborghi limitrofi al confine cittadino vengono incorporati alla gran massa urbana, creando una fascia di periferia con tendenza ad estendersi esponenzialmente; la popolazione viene invece investita da un rapido e consistente aumento, determinato soprattutto dal trasferimento dalle campagne di moltissimi individui per ragioni lavorative. In tale contesto, la fabbrica costituisce il polo attrattore e il punto nevralgico che regola i ritmi di vita e i movimenti quotidiani della maggioranza delle persone, generando dei flussi ben precisi verso di essa e viceversa, ma anche al suo interno. In questo periodo si modifica profondamente anche il concetto di spostamento, la misura delle distanze e delle lunghezze dei percorsi soprattutto grazie alla nascita e alla diffusione dei primi mezzi di trasporto di massa come la diligenza, la ferrovia e il tram. Questi mezzi furono i principali protagonisti proprio del mutamento che interessò lo spazio urbano nel XIX e nel XX secolo, tanto che la stabilità anche economica della città dipendeva strettamente dal grado di sviluppo delle infrastrutture e dall’efficienza del sistema dei trasporti.
Pagina precedente: Sopra: Meutre-et-Moselle, Place Stanislas, Nancy; Sotto: Place de la République, Paris Fonte: F. Choay, Espacement, figure di spazi urbani nel tempo, Skira, Milano 2014, pp. 65, 80-81
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La Choay definisce lo spazio urbano caratteristico di questo periodo come spazio di circolazione: il concetto di viaggio assume una dimensione sempre più umana, diventando un’attività quotidiana e indispensabile. Così la popolazione si mette in viaggio, attivando un movimento circolatorio costante intorno ai centri urbani ed esteso verso tutto il territorio. All’interno di questo sistema le piazze assumono il ruolo di punti di distribuzione principale, tanto che si vedono costrette ad aprirsi alla circolazione o a diventare parcheggi, diventando sostanzialmente luoghi ostili per i pedoni. Le limitazioni fisiche dello spazio urbano costituite dalle cinte murarie scompaiono definitivamente provocando un’espansione potenzialmente illimitata delle periferie e delle aree marginali. E questo accade, come sottolinea Mumford, per iniziativa dei singoli individui senza nessun tipo di pianificazione e cooperazione comune. Invece di una pianificazione municipale, è la ferrovia che stabilisce l’organizzazione e i limiti della città, arrivando molto spesso nelle zone più centrali della città creando in queste aree una serie di scali merci e luoghi di smistamento e stoccaggio che andarono ad intaccare la già indebolita maglia del tessuto urbano, creando in alcuni casi delle vere e proprie barriere fra quartieri e generando nei dintorni situazione di profondo degrado.
XX SECOLO Alla fine della fase di grande sviluppo industriale che aveva caratterizzato tutto l’Ottocento e che aveva modificato in profondità la forma e la facies della città, nel XX secolo questa si presenta come un conglomerato ibrido di nuclei storici risalenti ad epoche diverse del tutto eterogenei e in conflitto tra loro. Si individuano al suo interno, affiancati e giustapposti, spazi molto diversi tra loro quali quartieri residenziali moderni, nuclei storici di origine preindustriale e spazi organizzati con logiche classiche che male armonizzano con una visione unitaria dell’ambiente urbano. In Espacements, la Choay mette in evidenza i limiti dei piani regolatori che in questo periodo proponevano modelli urbani che si rifacevano alle esperienze del passato e che volevano ricondurre la città alla realtà preindustriale grazie alla sua la sua capacità di generare dinamiche sociali migliori (modello pre-industiale, modello classico ecc.) e sottolinea una generale mancanza di attenzione verso un nuovo tipo di spazio, quello di collegamento. Il tipo di spazio urbano caratteristico di questa fase viene così definito proprio come spazio di connessione, che si era originato nel periodo precedente grazie soprattutto alla crescita dei sistemi di trasporto e allo sviluppo delle tecnologie della comunicazione che permettono una diffusione piuttosto estesa delle informazioni.
Pagina precedente: Sopra: R. Doisneau, Down to the factory, Saint Denis 1946; Sotto: Place de Stalingrad, Paris, 1784-89 Fonte: Sopra: Pinterest; Sotto: F. Choay, Espacement, figure di spazi urbani nel tempo, Skira, Milano 2014, p. 89
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Il movimento degli individui e il flusso delle persone è quindi, in questa fase, strettamente legato allo spazio di connessione che non è più costituito da un sistema puntuale ma reticolare. Il rapporto tra uomo e paesaggio cambia ulteriormente proprio in termini di velocità, cosicché la percezione dello spazio è sempre più spesso dinamica piuttosto che statica.
Pagina precedente: Sopra: R. Doisneau, Issy les Moulineaux, la ceinture verte, 1969; Sotto: R. Doisneau, Place de la Gare, Ivry, 1946 Fonte: Pinterest
Pagina precedente: B. Tschumi, The Manhattan Transcript, Parte quarta: The Block Fonte: M. Costanzo, Bernard Tschumi, L’architettura della disgiunzione, Testo&immagine, Chieri (TO) 2002 (Universale di architettura, 119), p. 28
IL MOVIMENTO COME PRESUPPOSTO PER LA CONCEZIONE DELLO SPAZIO
Espacements, figure di spazi urbani nel tempo, pubblicato per la prima volta nel 1969, arriva a descrivere, in maniera piuttosto attenta, tematiche di grande attualità per l’epoca: la situazione delle città del XX secolo. Tuttavia, a distanza di quasi mezzo secolo, come è naturale che sia in ogni processo evolutivo, lo stato delle cose sembra essere cambiato ed è perciò necessario avanzare un proposta di analisi e di riflessione più aggiornata sulla storia dell’urbanità. La città contemporanea sembra essere oggi, in tutto e per tutto, la città del movimento. Una serie di fattori, quali ad esempio la grande espansione delle zone urbane e il conseguente sviluppo della rete infrastrutturale e del traffico veicolare di mezzi pubblici e privati (che proprio l’aumento delle distanze ha provocato), hanno comportato un’evoluzione nelle caratteristiche storiche della città. Tutto ciò che ha determinato tale evoluzione si è quindi espresso attraverso il movimento con una conseguente accelerazione generale di tutte le dinamiche interessanti la vita urbana: l’aumento della velocità dei viaggi e delle percorrenze quotidiane, l’ampliamento delle distanze percorse, la crescita della popolazione residente e soprattutto di quella pendolare e infine l’incremento dei mezzi di trasporto privati e pubblici. Questa’evoluzione ha permesso all’uomo il libero accesso a tutte queste nuove possibilità di movimento, anche se questo fenomeno ha avuto come effetto collaterale la tendenza all’estinzione della scala umana e di una dimensione più statica e quindi più tranquilla del vivere quotidiano. Il concetto di movimento è stato troppo spesso escluso dal dibattito teorico e dalle pratiche progettuali dell’architettura del XX secolo, fatta eccezione per le sperimentazioni artistiche di alcune tendenze di avanguardia (si pensi all’importanza del movimento e della dimensione temporale per il Futurismo) o per alcune esperienze specifiche di alcune figure di riferimento del Movimento Moderno (come ad esempio il concetto di promenade architecturale che ritorna continuamente nelle opere di Le Corbusier), ma la questione non è stata mai affrontata in maniera programmatica fino alla fine degli anni 60 e, in particolare, fino alla nascita del Movimento Situazionalista e alla figura di Bernard Tschumi.
BERNARD TSCHUMI: SPAZIO, AZIONE, MOVIMENTO, EVENTO Le teorie di Tschumi, che si materializzano all’interno dei saggi raccolti nel suo libro Architettura e Disgiunzione, si pongono in contrasto con il pensiero prevalente in architettura e si fissano l’obbiettivo di dimostrare che i principi su cui si è fondata l’architettura tradizionale – che si concretizzano nei due termini di forma e funzione – in realtà sono da collocarsi in un piano inferiore rispetto alle idee di movimento, azione, evento. Questa prospettiva presentata attraverso l’assioma: «Non c’è architettura senza azione, non c’è
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architettura senza eventi, non c’è architettura senza programma»1 di apertura al saggio La violenza dell’architettura, vuole focalizzare l’attenzione sul fatto che l’utilizzo di uno spazio implica necessariamente l’intrusione dinamica di un corpo umano all’interno dello spazio stesso, con le azioni e i movimenti che questo implica. Ciò rappresenta in sostanza l’inserimento di un ordine all’interno di un altro e «questa intrusione è insita nel nell’idea di architettura; la riduzione dell’architettura ai suoi spazi a discapito degli eventi è semplicistica quanto la riduzione di tutta l’architettura alla considerazione delle facciate.»2 Ma cosa significa evento nel contesto del pensiero tschumiano? Quale è il rapporto tra l’evento e il concetto di movimento? Tschumi chiarisce questa relazione affermando che: «I corpi non si limitano a muoversi degli spazi prodotti dai loro movimenti e per mezzo di questi, ma li generano. I movimenti – di danza, sportivi, o di guerra – costituiscono l’intrusione degli eventi negli spazi architettonici.»3 Si può quindi affermare che gli eventi si originano dal movimento di più persone all’interno di un determinato spazio e dall’interazione che si stabilisce tra questi due termini. Sottolineando l’importanza del movimento dei corpi nello spazio, Tschumi vuole implicitamente dare nuovo valore alla dimensione e alla scala umana e dei suoi spostamenti in una situazione urbana in cui questa trova poco spazio. Il ritmo di movimento dell’uomo è infatti in contrasto con il ritmo di movimento della città; l’estensione e la saturazione dei centri urbani per la presenza di traffico fanno si che la configurazione urbana sia in tutto più adatta alla misura dei mezzi meccanicizzati. Esiste quindi una intensa relazione tra azione e spazio e questo rapporto è in qualche modo paritetico e simmetrico, dal momento che le azioni qualificano gli spazi tanto quanto gli spazi qualificano le azioni e lo spazio e l’azione sono inseparabili, tanto che nessuna interpretazione adeguata dell’architettura, del disegno o della notazione può trascurare la considerazione di questo fatto. Tschumi si spinge oltre la semplice affermazione dell’esistenza di un profondo rapporto tra movimento e spazio, arrivando a dichiarare che questo rapporto è addirittura “violento”. A questo punto sorge spontaneo nel lettore il bisogno di interrogarsi sul perché questa relazione dialettica debba essere necessariamente violenta, ma l’autore stesso si interessa subito a chiarire il dubbio, specificando cosa intenda per “violenza”: «Con il termine “violenza” non mi riferisco alla brutalità fisica o emotiva, quanto piuttosto ad una metafora dell’intensa relazione tra gli individui e gli spazi che li circondano.»4 Il discorso intorno a questo tema fondamentale, essendo uno dei punti centrali della riflessione tschumiana, viene trattato in maniera estremamente approfondita all’interno del saggio, parlando sia della violenza che i corpi esercitano sugli spazi, sia, viceversa, della violenza imposta dagli spazi sugli individui e sui loro corpi. Gli individui infliggono violenza agli spazi in virtù della loro stessa presenza e quindi a causa della loro intrusione nell’ordine controllato dell’architettura. Per quanto delicato possa essere l’atto di entrare in un edificio, questo viola l’equilibrio di un preciso ordine geometrico5. I corpi infatti B. Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 97 Ivi, p. 98 B. Tschumi, Architettura e limiti in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 90 4 B. Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 98 5 Come conferma di ciò, basti pensare ad esempio alle fotografie di architettura, dove non compaiono mai 1 2 3
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scolpiscono una varietà di spazi nuovi e inaspettati tramite movimenti fluidi o irregolari. L’architettura, dunque, è solamente un organismo impegnato in un rapporto con i suoi utenti, i cui corpi vanno a cozzare con le regole stabilite con precisione dal pensiero architettonico. E questa violenza è per Tschumi costantemente implicita: ogni porta implica il movimento di qualcuno che la attraversi, ogni corridoio implica la progressione dinamica di qualcuno che la percorra e così ogni spazio architettonico implica la presenza intrusiva di chi lo abiterà. Ma se è vero che i corpi applicano un certo grado di violenza sugli spazi, è vero anche che gli spazi violano i corpi. A tale proposito basti pensare alle sensazioni negative provocate da corridoi stretti su ampie folle, dall’effetto di schiacciamento provocato dagli edifici alti o dallo stato di ansia generato da scalinate lunghe e ripide. Il luogo occupato dal nostro corpo si proietta infatti nella nostra immaginazione, nel nostro inconscio, come possibile luogo di felicità, ma anche di minaccia. Ciò dipende dalle caratteristiche del luogo stesso e dal modo in cui queste riescono ad influenzare positivamente o negativamente la nostra psiche. È importante sottolineare, come ci tiene a specificare Tschumi, che questa violenza potrebbe essere, in alcuni casi, persino desiderata:
[…] il soggetto che subisce, voi o io, può desiderare di essere esposto a questa aggressione spaziale, proprio come si può andare ad un concerto rock e stare così tanto vicini alle casse di amplificazione da dover sopportare un fastidioso – ma al contempo piacevole – trauma fisico e psichico. […] L’amore per la violenza, dopo tutto, è un piacere antico. B. Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 100
Dal momento che il piacere della violenza si può in definitiva riscontrare in qualsiasi attività umana, dalla violenza delle dissonanze nella musica agli scontri negli sport di contatto, «dai film sui gangster al Marchese De Sade»6, è curioso il fatto che la teoria architettonica si sia regolarmente rifiutata di riconoscere questi piaceri, sostenendo che l’architettura debba essere gradevole alla vista e comoda per il corpo. In un tale contesto, è l’architetto che si trova a ideare questi spazi violenti e che, al tempo stesso, sognerà sempre di purificare questa violenza incontrollata, tentando di ordinare e prevedere il movimento e ritualizzando la trasgressione dei corpi nello spazio. Una possibilità di purificazione di tale interazione spontanea e originale può essere rappresentata appunto dal rituale, ovvero da un fenomeno che presuppone una relazione pressoché cristallizzata tra azione e spazio e che riesce a determinare un ordine nuovo dopo il disordine dell’evento originario. Tuttavia, questo processo è molto complesso tantoché «quando diviene necessario mediare la tensione e stabilizzarla tramite la consuepersone o, in generale, elementi in movimento, perché disturbano la contemplazione del soggetto architettonico. Un altro esempio valido a rafforzare questa tesi proveniente dal passato è costituito dal quadro rinascimentale attribuito a Luciano Laurana che riproduce La città ideale. Anche qui non compaiono persone, animali, soggetti dinamici; tutto è regolato da un preciso ordine geometrico e la perfezione è garantita proprio dall’assenza di tutti questi elementi. 6 Ivi, p. 101
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In questa pagina e a fronte: B. Tschumi, The Block, penna, inchiostro e fotografie su carta Fonte: B. Tschumi, The Manhattan Transcript, Parte quarta: The Block, St. Martin’s Press, London-New York, 1981, pp. 46, 48, 51, 53
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tudine, nessun particolare deve essere trascurato. Non deve accadere niente di strano o inaspettato. Il controllo deve essere assoluto.»7 È molto improbabile, tuttavia, che questo totale controllo venga raggiunto, dal momento che è impossibile per l’architetto programmare ogni singolo movimento degli individui e della società, e la relazione tra spazio e movimento risulta quindi estremamente complessa, andando oltre il problema se sia l’architettura a dominare gli eventi o viceversa. In ogni caso, i due termini della relazione sono di per sé autosufficienti ed è solamente quando confrontano le rispettive realtà che diventano talmente interdipendenti che diventa impossibile determinare quale agisce e quale reagisce. La ripetizione di eventi in maniera organizzata, purché venga dichiarata in anticipo, diventa un programma, un’enunciazione descrittiva di una serie di formule e procedure. Gli spazi e i programmi possono quindi essere sia indipendenti gli uni dagli altri sia interdipendenti. Nel primo caso il loro rapporto è quindi di indifferenza e ciò avviene quando le caratteristiche architettoniche non seguono quelle funzionali, quando la spazio segue una propria logica e gli eventi ne seguono un’altra. Questo è il caso, ad esempio, come testimonia Tschumi, del Crystal Palace, un padiglione espositivo che poteva ospitare al suo interno di tutto «da esibizioni di elefanti […] a incontri internazionali di pugilato.»8 Ma, in altri casi, spazi e programmi posso essere legati da una dipendenza reciproca più o meno stretta ed è quindi la visione che l’architetto ha dell’utente a determinare ogni scelta architettonica. Questo è il caso, ad esempio, del Guggenhein Museum di Frank Lloyd Wright e anche qui la questione non è stabilire se venga prima il movimento oppure lo spazio, o quale dei due dia forma all’altro, perché essi sono uniti da un legame molto più complesso e profondo. Per cercare di spiegare questo legame Tschumi porta come esempio l’esperimento di Kulesov, in cui la stessa inquadratura del viso impassibile dell’attore viene inserita in una varietà di situazioni differenti, e il pubblico vi legge espressioni diverse in corrispondenza di ciascuna combinazione. E come nell’esperimento di Kulesov:
In architettura avviene lo stesso: l’evento viene alterato da ogni nuovo spazio. Ma anche viceversa: ascrivendo ad un dato spazio, apparentemente “autonomo”, un programma contraddittorio, lo spazio stesso consegue nuovi livelli di significato. L’evento e lo spazio non si mescolano ma si influenzano a vicenda. B. Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p.107
Una volta chiarito che il rapporto tra evento ed architettura è in tutto e per tutto caratterizzato da una serie di dinamiche complesse che si intrecciano, pare opportuno spiegare da dove Tschumi desume il concetto di evento, o comunque cosa ha stimolato in lui la
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necessità di una tale ricerca. Il movimento culturale che, per evidenti aspetti generazionali e profonde implicazioni politiche e sociali, ha senz’altro avuto più influenza nel portare l’evento al centro della riflessione architettonica è stato senza dubbio quello Situazionalista, nel contesto degli accadimenti parigini della fine degli anni Sessanta.
IL CONTRIBUTO SITUAZIONALISTA L’Internazionale Situazionalista, fondata nel 1957 dalla riunione di alcuni gruppi artistici e politico-filosofici, ha svolto un ruolo di primo piano nella sinistra libertaria e soprattutto nei fatti rivoluzionari del 1968. Il suo contributo risulterà fondamentale per l’elaborazione di molte tematiche di fondo che caratterizzano quel periodo così denso di rivolgimenti sociali e ideali. Città e architettura sono da subito teatro della riflessione e dell’azione Situazionalista, che si pone in radicale opposizione nei confronti di un’urbanistica ossessionata dall’incremento della mobilità meccanica e della separazione funzionale dello zoning, dove lo spazio per qualsiasi attività non programmata viene progressivamente eliminato, e che porterà all’elaborazione di una proposta di Urbanismo Unitario, un nuovo ambiente spaziale di attività dove l’arte integrale ed una nuova architettura possano finalmente realizzarsi. Bernard Tschumi dichiara la sua vicinanza a queste tendenze affermando che:
l’introduzione dei termini evento e movimento è avvenuta sotto l’influenza dalle idee situazionaliste e dal periodo del Sessantotto. Lés évenements, come allora si chiamavano, non erano solo eventi rispetto all’azione, ma anche rispetto al pensiero. Erigere barricate (funzione) in una strada di Parigi (forma) non è del tutto equivalente a essere un flaneur (funzione) in quella stessa strada (forma). Pranzare (funzione) nella Rotonda (forma), non è lo stesso che leggere o nuotare al suo interno. In questo caso tutte le relazioni gerarchiche tra forma e funzione cessano di esistere. Queste improbabili combinazioni di eventi e spazi sono state caricate di proprietà sovversive, così esse hanno sfidato sia la funzione sia lo spazio. B. Tschumi, Sei concetti in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 201
Guy Debord, scrittore, teorico e fondatore dell’Internazionale Situazionalista, descrive questo movimento «come un’avanguardia artistica, come una ricerca sperimentale di una libera costruzione della vita quotidiana ed, infine, come un contributo all’azione teorica e pratica di una nuova contestazione rivoluzionaria.»9 Inoltre, l’IS si proponeva, come punto programmatico fondamentale, di promuovere un uso più libero dell’ambiente urbano. Per attuare la radicale trasformazione di questo ambiente, vennero introdotti da queste tendenze singolari metodi di lotta attraverso la creazione di eventi collettivi con l’intento specifico di rompere l’ordine della sua struttura spaziale che rifletteva la struttura della società stessa, così da dare un senso radicalmente
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G. Debord, I situazionalisti e le nuove forme d’azione nella politica e nell’arte, Nautilus, Torino 1993, p.3
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nuovo all’espressione culturale. Un concetto fondamentale rispetto a tali intenzionalità, legato alle tematiche urbanistiche e approfondito proprio dall’Internazionale fu quello di détournement (deviazione, dirottamento), che vuole designare il conseguimento di uno stato di abbandono mentale, un distacco dalla realtà per attribuirne nuovi valori. Questa espressione si avvicina molto al concetto di dérive (deriva), e in definitiva corrisponde al distacco interiore dell’individuo dallo spazio circostante e alla sua conseguente rinuncia a mete prestabilite ed eventuali incontri che possano distrarne la mente. Tschumi scrive a riguardo:
ero rimasto affascinato dal détournement delle strade di Parigi durante gli eventi del Maggio francese, e avevo cominciato a osservare simili forme di “uso improprio” di molte gradi città del mondo. In tali centri, a seguito della concentrazione del potere economico, ogni azione programmata o spontanea, poteva assumere immediatamente una dimensione imprevedibile. B. Tschumi, Introduzione in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 11
La nozione di détournement è quindi per Tschumi correlata a quella di evento e proprio la riflessione attorno a questi due concetti lo indurrà a porsi una serie di interrogativi riguardo all’eventuale influenza dell’architettura nel processo di trasformazione della società, oltre che riguardo alla possibilità di autonomia della disciplina stessa.
L’AUTONOMIA DELL’ARCHITETTURA Il discorso sull’autonomia dell’architettura, ovvero sulla sua non dipendenza dalle istituzioni e dalla loro norme, e sulla possibilità di questa di poter influenzare le dinamiche sociali, che si concluderà proprio con una riflessione sul ruolo che si trova ad assumere l’evento in tale contesto, viene portato avanti da Bernard Tschumi all’interno del saggio Il Paradosso dell’Architettura. In questo scritto, si parla inizialmente della duplice essenza dell’architettura come prodotto della mente, come disciplina concettuale e immateriale, e al tempo stesso come esperienza sensuale dello spazio e come prassi spaziale. La disciplina architettonica viene presentata, in termini hegeliani, come “supplemento artistico”, e questo ne determina il suo carattere di autonomia in quanto manifestazione artistica fine a sé stessa. L’architettura non è infatti riconducibile alla mera materialità dell’oggetto architettonico o alle sue caratteristiche tecniche e funzionali, che sono invece «i mezzi per raggiungere un fine che esclude quelle stesse caratteristiche»10, ma è un qualcosa in più, è una serie di concetti aggiunti alla costruzione ed è immagine dei progressivi tentativi dello spirito di trascendere la materia. Si può quindi affermare che nel 1975, secondo Tschumi, l’architettura è soprattutto proB. Tschumi, Il Paradosso dell’Architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 30 10
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duzione di oggetti. Nonostante l’affermazione di questo pensiero forte riflettesse a pieno le tendenze ideologiche postfunzionaliste e concettuali dell’architettura progressista della metà degli anni Settanta, Tschumi in realtà, attraverso la riflessione sull’autonomia, porta alla luce anche un dilemma cruciale, un paradosso. Egli infatti, nello stesso Questions of Space afferma: «l’architettura sembrava aver acquisito autonomia opponendosi alla struttura istituzionale. Ma così facendo, è diventata un’opposizione istituzionale, trasformandosi così in ciò cui tentava opporsi.»11 E ancora:
Se l’oggetto architettonico rinuncia alla sua autonomia riconoscendo la sua latente dipendenza ideologica e finanziaria, accetta i meccanismi della società. Se si sacralizza, rifugiandosi in una posizione di arte fine a sé stessa, non sfugge alla classificazione tra gli ambiti ideologici esistenti. Così l’architettura sembra sopravvivere solo quando protegge la sua natura negando la forma che la società si aspetta da essa. Vorrei perciò suggerire che non c’è mai stata alcuna ragione per dubitare della necessità dell’architettura, poiché la necessità dell’architettura risiede nella sua non-necessità. È inutile, ma lo è in maniera radicale. Il suo radicalismo costituisce la sua vera forza in una società dove domina il profitto. B. Tschumi, Il Paradosso dell’Architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 46
L’affermazione della propria autonomia permette quindi all’architettura di contrapporsi all’ordine sociale di cui è complice, eppure quella stessa complicità la spinge in una posizione agonistica, rendendola combattiva, trasgressiva, desiderosa di produrre effetti che appartengono al sistema e che tuttavia si oppongono ad esso. Questo paradosso dell’autonomia dell’architettura, questo dilemma ideologico, porta Tschumi a dichiarare con forza la propria oscura conclusione:
Questo significa, di fatto, che, forse per la prima volta nella storia, l’architettura non può più esistere. […] L’unica alternativa al paradosso è il silenzio, un’affermazione nichilista che potrebbe segnare l’ultima parola della storia dell’architettura moderna, il suo autoannientamento. B. Tschumi, Il Paradosso dell’Architettura in Architettura e Disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna 2005, p. 45
L’affermazione della fine dell’architettura risulta un punto di arrivo maggiormente comprensibile se contestualizzato in un’epoca (gli anni Settanta) in cui era emersa la consapevolezza della complicità fra istituzioni e sistemi universitari e in cui si sentivano gli effetti disastrosi del boom dell’industria edilizia. Tuttavia anche la diffusione di correnti architettoniche come il post-modernismo, con la sua riproposizione e ricomposizione posticcia di elementi archetipici del passato, influenzò probabilmente il pensiero di Tschumi riguardo alla fine dell’architettura, che forse non era più neanche provocata da un volontario auto 11
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annullamento, quanto piuttosto da un assai meno spettacolare stemperarsi della sua importanza sociale. Nella parte finale del saggio, tuttavia, si parla brevemente di un’alternativa possibile all’autoannientamento e al silenzio ed è questa la parte che ci interessa approfondire in questa sede proprio perché legata al concetto di evento e, indirettamente a quello di movimento, e che aprirà poi alla trattazione, nei testi successivi, dell’esperienza dinamica dello spazio e del suo rapporto con i corpi e le loro azioni. Per Tschumi questa alternativa si concretizza in quello che chiama spazio esperito, che più che una definizione di spazio identifica un processo, un modo di praticare l’ambiente, un evento appunto. Ciò che è più rilevante è che un’architettura dell’evento appare dialetticamente come un possibile terzo termine nel conflitto duale tra autonomia e negazione e che pur dissolvendo questa contraddizione, riesce comunque a dare vita e a produrre qualcosa di positivo. Queste teorie trovano una fondamentale applicazione tra il 1982 e il 1983 con la progettazione del Parc de La Villette, con cui si concretizza il tentativo, avviato almeno un decennio prima, di produrre il concetto e l’esperienza dell’architettura neutralizzandone la sua manifestazione come rispondenza a principi tradizionali e anacronistici. Il progetto di questo parco si caratterizza per l’elaborazione di una griglia di quarantadue punti alla quale sono sovrapposti due tipi di linee che si intersecano e serpeggiano, in un dispiegamento di elementi analitici talmente ridotti a livello visivo e incompleti agli occhi ancora abituati alla forma e a linguaggi visuali più elaborati che tuttavia non possono essere definiti, di fatto, architettura. Tschumi ha chiamato questo progetto La Case Vide: la “casella vuota”, il luogo degli eventi futuri; non un’architettura pura, autonoma, ma un’architettura del puro evento, un’architettura che si afferma come legata ai suoi sviluppi nel tempo, più che come qualcosa di definitivo.
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Pagina precedente: Canal Saint Marten, Parc de La Villette, Paris Fonte: Flickr
LA VILLETTE: LO SPAZIO DEL MOVIMENTO
Dopo aver condotto lo studio sugli aspetti teorici del pensiero di Tschumi si è proceduto con l’analisi del caso studio più significativo rispetto ai temi trattati all’interno dei saggi di Architettura e Disgiunzione, che si identifica con il progetto del Parc de La Villette di Parigi, in quanto rappresenta l’applicazione più memorabile delle questioni concettuali in essi contenute.
PARC DE LA VILLETTE, MODELLO DI FLESSIBILITÀ Oltre ad essere la concretizzazione di tutti i principi teorizzati in Architettura e Disgiunzione, il Parc de La Villette deve essere considerato come “incipit” per la definizione di un nuovo tipo di parco. Infatti per tutto il ventesimo secolo, il pensiero comune era che vi fossero luoghi che attirassero la gente più di quanto potesse fare un parco. Di conseguenza i parchi, non solo non potevano più permettersi di non essere espressione della contemporaneità, ma non dovevano neanche rimanere esperienze isolate immerse nel costruito, rifugi dalla cruda realtà quotidiana della vita in città. Era necessario invece che si integrassero nel tessuto cittadino, costituendo un sistema di forme e spazi direttamente legati alle attività urbane: città e parco inseparabili, privi di una linea di demarcazione. Il Parc de La Villette poteva quindi essere espressione del ventesimo secolo solo trattando della vita urbana del ventesimo secolo. Per farlo, condizione necessaria era la flessibilità, come risposta al ventaglio di esigenze degli utenti che vivevano nelle vicinanze o che avrebbero frequentato il parco. La miglior soluzione trovata da Tschumi si configurava come una serie di stratificazioni di sistemi integrati che combinati, creavano uno stimolo sociale, economico, politico: ovvero le forze che fanno la città. Solo evocando un’immagine ricca e persistente, la nuova idea di parco pubblico si poteva configurare come attrazione stimolante e rappresentazione della sua contemporaneità.
La frammentazione della nostra “folle” condizione attuale suggerisce inevitabilmente nuove e impreviste riorganizzazioni dei suoi frammenti. Non essendo più collegati in una globalità coerente, indipendenti dal proprio passato, questi frammenti autonomi possono essere ricombinati mediante una serie di permutazioni le cui regole non hanno niente in comune con quelle del classicismo o del modernismo. […] Qualunque “nuova” architettura implica l’dea di combinazione e che l’intera forma è il risultato di una combinazione. […] L’architettura non viene vista come il risultato di una composizione, una sintesi di questioni formali e limitazioni funzionali, quanto piuttosto come parte di un processo complesso di relazioni trasformazionali. B. Tschumi, Follia e Combinatoria in Architettura e Disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, p. 141
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Tschumi afferma che lo scopo della sua discussione, e quindi della sua realizzazione progettuale, non è proporre un nuovo tipo di ruolo morale o filosofico alle operazioni architettoniche, ma piuttosto analizzare il fenomeno denominato combinatoria, vale a dire l’insieme di combinazioni e permutazioni possibili tra diverse categorie d’analisi (spazio, movimento, evento, tecnica, simbolo, ecc.), in opposizione al gioco più tradizionale tra funzione e uso, oppure tra forma e stile. Il criterio di ridisposizione di concetti che costituivano la complessità, usato nella progettazione del Parc de La Villette, ha come modello l’idea di transfert appartenente all’ambito teorico della psicoanalisi. Infatti Tschumi tenta di collocare l’architettura all’interno di uno specifico contesto metodologico per riuscire ad illustrare una situazione caratteristica del XX secolo, la follia: disgiunzione e dissociazione tra uso, forma e valori sociali. Tale situazione non viene considerata negativa quanto piuttosto sintomatica di una nuova condizione distante dai tradizionalismi e dai modernismi del Novecento. Per questo l’intenzione è di liberare la follia architettonica dalle sue connotazioni storiche per ridefinirla all’interno di un piano più astratto e ampio. La follia viene considerata come valore per esprimere qualcosa che solitamente è represso solo al fine di conservare un fragile ordine culturale e sociale. Se all’epoca dei fatti l’architettura era spersonalizzata, vuota e dispersa, dipendente dal mondo in cui si collocava, secondo Tschumi essa poteva essere analoga ai sintomi appartenenti alla schizofrenia. Infatti «nella schizofrenia accade qualcosa che disturba profondamente la relazione del soggetto con la realtà e soffoca il contenuto con la forma.»1 La città contemporanea e le parti che la compongono, come La Villette, vengono fatte corrispondere con gli elementi dissociati di questo disturbo psichico. La loro relazione suggerisce l’idea di tranfert, strumento tramite il quale si tenta la ricostruzione teorica della totalità del soggetto. La dissociazione esplode il trasfert in frammenti. Nel progetto de La Villette vi è una “formalizzazione” di tali frammenti: punti di incontro che presentano parti di realtà: le folies. Esse divengono il centro di questo spazio dissociato, denominatore comune del progetto, costituendosi come sistema di relazioni tra oggetti, eventi e persone. Il reticolo è l’espediente che consente la combinazione dei luoghi di transfert (folies), dei quali non è importante la forma architettonica quanto piuttosto la loro riorganizzazione su nuove basi progettuali (una volta decostruita, la realtà non può più essere ricostruita come era prima). Riassumendo, la folie, come punto di ancoraggio, mantiene una funzione di sintesi; la griglia di punti introduce uno schema ordinato nel disordine della realtà, così che la folie può fungere da presenza rassicurante all’interno di un nuovo sistema di riferimento. Il reticolo di punti articola lo spazio e lo attiva, rifiutando le gerarchie e le composizioni delle grandi opere del passato. Il Parco acquisisce quindi un ruolo politico, dando la possibilità di ristrutturare un mondo dissociato, facendo comprenderne oggetti e usi attraverso lo spazio intermedio della folie.
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J. Lacan, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-54, Libro I, Einaudi, Torino 1978, p. 183
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Prerogativa del Parco è quella di essere “spazio vuoto”, capace di permettere l’intercambiabilità di oggetti, persone ed eventi. Questo principio guida, già trattato in forma concettuale nell’insieme di progetti teorici raccolti all’interno de The Manhattan Transcripts, viene applicato formalmente in questo progetto urbanistico. A riguardo Tschumi scrive:
Se questo processo dovesse coinvolgere esclusivamente trasformazioni e permutazioni concernenti elementi solidi dell’architettura, quali muri, scale, finestre e modanature, esso non si differenzierebbe in maniera significativa dalla maggior parte della ricerca sui metodi di composizione e trasformazione. In contrasto e in opposizione alle dottrine funzionaliste, formaliste, classiche e moderniste, la mia ambizione è di decostruire le norme architettoniche al fine di ricostruire l’architettura lungo assi differenti e di dimostrare che lo spazio, il movimento e gli eventi sono inevitabilmente parte di una definizione minima di architettura e che l’attuale disgiunzione tra funzione, forma e valori sociali suggerisce una relazione intercambiabile tra oggetto, movimento e azione. In questo modo il programma diviene parte integrante dell’architettura e ogni elemento di questo programma diviene elemento di permutazione simile agli elementi solidi. B. Tschumi, Follia e Combinatoria in Architettura e Disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, p. 145
Si può quindi desumere che la dissociazione della realtà produce delle permutazioni di programma, spazio e movimento e che esse comportano modificazioni di significato. Secondo Tschumi, ignorare i precedenti realizzati fino ad allora durante l’attività di progetto, è la soluzione per vagliare una configurazione matematica neutra o delle configurazioni topologiche ideali (reticoli, sistemi lineari o concentrici, ecc.) che potranno definirsi punti di partenza per future trasformazioni. Infatti, i frammenti che costituiscono la complessità progettuale possono essere riassemblati per formare relazioni nuove e inattese.
PUNTI, LINEE E SUPERFICI: GLI ARTIFICI DELLA MEDIAZIONE ASTRATTA Tschumi, nel concreto, sceglie di utilizzare come metodologia progettuale quella della mediazione astratta descritta come la ricerca di un’intermediazione, di un sistema astratto come mediatore tra il sito e altri concetti al di là della città e del progetto. Questa scelta implica che il Parco si caratterizzi per un forte riferimento concettuale e che suggerisca numerose combinazioni e sostituzioni. Come scrive l’architetto:
Una parte poteva sostituirne un’altra, oppure il programma di un edificio poteva essere modificato, cambiandolo (per usare un esempio concreto) da ristorante a vivaio a laboratorio artistico. In questo modo l’identità del parco poteva essere conservata, mentre logiche di stato e politiche istituzionali circostanziali potevano perseguire indipendentemente i propri programmi. B. Tschumi, Mediazione Astratta e Strategia in Architettura e Disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, pp. 151-152
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Si configura così una struttura organizzativa indipendente dalla funzione, priva di gerarchia e di un fulcro essenziale. Infatti, il ricorso alla griglia è autoreferente, non dipende né dal parco, né dal programma e neppure dal sito; è l’intermediazione concreta della mediazione astratta. L’astrazione del reticolo suggerisce la disgiunzione tra spazio (significante architettonico) e uso che se ne fa (significato programmatico). Esso sostiene, contro il funzionalismo, che non esiste rapporto di causa ed effetto tra programma e architettura. La griglia definisce un campo potenzialmente infinito di punti di intensità sul quale compiere il progetto ed è utilizzata in opposizione alla restrizione delle composizioni ideali e delle disposizioni geometriche. Oltre al “sistema di punti” sono presenti altre componenti nel progetto: il “sistema di linee” e il “sistema di superfici”, anch’essi astratti e autonomi, con una propria logica interna. Questi tre sistemi, una volta sovrapposti, si contaminano senza però rendere possibile nessuna composizione, nessuna sintesi totalizzante, nessuna omogeneità in quanto ognuno di essi conserva le differenze e rifiuta la supremazia di qualunque sistema privilegiato o elemento organizzatore. La finalità della loro giustapposizione è l’introduzione di note dissonanti nel sistema, rafforzando in tal modo un principio specifico della teoria del Parco: il principio dell’eterogeneità. Esso mira a turbare la tranquilla coerenza e la stabilità della composizione, introducendo all’instabilità e alla follia programmatica. Il Parco si configura così come esempio di dis-integrazione, decostruzione di un programma tradizionalista partendo dalla demolizione delle convenzioni e dall’introduzione di concetti derivanti sia dall’architettura ma soprattutto dalla cinematografia e dalla critica letteraria. Dalla cinematografia Tschumi estrapola un’idea paragonabile al montaggio che va a sostituire la tradizionale composizione, la quale richiede la lettura urbanistica in pianta. L’utilizzo di analogie cinematografiche è opportuno essendo il progetto una realtà di frammenti indipendenti che permettono molteplici combinazioni. Il cinema infatti è stato il primo ad introdurre la discontinuità: ogni inquadratura è posta in movimento continuo; imprimere il movimento tramite la rapida successione dei fotogrammi costituisce il cinegramma. Il Parco, secondo l’architetto, è una serie di cinegrammi, ognuno dei quali è basato su un preciso complesso di trasformazioni architettoniche, spaziali e programmatiche. La promenade cinématografique è la traduzione formale del cinegramma. La linearità delle sue sequenze ordina gli eventi, i movimenti e gli spazi in progressione. Ogni parte, ogni fotogramma di una sequenza qualifica, rinforza o alterna le parti che la precedono o la seguono e, più concretamente, definisce un giardino. Tutto ciò, oltre che a permettere una molteplicità di interpretazioni da parte dell’utente, facilita la memorizzazione degli spazi e dei differenti eventi dislocati all’interno del Parco. In letteratura e nel cinema le relazioni tra fotogrammi o tra sequenze possono essere manipolate attraverso espedienti come i flashbacks, jump-cut, dissolvenze e altri; Pagine precedenti: A destra: B. Tschumi, Superimposition of lines, points and surfaces, Parc de la Villette, Paris, 1985; Sopra a sinistra: B. Tschumi, System of lines: vectors, Parc de la Villette, Paris, 1985; Sotto a sinistra: B. Tschumi, Sequence, Parc de la Villette, Paris, 1985 Fonte: B. Tschumi, Event-cities 2, The MIT Press, Cambridge (MA) 2000, pp. 73, 80-81, 108-109 Pagina successiva: Sopra: B. Tschumi, Promenade Cinématique, Parc de la Villette, Paris, 1985; Sotto: B. Tschumi, Diagram, Parc de la Villette, Paris, 1985 Fonte: B. Tschumi, Event-cities 2, The MIT Press, Cambridge (MA) 2000, pp. 77, 114-115
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Tschumi decide di metterli in atto a La Villette: il taglio tra due giardini (considerati come due sequenze vicine) è eseguito per mezzo di una linea di alberi. In conclusione, il progetto del Parco de La Villette si può considerare in favore del conflitto anziché della sintesi, della frammentazione anziché dell’unità, della follia e del gioco anziché di un attento controllo. Come già detto questi caratteri sovvertono una serie di ideali comuni per l’epoca moderna e possono essere ricondotti ad una visione postmodernista che rifiuta la definizione precisa del significato e che garantisce l’autenticità dell’opera d’arte. Il progetto rifiuta il repertorio di simboli dell’architettura intesa come prodotto sociale e rifugio del pensiero umanistico. Il termine parco ha qui perso il proprio significato universale, non è più un principio assoluto o un ideale prestabilito. Il parco è un vocabolo in costante produzione, in continuo cambiamento; il suo significato non è mai stabilito, ma è sempre rinviato e cambiato, reso incerto dalla pluralità di significati che racchiude. «La Villette, dunque, persegue un’architettura che non significa nulla, un’architettura del significante anziché del significato. […] La Villette si muove verso l’infinito interpretativo, poiché l’effetto del rifiuto della fissità non è l’insignificanza, ma la pluralità semantica.»2 Ogni osservatore sarà il progettista della sua propria interpretazione, che sarà a sua volta interpretata ancora. Lontano dal suo contesto, La Villette è da considerare una realtà dispersa e differenziata che porta con sé la fine dell’unità.
Pagine precedenti: In ordine: Canal Saint Marten, Promenade Cinématografique, Folie, Parc de la Villette, Paris Fonte: http://www.tschumi.com/
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B. Tschumi, Mediazione Astratta e Strategia in Architettura e Disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, p. 160
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Pagina precedente: ÉvÊnement au Parc de La Villette, Paris Fonte: Flickr
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PRINCIPI TEORICI E STRATEGIE PROGETTUALI
In seguito allo studio critico svolto riguardo ai saggi di Bernard Tschumi, raccolti all’interno di Architettura e Disgiunzione, si è cercato di estrapolarne i principi fondamentali e, attraverso un valutazione critica di questi e di alcune sue opere emblematiche, di elaborare alcune strategie che dovrebbero costituire dei criteri validi per la progettazione dello spazio pubblico contemporaneo. I tre concetti fondamentali individuati sono di seguito descritti e ad essi corrispondono schematicamente altrettante osservazioni strategiche definite rispettivamente: Multiplicity: dalla scena fissa al movie set; Contest and Object: dall’indifferenza alla corrispondenza; Event Spaces: architetture a breve e a lungo termine.
MULTIPLICITY: DALLA SCENA FISSA AL MOVIE SET PRINCIPIO TEORICO C’è una specifica relazione tra spazio e movimento. Questo tema è oggi spesso trascurato, ma risulta importante. Viviamo infatti in una cultura delle immagini – riconducibili al solo senso della vista – riprodotte in televisione o dai media. Esse sono sempre identificabili in un tipo e poche hanno a che fare con la percezione sensoriale dello spazio o con le molteplici interpretazioni che lo spazio può determinare in base a ciò che avviene al suo interno.
STRATEGIA Questo sembra essere il concetto di maggiore attualità tra tutti i principi esplicitamente o implicitamente enunciati nei saggi di Tschumi. Una progettazione dell’ambiente pubblico che produca un’immagine unica e statica dello spazio stesso, non sembra essere la via più giusta da seguire nell’epoca contemporanea. La riduzione di tutte le distanze ad ogni scala, da quella umana a quella globale, determinata dal grado di sviluppo mai visto dei sistemi di trasporto odierni, comporta che in uno stesso spazio – pubblico ma non solo – possano trovarsi a convivere una pluralità di individui eterogenei sotto diversi punti di vista (età, cultura, provenienza, status sociale, mentalità). Queste persone rappresentano modi di vedere il mondo, di vivere sensorialmente lo spazio e di interpretare la realtà, molto diversi fra loro e per questa ragione pare più “etica” e più rilevante per l’attualità una progettazione dello spazio pubblico come una sequenza di scene successive, da esperire attraverso il movimento, in maniera tale da non fornire un’interpretazione univoca della realtà. Questa metodologia progettuale non costituisce, come si è visto dallo studio sull’Acropoli 59
di Atene, un’innovazione della modernità, tuttavia si riscontra ancora oggi nell’ambito del Parc de La Villette. Ciò è rappresentato in maniera efficace dai disegni delle prospettive del parco dello stesso Tschumi, organizzati cronologicamente come una sorta di storyboard all’interno di Event-Cities 21. Un’ulteriore opera dell’architetto che nasce proprio dall’idea di creare una sequenza temporale e scenografica dinamica è il Museo dell’Acropoli di Atene, che tuttavia solleva un’altra importante questione la quale costituisce al contrario un limite di progettazione: quella del contesto.
CONTEST AND OBJECT: DALL’INDIFFERENZA ALLA CORRISPONDENZA PRINCIPIO TEORICO Lo spazio è da considerarsi in architettura non in quanto elemento geometrico o come materia da plasmare, ma per il modo in cui esso è connesso con il suo utilizzo, con il movimento e con le sue dinamiche. Non sono la forma, la tipologia, il contesto (o in generale i canoni architettonici tradizionali) ad essere fondamentali, ma altri elementi costitutivi, come spazio, movimento, evento, trascurati dalla storia dell’architettura dominante intesa come forma.
STRATEGIA Questo principio è a nostro parere valido solo in parte. Se infatti il movimento è da considerarsi di primaria importanza per la progettazione dello spazio e soprattutto di spazi pubblici contemporanei (ed è proprio alla dimostrazione di questo che verte la nostra tesi), è anche vero che non si può negare il valore di altri aspetti architettonici tradizionalmente intesi, come la forma e il contesto, a cui deve, a nostro parere, essere rivolta una grande attenzione. Tschumi, all’interno di Architettura e Disgiunzione, non parla quasi mai della questione della forma, perché non la ritiene una caratteristica architettonica rilevante. Solo in Event-Cities 42, pubblicato nel 2010, egli tratta di questo argomento. In particolare, si legge che la forma segue il “concetto”3 e che quindi essa dovrebbe derivare Pagine successive: B. Tschumi, Sequences, Parc de la Villette, Paris, 1985 Fonte: B. Tschumi, Event-cities 2, The MIT Press, Cambridge (MA) 2000, pp. 94, 95, 96, 97
Cfr. B. Tschumi, Event-cities 2, The MIT Press, Cambridge (MA) 2000 Cfr. B. Tschumi, Event-cities 4: concept-form, The MIT Press, Cambridge (MA) 2010 3 «The concept-form is an abstract configuration that can be implemented in a particolar place or culture, while nontheless accepting and accomodating its cultural and situational idiosyncrasies. It is a concept that generates a form, or a form that generates a concept, in such a way that one reinforces the other. The concept may be programmatic, technological, social and so on. But the form must be relatively abstract, since many aspects of the program are indeterminate, the technology economically uncertain, and the social fabric possibly in constant mutation.» B. Tschumi, Event-Cities 4, Concept-Form, The MIT Press, Cambridge (MA) 2010 1 2
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da un’idea più o meno astratta ed essere disgiunta sia dalla funzione che dal contesto (come accade per il progetto della Le Rosey Concert Hall a Rolle del 2009). Noi crediamo che, pur senza cadere in un eccessivo funzionalismo, la forma e la composizione debbano in qualche modo relazionarsi con la funzione, quanto meno tenendola in considerazione e non contrastandola, ma soprattutto che le caratteristiche morfologiche di un oggetto architettonico debbano tentare il più possibile di stringere un rapporto con il contesto, per integrarsi all’interno delle città nel caso di realtà urbane o con il territorio nel caso di contesti non antropizzati. Un’alternativa valida all’indifferenza tschumiana riguardo il contesto è per noi rappresentata dalla Landform Architecture, che si fonda su un nuovo modo di utilizzare l’ambiente circostante, il quale non riveste più il ruolo di spettatore passivo di un’architettura senza luogo specifico, ma interagisce e diventa lui stesso elemento fondamentale del nuovo oggetto architettonico. Nella Landform Architecture una serie di operazioni – innesti, piegature, rilievi, pori, roofscapes, solchi, sovrapposizioni, fratture, ecc. – trasformano il suolo e l’architettura in un unico elemento da cui emergono nuove figure architettoniche e spaziali.
EVENT SPACES: ARCHITETTURE A BREVE E A LUNGO TERMINE PRINCIPIO TEORICO Per chiarire i concetti di evento e di programma e la loro relazione con lo spazio è necessario riportare le definizioni di entrambi questi termini. L’evento corrisponde «alle azioni, al movimento dei corpi, alle attività, alle aspirazioni che si verificano all’interno e intorno agli edifici.»4 Si tratta quindi di tutte le componenti di dinamismo che intervengono all’interno di uno spazio costruito. Il concetto di evento implica tuttavia una componente di incertezza e di imprevedibilità.5 L’idea di programma è strettamente correlata a quella di evento e in particolare «[…] qualunque ripetizione organizzata di eventi che venga annunciata in anticipo diviene un programma».6 E ancora: «Un programma è una serie determinata di avvenimenti, una lista di utilità richieste, spesso basata sul comportamento sociale, sulla consuetudine o sul costume».7
Pagina precedente: Sopra e sotto: B. Tschumi, Diagram, Museo dell’Acropoli di Atene, 2001; Fonte: B. Tschumi, Event-cities 3: concept vs. context vs. content, The MIT Press, Cambridge (MA) 2004 Pagina successiva: Sopra: Museo dell’Acropoli di Atene, Atene; Sotto: Le Rosey Concert Hall, Rolle Fonte: http://www.tschumi.com/
B. Tschumi, Event-Cities: Praxis, The MIT Press, Cambridge (MA) 1994, p.13 « […] events occur as an indeterminate set of unexpected outcomes.» B. Tschumi, Event-Cities 2, The MIT press, Cambridge (MA) 2000, p. 14 6 B. Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e Disgiunzione, The MIT Press, Cambridge (MA) 1996 7 B. Tschumi, Event-Cities 2, The MIT press, Cambridge (MA) 1994 4 5
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Per Tschumi, spazi e programmi possono indifferentemente essere uniti da una relazione di indipendenza o di interdipendenza. Nel primo caso le considerazioni architettoniche non dipendono da quelle funzionali e, in questa situazione, lo spazio segue una propria logica e gli eventi un’altra; in una situazione diversa, invece, i due termini possono arrivare a condizionare in modo totale la loro esistenza reciproca e così è la visione che l’architetto ha delle necessità dell’utente a determinare ogni scelta architettonica. STRATEGIA In genere accade che gli spazi, che sono più portati a generare eventi spontanei, si identifichino con architetture a breve termine (padiglioni temporanei, istallazioni), poiché queste non sono solitamente progettate a partire da uno specifico programma funzionale ma sono caratterizzate da un certo grado di neutralità e di conseguente flessibilità spaziale tale da permettere che vi accadano una serie di attività non prestabilite e non determinabili. Al contrario, le architetture a lungo termine si caratterizzano per lo più proprio per la loro rispondenza a programmi specifici, che determinano non solo le scelte tipologiche e morfologiche, ma anche ogni singola destinazione d’uso al loro interno, senza dare molto spazio alla possibilità di generare azioni casuali e spontanee, di eventi per l’appunto. Quello che si vuole sostenere in questa sede, anche attraverso il ricorso ad un’opera di Tschumi emblematica in tal senso, è l’importanza di questi luoghi di incontro e di interazione impulsiva, in quanto potenzialmente ricchi di fermento e di stimolo per le persone, e della loro presenza all’interno di architetture a lungo termine. Gli spazi che meglio si prestano ad accogliere questo tipo di fenomeni e di accadimenti, sono gli spazi in-between, gli spazi interstiziali, poiché proprio per la loro posizione si trovano in mezzo ad una serie di situazioni eterogenee e ricevono molteplici impulsi da tutto ciò che li racchiude e li identifica. Questi spazi si qualificano quindi per la densità che gli stimoli comportano ed è proprio la loro densità a generare l’evento. L’opera di Tschumi che più insegna che una delle caratteristiche fondamentali dello spazio dell’evento è quella di essere interstiziale, è rappresentata dallo Studio des Arts Contemporains Le Fresnoy a Tourcoing, in cui la creazione di uno spazio in-between tra un’esistente centro per le arti e una nuova copertura metallica dà forma ad un luogo che nelle intenzioni progettuali non si qualifica per la rispondenza ad un programma, ma che si apre ad accogliere una serie di eventi piuttosto liberi e indeterminati. Questo luogo, che in concreto è costituito da un sistema di passerelle, rampe, piattaforme e scale metalliche sospese tra l’edificio esistente e la copertura, diventa così il luogo della performance artistica.
Pagina precedente: Sopra: L. Fontana, Concetto spaziale, New York19, 1962 Sotto: C. Ferrater, Fitness center, Barcellona Fonte: M. Zambelli, Landform Architecture, Edilstampa, Roma 2006 Pagine successive: In alto a sinistra: B. Tschumi, Diagram, Studio des Arts Contemporains Le Fresnoy, Tourcoing, 1991; In basso a sinitra e a destra: B. Tschumi, Studio des Arts Contemporains Le Fresnoy, Tourcoing Fonte: Flickr
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In questa pagina: Studio des Arts Contemporains Le Fresnoy, Tourcoing; A fronte: G. B. Piranesi, Tavola della serie Le carceri d’invenzione, 1745-50 Fonte: Flickr
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Pagina precedente: A. Hamilton, The event of a thread, Park Avenue Armony, New York 2012 Fonte: http://www.armonyonparc.com/
CONCLUSIONI
La ricerca sui temi dell’evento, dell’azione, del movimento e sugli spazi che riescono efficacemente e programmaticamente ad accogliere fenomeni di questo tipo, nasce dalla volontà di capire quali ambiti specifici dell’architettura meglio si prestano ad aprirsi all’imprevedibilità degli incontri e degli scambi tra le persone e ad essere multidisciplinari, così da creare un contatto con il mondo dell’arte e della performance. Questo aspetto rappresenta per noi un vero e proprio motivo di attenzione all’interno del percorso di ricerca individuale, condotto parallelamente al percorso di studi universitari, riguardante l’architettura e alcuni campi specifici che potrebbero diventare ambiti di specializzazione futura e di interesse professionale. L’indagine condotta attraverso la tesi è stata un importante motivo di riflessione in quanto ci ha permesso di rivalutare e di rivedere alcune nostre convinzioni e in particolar modo l’idea che solo le architetture di carattere temporaneo, come padiglioni ed istallazioni, con i loro spazi flessibili, fossero in grado di essere polisemiche e di accogliere alcuni aspetti di altre discipline, in particolar modo quelle artistiche, rendendo possibili performance ed eventi spontanei. Attraverso l’approfondimento delle teorie di Tschumi e di alcune sue opere particolarmente significative, come lo Studio National des Arts Contemporains Le Fresnoy e come anche il Parc de La Villette, ci siamo persuase invece della possibilità di concepire architetture a lungo termine – e quindi spazi pubblici – che possano esprimere molteplici significati e che possano diventare spazi adatti ad ospitare eventi di ogni tipo, artistici e sociali, grazie alla flessibilità del loro programma. Non sono solo la temporaneità e la non caratterizzazione dello spazio a permettere lo scambio fra le persone e il contatto con l’arte e con la performance, tuttavia anche la durata nel tempo e la precisa definizione della struttura architettonica riescono a permettere questa relazione multidisciplinare. Per far si che l’architettura a lungo termine possa mantenere nel tempo un valore sociale, è essenziale che essa sia caratterizzata non tanto dalla flessibilità spaziale intesa come neutralità e non strutturazione, quanto piuttosto dalla flessibilità del suo programma. Solo così sarà in grado di adeguarsi alle esigenze e ai bisogni dell’uomo odierno e di quello che verrà e, di conseguenza, riuscirà a suscitare nel tempo emozioni intense, seppur diverse perché diversi sono l’uomo e il contesto temporale che le produce.
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Ringraziamo di cuore la professoressa Contin per averci seguito in questa ricerca e per averci permesso di trarre importanti momenti di riflessione e parecchie opportunitĂ di approfondimento.
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