evento del mese
Premio alle Arti 2020 Un nuovo cammeo nel mondo dello spettacolo di Mara Fux
Nella frizzante atmos f e r a d e l Te a t r o S t u d i o 8 impreziosito per l’occasione dalle opere pittoree di Simona Battistelli, al tepore estivo delle notti di fine agosto, si è svolta a Nettuno la Prima Edizione del “Premio alle Arti”, rivolto ad eccellenze nazionali ed internazionali. Ideato e diretto artisticamente da Anna Silvia Angelini che qui si è avvalsa della direzione organizzativa di Antenore Guadalupi e del coordinamento su campo di Francesca Piggianelli, questo autentico cammeo dell’attuale panorama degli
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eventi ha goduto da subito del plauso del Comune e della Pro Loco della cittadina laziale che, individuandone l’importanza per la valorizzazione e lo sviluppo del territorio, hanno volentieri conferito il proprio patrocinio. Cinema, musica, giornalismo, teatro, televisione, moda e sport sono stati altamente rappresentati da volti nazional popolari che, adeguandosi perfettamente alle vigenti normative anti covid, si sono alternati su un palcoscenico padroneggiato abilmente dalla giornalista Barbara Castellani dinnanzi ad un pubblico attentamente distanziato ma partecipe. Madrina di tutta eccezione della manifestazione la giovanissima ballerina di fama internazionale Martina Sissi Palladini Ferruggia. In un’elegante alternanza di nomination e applausi Pino Quartullo e Massimo Di Cataldo hanno ritirato il Premio alla Carriera relativamente per il teatro e per la musica mentre giornalismo e moda sono stati ritirati nel corso del cerimoniale all’inviata di Rai1 Vittoriana Abate e a Filippo Lafontana. A ritirare invece l’originale targa in argento della Prima Edizione PREMIO ALLE ARTI sono intervenuti per il giornalismo Stefano Buttafuoco e Federica Pansadoro, per lo sport Marco Branca, per l’art designer Carla Campea, Barbara Iacobucci
cover story
Isabelle Adriani “Da bambina ascoltavo l’opera con mio nonno. Grazie al mio fischio lui guarì” di Giulia Bertollini
Non ha solo dimostrato che le fiabe esistono ma ha fatto della sua stessa vita una fiaba. Stiamo parlando dell’attrice Isabelle Adriani, protagonista al cinema da ottobre assieme a Jim Caviezel del film “Infidel”, thriller politico di Cyrus Nowrasteh. Un’esperienza importante ma anche complicata per Isabelle che ha dovuto prepararsi fisicamente per affrontare le scene d’azione. Proprio durante le riprese ci ha confessato di essersi ferita alla testa ma di non essersi persa d’animo. In questa intervista, oltre a svelarci qualcosa in più sull’incontro con Jim Caviezel, Isabelle ci ha rivelato quali sono stati gli incontri più importanti della sua carriera. Isabelle, prossimamente sarai al cinema con il film “Infidel”. Che esperienza è stata? Come ti sei trovata ad interpretare il ruolo di una spia? “E’ stata un’esperienza incredibile, probabilmente la più emozionante della mia carriera. Avevo sempre sognato di interpretare una spia, una specie di Bond Girl, ed è successo in 'Infidel' con Jim Caviezel diretto da Cyrus Nowrasteh. Maria Landi,
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attualità
Futurpharma e il futuro
Riflessioni sulla professione del farmacista di Marialuisa Roscino
In seguito a numerose richieste da parte di tanti colleghi verso l’Associazione Futurpharma, la stessa ha deciso di fare un comunicato per chiarire alcuni punti che continuano a rimanere in ombra. Il primo dato rilevante è che la professione del farmacista è presente nell’elenco delle professioni sanitarie riconosciute dal Ministero della Salute, come riferisce il dl. 8 agosto 91 n. 258 (G.U. 16 Agosto 91 n. 191. Questo è un dato chiaro che evidenzia che la professione del farmacista si configura come professione sanitaria. Un quesito di grande interesse da parte della maggioranza dei farmacisti - afferma il referente nazionale di Futurpharma sul tema del contratto, - resta ad oggi ancora senza una risposta plausibile. Il Ccn del Farmacista, infatti, stipulato da Federfarma e i sindacati del Commercio e del Turismo, pone tuttora in essere una questione ancora irrisolta, per cui, l’inquadramento contrattuale non sembra essere corrispondente al ruolo riconosciuto altresì del Ministero della Salute. Inoltre, il codice deontologico art. 8 comma 1), chiarisce senza dubbio che la dispensazione dei farmaci all’interno della farmacia rappresenta un atto sanitario. Inoltre, il farmacista ha l’esclusiva e la responsabilità di dispensare medicinali stupefacenti e sostanze psicotrope secondo il DPR 309/90. Pertanto, è evidente che l'attività professionale del farmacista all’interno della farmacia è espressamente un'attività sanitaria, ponendo altresì in essere delle grosse difficoltà tra il farmacista e la sua posizione nei confronti del suo ordine professionale di appartenenza. Pur considerando, che la farmacia è un’attività che negli anni ha mostrato notevoli difficoltà da un punto di vista economico, Futurparma ammira l’impegno che Federfarma e i suoi iscritti titolari hanno avuto nel garantire gli stipendi ai propri collaboratori, riducendo al minimo la percentuale di disoccupazione. Entro l’ottica della Farmacia dei Servizi, con la creazione di nuove competenze professionali ad opera del farmacista risulta fondamentale concentrarsi sulla possibilità di avvalersi della giusta tipologia di contratto da stipulare quanto prima tra Federfarma e i Sindacati del settore Sanitario. A fronte di un’esigenza significativa che coinvolge la maggior parte dei farmacisti italiani, Futurpharma ha ritenuto opportuno mettere in rilievo questo grande problema, che auspica possa risolversi definitivamente, trovando in tempi brevi una soluzione adeguata, vista la lunga agonia che ancora pervade la categoria professionale dei farmacisti. L’Associazione Futurpharma informa: “Presto seguiranno degli aggiornamenti sul tema”.
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“Gli anni in Accademia sono stati molto importanti, un'esperienza di alta qualità e dal grande valore umano." dichiara Francesco. La sua storia è la stessa di Alessandro Conversi, fondatore della scuola “I Parrucchieri Academy”, che ha sempre creduto nelle possibilità imprenditoriali e di formazione della sua terra. Francesco Micale è stato scelto da Conversi e da Alberico d'Alessandro per partecipare alla realizzazione dello spot, curando il look dei protagonisti: Luca Argentero, Daniele De Rossi e Graziano Scarabicchi. Anche il giovane pratolano ha scommesso sulla sua terra, per il progetto lavorativo che intende portare avanti, con uno sguardo proiettato costantemente oltre, alla ricerca di nuovi stimoli e opportunità per crescere professionalmente e poter alimentare il proprio talento e le idee da "mettere in testa" ai clienti, vip e non solo! Francesco, Alessandro e Alberico, amici e professionisti che si stimano e si rispettano, sono la dimostrazione che la collaborazione tra colleghi è possibile e costruttiva.
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libri
S’è svejatooo! Il popolare Ricciotto racconta il Marchese del Grillo di Mara Fux
Popolare volto del cinema e del teatro, l’attore Giorgio Gobbi è oggi autore del libro sul più famoso personaggio della Roma del tempo che fu. Come ti è venuta l’idea di scrivere un libro sul Marchese del Grillo? “A dire il vero l’idea di partenza non è mia ma di Santiago Maradei, il proprietario della Bibliotheka Edizioni, un argentino, un tipo molto curioso e dinamico da sempre affascinato dal personaggio del Marchese, il quale proprio all’inizio del lockdown di marzo mi ha contattato attraverso il suo addetto stampa Gianluca Cherubini chiedendomi, per farla breve, cosa ne pensassi di scrivere un libro sul Marchese del Grillo. Ovviamente la proposta mi ha subito intrigato ma gli ho anche fatto presente che scriverne una biografia sarebbe stato un impegno davvero fuori misura per me mentre quello che avrei potuto raccontare sarebbe potuto essere il ricordo del Marchese del Grillo attraverso la mia esperienza di quello che ne è venuto fuori é una sorta “quasi” di autobiografia piena di aneddoti, scherzi, giochi avvenuti sul set di quello straordinario film che tutti conoscono”. Giustamente hai precisato che eri un esordiente: come ti sei ritrovato giovanissimo a interpretare Ricciotto? “E’ stata davvero una cosa fantastica capitata in maniera del tutto casuale se consideri che allora io ero al secondo anno della Fersen e facevo, come tutti, piccoli ruoli per avvicinarmi alla dimensione del palcoscenico. Capitò come tutte le belle cose per caso, perché un giorno Donatella Ceccarello mi disse “ma lo sai che alla Gaumont cercano popolani per un film?” Così l’indomani andai agli uffici di Viale Liegi e lì incontrai Mario Monicelli che con quattro domande mi fece il provino per il ruolo di Ricciotto vincendo, tengo a precisarlo, su tanta gente e dopo qualche giorno cominciai a fare il film”. Immagino che questo episodio sia contenuto nel
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libro? “Certamente: sulla scia della nostalgia e dei ricordi ho messo assieme pagine e pagine di quel debuttante che alla fine del film aveva girato un totale di 58 pose, solo due meno di Sordi che nel film ne ha girate 60. Nel libro ho raccontato il film e l’approccio con quel mondo. Nello scrivere mi son guardato da uomo e attore maturo, sorridendo anche teneramente di quel ragazzetto di 23 anni che esordiva. Ho ripensato a tanti scherzi che “i vecchi” mi facevano sul set, ho riso della prima volta che incuriosito ho messo per la prima volta alla loupe e di come, appena l’ho sollevato, mi hanno fatto pagare da bere all’intera troupe perché la tradizione vuole che chi si accosta alla loupe per la prima volta paghi da bere a tutti”. Hai raccontato anche gli errori? “Altroché! Hai presente la scena della “magnata” dei cavalli? Quella “dammene un po’ un pezzo?” Devi sapere che quella scena è stata girata nel viterbese: Mario girò la notte i campi e di pomeriggio i controcampi. Ebbene io, prima di girare i controcampi feci una cosa che nessun attore deve fare prima di girare ovvero pranzai, bevendo finanche il quartino che c’era nel cestino per cui, in attesa di tornare sul set, schiacciai un pisolino in roulotte. Quando venne il mio turno uscii di corsa e solo quando oramai avevamo finito di girare, al rientro in roulotte, vedendo la giacca di scena sulla sedia, mi resi conto che avevo girato tutto senza giacca. A quel punto con la giacca in mano andai dalla costumista che pure non se ne era resa conto e assieme a lei andammo dal direttore di scena che letteralmente sbiancò sapendo che oramai si stava smontando e vista l’ora sarebbe stato impossibile ripetere. Allora tutti e tre ci recammo da Monicelli che stava praticamente salendo sull’auto di produzione per tornarsene a Roma; a testa bassa il direttore glielo fece presente e lui basito fece due occhi a fessura, piccoli piccoli e poi “siete due grulli: andatevene a fare in …!” insomma salì in auto e ci mandò a quel paese ben sapendo
che nel montare avrebbe dovuto fare i salti mortali che poi ha fatto, tanto che se osservi la scena in alcuni momenti ho la giacca, in altri no”. Ricordi indelebili! “Sì, d’altronde il film doveva esser terminato a precisa scadenza perché l’uscita era prevista per il 23 dicembre e noi avevamo iniziato le riprese a settembre: un film di quella portata girato e montato in poco più di due mesi. Pensa che per il doppiaggio lavorammo anche di notte. Ma te lo immagini un ragazzino di 23 anni a passare le notti in studio ad ascoltare Sordi e Monicelli che si raccontano aneddoti di vita e di lavoro? Un’esperienza straordinaria”. E l’idea del titolo “S’è svejatooo!” di chi è stata? “Quella è stata mia: eravamo con l’editore e Cherubini in ufficio, con loro che ne proponevano alcuni e io a un certo punto ho esclamato: ce l’ho. S’è svejatooo! Ed è piaciuto come poi è piaciuta l’idea di far fare a Max Tortora la prefazione. Max aveva conosciuto Alberto molto bene, lo aveva anche imitato sempre con profondo affetto e rispetto tanto che, dopo la morte, non lo ha più messo in scena. Io gli avevo fatto da spalla nel suo one man show e durante i nostri viaggi ci eravamo raccontati tante cose per cui sapevo anche il suo amore per quel film così non ho esitato a proporgli di fare la prefazione”. Quando uscirà il libro? “Il 12 novembre con un evento ristretto nella casa di Sordi e poi a seguire alla Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi, sempre secondo le norme vigenti”. Dopo il Marchese con Sordi siete rimasti amici? “Sì anche se quando Mario gli indicò me come Ricciotto lui fu molto scettico perché vedeva anomala questa amicizia tra un sessantenne, il marchese, e un ventitreenne, Ricciotto. In realtà fu Mario che mi impose. Lui si convinse dopo che girammo la scena al Quirinale quella “e tu che dici Ricciò?” “E che dico, che chi si gratta la fronte c’ha le corna pronte!” Ecco lì si ruppe il ghiaccio. Dopo il film mi volle con sé come attore ne “Il tassinaro” e io che ero un curioso della scena ne approfittai per chiedergli se potevo assistere alle riprese di “Io so che tu sai che io so” cosa cui acconsentì scegliendomi come aiuto regista. Tra noi si è istaurato un rapporto sicuramente affettivo di cui mi accorgevo ogni volta che mi salutava con un abbraccio o facendomi la scafetta. Penso che il
suo fosse un affetto quasi paterno. Quando è mancato ne ho sofferto tanto. Al funerale non sono entrato in chiesa, son rimasto fuori a piangere come un vitello. Mi fiutavo la mano cercando quel suo profumo di lavanda inglese che tanto amava. Credo che nessuno di tutti quei presenzialisti che si fanno avanti quando si fa il suo nome, abbia avuto con Alberto il rapporto che ho avuto io, solo che per educazione io non mi faccio avanti. Mio padre mi ha insegnato a tenere il profilo basso, a vivere le grandi esperienze personali o professionali con umiltà. E così ho sempre fatto con lui come anche con Willis o Clooney: potrei raccontarle le chiacchierate con Clooney in Abruzzo mentre giravamo, ma le tengo per me”. Troppo presenzialismo nel tuo settore? “Diciamo che ce ne è abbastanza perché non voglio aprire polemiche ma ognuno sceglie la strada che preferisce. Io, fosse per me, vorrei essere trasparente, fare il mio lavoro e poi via. Negli ultimi anni poi, avrei voluto fare il regista perché il regista se ci pensi è quello che fa tutto ma di cui difficilmente si ricorda la faccia, di lui si ricorda solo l’opera anche se è quello che fa tutto: assembla attori, scenografi, costumisti, musicisti, montatori, direttori di fotografia. Fa tutto il lavoro ma non se ne conosce la faccia se non per quel paio di interviste d’uopo. Ho diretto un corto con Rubini “Non succede mai niente” e ci ho provato gusto, ho fatto un lavoro ineccepibile dal punto di vista professionale. Ho provato successivamente a sottoporre spunti per nuove regie ma, come dire, hanno un po’ storto il naso; eppure sono convinto che sia un po’ la ghettizzazione del nostro settore; se li avessi da attore sottoposti in Usa o in Francia sarebbero stati presi in maggior considerazione perché lì la poliedricità viene apprezzata maggiormente”. Come ha reagito il tuo entourage alla notizia del libro? “Bene direi tranne una mia sorella, il corto e me regista li ha digeriti ma davanti al libro mi ha proprio detto: “che ora ti sei messo a fare lo scrittore?” Ma in fondo che cambia? Sai quanti la penseranno come lei ma io non ho la pretesa di esser uno scrittore, ho raccontato una storia e so di averlo fatto bene. E quindi sai che c’è? Chi se ne importa di quel che dice la gente. Se sta bene è così altrimenti... Chissené!”.
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libri
Roberto Ritondale “La città senza rughe” di Marisa Iacopino
L’ e s t r o m i s s i o n e d e g l i a n z i a n i d a l l a s o c i e t à a t t r a v e r s o l a n e g a z i o n e d e l l a v e c c h i a i a . L’ u l t i m o d i k t a t d i u n s i s t e m a d e l i r a n t e p e r i l q u a l e b e l l e z z a e g i o v i n e z z a d i v e n t a n o un must cui non ci si può sottrarre se non ribellandosi, come fanno i protagonisti del nuovo libro di Roberto Ritondale, “La città senza rughe”, uscito per la casa editrice BookRoad. Un titolo che ci porta subito dentro la trama: come è arrivata l’idea? “La storia nasce dal desiderio di parlare dell’importanza degli anziani e di denunciare una società sempre più impregnata di apparenza, incapace di coltivare la memoria e di tutelare i più fragili. I sintomi di questa società di-
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stratta, che non sa aspettare gli ultimi, erano già tutti evidenti prima della pandemia. Non a caso, come epigrafe del libro, ho scelto una frase pronunciata dal presidente Sergio Mattarella: “Bisogna predisporre nei confronti degli anziani, parte preziosa della società, maggiori cure e attenzioni”. Poi l’ecatombe nelle Rsa, la scelta nelle terapie intensive di salvare i più giovani e condannare a morte i più vecchi, hanno mostrato al mondo che davvero gli anziani sono più che mai indifesi. E sono considerati anche un problema, un peso economico. Inoltre, scrivendo 'La città senza rughe', mi sono reso conto che stavo rielaborando il mio lutto: nella figura della protagonista, Etilla, c’è molto di mia madre”. Fin dalle prime righe scopriamo la tragica coincidenza con la realtà che stiamo vivendo... Che impressione ti ha fatto questa tua capacità profetica? “In effetti, secondo alcuni ho sviluppato doti profetiche, ma in realtà tutto nasce dalla capacità di prestare attenzione ai dettagli. Così nel mio romanzo precedente, 'Sotto un cielo di carta', ho immaginato il divieto di abbracci in pubblico e il controllo tramite internet, oltre due anni prima che scoppiasse lo scandalo dei dati Facebook-Cambridge Analytica. E nel romanzo 'La città senza rughe' ho immaginato l’eliminazione degli anziani prima della pandemia, tra l’altro con l’utilizzo di droni per il controllo dei cittadini”. L’isolamento, il distanziamento fisico sperimentato a causa della pandemia, può farci correre il rischio di essere meno empatici, di diventare strumenti in una società ipercontrollante? “Penso proprio che tu abbia ragione. Ci siamo sentiti vicini, tramite i social, ma in realtà eravamo molto più soli e lontani. Quanto al
controllo sociale, è un tema a me molto caro, perché cara mi è la libertà, la necessità di preservarla a ogni costo. Non a caso, nella mia città senza rughe, ci sono molti riferimenti al ventennio fascista, una delle pagine più oscure della nostra storia. Un’epoca che non può e non deve tornare”. Non credi che siamo già sotto un regime culturale che ci spinge a compiere scelte non del tutto consapevoli, per aderire a una nuova estetica e sottrarci alla vecchiaia? “Sì, ne sono assolutamente convinto. Anche per questo ho scelto un titolo ambivalente. 'La città senza rughe' è il sogno di chi ci vuole tutti belli, giovani e
omologati. Ti do un’anteprima. A giorni lancerò sui miei social il concorso “E tu di che ruga sei?”. In una società in cui tutti ci facciamo selfie per sembrare migliori di ciò che siamo, inviterò i miei lettori a fotografarsi le rughe. Vediamo chi avrà il coraggio di farlo. Chi vince avrà il mio libro in regalo”. Come è nata la decisione di am-
bientare il romanzo a Como? “Ho scelto Como per diversi motivi. Innanzitutto perché è una città affascinante e internazionale. Poi perché ha diversi luoghi o edifici che riportano alla mente il ventennio fascista. E poi ha il lago, che è il simbolo del ventre materno”. Il cattivo del tuo libro parla di “mollezza dei dubbiosi”. Cos’è per te il dubbio? “Il dubbio è il fertilizzante che aiuta a far crescere la pianta della curiosità. Se si dubita, si ha voglia di apprendere, di conoscere e di approfondire. Chi dubita, non si ferma a una verità precostituita ma cerca di trovare riscontri. Che è un po’ il mio lavoro di giornalista dell’Ansa, testata impegnata a combattere le fake news”. I giovani protagonisti del romanzo si ribellano allo stato delle cose… “Quando mi sono chiesto a chi volessi affidare il messaggio contenuto in questo romanzo, ho pensato subito ai giovani, che amano profondamente i loro nonni, memore anche della bellissima accoglienza riservata dai ragazzi al mio libro 'Sotto un cielo di carta'. Ne ho incontrati tanti, nelle scuole, e ti assicuro che sono migliori di come a volte li raccontiamo”. In quale mondo ci porterai, attraverso il tuo prossimo libro? “Ci sto pensando, vorrei portarvi in una dimensione che in qualche modo possa farmi esprimere ciò che ho provato durante il lockdown. Per ora è solo un’idea, vediamo se riesco a farne uscire un romanzo”. Lasciamo Roberto con la convinzione che “La città senza rughe” sia un monito a reagire al pensiero ormai diffuso che vede la vecchiaia come malattia. Reagire è un po’ guarire. Un invito, allora, a leggere il libro come cura, affinché ognuno coi proprio anni, le proprie rughe, possa serenamente arrivare al compimento del viaggio.
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libri
Samuela Pierucci
Tra la professione di anestesista e l’amore per la scrittura di Francesca Ghezzani
Samuela Pierucci, originaria di un piccolo paese toscano, vive oggi a Sesto Fiorentino, e lavora come anestesista all’ospedale Careggi, professione a cui affianca l’attività di scrittrice. “Tutto è collegato” – dalle microstorie alla macrostoria – è il credo
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all’origine di “Quel poco che basta”, il suo secondo romanzo. Con Intrecci aveva già pubblicato “Vuoto fino all’orlo”. Samuela, perché nei tuoi libri troviamo dei titoli che sembrano quasi dei modi di dire rovesciati nei loro significati? “Credo che il titolo di un libro debba rispecchiare in poche parole il significato che si vuole dare all’intera opera. Mi piace il “non-
sense” e ritengo che sia un modo intelligente per porsi delle domande fin dalla copertina. “Vuoto” e non “pieno” fino all’orlo nasce dall’idea che si possa diventare insofferenti alla vacuità dei giorni quando ci troviamo incagliati in un momento di stallo da cui non sappiamo come ripartire. Invece “quel poco” e non "quel tanto” che basta per rimarcare che nelle scelte importanti della vita a
volte i piccoli particolari, gli incontri fugaci e fortuiti possono davvero indirizzare gli eventi in maniera drammatica e definitiva”. Cosa intendi quando affermi che “Tutto è collegato – dalle microstorie alla macrostoria”? “Credo che sui libri di storia si studino i grandi eventi come una sorta di spartiacque nella vita dei vari popoli, che la divide in un prima e un dopo. Ma in cosa cambia davvero la storia dell’uomo? Penso si possa affermare che a cambiare siano soprattutto le direzioni che la vita dei singoli, che crea la marea umana che osserviamo e descriviamo nei libri, prende sulla scia delle grandi trasformazioni, dei grandi eventi. Siamo protagonisti ma anche involontari spettatori e a volte vittime della macrostoria in un gioco a cui non possiamo sottrarci”. “Vuoto fino all’orlo” è stato un libro a metà tra una favola e racconto, con una spiccata vena ironica attraverso la quale vengono sottolineati i difetti e vizi della società moderna. La necessità del giovane protagonista di liberarsi dalle costrizioni viene raccontata in un modo quasi timido e insicuro ma in grado di raggiungere una consapevolezza della strada che vorrà poi, alla fine della storia, intraprendere. Quali le differenze e quali le analogie con i due giovani protagonisti di “Quel poco che basta”? “Almalinda è un ragazzino che deve decidere di colpo di diventare grande, e lo fa accorgendosi che tutto intorno a sé è una sorta di immobilismo che non gli permette di fare un salto in avanti ed evolversi. Sebastiano e Nada sono invece due ragazzi dell’età “di mezzo”, non ancora adulti ma già avviati verso un destino tracciato e finora non compiuto in cui ogni scelta può essere decisiva e che saranno travolti dai sentimenti, dall’ingenuità e dalla tragicità degli eventi globali. In comune hanno la ricerca di un posto nel mondo a loro congeniale, e la fuga come miraggio e possibile uscita di sicurezza dagli eventi in cui si trovano invischiati”. Ci racconti qualcosa delle poesie sparse inserite nelle ultime pagine del tuo secondo libro? “Non sono una grande conoscitrice del panorama poetico e le poesie non sono una mia esigenza di scrittura. Però ho pensato che Nada fosse un personaggio incompiuto senza questa appendice, dieci poesie che mi hanno permesso di rivisitare in una chiave intima ed evocativa i passaggi della storia. È un suo punto di vista sui fatti raccontati in prosa, mi sono calata nel suo mondo ed è stato un modo diverso di esprimermi, che ho amato e mi ha fatta sentire più leggera”. Inoltre, passando alla tua vita, come fai a conciliare il lavoro di medico anestesista con i suoi turni, l’attività di scrittura e il ménage familiare? I due ambiti, quello della corsia d’ospedale e quello delle pagine bianche da riempire, si influenzano in qualche modo? “Non c’è una influenza diretta fra il mio mondo lavorativo e quello creativo. Almeno non c’è stato fino a ora. Credo che il lavoro che svolgo sia così denso di umanità, intesa come momenti topici, di gioia, dolore e difficoltà, che in qualche modo ogni vicenda che racconto ne risenta. Tutto ciò che scriviamo ha un filtro autobiografico che poi viene inevitabilmente fuori: io non me ne accorgo, ma di sicuro permea ogni pagina. Scrivere è per me una necessità che ho sempre sentito fin da bambina, a partire da quando a nove anni ho iniziato a redigere il mio diario. Mi serve per ordinare le idee, fissare i sentimenti confusi e renderli più accettabili. È in qualche modo un’attività catartica e terapeutica a cui devo per forza dedicare i momenti liberi, anche se pochi e se questo significa togliere attenzioni ad altri aspetti del quotidiano”. Infine, hai in cantiere una nuova opera? Se sì, sarà ancora un romanzo? “Diciamo che anche in questo caso alcuni eventi della vita mi hanno indirizzata: ho due bambini di sei e quattro anni e sto scrivendo una storia di avventura pensata per un pubblico di “piccoli lettori”. Voglio, insomma, tornare alle origini: a quella bambina che scriveva il diario e amava leggere per sognare eroi e sfide avvincenti”.
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libri
La prima volta “Insieme” Lettori, autori, editori protagonisti di un bellissimo evento di Mara Fux
Tra incontri con autori, reading e performance artistiche si è svolto a Roma “INSIEME”, la grande festa del Libro 2020 nata da un’idea di “Letterature, Libri Come e Più Libri Più Liberi”, evento che, nonostante le difficoltà del periodo, ha registrato un notevole afflusso nelle aree espositive allestite presso l’Auditorium Parco della Musica e il Parco Archeologico del Colosseo. I tre principali appuntamenti letterari romani per la prima volta hanno unito le forze per riportare a Roma i libri, gli scrittori, gli scienziati, i filosofi, gli artisti, i musicisti e i lettori in una grande manifestazione dal vivo, un nuovo for-
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Anche quest’anno ritorna il Digital Media Fest, in programmazione in una versione totalmente online dal 30 novembre al 2 dicembre 2020. Il festival promuove un nuovo modello di raccordo tra mercato cinematografico tradizionale da un lato, nuovi autori e giovani produzioni che utilizzano il web come canale produttivo e distributivo, dall’altro. Abbiamo incontrato e intervistato Janet De Nardis, fondatrice e direttrice del Festival. Com’è nato il Digital Media Fest? “Il Digital Media Fest è nato nel 2019 ma discende dall’esperienza del Roma Web Fest, una manifestazione internazionale di prodotti web seriali che fondai nel 2013; si trattò di un esperimento molto importante perché mi permise di creare una vera e propria vetrina per i primissimi prodotti audiovisivi web nativi seriali, che in quel momento ebbero la loro prima grande esplosione con artisti quali ad esempio i The Jackal, Claudio Di Biagio, Ivan Silvestrini, i Licaoni, Gli Zero, Vincenzo Alfieri e molti altri . Alcuni di essi, oggi, sono registi cinematografici di grande talento. Grazie al Roma Web Fest ero riuscita a fare conoscere bene il prodotto webseriale in Italia e a proporne la diffusione attraverso i media ma soprattutto attraverso l’incontro tra i giovani creativi ed i grandi produttori, le piattaforme di distribuzione ed i brand. Inoltre, ho collaborato con la Regione Lazio affinché il termine “web serie” fosse inserito all’interno della legge regionale dell’audiovisivo. Prima di quel momento, infatti, le web serie non erano ufficialmente riconosciute e di conseguenza non potevano essere finanziate. Stiamo parlando del 2013 e ancora non si parlava della possibile diffusione di Amazon o di Netflix. Tutto è cambiato in questi ultimissimi anni e le grandi piattaforme sono diventate dirette concorrenti della televisione ed in alcuni casi del cinema. Ho deciso di intraprendere questa nuova avventura del Digital Media Fest perché volevo dedicarmi a più ampio spettro a tutti i prodotti audiovisivi web nativi, quindi parlo anche dei vertical movie, dei fashion film e dei viral video, ma anche tornare ai cortometraggi che nel nuovo mercato internet sono anch’essi spesso web nativi e non più destinati in primis al circuito festivaliero o ad apparizioni televisive. Il Digital Media Fest, dunque, pone l’attenzione su tutti quei prodotti molto spesso creati da talenti sconosciuti del web e oggi apprezzati da grandi produzioni che scelgono di sperimentare nuovi linguaggi”. Il mondo cinematografico era già in crisi prima del Covid 19. Come sta reagendo alla crisi il mercato audiovisivo webnativo? “Con il Covid il digitale sta offrendo nuove opportunità non solo ai creativi digitali ma a tutti. Il cinema purtroppo era in crisi già prima del coronavirus e ora deve trovare
una nuova collocazione. Certamente il web sarà luogo di confronto e scontro. E' evidente che per le produzioni cinematografiche più piccole è un momento di grandi opportunità: si è accelerato il processo già in atto di ridefinizione delle "finestre" e anche dei criteri per l'attribuzione di punteggi in base alla distribuzione delle opere. E' evidente che in questo scenario tutto può accadere e molto dipenderà dalle scelte verso cui si orienteranno i webnauti...”. Come sarà questa nuova edizione di festival? Ci può anticipare qualche novità? “Avevamo previsto un'edizione dal vivo, ma con le nuove strette del Governo e con un inverno alle porte credo che saremo costretti a mettere in atto il piano B: la nostra prima edizione totalmente online. Dal 30 novembre al 2 dicembre ci aspettano tre giorni di incontri e confronto con i più giovani e talentuosi creativi della rete. Saranno molte le opere che faranno parlare gli esperti e spero che anche quest’anno riusciremo a fare emergere nuovi autori che possano meritare di iniziare una brillante carriera”. Le webserie per lei potrebbero rappresentare il futuro dell’audiovisivo? 2Le web serie, già oggi, sono una delle espressioni dell’attuale linguaggio dei giovani, inoltre rappresentano la grande possibilità dei creativi di avere un pensiero laterale e di uscire fuori dagli schemi molto più facilmente rispetto a tutto quello che ha a che fare con la filiera televisiva o anche, per certi aspetti, quella cinematografica. Per il futuro non ho risposte, ma credo che la creatività avrà sempre modo di sorprenderci”. Quali sono i tuoi prossimi progetti? “Sto lavorando ad un nuovo progetto cinematografico, questa volta per la realizzazione di un lungometraggio. Tutti i martedì sono in onda in radio su Rid 96.8 con il mio programma 'Incidentalis Arte' e nei prossimi mesi andrà in onda 'Il Boss delle Pizze' su Alice Tv”.
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spettacolo
Emanuela Del Zompo Creatività fa rima con solidarietà di Roberto Ruggiero
D a l r e d c a r p e t d e l l a 7 7 ° m o s t r a d e l c i n e m a d i Ve n e z i a E m a n u e l a D e l Z o m p o s i r a c c o n t a . D o p o i l s u c c e s s o d i “ T h e Wo m e n ' s A n g e l s ” , l a r e g i s t a - a t t r i c e è i m p e g n a t a s u un nuovo set con un partner d'eccezione: Michael Segal. Come nasce l'idea di The Women's Angels? “Nasce durante il periodo del lockdown quando ho conosciuto per caso Rosanna Gambone, attrice disabile che ho voluto come co-protagonista per raccontare una storia ironica sul mondo della disabilità. Avevo presentato alla 75° Mostra del cinema di Venezia, Grunda l'angelo dalle ali rotte, diretto da me anche se all'epoca è stata presentata un'altra persona come regista. Con il fumetto parlavo di femminicidio e volevo scrivere il prologo di questo argomento così ho rivoluzionato la storia raccontando la violenza attraverso la disabilità, tutto in chiave di commedia più che di tragedia, anche se il finale presuppone un' atto drammatico”. La leggenda di Kaira è un altro fumetto, ci racconti qualcosa di questa nuova esperienza? “Sì, è un fantasy, diverso dal primo progetto che è stato realizzato con attori, che racconta le avventure di un'amazzone ambientato in tre epoche storiche, un viaggio temporale che la protagonista deve fare per compiere una profezia ed il suo destino. Il sottotesto della storia parla della condizione della donna nella società. Nasce dall'esigenza di esplorare l'universo femminile... diciamo che Kaira è il mio alter ego ed una supereroina tutta italiana che spera di arrivare Oltreoceano all'attenzione di produzioni come Marvel”. Ma il progetto non si ferma solo al fumetto, vero?
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“Sì in questi giorni sono sul set insieme a Michael Segal, per le riprese cinematografiche del mediometraggio (o promo) da proporre appunto alle grandi major americane per lo sviluppo di una serie tv. La prima tappa o location sono le Marche, nella rocca di Acquaviva Picena abbiamo ambientato la storia medievale del fumetto. Grazie a Nello Gaetani, presidente di Sponsalia, associazione di rievocazione storica del matrimonio di Forasteria e Rinaldo, che ci ha fornito i costumi d'epoca e le location; così è iniziato questo percorso che vedrà poi riprese altre città come Roma, Venezia e Napoli”. Tu oltre alla regia interpreti anche il ruolo della protagonista, come è il tuo personaggio? “E' una donna combattiva, energica, ideale e passionale. Combatte per i propri principi e non vuole rinunciare al libero arbitrio e all'amore. E' costretta a sposare un uomo che non ama, Soteria (interpretato da Sebastiano Piotti), ma lei ha già donato il suo cuore ad Ergaleio (Michael Segal), membro della congrega dei Pegasi con cui deve realizzare la profezia e sprigionare la banshee che è in lei. A differenza di Wonder Woman che combatte per salvare il mondo, Kaira usa i suoi poteri per salvare le donne, per cambiare il loro destino, e nelle sue avventure contro il suo acerrimo nemico Soteria, sarà aiutata dal suo compagno Ergaleio. Ma ora non voglio svelarvi di più... potete leggere il libro su Amazon”. Cosa è stato più difficile fare sul set? “Prendere a calci Micahel Segal e sfidarlo con la spada. (ride) Abbiamo improvvisato un duello con le spade (più che altro un gioco amoroso tra i due amanti), ma avevo paura di questa scena perché le spade usate sul set erano vere. Poi ho dovuto prendere a calci e pugni Michael Segal, beh mi è scappata qualche botta troppo forte, lascio voi immaginare la situazione... Comunque mi sono divertita molto! Michael Segal non lo so! (ride) Hai diretto anche dei bambini sul set. E' più difficile far recitare i giovani o gli adulti? “Sì ho avuto due giovani interpreti: Federico Emiliani e Gaia Leonetti, di 11 e 15 anni, devo dire che lavorare con i ragazzi per me è più facile: loro prendono tutto come gioco, ma da veri professionisti. Si entusiasmano talmente tanto da rendere tutto più facile e più emozionante. Ti danno energia e soddisfazione!”. Sogni nel cassetto? “L'amore!”.
Obiettivi futuri? “L'America, spero che questo progetto mi porti negli USA, il mio obiettivo è lavorare per le produzioni straniere”. Tra regia, scrittura e recitazione, cosa preferisci? “L'una compensa l'altra: ho iniziato a scrivere per fare pubbliche relazioni, poi ho scoperto che mi piaceva. Ho iniziato a dirigere perché volevo recitare e mi sono appassionata. Recitare per me è come amare, vivere e respirare! Non ne posso fare a meno”. Tu sei anche una cantante, vero? “Beh è una parola grossa: diciamo che il canto è un hobby che amo moltissimo. Canto con un coro gospel , perché è come pregare e rivolgersi a Dio! Al momento per la situazione Covid-19 sono ferma con i concerti speriamo di riprendere il prossimo anno e spero un giorno di scrivere una canzone (veramente ne ho già una pronta) per un mio film. Ecco questo è un altro mio obiettivo”. Sei single? Come deve essere il tuo lui ideale? “Aspetto ancora l'anima gemella. Pazzo come me! Avere i miei stessi interessi e la passione per l'America, poi romantico e tanto passionale”.
© Le f oto so no di Matt eo Mignani
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Si impone per la sua prorompente vocalità e presenza scenica. Un talento assoluto. Tanti i successi e riconoscimenti ottenuti. Lei è Maria Ratkova. Come si sei avvicinata al canto? “Nascendo a San Pietroburgo si ha il privilegio di nascere in una realtà intrisa e completamente immersa nella cultura, e in particolare nella cultura musicale, con i suoi teatri e le sue storiche grandi tradizioni di musica sinfonica, lirica e del balletto classico. Io stessa poi personalmente, fin da piccola, ho avuto la fortuna di vivere nella musica grazie a mia madre, che oltre a essere una insegnante universitaria di musica e musicologia, ed essere la persona che ha ideato il sistema per la decodificazione e trascrizione della musica protoslava, era anche la maestra di cappella delle due cattedrali di San Pietroburgo. Io fin dall'età di 4 anni facevo gli assoli in chiesa durante la messa. Mio padre è stato un famoso storico e divulgatore, e ha anche lui avuto molta parte nel dare una traccia culturale di ampio respiro alla mia preparazione umanistica”. Raccontaci del tuo arrivo in Italia... “Il mio arrivo in Italia, patria dell'opera lirica, è stato paradossalmente come un ritorno alle origini. Dopo aver vissuto e studiato all'estero e vissuto in altri paesi tra cui anche Singapore, ho raggiunto in Italia la patria della musica e della musica lirica, ed è stato un arrivo fatto di conoscenze nuove, studio, approfondimento, debutti e incredibili esperienze artistiche e umane nonché culturali”. Che differenze vedi e percepisci tra Italia e il tuo Paese in merito all'opera lirica e all'arte in genere? “Come artista e musicista tendo a non pensare di avere un solo paese di origine, ma mi ritengo cittadina del mondo, anche se sono orgogliosa e onorata di essere cittadina italiana. L'Italia ha questo enorme fascino, e anche questa enorme responsabilità, di essere la patria e l'origine dell'Opera lirica come di tante altre forme culturali che hanno arricchito l'intero pianeta, d'altra parte il paese dove sono nata, la Russia, ha il grande merito di aver sempre coltivato e ingrandito con magnifici teatri, orchestre e scuole di musica e di danza, un'eredità che non solo ha fatto propria, ma che ha anche reso suo personale e originale patrimonio culturale, essendo patria di grandi musicisti e avendo una intrinseca qualità artistica e musicale tutta sua. Tendo piuttosto a pensare alla musica come un patrimonio globale dell'umanità e al limite, le esperienze dei singoli paesi devono essere individuate e valutate nella cura e nella protezione che mettono nel preservare i valori della cultura e della musica che a loro appartengono, e che sono chiamati per questo a custodire e difendere”. Qual è il tuo ruolo preferito e perché? “Ovviamente il ruolo di Carmen è sempre stato nelle mie corde e mi ha sempre donato grandi successi. Car-
men è un personaggio che incarna la libertà e l'autodeterminazione di una donna contro tutto e contro tutti, ma musicalmente è un raro connubio di eleganza francese con fantasie esotiche ispaniche, una miscela esplosiva di eleganza e sensualità che sono sempre una ardua prova per una interprete. Ho vissuto molto in America Latina e ho molto cantato in ambienti ispanici e questo connubio di musica francese con fascino ispanico mi affascina molto. Naturalmente altri ruoli mi sono molto cari e come tutti nel momento in cui li interpreto, diventano il personaggio più amato, ma per completare questa risposta devo dire anche che il mio cuore musicale più profondo, va anche molto alla musica antica, alla polifonia antica con cui sono cresciuta fin da bambina e al repertorio polifonico Romano, fino arrivare a Palestrina, Perosi e Bartolucci, che ritengo tra le massime vette della musica universale, e spesso amo eseguire con degli specialisti del genere a cui sono molto affezionata”. Tantissime tournée all'estero ti portano a viaggiare spesso fuori Italia. Una tra queste la tournée con i Ballerini del Bolscioj di Mosca, connubio tra danza e lirica. Raccontaci questa esperienza. “L'opera lirica è una forma meravigliosa d'arte completa di tutto. In questa si assommano al canto tutte le arti visive e musicali dalla danza alla pittura all'architettura. La completezza di un'opera lirica si realizza anche con la presenza del balletto e ritengo che tutte le opere dove la danza sia presente, raggiungano un livello di completezza maggiore, e che abbiano con la danza qualcosa in più. È noto a tutti quanto fosse importante per poter rappresentare a Parigi nell'800 un'opera che essa avesse al suo interno un balletto, e che a volte fu necessario anche a grandi compositori come Verdi, aggiungerlo. È innegabile che oggigiorno sia sempre più diffusa la tendenza dei registi di lirica a coreografare alcune regie, questo a riprova di quanto ho detto prima. Non che io approvi incondizionatamente questa tendenza, ma sicuramente questa abitudine è molto diffusa, indice questo che siamo sempre più in presenza di una visione dell'opera lirica come un 'musical'. Se a ciò aggiungiamo la ormai diffusa tendenza a decontestualizzare e spostare temporalmente le regie stesse, al di là di approvarle o meno, dobbiamo convenire che nell'opera lirica, passando per la danza, possiamo individuare una grande quantità di elementi di modernità e stimolo creativo”. I nostri teatri sono attualmente in restrizione governative per via del Covid. La tua idea a riguardo? “Purtroppo in tutto il mondo assistiamo dove più dove meno a questa realtà, molti la sintetizzano come una lenta necrosi dei teatri e forse si è tutti d'accordo nel dire che è un gravissimo momento sia per la scarsità di lavoro per gli artisti che hanno dedicato la vita per
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Polimnia Ritmica Romana Conquista le finali del campionato di serie A2 di Roberto Ruggiero
Nuovo successo per la Polimnia Ritmica Romana. Nella terza prova del Campionato Nazionale di serie A, che si è tenuta nei giorni scorsi a Desio, le migliori 24 società d’Italia hanno dato vita ad una gara di altissimo livello e la squadra romana, rappresentante anche del Municipio XIII, non poteva iniziare la stagione in maniera migliore: il terzo posto nella classifica generale di serie A2 proietta le “verdoline” a l l a f i n a l i s s i m a d i To r i n o , o v v e r o l a n u o v a F i n a l S i x , r i s e r v a t a a l l e p r i m e 6 s q u a d r e classificate della Regoular Season della massima serie. La gara è stata ulteriormente impreziosita dall’esibizione della Squadra Nazionale Italiana (tra le cui fila troviamo Martina Centofanti, ginnasta cresciuta nella Polimnia Ritmica Romana) che ha presentato i nuovi esercizi in vista di Tokio 2021. “Abbiamo aspettato tanto questo moment”, afferma Liliana Iacomini, tecnica responsabile del settore Gold della Polimnia, “rientrare in pedana dopo tanti mesi è stato emozionante, ma farlo disputando la gara più importante e prestigiosa è stato davvero difficile. Le nostre ragazze hanno saputo mantenere i nervi saldi e ci hanno regalato bellissime esecuzioni: siamo soddisfatte del risultato e anche se alcuni errori ci sono stati. Ma l’aver centrato l’obiettivo della qualificazione alla Final Six ci rende orgogliose e cariche”. Soddisfazione è stata espressa anche da Marzia Farlo, tecnica della squadra insieme a Fiammetta Mantella e alla coreografa Patrizia Natoli. “Abbiamo lavorato tanto in questi mesi”, spiega Farlo, “organizzando allenamenti on line durante il lockdown e poi di nuovo in palestra da maggio, applicando rigidamente tutti i protocolli e questo risultato ci ripaga di tutte le fatiche”. Prima della partenza le verdoline hanno ricevuto una visita speciale: Elisa Santoni, storico capitano della Squadra Nazionale Italiana plurimedagliata olimpica e cresciuta nella Polimnia Ritmica Romana, dopo aver terminato l’attività agonistica con Londra 2012 non ha mai fatto mancare il suo supporto alla squadra e l’ultimo giorno di allenamento è andata in palestra a dare personalmente il suo “in bocca al lupo” alle ragazze. “E’ stato un momento speciale, che ha caricato la squadra!”, prosegue Marzia Farlo. La gara si è svolta senza presenza di pubblico: “è una sensazione particolare” racconta Elisa Todini, la capitana del Team Polimnia “perché manca il sostegno del pubblico e la magia dell’applauso alla fine dell’esercizio, ma già essere tornate a gareggiare è una gran cosa!” Insieme a Elisa Todini hanno gareggiato Martina Gargaro (la più giovane del team), Elizabeta Havyliv e Martina Lamberti, che dall’Accademia di Fabriano, dove è in ritiro con la Squadra Nazionale Juniores in preparazione per i prossimi Campionati Europei, ha dovuto dividersi tra l’allenamento di squadra e la preparazione dei suoi esercizi individuali. Insieme a loro Alessandra Cipriani, riserva sempre pronta a sostegno della squadra. Adesso il team diretto da Michela Conti è già al lavoro per essere protagonista del grande spettacolo che va in scena al Palaruffini di Torino: “guardare avanti con fiducia è il modo migliore per superare tutte le difficoltà ed i problemi di questo periodo, e noi, insieme alle nostre meravigliose atlete, siamo pronte a portare avanti il nostro sogno”.
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musica
Gerardo Di Lella con Tony Hadley
Gerardo Di Lella All that Jazz! di Mara Fux
Classe 1964 Gerardo di Lella è nell’odierno panorama musicale sinonimo di qualità e successo. Cos’è per te la musica e cosa significa vivere di musica? “Che grande domanda! Penso che la musica sia la forma d’arte più immediata e soprattutto quella che più di qualsiasi altra sia capace di influire sulla vita delle persone, per me ovviamente rappresenta lo scopo della mia vita. Vivere per la musica e di solo musica comporta però molti sacrifici e tanta sofferenza che solo con grande determinazione riesci a superare, poi con l’impegno e la perseveranza arrivano anche le soddisfazioni, forse un po’ in ritardo ma per fortuna arrivano”. Quando hai compreso che avresti fatto della musica la tua professione? “Intorno ai venti anni. Il mio approccio con la musica avvenne senza nemmeno accorgermene in famiglia all’età di quattro anni, grazie a mio nonno Gerardo che era musicista, lui m’insegnò i primi rudimenti e successivamente i miei genitori mi fecero continuare gli studi. Poco prima del conseguimento del diploma di pianoforte iniziai ad ascoltare il jazz ed è stato proprio in quel periodo che cominciai a capire che la musica poteva essere oltre che una passione anche il mio percorso professionale”. Pensi di avercela fatta? “Mah… direi più prudentemente che ce la sto facendo. Ho ancora tante cose in mente da realizzare; ho fatto molti passi importanti, mi sono guadagnato la stima di professionisti internazionali, ho pubblicato un disco per la Universal nel 2012 con molti tra i musicisti più forti del mondo, ho fatto Sanremo, da sei anni dirigo il “ROMA CAPUT MUSICÆ - Il Concerto di Capodanno di Roma”, recentemente ho collaborato con l’Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno, ecc… Questi sono sicuramente dei segnali molto importanti che spero mi aprano al più presto nuovi percorsi professionali”. I tuoi concerti seguono, come dire, un format ben preciso: progetti diversi tra loro, solisti di diversa estrazione, e la tua orchestra che con te affronta sempre nuove sfide. “Esatto, è proprio così; ho cercato di riproporre in Italia il modello americano di David Foster dove l’orchestra rimane
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il fulcro intorno al quale ruotano progetti particolari, anche con artisti appartenenti a stili musicali molto diversi tra loro e che proprio grazie al suono dell’orchestra riescono a dare luogo ad eventi unici”. Negli ultimi anni con la tua orchestra si sono esibiti, Arturo Sandoval, Diane Schuur, Tony Hadley, Gloria Gaynor, Amy Stewart: per contattarli hai adottato strategie particolari o ti sei fatto guidare dal motto “chi osa vince”? “Ho scelto proprio la strategia del 'chi osa vince'. Ho semplicemente fatto via email la mia richiesta ai vari artisti, è stato molto più facile di quanto pensassi. In America se un artista crede in te e nel tuo progetto non c’è bisogno di altro, in Italia invece tranne che per rare eccezioni è tutto più complicato”. E non hai mai ricevuto dinieghi? “Sì, ovviamente mi è capitato. Qualche diniego lo ricordo anche con emozione: contattai Tony Bennett che volevo coinvolgere per il Memorial Concert per Frank Sinatra nel 2015 (che poi feci con Tony Hadley) ma non era purtroppo il momento adatto, era impegnato con il tour di Lady Gaga e aveva anche una data a Umbria Jazz. Per circa due mesi ebbi uno scambio di mail con due collaboratori del suo staff che fecero di tutto per verificare questa eventuale possibilità di partecipare al mio progetto, ma anche in considerazione della sua non più giovane età, non se la senti di affrontare un ulteriore impegno durante quel suo faticoso tour in Europa”. Quanto hai sacrificato alla tua vita per giungere a questo? “Molto. Lavoro ancora tantissimo, anche adesso che sto parlando al telefono con te, sto impaginando 'I Clown' che Nino Rota ha scritto per Fellini, pezzo che ho appena finito di arrangiare”. Come ti sei avvicinato alla musica del cinema? “Quando nel 2004 Rai Due decise di fare uno special in onore di Alberto Sordi chiesero a Piero Piccioni, suo storico compositore, di dirigere l’orchestra in trasmissione per eseguire le musiche dei film che aveva composto per lui. Piero, non più giovanissimo, non se la sentì e fece il mio nome, da li è partito tutto”. Ultimamente pullulano concerti in memoria di Morricone: cosa pensi a riguardo? Molto spesso si sentiva dire grande compositore ma non bravo direttore. “Diciamo che è normale rendere un omaggio musicale a uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, anche se, guardandomi intorno, mi sto rendendo conto che sono in tanti a non aver capito granché della direzione espressiva di
Morricone. La musica per il cinema non c’entra niente con la musica sinfonica, opera ecc…, risponde ad altri canoni, non può essere diretta come se fosse una sinfonia, ma va diretta proprio come la dirigeva lui, una gestualità semplice ed efficace senza enfasi “teatrale”. Ultimamente ho visto dei direttori di musica classica, alcuni dei quali anche molto rinomati, accingersi con il repertorio di Morricone e sinceramente fa un po’ sorridere, è come vedere Roberto Bolle che balla Billie Jean di Michael Jackson, o se vuoi, è come ascoltare qualcuno che recita una poesia romanesca con l’accento tedesco. Per affrontare la musica del cinema occorre una competenza specifica, molto spesso c’è la ritmica che immediatamente sposta il baricentro espressivo da tutt’altra parte, dove la direzione d’orchestra ortodossa non può risultare altro che goffa e fuori luogo. In molti si sbizzarriscono ad arrangiare i brani di Ennio Morricone conferendogli a volte un suono troppo sinfonico Gerardo Di Lella snaturandolo; per rispettare con Tony Hadley il suo linguaggio non ane Rita Pavone drebbe mai dimenticata l’origine della sua formazione musicale che è proprio quella ad aver fatto la differenza. Morricone ha inventato un linguaggio nuovo, tutto suo, aveva sì una solida formazione ortodossa ma la sua musica è il risultato della somma dei tantissimi stili musicali che ha affrontato nella sua vita. L’influenza che ha subito dalla musica americana degli anni 40/50 unita alla sua lunga esperienza di arrangiatore per la RCA sono stati gli ingredienti determinanti per la sua formazione artistica, secondo me, è proprio grazie a tutte queste esperienze che è diventato Morricone. Dal mio punto di vista è l’unico musicista che è riuscito a conciliare un’ottima preparazione musicale con una creatività incredibile, sinceramente e senza offesa per nessuno, non conosco altri musicisti così. Ritornando al suo stile, ogni genere musicale va trattato a se, come succede in una lingua, oltre alla grammatica e al vocabolario ci sono gli accenti, è vero, ma l’anima dell’essenza sta solo nelle sottili sfumature”. Pensi che ci sia ancora un atteggiamento snob nei confronti della musica non classica? Mi riferisco proprio alla musica cinema, al jazz, al pop ecc… “Ci sono ancora molte persone, anche tra gli addetti ai lavori, che ritengono che la musica 'non classica' sia musica di serie B ma è una totale Eresia. La nostra musica moderna (che ha nel 90 per cento dei casi un origine afroamericana) è semplicemente un altro linguaggio che risponde ad altra grammatica, ad altra sintassi. Sarebbe, per esempio, come pensare che le varie lingue; giapponese, araba, russa, ecc… siano meno importanti della lingua italiana o viceversa. Stiamo semplicemente parlando di linguaggi diversi che meritano tutti lo stesso grande rispetto”.
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social & tempo libero
Lorenzo Castelluccio L’influencer del lifestyle di Silvia Giansanti
Nato direttamente sul web, o g g i v a n t a p i ù d i 11 5 m i l a follower addirittura da tutto il mondo che lo seguono su Instagram con entusiasmo e partecipazione. Andiamo alla scoperta di uno dei lavori di oggi e uno degli influencer italiani piu' amati da un target variegato. Lorenzo Castelluccio, (@Lorenzo.Castelluccio) classe 2001 è un tipo vulcanico e creativo, appassionato di lifestyle, senza dimenticare importanti messaggi sociali. Un bravo ragazzo proveniente dai quartieri romani che si è costruito una professione h 24 sul telefonino. Lorenzo, sei nato nel 2001, quando in mano si teneva un Nokia 3210. A che età hai scoperto la tecnologia e hai iniziato di conseguenza ad amarla? “Fin da piccolo ero incuriosito dai cellulari dei miei familiari. Ne provai uno e mi cimentai con un gioco a caso. Ovviamente il telefonino non aveva il collegamento a Internet. Mi divertii tantissimo e analizzai questo oggetto misterioso e affascinante. E così la mia famiglia ne acquistò uno tutto per me. Fu un’emozione immensa. Ho sempre amato la tecnologia e in particolar modo i cellulari che cambiavano e si aggiornavano di continuo, cosa che accade tuttora. E chissà dove arriveranno”. Com'è partita l'idea di divenire un influencer? “Da sempre credo nell’importanza della comunicazione. Ho conseguito l’attestato di portamento, scuola tv e posa fotografica e quello sulla Comunicazione efficace tenuto dal giornalista e conduttore radiotelevisivo Igor Righetti. A 12 anni postavo selfie divertenti su Facebook e mi ero fatto conoscere in alcuni quartieri della capitale. Poi col tempo, il mio pubblico si è ampliato. Qualche anno dopo mi sono spostato su Instagram. Sono quindi partito dal nulla e tutto ciò che sto realizzando è frutto soltanto della mia determinazione, creatività e impegno. Oggi questo è il tuo lavoro. Quante ore passi collegato sui social con il telefonino? “Sono sempre connesso, le ore che dedico al mio lavoro ogni giorno, inclusi i weekend, sono moltissime”. Tutti possono essere influencer o servono dei requisiti particolari? “Come tutte le professioni, anche quella di influencer necessita di doti, curiosità verso il nuovo, passione e tanta determinazione. E devi essere pronto a sacrificare buona parte della tua vita privata. Ci sono poi gli influencer ge-
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nerati dalla tv e quelli come me che nascono direttamente sul web”. Su quali tematiche sei concentrato maggiormente? “Prediligo il lifestyle, ma sono impegnato anche sul sociale; sono contro ogni tipo di discriminazione. Sono per la libertà individuale purché non nuoccia agli altri. Amo molto gli animali e mi batto per i loro diritti. Non a caso il mio ultimo cane l'ho preso in un canile. Ho anche organizzato un raduno a Roma con altre web star italiane sollecitato dai nostri follower. È stata un’esperienza bellissima ed emozionante per me e per loro”. Perché pensi di essere così seguito? “Oggi l’età anagrafica in tanti casi non corrisponde più a quella biologica. Anche molti adulti mi seguono per sapere gli ultimi locali di tendenza, le nuove mode, le nuove mete per viaggi emozionanti e i cosmetici più efficaci. Sono riuscito ad avere un target molto vasto e vario in quanto mostro tutto ciò che vivo, condivido informazioni utili e interessanti sul life style. Collaboro anche con diverse aziende internazionali. I più giovani mi chiedono ogni genere di consiglio, anche di tipo personale. In tanti vogliono messaggi vocali o video personalizzati che io invio con grande piacere”. Come reagisci davanti agli haters, i famosi leoni da tastiera? “Gli haters non mancano mai, sono sempre pronti a offendere in modo gratuito e a diffamare senza neppure conoscerti personalmente. Sono pusher di odio e dispenser di rabbia e invidia. Anche loro, però, hanno il proprio ruolo, servono per fortificarti. Alla fine aumentano l’interesse e la curiosità verso il diffamato. Le critiche, invece, quando sono costruttive aiutano a crescere. Sulle altre ci rido sopra”. Il messaggio che ami dare di più a chi ti segue. “Molti miei coetanei, e non soltanto, vengono bullizzati. Faccio mio il motto 'Nel bene o nel male purché se ne parli'. Bisogna imparare a fregarsene del giudizio
altrui e farsi una grassa risata. Ai miei follower dico sempre di non lasciarsi condizionare dalle offese e di buttarle dietro alle spalle. Le tue passioni di vita? “La mia passione più grande è il mio lavoro che mi permette di scoprire ogni giorno cose nuove. Amo la cucina etnica, in particolare quella giapponese, trascorrere il mio tempo libero con gli amici e la mia famiglia, giocare a burraco, guardare film e serie tv. La tua visione del mondo giovanile coetaneo? “Molti di noi, purtroppo, non hanno più voglia di sognare. Siamo una generazione che ha difficoltà a vedere il proprio futuro in un Paese soffocato dalla burocrazia, dove la meritocrazia è un optional, il lavoro va inventato, il precariato è l’unica certezza e dove fino a 35 o 40 anni si è costretti a vivere ancora in famiglia a causa di tutto ciò che ho elencato”.
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eventi
San Marino Comics
Uomo Ragno e Mazinga Z alleati contro il Covid di Mara Fux
Con un afflusso di ben 38.000 partecipanti, si è svolta nella piccola Repubblica di San Marino la VIIa edizione del San Marino Comics, manifestazione qui nata nel 2014 per mano di un pool di appassionati del fumetto che con impegno e fantasia son riusciti a replicare il successo dei ben noti RomaComics e LuccaComics, eventi cult del settore.
Per quanto allertato dall’incedere del Covid, il comitato organizzatore operativo già dall’autunno 2019, grazie ai decreti della Repubblica di San Marino ha avuto le possibilità "di legge" per poter realizzare e svolgere il festival, seguendo un capitolato molto attento alle vigenti precauzioni al punto che ad oggi “avendo fatto schola”, proprio gli organizzatori del San Marino Comics son diventati un fidato consulente per gli stessi festival dell’eclettico genere. A firmare il manifesto dell’edizione è stato l’eclettico illustratore Enrico Simonato con un inedito scorcio di San Marino in versione Art Nouveau: la veduta della classica rocca medievale vigilata da un originalissimo Jeeg Robot immortalato nella nota posa di San Giorgio e il drago, ha ufficializzato lo svolgimento della manifestazione che si è poi svolta negli ultimi giorni di agosto accentrandosi sul palco collocato nella centralissima Piazza della Libertà per accogliere gare cos play, spettacoli, conferenze ed esibizione di ospiti non ultimo il concerto con cui son stati festeggiati i 40 anni dalla messa in onda di “Mazinga Z”, il robot più amato nel mondo, nel corso del quale è stato dedicato un tributo in memoria del Maestro Mariano Detto, scomparso lo scorso marzo proprio a causa del covid. Aree a tema e banchi espositivi hanno trasformato il centro storico in
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una interessante mostra mercato ove ha fatto senza dubbio da padrone l’esposizione della più grande collezione italiana di oggetti del film “Ritorno al futuro”. Non meno curiosità è stata risvegliata dalle aree tematiche dedicate a “I pirati dei Caraibi”, “Trono di spade”, “Star Wars”, “Alice nel paese delle meraviglie”, “Zoombie”, “Harry Potter” nonché i giochi di ruolo dal vivo.