Madre patria a Sottomonte

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MADRE PATRIA A SOTTOMONTE

Vincenzo Bugliani


Presentazione

“cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche” Alessandro Manzoni Il 1994, l’anno in cui sedemmo fianco a fianco nel Consiglio Comunale di Firenze, procedevamo unanimi in quella grande terra di nessuno, dichiarata zona vietata dalla destra e dalla sinistra per oltre due secoli. Era il mondo dei contadini, degli artigiani, dei bambini, dei beni comuni, dei valori d’uso, di tutto ciò che incontravamo nella nostra ricerca di un popolo solidale in cui sentirci a casa e di cui essere fedeli servitori. Vincenzo, dopo l’abbandono della religiosità dell’infanzia, non ha mai superato la soglia della Chiesa cattolica, è rimasto nell’anticamera, ma con un rispetto tale da far pensare che l’atmosfera della fede della sua mamma gli fosse rimasta nell’anima come un sancta sanctorum di cui non ritenersi degno. Eppure capiva al volo quando si parlava di terra in modo religioso e morale, cioè altruistico.

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Era già abbastanza avanti nella malattia, che indossava con consapevolezza, dignità e pudore, quando mi portò questo dattiloscritto. Lo lessi superficialmente all’inizio, badando solo alla storia e gli chiesi di completarlo con gli anni dell’abbandono delle radici, ma non gli riusciva più. Solo dopo la sua morte mi sono accorto del messaggio nascosto che conteneva. Il prof. Bugliani, filologo, traduttore del manuale di Epitteto, attento revisore del dizionario Conte Latino/Italiano, alla fine della vita traduce in questa piccola opera letteraria le parole vernacolari, le descrizioni della cultura orale, la vitalità contadina della sua infanzia come un invito a radicarsi di nuovo. Aveva intitolato questa storia “In famiglia”, ma per famiglia in Italiano d’oggi s’intende qualcosa di meno di Heimat tedesco, per il quale non c’è una traduzione, se non forse la patria del campanile oppure l’ambiente del vicinato allargato. Questa Italia espropriata, schiacciata, livellata, non riunita da una conquista piemontese che ha fabbricato un governo nazionale come “governo ladro” in guerra con gli italiani, colonizzata persino nella memoria, riparla la lingua della terra madre, della matria repressa e imbavagliata. Massa era la porta del paradiso dei ragazzi: lingua come impasto di pane e acqua, pomodori e marmo, giochi per strada, vino di Candia e processioni di maggio. Ci siamo incrociati da lontano senza conoscerci. Quel profumo di pulito con un tocco di salmastro che aleggiava nelle stanze e si mescolava con le fatiche delle donne di famiglia, lo abbiamo respirato ambedue, ciascuno a suo luogo e modo.

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I Menzione, suoi padroni e amici della mia famiglia, persero tutto o quasi perché restarono fedeli all’economia della parsimonia, dell’ordine domestico rispettoso delle cose, furono spazzati via dalle bombe dell’imprenditoria e dei consumi, che hanno continuato a deflagrare nelle case della civiltà contadina fino a bruciarne i gusti e il corpo.

Anch’io come lui mi sono inebriato ai sapori dell’appetito massese e versiliese della prima giovinezza. Seguivo con la mia piccola bicicletta quella del nonno generale (già in pensione al tempo della linea gotica) fra Vittoria Apuana e i Ronchi, passando vicino ai ruderi di ville bombardate, casematte, crateri di bombe; ma su tutto volteggiava il canto degli uccelli, il ritmo delle nostre pedalate, la voce di qualche venditore ambulante in lontananza e il profumo della schiacciata all’olio e del pane di Montignoso nel cestino. Poi c’è stato il ’68: una febbre di liberazione dai calcoli industriali, dal realismo di plastica, dal galateo borghese cristallizzato nella retorica degli ultimi due secoli.

Ma il vuoto formatosi con la contestazione globale, è stato subito riempito dai rifiuti delle vecchie ideologie: marxismo, liberazioni individuali, sessuali, femminismo in concorrenza coi maschi, sviluppo senza limiti di diritti senza doveri. La stagione del ’68 ha agitato il materialismo dell’occidente, il suo egoismo intessuto con i diritti civili da ricchi, cioè dipendenti dalla tecnologia e dal mercato, e così ha moltiplicato la società dei consumi contro la quale era scoppiata. E questa crescita dell’inquinamento che secondo gli economisti dovrebbe salvare l’economia, ha imbavagliato le radici della vita morale, culturale e fisica della gente.

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Vincenzo, a un certo punto se n’è accorto, prima inconsciamente, poi sempre di più. Dall’essenza repressa delle motivazioni originarie del ’68 è nato il movimento ecologista che in alcuni aspetti ha reso profezia la condanna della modernità fatta dai papi dell’’800 e del primo ‘900. Alcuni militanti del ’68, quando hanno visto la deriva reazionaria della sinistra a favore dei diritti civili delle società privilegiate hanno avuto la reazione di collocarsi alla destra di Gengis Khan. Vincenzo in quest’ultimo messaggio, accanto al bisogno di ritrovare una vicinanza con la madre patria come comunità di esseri viventi, dai fili d’erba alle stelle, esprime il messaggio più alto del mondo contadino, quello che viene direttamente da una natura sorella dell’uomo, il messaggio della gratuità.

Chi non ha goduto nell’infanzia la libertà che sprigionava nell’anima la luce del tramonto dall’orizzonte versiliese nelle sere delle vacanze di Pasqua, non può sapere che vuol dire là madre patria, patria delle madri. Ma Vincenzo l’aveva nelle fibre e gli è sbocciata fra le mani vicino all’ultima tappa: la libertà delle gioie più intime e più alte, tutte gratuite che risuonano dai cieli nascosti alla nostra anima. È il senso della sola rivoluzione possibile oggi, dopo il fallimento sostanziale di quelle sette e ottocentesche, la rivoluzione così bene rappresentata dal Manifesto del Fronte di Liberazione del Contadino Impazzito scritto da Wendell Berry nel 1968: “Amico, ogni giorno fai qualcosa che non può entrare nei computer, Ama il Creatore, ama la terra, lavora gratis”

Il mondo contadino, una cultura esclusivamente orale, ha formato la particolare bellezza delle patrie italiane sull’onda

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di un gusto condiviso, di passioni gratuite per un ordine umano e religioso insieme. Le rivoluzioni del 21° secolo saranno basate sulla gratuità, sulla solidarietà non solo umana ma con tutta la natura come comunità vegetali, animali, batteri, aria, acqua, terra, fino agli astri più lontani: una comunità di diversi legati dallo stesso linguaggio della vita. Anche fra gli esseri umani la ricchezza della solidarietà comunitaria si basa sulla diversità dei mondi dell’uomo e della donna che hanno confini originari sacri e finché sono onorati intuitivamente, il mistero dell’autorità della donna resta inscindibile dal suo potere di contatto con la terra. La gran parte dei paesi, delle regioni e delle città hanno nomi femminili e la patria è madre come la terra e nella terra si seppelliscono i nostri cari che aggiungono a ogni generazione un impegno di fedeltà a quella madre patria. Se il mondo della donna non è rispettato nella sua identità, impossibile da chiudere in definizioni razionali, perde il suo potere e si rattrappisce in: immagini, sesso, oggetto, rivendicazioni, definizioni, manipolazioni, teorizzazioni. La distruzione dei confini fra uomo e donna, l’appropriazione finanziaria dei semi e la loro manipolazione apre il territorio della trasmissione della vita alla barbarie di diritti inventati contro natura e alla devastazione tecnologica a favore dei ricchi, con il conseguente bombardamento della madre patria. E oggi l’Italia ha un problema di identità. Eppure sotto l’asfalto dormono radici pronte a germogliare anche dopo ere geologiche. È di questa speranza che riecheggiano i ricordi di Vincenzo che ci spingono a ritrovare l’Italia o meglio le Italie delle nostre origini per lavorare con loro a quella conversione

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a U economica, ecologica e morale necessaria a prendere la guida del mondo che intende fronteggiare le cause del cambiamento climatico. Giannozzo Pucci

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