Il Guardiano della Misericordia

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Terence Ward

Il Guardiano della Misericordia Un’esistenza travagliata che un capolavoro del Caravaggio trasforma in sublime esperienza Prefazione di Marco Rossi-Doria Traduzione dall’inglese di Margherita Bracci Testasecca

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Prefazione Persone comuni che si aiutano l’una con l’altra di Marco Rossi-Doria Un quadro – le Sette opere di Misericordia – che il Caravaggio dipinse nell’inverno tra il 1606 e il 1607. Un uomo del nostro tempo, Angelo, custode del dipinto. E Napoli, allora e ora. Sono questi i tre protagonisti scelti da Terence Ward per tessere la sua scrittura. Il filo della narrazione avvicina il primo e il secondo protagonista e svela il legame che unisce profondamente il capolavoro di Caravaggio all’uomo che siede a custodirlo aiutandolo ad attraversare il buio che gli imprigiona il cuore e ad affrontare la fatica di cercare una via di luce. Ma è Napoli la scena scelta per ridestare i nostri pensieri sulla Misericordia. La quale ci interroga su come stare al mondo, in modo radicale – nel tempo del Vicereame e ancora oggi. Dal giorno di gennaio del 1607 quando la tela fu esposta la prima volta, se, nel cuore di Napoli, si entra nella cappella del Pio Monte della Misericordia e si guarda il meraviglioso quadro che è lì da quando fu dipinto, è la luce incredibile che, non si sa come, viene dai visi, dai corpi e dalle mani delle persone che popolano la scena, a illuminare ogni cosa e a interrompere l’oscurità del mondo. Ed è immediatamente evidente che sono corpi, mani e visi di personaggi – privi di potere, ognuno con una storia o con un mito da raccontare – che sono solidali, che vengono in aiuto del 5

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loro prossimo. E, parimenti, la Madonna e il Bambino, insieme agli angeli scendono anche essi, attraversando ogni confine, anche quello tra divino e umano, per avvicinarsi alle semplici opere del buon vivere, nella città senza ripari e afflitta da fame, sete, prigionia, morte, freddo, malattia. «Persone comuni che si aiutano l’una con l’altra»1. Se si entra oggi nella cappella del Pio Monte e si guardano le Sette opere di Misericordia, il pensiero va agli abitanti delle isole di Lampedusa o di Lesbos e ai cittadini dei borghi che danno cibo e vestiario oltre i muri e i fili spinati che – contro gli odierni potenti e lontano dai troppi, tremendi e insensati egoismi – aiutano le donne, gli uomini, i bambini in fuga dalle avversità del nostro tempo. È la solidarietà umana, l’incontrare l’altro da sé, che fa la differenza tra buio e luce. Aiutarsi l’un l’altro, da pari a pari, nella prossimità concreta intorno alle cose da fare – le opere – può interrompere le tenebre, oggi come ne Le Sette Opere di Misericordia. I sette benefattori che fondarono il Pio Monte dopo essere scampati a una tempesta improvvisa sul mare del golfo, si erano allontanati dai modi della loro classe sociale e avevano iniziato a frequentare e conoscere le quotidiane traversie dei poveri di Napoli. Essi, perciò, chiesero al maestro di mostrare – a una città tremendamente immiserita e con una nobiltà che, per lo più «viveva nel fasto e nell’ozio, quasi sempre illetterato e teneva i pubblici uffici soltanto come fonte di reddito o come soddisfazione di vanità e spregiava ogni sorta di lavoro»2 – non solo l’imperativo dichiarato ma la concreta possibilità di portare soccorso solidale. 1. «It’s about simple people helping one another» (Terence Ward, The Guardian of Mercy: p. 31, Arcade Publishing, New York 2016). È così che Angelo, il custode comunale protagonista, il “Guardiano della Misericordia” dice dei personaggi della tela del Caravaggio. 2. Gino Doria, L’Età viceregnale – II, in Storia di una capitale, Riccardo Ricciardi, Napoli 1964, pp. 171-72, IV edizione.

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Non fu una richiesta semplice. Tutt’altro. Il richiamo alla solidarietà, infatti, non si traduceva – né allora né dopo – in una pratica diffusa da parte di coloro che possedevano i mezzi per farla; e spesso «i ricchi proprietari, commercianti, magistrati e avvocati, ma anche gli speculatori legati all’aristocrazia da vincoli di parentela, rifiutarono la propria solidarietà con ‘la gente del popolo’»3. E, tuttavia, fu questo il mandato ricevuto da Caravaggio. E, allora, egli – per riuscire a mettere su tela l’imperativo e il messaggio visionario della Misericordia – prese a modello per il dipinto coloro che la facevano con i propri pari, popolo con popolo; e dipinse i volti della città che lo aveva accolto rifugiato, fuggiasco. Erano lì, abitavano insieme a lui le strade affamate e appestate eppure operose, i cortili, i vicoli e non i piani nobili dei palazzi. Come scrisse, a proposito del dipinto, Roberto Longhi: «La camera scura è trovata all’imbrunire, in un quadrivio napoletano sotto il volo degli angeli lazzari che fanno la “voltatella” all’altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra da cui ora si affaccia una “nostra donna col bambino”, belli entrambi come un Raffaello “senza seggiola” perché ripresi dalla verità nuda di Forcella o di Pizzofalcone»4. Chi custodisce la misericordia, chi è a presidio della solidarietà? Il tema attraversa tutto il libro di Terence Ward, al di là del dipinto e del racconto del suo guardiano. Chi opera, chi fa le opere di misericordia è – nella storia – il custode delle stesse. E questo avviene spesso tra pari. Tanto che Terence Ward rintraccia, nei messaggi imperativi delle diverse religioni e culture umane da Oriente a Occidente, un’unica 3. Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino 1973, p. 48. 4. Roberto Longhi, Caravaggio (1952), in Opere complete, Studi Caravaggeschi, Sansoni, Firenze 2000.

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antropologia, differenziata eppure globale – la philoxenia dei greci, operosa nel nostro mare comune e già nella Napoli antica – che richiama la Misericordia come un santuario universale che è dentro di noi5. A volte – come nel caso qui narrato – la storia di una minoranza dell’aristocrazia o, poi, di una parte della borghesia fu anche storia di autentici custodi di Misericordia e, dunque, di incontro tra persone di classi sociali diverse e di messa in discussione degli assetti di potere. Molte altre volte furono le classi popolari in rivolta e poi organizzate intorno al pensiero dell’eguaglianza ad aprire la via per l’affermazione del diritto uguale e di un vero cambiamento di prospettiva. Che toglie la prerogativa del gesto solidale all’arbitrio del potere pietoso, al richiamo religioso e alla scelta degli individui e lo pone sul piano della giustizia civile, a fondamento della legge comune. E, così, nel nostro mondo le cose sono cambiate. Oggi il welfare è parte dei compiti inalienabili dello stato. Che deve sostenere chi ha bisogno fondando il proprio operare sul mandato generale che gli deriva, appunto, dagli uguali diritti tra tutti i cittadini che è sancito dalla Costituzione. E, perciò, la nostra Carta non solo lo dichiara come fondamento del patto comune ma chiama la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»6. Eppure la Misericordia continua a vivere nella costruzione sociale ogni giorno, a fianco del dettato politico che deriva dal patto costituzionale che è alla radice della nostra convivenza civile. A volte come azione sussidiaria al welfare o per sostenerne 5. Terence Ward, The Guardian of Mercy cit., pp. 63-64. 6. Costituzione della Repubblica italiana, art. 3.

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i compiti attraverso un’azione propositiva indipendente pensata per innovarlo o migliorarlo. A volte in posizione penosamente sostitutiva dell’azione incompleta dello stato, azione svolta male o infragilita da scelte politiche miopi o da nuovi egoismi e rendite di posizione. Ma ancor più spesso, la Misericordia si concretizza come semplice, diretta, quotidiana solidarietà fraterna tra pari – la fraternité – una presenza che si ripete nei secoli, quasi miracolosamente, come gesto umano verso il proprio simile, nei mille e mille modi che sempre ci furono, ispirati o meno da imperativi religiosi o etici. E che nessun egoismo o potere riesce a distruggere. Terence Ward sceglie Napoli per mostrare tutto questo, nelle ombre e nelle luci di una città antica e complessa e di un dipinto profetico.

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