UN GIARDINO ANCORA di Oliva di Collobiano

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Quaderni d’Ontignano



Questi quaderni prendono il nome da una frazione agricola dove nessun contadino sopravvive ai più di cento che ci stavano prima. Le case sono abitate per lo più da gente arrivata da fuori e che lavora altrove, con la mente e le preoccupazioni rivolte verso le città e il mondo della tecnologia che appare dalle scatole della televisione. A dodici chilometri

dal centro di Firenze, Ontignano è un simbolo della natura lasciata e, insieme a lei, del potere umano disperso.

I Quaderni

d’Ontignano vogliono essere un aiuto ad ab-

bandonare la società artificiale, le piccole regole dell’individualismo di massa e a ricostruire il villaggio, ma sono

anche un invito a collegare alla natura la nostra sussistenza alimentare e la nostra cultura per iniziare l’esodo

dalle metropoli, ritrovando la città e la campagna alleate

della via umana al bene. Non c’è nulla da visitare a Ontignano, nulla più di quanto si può trovare nelle migliaia di altri posti simili che aspettano di essere scelti e vedere rianimarsi la gente in comunità senza classi.

Alce Nero disse che la montagna sulla quale egli si trovava nella sua visione era lo Harney Peak, nelle Black Hills, «Ma qualunque luogo è il centro del mondo» aggiunse. (Alce Nero Parla, Oscar Mondadori, pag. 72)



Oliva di Collobiano

Un giardino ancóra

quaderni d’ontignano

libreria editrice fiorentina


ISBN 978-88-6500-044-1 © 2011 Libreria Editrice Fiorentina Via Giambologna, 5 – 50132 Firenze – Tel. 055 579921 www.lef.firenze.it – editrice@lef.firenze.it impaginazione di Paolo Torracchi


Introduzione “Un giardino ancóra” è la biografia del giardino, di un certo tipo di giardino ondeggiante nel tempo, e la sua formazione. Attraversa i limiti che vorrebbero stabilire i generi, codificare le scelte e fissare le epoche. Sono luoghi aperti a improvvisazioni e esperimenti. A sostenerne lo sviluppo e il carattere è il nipote più giovane, con la sua storia. Nato in un ambiente campagnolo, insieme a fratelli, cugini e amici, genitori, zie e nonni, ne assorbe varie caratteristiche che indirettamente lo avvicinano al mondo delle piante e della vegetazione, fino a adottarle e poi scegliere il mestiere di paesaggista. Il giardino, nel suo riconoscimento dentro la storia del paesaggio, occupa la stessa posizione di piccolo nipote rispetto al nucleo di famiglia: sono sul bordo piuttosto che al centro. Questa è l’analogia, che percorre il racconto. Giornale illustrato e composto da appunti che variano attorno a un tema con sottili cambiamenti, fino a raggiungere alcune convinzioni e lasciare svanire quanto sia diventato superfluo e non necessario alla vita del buon paesaggio.

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1 Le Famiglie del Giardiniere Tra il Sud e il Nord. L’automobile era parcheggiata all’ombra della villa, sul lato fresco e a pochi metri oltre i gradini dell’ingresso per entrare in casa con tre passi. Si capiva che era lì per una buona ragione, con i vetri abbassati a fare circolare l’aria leggermente calda del primo pomeriggio. Finalmente, dopo colazione, il nonno usciva di casa con il giornale e gli occhiali, le maniche della camicia arrotolate, il colletto chiuso e andava al posto di guida della sua automobile. Aggiustava il quotidiano locale sul volante, ne leggeva poche righe e chiudeva gli occhi per un sonnellino. Attorno la bella giornata. Era il modo migliore del nonno di vivere l’ampio giardino decorosamente pulito e spolverato. Però lo spazio sembrava vuoto, senza possibilità di cambiamenti. I nipotini avevano giocattoli in plastica colorata allineati lungo il marciapiede. Non riuscivano a inventare un divertimento, correre con le braccia aperte come le ali di un aeroplano per planare nell’erba, oppure di frugare nella terra per farsi un laghetto, una pozza, una scodella di melma. 8


Un avvenimento, un’esplorazione emozionante, allegra, magica, paurosa o ridicola non si era affacciata nel giardino del nonno. Silenzio al volante dell’automobile. Finita la siesta chiamava i nipotini e, con la nonna, entravano in casa a cercare il gelato o la televisione. Una regola della campagna è lavorare la terra per ottenere qualcosa di utile e, malgrado non sia chiaro questo responso, l’abbiamo seguito con dedizione, con occasionali aggiunte e osservazioni alleggerimenti. E cercavamo di tramandarlo. Un nipote di sei anni, nel suo quadrato dell’orto di casa, stava trapiantando dei porri, in ordine e dritti nella fila, ma aveva anche messo due piantine capovolte con le foglie infilate sotto terra lasciando fuori il fusto bianco chiuso in cima la corona di numerosissime piccole radici arricciate. Il bambino disse che era un modo per interrompere la monotonia del lavoro, concentrato a non pestare il solco, pulire la zappa, togliere ogni piccola pietra. Era uno sfogo impetuoso per liberarsi di tutti gli attrezzi, i fili per allineare, l’annaffiatoio con l’acqua intiepidita, il metodo per bagnare con equilibrio efficace la verdura trapiantata e tutte le numerose regole che diventeranno l’abitudine del giardiniere esperto. Il nipote era soddisfatto della sua ribellione, contento di essere riuscito a eliminare dal pomeriggio il compito dell’orto e avere ancora del tempo per andare a completare un piccolo capanno. Là dentro si sarebbe appostato per guardare non sapeva esattamente cosa, ma una sorpresa sarebbe capitata. Il rifugio era costruito con bastoni e canne legate ai rami di un giovane albero di canfora, regalo dei parenti del nord, dono 9


prezioso. La pianta cresceva lentamente con belle fronde di foglie lucide, verdi, chiare e profumate. Era un capanno ideale, perché attraverso le fessure tra una canna e l’altra riusciva a sbirciare il vai e vieni della sorella, della madre che doveva passare lì davanti per raggiungere l’ufficio, dell’anziano uomo di fattoria che la seguiva. Il canfora al suo arrivo era alto un metro, un metro e mezzo, ben formato nell’impalcatura della chioma e, per rispetto alla storia dei nonni, era stato piantato ben in vista, in un posto soleggiato vicino alla voliera. Dopo un anno, notando che non avrebbe avuto spazio per sviluppare liberamente, fu trapiantato tra la casa, due platani e l’agglomerato di costruzioni rustiche, ufficio, fattoria, falegnameria, casa del miele e dei prosciutti, magazzino, imbottigliamento, abitazione di Settimio e della sua famiglia oltre all’abitazione della zia Pina. Nella nuova sistemazione il canfora stava meglio e allargava la chioma in modo asimmetrico, fantasioso per adattarsi al vento di ponente. Aveva assunto un atteggiamento particolare per rimanere in equilibrio tra le correnti d’aria. Era attraente. Dal suo covo, il bambino chiedeva il pedaggio a chi passava davanti alla postazione, vi trascinava dentro il cane, vi accumulava pigne preziose per raccogliere i pinoli.

Nord. Il giardino. Nell’antico giardino al nord, l’albero di canfora era considerato giovane rispetto al luogo. Per sperimentare la sua resistenza all’inverno era stato sistemato in un punto riparato ma secondario rispetto alla vita del giardino che avveniva nella zona opposta, vicino all’albero di 10


Olea fragrans, centenario, con generazioni di nonni, genitori, figli e nipotini protetti dalla sua ombra e avviluppati dal suo profumo meraviglioso. Colazioni, merende, piccoli lavori di cucito, fiori nel cesto e vasi di fiori da mettere in casa, ancora una sigaretta, nessun libro aperto per la lettura ma chiacchiere leggere; al massimo veniva letto un titolo del giornale ma nessuna discussione riusciva a svilupparsi, la provocazione seria era subito dimezzata per riprendere un equilibrio concreto e possibile in conversazioni semplici. Nell’ombra frastagliata dell’Olea fragrans i sentimenti sdegnosi perdevano l’aggressività irragionevole, ritrovando parole facili da capire. Anche il lutto era vero e normale. Per i raduni in occasione di due cerimonie funebri, le persone che rientravano dalla parrocchia del paese, si erano dirette naturalmente in giardino, verso l’Olea fragrans. In piedi, lì attorno, con un certo senso di eccitazione di dolore e di stupore, scambiavano osservazioni; accenni sulla vita la fragilità gli amori vecchi e nuovi che comparivano in quell’atmosfera accentuata di sentimento. Era stato preparato un rinfresco, tonificante per tutti, sui tavoli del giardino, tra i rami e i fiori di mazzi dimenticati. Gli amici prendevano da bere, un assaggio di qualcosa da mangiare, facevano due passi sul prato tagliato il giorno prima, accogliente morbido invitante per trascorrere quel poco di tempo sospeso e reale. L’Olea fragrans e il prato tagliato erano il migliore giardino possibile. Alcuni giovani, qualche bambino uscivano dalla sua accoglienza a cercare dell’uva, qualche noce, una passeggiata in mezzo a alberi frondosi, un ruscello da attraversare passando da una pietra all’altra o magari un labirinto. 11


Credevamo che ai giovani piacesse il giardino elaborato, formale, in bella mostra di se stesso e del suo ordine.

La cascina. Tra campagna e giardino scorreva il paesaggio di un lungo pianoro a mezza costa della collina: la parte più estesa era assegnata all’agricoltura, una zona era per l’orto e la frutta e la superficie meno estesa accolse il giardino. Tutto l’insieme era occupato dall’animazione di nonne zie nipoti piccoli e grandi. La parte agricola era curata da marito e moglie contadini; il giardino era seguito un po’ da tutti e lavorato al mattino dal giardiniere che si preoccupava anche di aggiustare il monopattino, mettere le toppe alle ruote bucate delle biciclette e riparare il carretto. Non era netta la distinzione delle varie mansioni, nessuna porta era chiusa con la serratura o portone sprangato, così tutto era in circolazione anche le galline oltre ai cani, senza pollaio né canile. I due contadini, Giovanni e Serafina, avevano quattro, a volte cinque mucche che davano latte per tutti e concime per il prato da fieno. Inoltre le aggiogavano al carro per trasportare l’erba e il fieno da riporre sopra la stalla; in estate venivano attaccate all’aratro e in autunno al tino per la vendemmia del barbera. Anche il vino era lavorato in cascina e i bambini partecipavano alla successione continua dei lavori. Però Giovanni non lasciava a nessuno la mansione di battere a martello la lama della falce fienaiola e Serafina non permetteva che i piccoli entrassero nella stalla per vedere nascere il vitello. Non avevano figli e sembrava che Serafina, ogni tanto, sorridesse a 12


un’esistenza lontana. Certo era una donna spontanea, equa e gentile anche con le galline, anche nel modo delicato di pulire gli spinaci o di raccogliere l’acqua nel secchio. Erano delle minuzie, delle osservazioni prese al volo dai ragazzini insieme al profumo della stalla che aleggiava nel cortile. Non c’era sentore di fatica o di crudeltà, solo Giovanni a volte brontolava una vecchia bestemmia. Erano gli anni che il giardino serviva anche da orto, ciascuno aveva la sua aiuola il suo pezzetto di terra da coltivare alla meglio, l’Olea fragrans era un giovane albero e il banano con le foglie sfrangiate dal vento faceva una gran figura. Poi fu estirpato e eliminata la pista da bici che gli girava intorno, anche le piccole aiuole di verdure diventarono prato. Erano i primi anni del dopoguerra, della seconda guerra mondiale. La mutazione da orto a giardino modificò l’esistenza abituata a semplici regole famigliari, di un certo ordine infantile o ingenuo legato al ritmo di una quotidianità condivisa. Il cambiamento e lo sviluppo del giardino equivaleva a una separazione che procedeva come una pompa a valvola, azionata per impedire all’energia rurale di travasare nel mondo del giardino. Nello stesso tempo nasceva la curiosità di attraversare i confini del paesaggio di pianura, di attraversare le risaie piatte immobili e raggiungere le montagne lontane nella loro secolare naturalezza.

La montagna. La distanza non era così grande quanto il cambiamento che equivaleva alla scoperta di un tesoro: ciascuna ora trascorsa in rarefatta altitudine portava una sorpresa. E infatti era prezioso 13


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