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Caratteristi del cinema americano


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Massimo Giraldi

Enrico Lancia

Fabio Melelli

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Caratteristi del cinema americano

Gli interpreti “minori” che hanno fatto grande Hollywood

Prefazione di ENRICO VANZINA

GREMESE


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Collana Gli Album Libri di cinema e spettacolo per la scuola e l’università

Fonti iconografiche: Le fotografie presenti nel volume sono state gentilmente fornite dal Centro Studi Cinematografici – Roma. L’Editore chiede scusa di eventuali omissioni nell’indicazione dei relativi copyright, dichiarandosi fin d’ora disposto a revisione in sede di ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge sul diritto d’autore n. 633 del 1941 e successive modifiche. Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l. – Roma Stampa: Arti Grafiche La Moderna – Roma Copyright GREMESE 2010 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-648-4

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Introduzione Introduzione C

osa sarebbero i grandi divi del cinema americano senza le loro “spalle”, senza l’insostituibile ausilio di quei comprimari che con la loro bravura fanno risplendere di maggior luce le loro stelle? I caratteristi sono quelli che sullo schermo fanno il lavoro “sporco”, che permettono ai protagonisti di venire alleggeriti delle incombenze narrative più gravose, di assolvere a quei momenti di sospensione comica o drammatica. Sono spesso facce riconoscibilissime, alle quali pochi associano però un nome, la cui presenza sfugge agli occhi dei distratti, ma la cui assenza non sarebbe nemmeno concepibile, oscuri “eroi” della fatica del recitare.

Il loro solo apparire fa scorgere un mondo, apre uno squarcio su esistenze complesse che i caratteristi, vista la brevità della parte in commedia, devono risolvere con la mobilità dello sguardo, con il fisico del ruolo, con il “mestiere” appreso. Per tramite loro è possibile raccontare un’altra storia del cinema hollywoodiano, epurata dalla retorica stantia dello star system, “letta” in una chiave sostanzialmente inedita e originale, e per ciò stesso stimolante e foriera di “scoperte” storiografiche. I caratteristi costellano il cielo hollywoodiano con la loro aura discreta, il loro bagaglio di esperienza, la loro disponibilità a essere funzionali alla performan-

James Gleason (seduto) accanto a Ronald Reagan in Nine Lives Are Not Enough (1941) di A. Edward Sutherland, film gangsteristico mai distribuito in Italia.

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ce del protagonista, sempre attori eccellenti, formatisi sulle tavole dei palcoscenici, sulla ribalta di Broadway, educati alla scuola dell’Actors Studio o dei grandi maestri dell’arte drammatica. Il volume, ricco di un apparato fotografico imponente, è quindi un doveroso atto di riparazione verso esemplari professionisti troppo a lungo bistrattati, la cui visibilità è spesso limitata a una qualche nomination al premio Oscar. A questo proposito è utile ricordare che soltanto dal 1936 l’Academy ha istituito un premio destinato ai migliori interpreti non protagonisti. Da allora molti caratteristi hanno ricevuto l’ambita statuetta, fra i quali Walter Brennan, unico vincitore di tre edizioni; Edmund Gwenn, celebre Babbo Natale ne Il miracolo della 34ª strada; Burl Ives, padre padrone ne Il grande paese; Margaret Rutherford, svagata nobildonna in International Hotel; Cloris Leachman, zitella anzitempo ne L’ultimo spettacolo; Maureen Stapleton, anarchica pasionaria in Reds; Joe Pesci, il gang-

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ster italoamericano in Quei bravi ragazzi; Marisa Tomei, eccentrica fidanzatina in Mio cugino Vincenzo. Soprattutto l’Academy ha attribuito il premio ad attori che hanno quasi sempre ricoperto ruoli da protagonista, tra cui Gloria Grahame, con la statuetta per Il bruto e la bella; Frank Sinatra, premiato per Da qui all’eternità; Jack Lemmon per Mister Roberts; Dorothy Malone per Come le foglie al vento; Meryl Streep per Kramer contro Kramer; Jack Nicholson per Voglia di tenerezza; Maggie Smith per California Suite; John Gielgud per Arturo; Cate Blanchett per The Aviator e tanti, tanti altri. I volti dei caratteristi hanno accompagnato la storia del cinema americano, segnandone le tappe fondamentali, identificandosi con generi e correnti, assurgendo a icone di universale tipicità. Abbiamo raccolto in questo libro i cento migliori caratteristi del cinema americano, le cui fisionomie sono a tutti familiari ma i cui nomi sono sconosciuti ai più. Si tratta di una scelta che risponde a criteri per-

Due estrosi caratteristi di ieri e di oggi: Eileen Brennan e Steve Buscemi.


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sonali, tanto che il lettore attento potrà notare lacune e omissioni, in quanto da un lato la scelta si è focalizzata sul numero cento, dall’altro non sono stati presi in considerazione quegli interpreti che più che caratteristi possono essere considerati antagonisti o secondi attori. A proposito del rapporto simbiotico che lega alcuni caratteristi con il personaggio interpretato, si possono citare dalla Mamie di Via col vento, Hattie McDaniel, al raffinato Clifton Webb con la grazia di un ballerino, passando per robuste spalle come Karl Malden e Martin Balsam, per arrivare agli eclettici Stanley Tucci e Paul Giamatti, interpreti del cinema dei giorni nostri. Troverete gli attori che hanno dato vita ai vecchietti

del West, ai borghesi benestanti, ai genitori affettuosi, ai brutali possidenti, agli spietati gangster, alle petulanti zitelle, alle vicine pettegole, ai militari di carriera, agli inflessibili tutori dell’ordine. Scoprirete inoltre il nome, e non solo, dell’attore che in A qualcuno piace caldo recita la famosa battuta: «Nessuno è perfetto», e saprete vita, morte e miracoli della sinistra governante di Rebecca – La prima moglie. Chi sono lo straordinario Igor di Frankenstein Junior e l’avido cercatore d’oro de Il tesoro della Sierra Madre? E il professore di magia di Harry Potter? Quali sono le attrici che più spesso hanno interpretato il ruolo della madre o della segretaria svampita? A tutte queste domande il libro fornisce circostanziate ed esaurienti risposte.

In Ombre rosse (1939) di John Ford, a parte i protagonisti, John Wayne e Claire Trevor (a sinistra, seduti), e i due comprimari, Louise Platt (al centro, seduta) e Tim Holt (a destra, il primo in piedi), vi è un concentrato di ottimi caratteristi. Da sinistra, in piedi: Donald Meek, Andy Devine, George Bancroft, John Carradine (l’ultimo); a destra, seduti: Francis Ford, Berton Churchill, Thomas Mitchell.

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A Danny Aiello tra Clotilde Courau, oggi moglie del principe Emanuele Filiberto di Savoia, e Chris Penn, fratello di Sean, in Buona fortuna Mr. Stone (1993), film girato in gran parte in Francia, per la regia di Paul Mazursky. SOTTO: con Spike Lee, interprete e regista di Fa’ la cosa giusta (1989).


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Aiello

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l ruolo di Johnny Cammareri, che Aiello ricopre in Stregata dalla luna (1987) di Norman Jewison, non si dimentica facilmente. Prossimo a sposarsi con Loretta Castorini, Johnny, arrivata la notizia che la mamma è malata, torna di corsa in Sicilia e chiede a Loretta di invitare nel frattempo a casa suo fratello Ronny. Johnny e Ronny non si parlano da cinque anni: il secondo lo ritiene colpevole di avergli fatto perdere la mano sinistra. Conosciutisi, Ronny e Loretta si innamorano e, quando Johnny al ritorno dice alla donna che non può ancora sposarsi per una promessa fatta alla mamma che è guarita, la nuova coppia esce allo scoperto e può procedere dritta verso il matrimonio. Aiello è perfetto nel disegnare gli umori, tra sorpresa e incredulità, dell’indifeso Johnny. Il film l’anno dopo vince tre Oscar: miglior attrice protagonista (Cher), migliore attrice non protagonista (Olympia Dukakis) e migliore sceneggiatura originale. Aiello non c’è ma si rifà subito: nel 1989, per il ruolo del pizzaiolo Salvatore Fragione in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, arriva la candidatura, ovviamente come attore non protagonista. Non vince ma, toccati i cinquantacinque anni, può dirsi soddisfatto. Comincia, infatti, tardi la carriera di questo americano di seconda generazione, nato come Danny Louis Aiello jr. a New York il 20 giugno 1933 da famiglia modesta (la madre, originaria di Napoli, fa la sarta, il padre Daniel è operaio, e ci sono altri cinque figli). Le tavole da palcoscenico dei teatrini off Broadway sono il primo terreno col quale riesce a confrontarsi. Vi rimane a lungo senza una specializzazione precisa. Nel cinema entra dalla porta laterale, come generico ne Il Padrino – Parte II (1974) di Francis Ford Coppola, e con qualche altra comparsata. Deve aspettare il 1976 per mettersi in evidenza nel ruolo di Danny LaGattuta ne Il prestanome di Martin Ritt. I nomi

Aiello

dei personaggi che interpreta lo identificano subito: è l’italoamericano di età matura (ha quarantacinque anni), irretito dalla malavita o tentato di servirsene o pronto a ribellarsi. Sempre in bilico tra coraggio e timore di compiere qualche azione non lecita. A conclusione del decennio, Aiello approda anche in televisione: è nella serie di successo Il tenente Kojak (un episodio) e in quella The Godfather: A Novel for Te-

Danny Aiello interpreta spesso personaggi che vivono al limite della legalità.

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levision, originata dal successo dei film (alcuni episodi). Tre ruoli nel genere drammatico-gangsteristico lo inquadrano bene sul finire dei Settanta: Butch in Rapsodia per un killer (1978) di James Toback; Artie in Una strada chiamata domani (1978) di Robert Mulligan, interamente girato tra gli italoamericani di New York; Sal Carvello in Li troverò ad ogni costo (1980), opera d’esordio di James Caan. Dopo altre apparizioni televisive, si rivela importante la conoscenza maturata con Woody Allen sul set de Il prestanome. L’autore newyorchese lo chiama per Broadway Danny Rose. Qui Aiello non è accreditato, ma lo sarà in pieno nei due titoli che girerà con lui di lì a poco: è infatti Monk ne La rosa purpurea del Cairo (1985) e Rocco in Radio Days (1987). In mezzo c’è una presenza quasi imprescindibile: il personaggio del capo della polizia Vincent Aiello in C’era una volta in America di Sergio Leone, realizzato nel 1984. Stesso cognome dalla realtà alla finzione, Aiello è quello che in ospedale alza al cielo il figlio appena nato e scopre con sgomento che non è un maschio. Finiscono bene gli anni Ottanta, con la partecipazione al Saturday Night Live Show, con il ruolo di Conti in Un uomo sotto tiro (1987) di Elie Chouraqui, con i già ricordati Stregata dalla luna e Fa’ la co-

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sa giusta. E soprattutto con un’importante novità: Aiello viene chiamato a lavorare in Italia. È George Sherman nel thriller politico del 1988 Russicum – I giorni del diavolo, diretto da Pasquale Squitieri. Nel cinema italiano Aiello non si trova particolarmente a proprio agio, così torna in America. Lo aspettano Tommy Messina in Hudson Hawk, il mago del furto (1991) di Michael Lehmann, accanto a Bruce Willis, e Frank Pesce sr. in Perseguitato dalla fortuna (1991) di George Gallo. Negli anni Novanta, tuttavia, allarga il raggio d’azione e, pur non cambiando ambito di personaggio, trova un’ottima occasione di primo piano, impersonando Jack Ruby in Ruby – Il terzo uomo a Dallas (1992) di John McKenze. Nel 1994 lavora con Luc Besson in Leon, il mélo-gangster che il regista francese gira negli Stati Uniti: qui è Tony, il boss di riferimento del protagonista Jean Reno. In maniera sparsa, e con molto eclettismo, Aiello è in grado di passare dal ruolo del sindaco Hamilton in Prêt-à-Porter (1994) di Robert Altman, a quello di Gene in Two Much – Uno di troppo (1995), una commedia diretta in USA dallo spagnolo Fernando Trueba; dal Frank Anselmo in City Hall (1996) di Harold Becker al mafioso Don Domenico Clericuzio ne L’ultimo padrino (1998) di Graeme Clifford, una miniserie tv ispirata sempre a Mario Puzo. Nel 2001 è nell’eterogeneo cast di Off Key di Manuel Gomez Pereira, dove interpreta Fabrizio Bernini, la parte italiana dei tre famosi tenori sulla strada del declino, che si ritrovano per il matrimonio di uno di loro (George Hamilton è il francese e Joe Mantegna lo spagnolo). Nel 2006 interpreta Roth nel teso Slevin – Patto criminale di Paul McGuigan. Diretto in un’occasione anche dal figlio Danny Aiello III, in 18 Shades of Dust, Aiello è tuttora felicemente attivo (quattro suoi film sono annunciati tra il 2010 e il 2011). Attore serio e scrupoloso, ha saputo arricchire i personaggi interpretati, spesso sgradevoli, con il ricorso al suo accattivante sorriso, indizio di una bonomia e di una simpatia che sono subito arrivate al pubblico e che gli garantiscono ancora un costante gradimento.

Danny Aiello e Bruce Willis in Hudson Hawk, il mago del furto (1991) di Michael Lehmann. NELLA PAGINA ACCANTO: Eddie Albert ha ricoperto diverse volte il ruolo del militare, come in Prima linea (1956) di Robert Aldrich.

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roe della seconda guerra mondiale e per ben due volte candidato all’Oscar, con Vacanze romane (1953) di William Wyler e Il rompicuori (1972) di Elaine May, Eddie Albert è stato uno degli attori più longevi del cinema hollywoodiano. Il suo vero nome è Edward Albert Heimberger, nato il 22 aprile 1908 nella cittadina di Rock Island, nell’Illinois. Dopo vari lavoretti, tra i quali il venditore di giornali e l’assicuratore, entra nel mondo dello spettacolo come trapezista di un circo itinerante; ben presto, però, passa alla radio e al palcoscenico, partecipando ai primi programmi, ancora sperimentali, della neonata televisione. Si racconta che per risultare telegenico dovesse sottostare, al pari degli altri attori, a lunghe ore di trucco: i mezzi utilizzati per le riprese, infatti, ancora rudimentali e poco sensibili, lo obbligavano a ricoprirsi il volto di uno spesso strato di cerone verde e a evidenziare le labbra con un rosso porpora particolarmente accesso. Siamo nel 1936 e Albert non ha ancora debuttato sul grande schermo. Egli, infatti, non possiede né la bellezza e il fascino richiesti a un divo né i tratti duri e scolpiti del caratterista classico; insomma, non ha il physique du rôle dell’eroe, ma nemmeno quello del vilain. Per lui le porte del cinema non si spalancano in modo immediato, tanto che deve aspettare di superare i trent’anni perché la sua maschera bonaria e amichevole si imponga in film di successo. Mai protagonista, è spesso la spalla che sorregge l’eroe nei momenti di difficoltà, il buon amico di turno che sacrifica per gli altri qualcosa di sé. Non disdegna, comunque, ruoli da antagonista o da personaggio cinico e corrotto, plasmando i suoi tratti su personalità sempre diverse.

Nel novembre del 1943 partecipa, come appartenente al corpo dei marine, alla battaglia di Tarawa, una delle più famose e sanguinarie del secondo conflitto mondiale. Terminata la guerra, inizia una lunga trafila come attore di secondo piano, fino a Gli occhi che non sorrisero (1952) di William Wyler: qui è Charlie, un bravo giovane, un commesso viaggiatore piantato in as-

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so dall’ambiziosa Jennifer Jones, che gli preferisce il più fascinoso e ricco Laurence Olivier. Sempre con Wyler, appena un anno dopo, lavora nel film che lo consegna alla storia del cinema, Vacanze romane, nel quale interpreta il bonario fotografo Irving Radovich, amico sincero del protagonista Gregory Peck, giornalista statunitense in trasferta capitolina. Le sue esperienze belliche lo rendono adatto anche al

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ruolo di soldato nel cinema di guerra hollywoodiano; compare, ad esempio, nel film Prima linea (1956) di Robert Aldrich, in cui è il pavido capitano Erskine Conney, impegnato con la fanteria americana in Francia nel 1944, che prima abbandona i suoi uomini al nemico e poi viene ucciso da un subalterno (ma alla fine del film viene consegnato ai posteri come un eroe). È un ruolo ricco di sfumature psicologiche, all’inse-

Eddie Albert è un chirurgo coscienzioso in Giorni senza fine (1961) di Phil Karlson. NELLA PAGINA ACCANTO: ne Gli occhi che non sorrisero (1952) di William Wyler, Albert è l’amico leale di un’operaia che, stanca della vita nella grande città, vive alle spalle del direttore di un ristorante. Nella foto è con Laurence Olivier e Jennifer Jones.


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gna di un afflato antiretorico che eleva il film una spanna sopra rispetto alla media del genere. Parabellico è anche La casa da tè alla luna d’agosto (1956) di Daniel Mann, in cui Albert veste i panni del capitano medico McLean, che nel villaggio di Tobiki, nei pressi di Okinawa, improvvisa un commercio di brandy ricavato dalle patate. Daniel Mann lo dirige anche in un’altra celebre pellicola, il melodrammatico Piangerò domani (1955), in cui aiuta la protagonista Susan Hayward a riscattare la sua grama esistenza. Al pari di almeno mezzo cinema hollywoodiano, partecipa anche al film che rievoca lo sbarco in Normandia, Il giorno più lungo (1962), diretto a più mani da registi di varie nazionalità, nei panni del colonnello Tom Newton. Nel 1973 viene nuovamente candidato all’Oscar, per la sua interpretazione di un benestante banchiere del Minnesota, padre della bionda e vivace Cybill Shepherd, ne Il rompicuori (1972) di Elaine May. Sostenitore del Partito Democratico, nel corso della

sua vita si è battuto per le cause ambientaliste, in particolare denunciando i rischi dell’inquinamento. Come tanti caratteristi, ha preso parte in qualità di guest star a numerosi serial televisivi, recitando in telefilm di vasto seguito come Il dottor Kildare, La signora in giallo, Falcon Crest, Love Boat, Simon & Simon, Hotel e Spider-Man. Memorabile, in particolare, la sua partecipazione a un episodio del serial Il tenente Colombo, “La pistola di madreperla” (1971) di Jack Smight: qui è l’ammiraglio Martin Hollister, eroe di guerra e uomo al di sopra di ogni sospetto, che finisce nella rete dell’ispettore dall’impermeabile sgualcito. Eddie Albert è morto ultranovantenne nella sua villa di Pacific Palisades il 26 maggio 2005, a causa di un enfisema polmonare. Aveva avuto un figlio dall’attrice Margo, il quale, con il suo stesso nome, Edward Albert, ma senza usare il diminutivo Eddie, ha lavorato in cinema e televisione, prima della prematura scomparsa avvenuta nel 2006, a soli cinquantacinque anni.


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Anderson Anderson Judith

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i vero nome Frances Margaret Anderson, è stata una delle prime attrici australiane (nata ad Adelaide il 10 febbraio 1898) scritturate a Hollywood, dopo una lunga esperienza sui palcoscenici di Broadway, dove aveva raggiunto una notevole popolarità come prima attrice. Indimenticabili le sue performance in Strange Interlude (1928) di Eugene O’Neill e in Divided by Three di Margaret Leech e Beatrice Kaufman (1934), in cui recita a fianco di James Stewart, non ancora protagonista del grande schermo. È stata inoltre una memorabile Lady Macbeth in parecchie rappresentazioni della tragedia shakespeariana fra il 1937 e il 1941.

Prima attrice a teatro, nel cinema è considerata fin dagli esordi una caratterista dal grande carisma, capace di infondere forte spessore ai personaggi. Da subito, però, risulta a proprio agio più nel genere drammatico che in quello brillante. L’aspetto severo, il modo di camminare flessuoso e la capacità di entrare nell’inquadratura quasi silenziosamente sono messi a fuoco da Alfred Hitchcock nel film Rebecca – La prima moglie (1940); qui la Anderson aderisce perfettamente al personaggio della signora Danvers, minacciosa e lugubre governante del castello di Manderley, la quale non accetta l’intrusione della nuova moglie del proprietario della magione,


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a tal punto da spingerla addirittura al suicidio. È il ruolo di una donna ostile, che venera Rebecca, prima consorte dell’uomo, in modo così morboso da indurre qualcuno a leggere tra le righe un legame saffico tra le due, non esplicitamente dichiarato ma intuibile. Certo è che questa interpretazione le fa ottenere una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. Non vince per un piccolo scarto di voti, ma la candidatura la consegna alla storia del cinema. L’aspetto e la fotogenia “inquietanti” della Anderson sono la sua carta vincente, ma diventano anche il suo limite; difatti nei film successivi ripeterà più o meno il medesimo personaggio di donna gelida, altera e sprezzante, in pellicole di ottima realizzazione e di buon successo, a fianco di partner prestigiosi e diretta da registi di notevole fama. Nel decennio dei Quaranta e in parte dei Cinquanta, Judith Anderson gode del plauso della critica per alcuni ruoli da caratterista di lusso in film come Delitti senza castigo (1942) di Sam Wood, in cui interpreta la moglie un po’ trascurata dal marito, un medico dalla psicologia criminale; oppure in Vertigine (1944), capolavoro noir di Otto Preminger, dove veste i panni della tenebrosa signora Treadwell, che si interessa trepidamente al caso dell’assassinio di una mannequin. Altro personaggio da ricordare è quello che la Anderson disegna ne Lo strano amore di Marta Ivers (1946), noir con cadenze da melodramma abilmente diretto da Lewis Milestone. Nel film l’attrice è la signora Ivers, zia tiranna e dominatrice della protagonista, che la ucciderà per sfuggire alle sue persecuzioni. Il 1947 è un anno importante per lei: il ritorno al teatro coincide con uno dei suoi ruoli migliori nella tragedia Medea di Robinson Jeffers, dove recita accanto a John Gielgud e Richard Hylton: per la sua interpretazione l’attrice ottiene entusiastici consensi da parte della critica più severa, riuscendo a vincere il Tony Award nel 1948 come miglior attrice drammatica. Anche nel cinema si prende una rivincita con il ruolo di una madre apprensiva, ma forte e indomita, nel riuscito western psicanalitico Notte senza fine (1947) di Raoul Walsh. Un ruolo intenso e tragico che

avrebbe potuto farle avere una seconda nomination all’Oscar, sempre come supporting actress, ma che i membri dell’Academy Award non considerarono, pur apprezzando la performance dell’attrice. Nel 1958 cambia registro e impersona la sottomessa moglie del patriarca Big Daddy Pollitt ne La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks, risultando altrettanto convincente. Negli anni successivi, la Anderson comincia a rivolgere il suo sguardo alla televisione prendendo parte a numerosi telefilm, alcuni di successo, mentre nel cinema continua a essere confinata nello stereotipo della caratterista. Ma nulla di più. Nel 1960 ha avuto l’onorificenza della nomina “Dame” da parte dell’Impero Britannico. Si è spenta, già molto anziana, per problemi respiratori, il 3 gennaio 1992, a Santa Barbara.

Judith Anderson (a destra) e Joan Fontaine in Rebecca – La prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock. NELLA PAGINA ACCANTO: Judith Anderson ne La gatta sul tetto che scotta (1958) di Richard Brooks, in cui interpreta la moglie rassegnata di un prepotente patriarca. Nella foto è tra Madeleine Sherwood ed Elizabeth Taylor.

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