Io sono Giorgio Chinaglia!

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Franco Recanatesi

IO SONO GIORGIO CHINAGLIA! I gol, gli amori e i peccati di una vita esagerata.


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Copertina: Ilaria Valeri Crediti fotografici: Foto provenienti dagli archivi delle famiglie di Giorgio Chinaglia e di Tommaso Maestrelli. Si ringraziano inoltre il sito IamChinaglia.com, Alessandro Zappulla e Marco Anselmi per la concessione di parte del materiale iconografico. Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l. - Roma Stampa: Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) 2013 © L’Airone New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6442-153-7


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PROLOGO

L’ultimo respiro gli è uscito a fatica dalle labbra socchiuse, spinto da un colpo di tosse che prima del Grande Viaggio voleva sputar fuori insieme alle disgrazie degli ultimi anni e ai peccati di una vita. È morto guardando fisso il soffitto, mentre dalla finestra socchiusa una lama delle prime luci dell’alba gli trafiggeva il cuore. Da solo, lasciando quasi con sollievo che il suo corpo massiccio lo abbandonasse per sempre. La sera precedente, rientrando a casa, aveva trovato un biglietto di Anthony, il figlio di un altro al quale aveva regalato il nome, l’affetto, la fiducia, la complicità. Al messaggio era allegata una foto da autografare per un amico tifoso. La mattina, quando il ragazzo è andato a ritirarla, si è fatto il segno della croce dopo avergli chiuso pietosamente gli occhi. Due giorni prima, Giorgio aveva ricevuto una telefonata dalla figlia naturale, Cynthia. Chiamava da Boston, dove vive con la mamma e i due fratelli: «Papà, ho saputo dell’operazione, come stai?». «Tutto a posto, piccola, tutto a posto, ora sto bene», aveva mentito. Il giorno prima della fine, sentendo al telefono la voce di Connie, la prima moglie, il gigante si sciolse in un pianto. E la bugia lasciò il posto a una confessione che assomigliava a un presagio: «Non auguro a nessuno di soffrire come sto soffrendo io». Quando me lo racconta, la voce di Connie si incrina. Aggiunge: «Credo che Giorgio cominciò a morire in quel momento».


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Capitolo I. IL BAMBINO DI PONTECIMATO Quando Giorgio cominciò a nascere, la mattina di venerdì 24 gennaio del 1947, Giovanna Chinaglia non riuscì a trattenere i lamenti. Mario, suo marito, aveva chiamato una levatrice che compensò con mille lire, perché l’ospedale civico di Carrara, in località Levatella, era troppo distante da Pontecimato, il sobborgo dove vivevano. Ma, soprattutto, perché Clelia aveva deciso così. Clelia era la mamma di Giovanna Rossi, una donna forte, determinata, con il dono del comando che le veniva dalla durezza della vita. Aveva occhi azzurri come il mare e i capelli castani racchiusi in una crocchia sulla nuca, lunghe vesti scure e uno scialle nero sulle spalle, anche d’estate. Quella mattina Clelia aveva disposto tutto per bene: chi doveva badare a far bollire l’acqua, chi a raccogliere pezze pulite, chi a disinfettarle, chi a trasportare catini dalla cucina alla stanza da letto dove giaceva la partoriente. La mano d’opera non mancava. In casa di Clelia, rimasta vedova da tanti anni, vivevano in ventisei, tutti parenti: fratelli, sorelle, figli, cugini, nonni, zii, padri, madri. Tre generazioni che il dopoguerra aveva raccolto sotto lo stesso tetto, una grande casa di mattoni rosa su tre piani risparmiata miracolosamente dai bombardamenti. Una camera per ogni nucleo familiare. Solo Clelia ne aveva una tutta per sé, simbolo di un raro matriarcato. Carrara aveva subìto ferite gravissime: mezza città rasa al suolo, decine di morti civili. Capoluogo del pensiero anarchico, in posizione strategica sulla Linea Gotica fra le rive dell’Adriatico e le Alpi Apuane e al confine con la Liguria, la città toscana si era distinta fra il 1943 e il 1945 per la lotta di liberazione dal nazismo e per l’eroismo delle sue donne. C’era anche Clelia quella mattina in cui “l’altra parte del cielo” carrarese si schierò in piazza Matteotti per protestare contro l’ordine tedesco di sfollare le abitazioni. Il coraggio e le azioni di guerriglia provocarono rappresaglie feroci da parte delle forze di occupazione: editti, rastrellamenti, bombardamenti mirati su abitazioni, industrie, esercizi commerciali. Soltanto le cave di marmo – la ricchezza dei cittadini, la cassaforte della città – avevano resistito alla furia delle bombe tenendo accesa la fiamma della speranza. Mario Chinaglia passeggiava nervosamente torcendo il fazzoletto bianco tra le mani, ogni grido di Giovanna gli infliggeva una stilettata al cuore. Era grande e grosso, alto quasi un metro e novanta. Veniva da Pordenone, dove aveva lavorato nella cucina di un ristorante, e lo si capiva dal marcato accento veneto, una parlata cantilenante che dopo quasi tre anni non aveva subìto alcuna contaminazione dal dialetto carrarese, a sua volta definito “isola linguistica” perché impastato con l’idioma emiliano. Con Giovanna si erano conosciuti cinque anni prima nella sala d’aspetto di una stazione, poi si erano perduti e infine cercati e ritrovati. Un anno prima avevano deciso di sposarsi. Senza una lira in tasca, senza un futuro, bastò loro la benedizione di mamma Clelia.


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Sotto l’ala di nonna Clelia Pontecimato era un’appendice povera di Carrara, la città del marmo. Una città fino a poco tempo prima ben pasciuta e benestante, dove si produceva il marmo “più bello e lucido del mondo”. Michelangelo vi soggiornò a lungo per controllare l’estrazione e la finitura del prezioso materiale con cui avrebbe plasmato le sue opere; e il fatto che un sì celebre personaggio avesse vagato per strade e viottoli della città, scendendo lungo i sentieri sabbiosi per bagnarsi sulle sponde del Mediterraneo, riempiva d’orgoglio i carraresi. Ma alla fine degli anni Quaranta, l’orgoglio era un lusso che nessuno poteva più concedersi, schiacciato sotto le scarpe bucate, spazzato via dalle lacrime e dal sudore. Carrara era ancora ammantata dalle polveri della guerra: polvere bianca spruzzata dalle cave appena riaperte, come borotalco su una pelle avvizzita; polvere grigia sparsa dalle distruzioni e dall’incuria. A Pontecimato – né città né campagna, un grumo di case disordinate – tutto era ancora più malandato e più sporco. Un paio di stalle con una mucca equivalevano a un tesoro. Le galline nei pollai a una risorsa di vita. Un sobborgo popolare che le scorie della guerra avevano reso miserabile. Il miraggio per i suoi abitanti era un posto di lavoro alle cave di marmo. Ve ne erano diverse ai piedi delle montagne e tutto intorno alla città vecchia, incorniciata da tre grandi bacini marmiferi: Ramaccione, Fantiscritti e Colonnata. Davanti ai cancelli delle “fabbriche bianche” si mettevano in fila dall’alba uomini in cerca di lavoro. Fra questi c’era anche Mario Chinaglia, il quale aveva visto crescere la famiglia e dimagrire il portafoglio. Si arrangiava per pochi spiccioli con piccoli lavori di carpenteria o di aiuto cuoco. La sera tornava a casa più avvilito e arrabbiato di quando ne era uscito. A Giovanna bastava un’occhiata per capire che anche quella volta i tentativi erano falliti. Nella grande casa di nonna Clelia gravava un clima cupo, il silenzio della povertà e della preoccupazione. Neanche quando i ventisei inquilini si radunavano per i pasti attorno al lungo tavolo di marmo con le panche di qua e di là nel vano del piano terra davanti al grande camino, si udiva il consueto chiacchiericcio della mensa. A pranzo si mangiavano patate e cavoli, di tanto in tanto un piatto di pasta. La sera nonna Clelia rivolgeva a tutti sempre la stessa domanda: pane e latte o uovo battuto nel latte con tre gocce di caffè? Le galline nel pollaio erano intoccabili, riverite e rispettate come elefanti in India, grazie alle loro uova troppo preziose. Un giorno al mese – un giorno di gran festa – compariva sulla tavola qualche pezzo di carne: capitava quando un fratello di Giovanna, autista di autobus, l’unico fra i ventisei ad avere un posto di lavoro, riceveva lo stipendio. Eppure il piccolo Giorgio cresceva sano e robusto. Razzolava per le strade e i prati, sempre in cerca di qualcosa o di qualcuno. Un moto perpetuo. E un carattere impetuoso. Solo nonna Clelia, più che sua madre, riusciva a domarlo con la forza del suo carisma e la dolcezza del suo sorriso. «Giorgio, ora basta, sali in camera!».


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I. Il bambino di Pontecimato

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«Giorgio, vai a lavarti le mani!». E lui, chinando il capo, obbediva. All’età di tre anni, ebbe una sorellina, Rita, che lui chiamava “Dida”. Era il 1950, l’Italia faticava a tamponare le sue ferite. Mario, con una famiglia di quattro persone sulle spalle e senza alcuna prospettiva di lavoro, ricevette una lettera da un suo amico d’infanzia di Pordenone, tale Flavio, emigrato in Galles come muratore. «Qui c’è lavoro e ci sono soldi. Ho saputo che una fonderia di Cardiff cerca degli operai e offre un buon salario». Ne parlò con Andrea Del Nero, come lui venticinquenne e disoccupato, di Carrara, che aveva conosciuto all’ufficio di collocamento. Un tipo socievole, sempre sorridente, tarchiato, bruno di capelli e di carnagione. «Vengo con te», gli disse Andrea senza esitazione. Mostrò quella lettera a Giovanna. «Cosa faccio?», le chiese fingendo di volerla coinvolgere nella decisione. Sua moglie ripiegò il foglio dopo averlo letto e riletto parola per parola, poi alzò gli occhi incontrando quelli di Mario e capì che quella domanda ammetteva una sola risposta: «Vai», gli disse accompagnando la sua benedizione con una carezza. Si abbracciarono e piansero. Le loro lacrime sapevano di disperazione e di speranza. Il 6 ottobre, il giorno in cui suo padre partì, Giorgio corse sulla riva limacciosa del fiume Lavenza, si sedette su un tronco e cominciò a scagliare sassi nell’acqua con crescente furore. Ogni tanto le sue dita correvano a tirare e arricciare i capelli. Era un riflesso condizionato che si accendeva meccanicamente quando nell’animo scendevano la tristezza, l’ansia, l’imbarazzo.


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Capitolo II. PAPÀ MARIO EMIGRA NEL GALLES Mario e Andrea parlarono poco durante il lungo viaggio per Cardiff, affascinati dalla loro avventura e timorosi allo stesso tempo. L’attraversamento della Manica fu una tortura per loro e per quasi tutti i passeggeri, strapazzati da un mare forza sei. Arrivarono alla stazione di Cardiff con l’unica ricchezza di un orologio al polso di Mario e una catenina d’oro al collo di Andrea. Era l’alba, la nebbia nascondeva una città ancora assonnata. Chiesero informazioni e si incamminarono infreddoliti verso la fonderia “Keen and Nettlefolds”. Vi giunsero dopo più di un’ora, mostrarono i propri documenti. Furono subito arruolati, muniti di una pala e accompagnati davanti a delle enormi bocche di fuoco: dovevano riempire i forni che servivano per forgiare lunghe travi di acciaio. Dieci ore di lavoro al giorno a quaranta gradi di temperatura per una paga di sei sterline e cinque scellini a settimana. Trovarono da dormire in una stanza a due letti nelle vicinanze della fonderia presso una famiglia scozzese. Letto più colazione, una sterlina a testa a settimana. Del Nero resistette poco nell’inferno della fonderia, dopo neanche un mese trovò un posto da carpentiere in un cantiere. Mario, robusto come una quercia, lavorava senza sosta: sostenuto dal desiderio di chiamare a sé la famiglia, era sempre in prima fila per rispondere alla richiesta di straordinari e turni di notte. Trovava il tempo solo per pochi pasti frugali e per scrivere lettere piene di affetto, di speranza e di bugie a sua moglie e ai suoi figli: raccontava di una città ospitale, di grandi prospettive e di avere un ottimo letto e pasti ricchi. Una parte dello stipendio la spediva a Pontecimato, una parte la accantonava per il biglietto di Giovanna, pochi spiccioli li teneva per sé. Spesso si faceva bastare, per l’intera giornata, la prima colazione compresa nell’affitto della camera. Anche d’inverno, sotto la neve, indossava solo la vecchia giacca di lana con la quale era partito dall’Italia. La sera, quando i suoi compagni di lavoro si chiudevano nelle birrerie della baia di Bristol, Mario stramazzava sul letto, un po’ per la stanchezza, un po’ per non pensare alla cena. L’inverno successivo si comprò un cappotto usato. Non senza un pizzico di rimorso. Un piccolo ribelle A cinque anni il piccolo Giorgio era già un caso nella scuola delle suore orsoline. Irriverente e ribelle, poco incline alla socializzazione. Mamma Giovanna pregava le religiose di avere pazienza e di considerare la condizione particolare del bambino. Una volta a parlare con la priora andò Clelia, ma per un soffio quell’incontro non finì in rissa. Giorgio ne fu palesemente felice e la sua ammirazione per la nonna toccò le stelle. A sei anni marinava spesso la scuola. Giocava a pallone quasi tutti i giorni, con ragazzi più grandi di lui che si riunivano in parrocchia o in uno spiazzo davanti a una


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II. Papà Mario emigra nel Galles

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cava di marmo o in un grande prato a nord di Pontecimato, che due porte accroccate con travi di legno rendevano più bello del Maracanà. Era il più piccolo, Giorgio, ma anche il più alto. E in quanto a corsa e a resistenza, batteva tutti, anche ragazzi con due o tre anni più di lui. E lo stesso valeva per i gol. Era quindi ben accetto. Anzi, conteso. Giocava con le scarpe che infilava la mattina, le uniche, che spesso si scollavano e questo faceva infuriare la mamma. Giovanna le rincollava e sopra la suola bucata ritagliava una forma di cartone. Ma un giorno, anche lei lasciò i due bambini e partì. Mario le aveva spedito un biglietto ferroviario Genova-Cardiff che Giovanna girò e rigirò fra le mani chissà quante volte in preda a mille dubbi. Se non fosse stato per Clelia, che era nonna e mamma insieme, non avrebbe mai trovato il coraggio di abbandonare Giorgio e Rita, pur convinta che il sacrificio avrebbe assicurato loro un futuro migliore. Li salutò con gli occhi lucidi la sera prima della partenza. Prese fra le mani la testolina ricciuta di Rita, che aveva appena tre anni, e le disse di fare la brava, che mamma sarebbe tornata presto. Rita le gettò le braccia al collo sussurrando con un filo di voce: «Ti voglio bene». A Giorgio regalò una mezza verità: «Vado da papà per aiutarlo a preparare la nuova casa, così potrete raggiungerci». La risposta fu gelida: «Fai presto». Poi si nascose sotto le coperte. Per intero, compresa la testa. E si addormentò arricciandosi i capelli. Furono tre anni difficili quelli dei due bambini Chinaglia senza padre né madre. Rita, per di più, contrasse l’itterizia per aver mangiato la carne di una gallina ammalata. Giorgio sfogava le sue angosce nel gioco del pallone. Era il migliore, il fenomeno dei campetti polverosi. Volevano tutti giocare con lui perché la sua squadra vinceva sempre. Tranne una volta, quando una sfida contro i ragazzi di piazza della Repubblica finì con un 5-6 per questi ultimi: tre gol di Giorgio, quattro di Tonino detto “il Guercio” perché giocava con gli occhiali. Per la rabbia, il giovane Chinaglia la notte non chiuse occhio. Nonna Clelia lo curava come il fiore più prezioso del suo giardino. Usava tutto il suo amore e la sua esperienza nel tentativo di placarne le inquietudini. Un giorno fece sedere il nipote sulle sue ginocchia e inventò la storia dell’arcobaleno, una sorta di favola: «Sai perché il tuo babbo e la tua mamma sono andati tanto lontano, oltre le nostre montagne? Per prendere l’arcobaleno. Lo hai visto l’arcobaleno, spunta dopo le piogge e le tempeste fra le nuvole nere per dirci che il peggio è passato, sta tornando il sereno». Giorgio l’ascoltava, questa volta, con grande attenzione. La nonna continuò accarezzandolo: «Quando tu sei triste, quando ti vengono in mente cose brutte, tu pensa che prima o poi spunterà l’arcobaleno e la vita tornerà a sorriderti. I tuoi genitori sono andati a prenderlo, fra poco lo troveranno e vivrete felici». Clelia ebbe un attimo di esitazione solo quando Giorgio le chiese: «Ma quanto ci metteranno a trovare l’arcobaleno?». Rispose dopo qualche secondo: «Presto. Ti chiameranno loro».


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Era il gennaio del 1955, Giorgio stava per compiere otto anni, quando i tempi maturarono prima di quanto fosse stato programmato dai suoi genitori. Per colpa – o merito – della sua passione per il pallone. O meglio, dello spavento che fece prendere non solo a nonna Clelia, ma soprattutto a Mario e Giovanna quando vennero a sapere della tragedia sfiorata. Giorgio stava giocando assieme ad altri compagni nel piazzale davanti alla cava, accanto al quale scorreva un canale per il raffreddamento del marmo. Come al solito, segnava gol a raffica e proprio per questo, quando il pallone finì nel canale, il suo amico Mario Valsega, uno spilungone di undici anni che guidava la squadra avversaria, gli disse: «Tocca a te andarlo a prendere, cannoniere!». Giorgio si era già bagnato in quel fiumiciattolo, ma d’estate, quando l’acqua era bassa e gli arrivava alla vita. Stavolta, d’inverno, il livello era salito e di molto. E quando il giovane Chinaglia scivolò dal greto fangoso nel canale, Valsega e i suoi amici impallidirono: sapevano che il loro amico non sapeva nuotare e lo videro trascinato via dalla corrente verso una grande sega elettrica che serviva a tagliare il marmo. Valsega fu il più lesto a correre verso Giorgio, ad afferrarlo per i capelli e a trascinarlo a riva. Una volta in salvo, Giorgio sputò un fiotto d’acqua misto a terriccio, guardò l’amico negli occhi e senza una parola corse verso casa, dove giunse fradicio, sporco e mezzo assiderato. La nonna lo infilò nudo in una tinozza d’acqua calda e solo allora la paura si sciolse in pianto ed egli fra i singhiozzi le raccontò l’accaduto. Quando anche i genitori lo seppero, presero l’irremovibile decisione. Misero insieme tutti i loro risparmi, comprarono due biglietti e li spedirono a Pontecimato con una lettera: «Mandateci i due ragazzi, fateli partire alla data segnata sui biglietti». La data era quella del 16 febbraio. Mancavano solo due giorni. Clelia mise in tasca la busta arrivata da Cardiff, andò in camera sua, si chiuse la porta alle spalle e si inginocchiò davanti alla Madonnina sotto la quale ardeva un lumino fioco. La guardò intensamente, congiunse le mani e con un filo di voce, quasi un sospiro, la implorò: «Sono solo due bambini, proteggili tu». Poi chiamò Giorgio e gli disse: «Il babbo ha trovato l’arcobaleno, tu e tua sorella adesso potete partire».


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Capitolo III. UN VIAGGIO AVVENTUROSO Era ancora buio quando Clelia andò a svegliare i due nipoti che dormivano l’uno accanto all’altra. Giorgio non aveva chiuso occhio. Rita aveva dormito sì e no un paio d’ore. Avevano lasciato campo libero ai pensieri, si erano interrogati sottovoce: «Si chiama Cardiff, vero, la nostra nuova città?», «Come sarà la nostra casa? Avrà il giardino?», «È vero che lassù piove sempre?», «Tu in treno ci sei mai stato?». Per due bambini di otto e sei anni era come prepararsi a saltare in un nuovo mondo, con un bagaglio pieno di emozione e di paura, di curiosità e di timore. Mentre si udivano i primi canti dei galli, nonna Clelia fece loro sciacquare il viso e li vestì: a entrambi fece indossare un maglione di lana grossa, sopra i pantaloni corti per Giorgio, sopra una gonnella di lana grigia per Rita che aveva anche calze spesse e lunghe fino all’inguine. Sul maglione di Giorgio, Clelia aveva cucito un quadrato di tela con la scritta: Chinaglia, 111 Richmond Road – Cardiff – Wales. «Se vi perdete, fate vedere questa targa, vi diranno cosa fare e dove andare». I due bambini annuirono. Dopo qualche secondo, Giorgio chiese: «A chi dobbiamo chiedere?». «A qualsiasi persona incontrate sul treno o alla stazione. Meglio se una persona in divisa. Ecco, cercate sempre persone in divisa». I due Chinaglia si guardarono come a voler fissare queste ultime parole l’uno nella mente dell’altra. Per riscaldarli, la nonna diede loro una tazza di latte bollente nella quale inzuppare un pezzo di pane. Lei non toccò cibo. Quando la colazione fu consumata, si avvolse uno scialle attorno alle spalle, sistemò una borsa a tracolla e stringendo al petto una coperta marrone e un pacco legato con lo spago, spinse i bambini fuori dalla porta. Albeggiava, il cielo era grigio come il metallo, l’aria pungente. S’incamminarono verso la stazione, dove tutti e tre salirono sul treno per Genova. Scesero alla stazione di Brignole, sedettero su una panchina sotto la pensilina. Per rallegrare i nipoti, Clelia improvvisò un gioco: «Sono una maga, e ora faccio una magia. Avete fame?». «Sììì!», risposero in coro. «Abracadabra!», diresse una mano dentro la borsa e ne cavò fuori tre panini fra gli «Hurrà!» dei bambini che in un batter d’occhio divorarono il loro “pranzo”. Dopo quasi tre ore presero la coincidenza per Milano. Giorgio e Rita, non staccavano il naso dal finestrino: era il loro primo viaggio. Si vedeva poco oltre il vetro perché una pioggia sottile vi disegnava una frenetica danza di goccioline. Ma quel poco bastava per nutrire la loro eccitazione e stimolarne la fantasia. Scesero alla stazione centrale che era sera. Cercarono un posto dove passare la notte. Lo trovarono in un angolo della sala d’aspetto della terza classe, sporca e puzzolente, piena di barboni e di fumo, di prostitute e dell’odore dolciastro dei loro profumi da quattro soldi. Clelia coprì con la coperta i suoi nipoti che, sfiniti, riuscirono finalmente a prender sonno rannicchiati sulla panca.


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All’alba, erano quasi le sei, furono scossi dolcemente dalla nonna. Il treno per Calais partiva alle 6:32. Clelia si rassettò i capelli, si asciugò il naso con un fazzoletto rosa e facendosi forza per trattenere le lacrime si inginocchiò davanti ai due bambini. «Adesso dovrete continuare da soli, con le vostre gambe. State uniti, non perdetevi mai di vista. Alle stazioni tenetevi sempre per mano. Ora salirete su quel treno, dovete scendere a Calais. Si pronuncia “Calé”, ricordatevi: “Calé”. È scritto tutto su questo foglietto, ne ho fatti due, uno per ciascuno, teneteli da conto: a Calais dovete prendere il treno per Folkestone, da Folkestone per Londra, da Londra per Cardiff dove vi aspetta vostro padre». Tutte le tappe del viaggio erano scritte nel promemoria accompagnate dalla pronuncia: Calé, Folcheston, London. Clelia riversò sui due piccoli viaggiatori un’infinità di raccomandazioni. Salì con loro sul vagone, li sistemò in due posti vicino al finestrino, uno di fronte all’altra. Dopo avere cercato inutilmente il capotreno, raccomandò a una signora grassa sulla cinquantina di dare loro uno sguardo. La donna era in viaggio con il marito, un omino smilzo e con lunghi baffi a manubrio che piegarono la bocca di Giorgio a un sorriso. La signora rispose con uno sguardo compiacente, gli occhi fissi sul maglione di Giorgio: «Fino a Parigi, se vuole, noi scendiamo là, non arriviamo in Galles». «Va bene lo stesso, grazie», rispose Clelia. Consegnò al più grande i due biglietti, fece cadere la coperta sulle gambe di Rita, sistemò il pacco che aveva portato da Pontecimato nella retina portabagagli: «Qui dentro c’è del pane, del lardo, della marmellata e una bottiglia d’acqua. Vi serviranno per i due giorni di viaggio». Tirò poi fuori dal borsellino pochi spiccioli che infilò bene in fondo nella tasca dei pantaloncini del nipote. Giorgio e Rita parevano seduti sull’orlo di un vulcano, anziché sui sedili di un treno, col cuore che batteva forte, sapendo che quello era il momento del distacco e che poi sarebbero stati lanciati in aria da un cannone da circo e chissà dove sarebbero atterrati. Rita non riuscì a trattenere le lacrime e si gettò fra le braccia della nonna. Anche la donna grassa tirò fuori il fazzoletto per asciugarsi gli occhi. «Ricordatevi che siete di Carrara – disse infine Clelia accarezzandoli e baciandoli sulla fronte – gente di marmo». Scese dal vagone e senza voltarsi indietro sparì alla vista dei nipoti dentro una nuvola di vapore lasciata da una locomotiva, proprio mentre il lungo convoglio, con uno scossone, mosse alla volta dell’ignoto. Assistiti dai passeggeri I due piccoli Chinaglia trovarono sempre, fra i passeggeri che si avvicendarono nel loro scompartimento, chi si prendesse la briga di offrire all’uno e all’altra una caramella, un pasticcino, un bicchiere d’acqua e soprattutto indicazioni sul percorso del treno, sulle stazioni che avrebbero toccato e in particolare su quella in cui sarebbero dovuti scendere. Qualche problema sorse a Parigi, quando la signora grassa e il marito con i buffi baffi passarono l’incombenza di assistere i due giovanissi-


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III. Un viaggio avventuroso

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mi passeggeri a una coppia di mezza età con un bambino di cinque anni diretti proprio a Calais. «Oui, pas de problème», risposero all’invito. E subito dopo la donna si rivolse a Rita: «Comme tu t’appelle, chérie?». La bambina volse lo sguardo interrogativo verso il fratello che a sua volta allargò le braccia. Tutto il vagone cominciò a ridacchiare, finché un signore italiano dall’accento lombardo si prestò a fare da interprete. A ogni stazione, anche se sonnecchiando, Giorgio consultava il foglietto delle istruzioni di nonna Clelia per controllare se il nome di quella città vi era scritto. In vista di Dover, furono i signori di Parigi prima, e poi il capotreno, ad avvisarli che stavano per giungere a destinazione. «Dovete prendere il treno per Folkestone», li rassicurò l’italiano di Milano prima di scendere. Lo trovarono facilmente. Non fossero bastati i cartelli con le frecce direzionali, sarebbe stato sufficiente seguire lo sciame umano che si dirigeva verso quel binario. Per maggior sicurezza, Giorgio chiese conferma a un uomo in divisa – come la nonna gli aveva raccomandato –: fortunatamente un ferroviere, che dapprima non capì le sue parole, ma dopo aver letto la targa sul maglione, il foglietto della nonna che il bambino gli aveva mostrato e il percorso stampato sui due biglietti, li accompagnò e li sistemò sulla vettura giusta. La meraviglia di entrambi fu pari alla loro eccitazione quando il treno, singhiozzando, salì sulla nave ferry-boat che prese a navigare. Avrebbero ricordato a lungo, e non proprio col sorriso sulle labbra, l’attraversamento della Manica, battuta da un vento gelido e da onde infuriate che facevano beccheggiare il traghetto e attorcigliare le budella dei passeggeri. A Giorgio il mal di mare ricordò quella volta che salì sull’albero di fichi accanto alla casa di Pontecimato e ne mangiò una trentina. Un’ora dopo, in preda a un tremendo mal di pancia e a un attacco di dissenteria, corse dalla mamma in lacrime gridando: «Sto morendo!». Ecco, ora credeva davvero di essere in punto di morte e strinse la mano di Rita che stava peggio di lui. Non toccarono cibo fino all’approdo, non tanto per razionare il pacco dei viveri ridotto ormai all’osso, quanto per lo stomaco in subbuglio. Quando nel vagone passò un venditore di panini e bevande, una donna che sedeva di fronte offrì loro una limonata che li rimise un po’ in sesto, tanto da potersi godere appieno lo sbarco a Folkestone: le manovre dell’attracco, l’apertura del portellone, il treno che a scatti lasciava la nave e toccava la terra inglese. Scesero dal treno deboli e con i piedi ghiacciati: Rita avvolta nella coperta, Giorgio infilando le mani violacee nelle maniche del maglione a mo’ di manicotto. E fortuna che il pacco dei viveri poteva ormai entrare comodamente in una tasca. Trovare un treno per Londra non fu difficile, perché da Folkestone quasi tutti i treni erano diretti alla capitale. Scelsero la prima carrozza dopo il locomotore, stringendosi in un posto solo, l’unico rimasto, avvoltolati e tremanti sotto la loro coperta. I passeggeri li fissavano sorpresi e incuriositi, facendo commenti che i due bambini non potevano tradurre. Ecco: altri suoni incomprensibili. Giorgio lo sapeva, il babbo glielo aveva scritto che in Inghilterra non si parla come a Carrara e che avrebbero


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dovuto imparare un’altra lingua. Rita no. Ma ora il fatto di non capire niente di quel che la gente diceva era l’ultimo suo pensiero, aveva il naso, le orecchie e i piedi gelati e brividi di freddo. Era ormai buio, alla pioggia si sostituì un fitto nevischio che imbrattava i finestrini e creava mulinelli bianchi al passar del treno sulle rotaie. Giorgio prese dalla tasca quel poco che rimaneva per placare i morsi della fame e divise con la sorella un minuscolo pezzo di lardo e un tozzo di pane rinsecchito. Poi fece appello ai pensieri più strani per non addormentarsi. Cominciò mentalmente a elencare nomi: i ventisei della sua famiglia, la ventina dei suoi amici, gli undici della formazione della Carrarese… Chiese a Rita: «Come si chiamano gli zii di Massa?». La sorella non rispose, aveva ceduto di schianto e dormiva sulle sue ginocchia. Smarriti nella stazione di Londra L’altoparlante gracchiò parole incomprensibili, ma una – quella – Giorgio la riconobbe: London! Il torpore lasciò il posto a una nuova scarica di adrenalina e diede di gomito alla sorella: «Siamo arrivati!». «Dal babbo?». «No, ancora no. Preparati, prendi su la coperta». Il treno rallentò, entrò in una sorta di grande serra di vetro e acciaio, accanto a tanti altri treni. I passeggeri si alzarono tutti, mettendosi in fila davanti allo sportello. I due Chinaglia uscirono per ultimi, quando il vagone si era ormai svuotato. Giorgio prese dalla tasca il suo foglietto, lo aprì e lo lesse con grande attenzione, come se fosse stata la prima volta. Ora bisognava trovare l’ultimo tassello del puzzle: il treno per Cardiff. Come aveva scritto nonna Clelia. Semplicemente. Troppo semplicemente. Girarono in lungo e in largo, sempre mano nella mano, per più di trenta minuti e il cuore di entrambi cominciò a battere forte per la paura. La prima vera paura di tutto il viaggio. “La divisa: devo trovare una divisa”, pensò Giorgio. Girò lo sguardo tutto intorno, e la vide. Gli corse incontro, gli si parò davanti e mise a fuoco un ragazzino come lui o poco più grande. Indossava una giacca blu con le spalline e gli alamari, pantaloni grigi con una banda blu laterale, un berretto grigio con la visiera lucida: l’uniforme degli allievi dell’UCL, uno dei numerosi college londinesi. «Cardiff, Cardiff!», gli gridò in faccia Chinaglia indicando la targa cucita sul maglione. Il cadetto, spaventato, corse via. La seconda divisa fu quella giusta. O quasi. Era un poliziotto, il quale comprendendo il problema dei due bambini li affidò a un ferroviere. Un cinquantenne, panciuto e rubicondo, che si mise a ridere quando Giorgio gli mostrò i biglietti, per poi tornare improvvisamente serio e parlottare con il poliziotto. Giorgio impallidì e prese a tormentare i capelli: «Cosa c’è che non va?», disse. «What?», si voltò di scatto il ferroviere. Che poi tentò di spiegare: «This is not the right station».


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«Che vuol dire?», cominciò a piagnucolare Rita. L’uomo prese carta e penna e scrisse “Victoria Station”, indicando con il dito il luogo dove ora loro si trovavano. Poi tracciò una linea che finiva con una scritta, “Paddington Station”, dalla quale partiva una freccia e quel nome tanto sospirato: “Cardiff”. Giorgiò capì. Il poliziotto fece cenno di seguirlo: «Come on, come with me!». Rita si stava asciugando gli occhi con il dorso della mano mentre suo fratello la strattonò per un braccio. Il poliziotto li mise su un bus raccomandando al driver di scaricarli alla stazione di Paddington. Questi così fece. Anzi, fece di più. Li consegnò a un ferroviere che li accompagnò al treno. Sulla fiancata del vagone c’era scritto “Cardiff”. Quando Giorgio lo lesse provò la stessa, inebriante sensazione di quando segnò il gol decisivo nella sfida fra i ragazzini di Pontecimato e la banda di piazza Matteotti: un tiro al volo da dieci metri su passaggio di Valerio Zorzi, uno dei venti nomi che aveva chiamato a raccolta sul treno per combattere il sonno. Il nevischio era diventato neve, fiocchi grandi come noci. Raggomitolati sotto la coperta, i due bambini si stringevano e ridevano, incuranti del freddo polare e dei morsi della fame. Quanto mancava alla fine del viaggio? Due, tre, cinque ore? Indicando il polo, Giorgio chiese a un passeggero: «Che ora è?». Quello non capì una parola, ma rispose mostrando l’orologio: le 11:16. Di sera, naturalmente. Il più grande desiderio dei Chinaglia sarebbe stato quello di conoscere l’ora di arrivo a Cardiff, ma come spiegarlo a questi signori che parlano una lingua così strana? Con un occhio aperto e uno chiuso, in una lotta impari contro il sonno, Giorgio e Rita si pizzicavano a vicenda per tenersi svegli. Non avevano più niente da mangiare da sei o sette ore, erano in treno da quasi tre giorni con l’ansia come compagna di viaggio, il parlottare nel vagone era per loro un insieme di suoni senza significato. Ma l’approssimarsi del traguardo aveva il potere di cancellare fame e freddo: era come un piatto di pasta fumante, un cappotto di pelliccia. Una donna che le sedeva di fronte guardò negli occhi Rita, sorrise e fece un segno con l’indice e il medio della mano destra. Cosa voleva dire: due ore a Cardiff? Due fermate? Vittoria? Ma quale vittoria, che cosa poteva saperne quella donna con un buffo cappello piumato in testa e un pesante cappotto di tweed della loro storia, di ciò che passava loro per la testa? Rita diede di gomito al fratello che rispose seccato: «Non dormo, non dormo, chiudo solo gli occhi per cinque minuti». Rita, in parte, aveva indovinato: quelle due dita divaricate volevano dire due ore, due ore soltanto e avrebbero acchiappato l’arcobaleno. La parola magica: Cardiff! La stazione di Cardiff venne annunciata da un altoparlante dal tono così alto e gracchiante da far sobbalzare ogni passeggero. Giorgio dormiva ancora – altro che “chiudo gli occhi cinque minuti” – e pure sua sorella aveva perso la sfida contro


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Morfeo. Più che sobbalzare, i due bambini scattarono in piedi e in pochi secondi realizzarono ciò che stava accadendo. Pulirono freneticamente il vetro appannato per guardare fuori, ma videro solo mulinelli di neve. La donna con le piume sorrise di nuovo a entrambi, come per dire «Avete visto? Siete arrivati». Il treno rallentò, accelerando il battito cardiaco di Giorgio. «Cardiff?», chiese girandosi verso il primo che lo avesse ascoltato. «Yes, Cardiff», rispose un distinto signore già con la borsa in mano. “Capisco l’inglese!”, si congratulò con se stesso Giorgio, ormai euforico. Quando il treno si arrestò al binario cinque, rischiò di fermarsi anche il cuore dei due bambini. Scesero piano tenendosi per mano, e si affacciarono sulla pensilina, come quei giocatori di poker che spizzano le carte. La vista era offuscata dalla neve e dalla nebbia del primo mattino. Scesero l’ultimo gradino del vagone, mossero qualche passo incerto. Una figura cominciò a delinearsi, una figura corposa e dal passo ansioso, Giorgio intuì subito, ancor prima che questa squarciasse la coltre bianca, che di lì a pochi secondi, dopo cinque anni, avrebbe abbracciato il suo babbo. Quella manciata di secondi durò un’eternità, che il piccolo Chinaglia riempì con un intreccio scomposto di domande: “Com’è fatto il mio babbo?”, “Lo riconoscerò?, “Mi riconoscerà?”, “Quanti anni avevo quando sono partito?”, “E Mamma? Ci sarà anche Mamma con lui?”. Questi pensieri si infransero nell’impatto con un uomo fuori di sé che lo strinse al petto così forte da fargli male, prese con l’altro braccio Rita e fra le lacrime mormorò: «Non ci lasceremo più, mai più, ve lo giuro, vivremo sempre insieme». Li avvolse in una coperta verde cupo che aveva portato da casa e fu per i bambini un riparo provvidenziale poiché la loro, quella di nonna Clelia, nell’eccitazione l’avevano abbandonata sul treno. Pur di prolungare quell’abbraccio così sospirato, si diressero incollati verso l’uscita. Non erano ancora le sei, né autobus né taxi avevano cominciato i loro turni. Nevicava fitto e la strada di casa, dalla stazione, era lunga. Mario ebbe un’idea: bussò alla porta dell’ufficio postale dove avevano appena scaricato la posta del treno da Londra, chiese quando sarebbe partito il furgone per la distribuzione. «Fra pochi minuti», gli rispose un impiegato. Domandò allora se il furgone dovesse far tappa anche nella zona di Roth Park. «Certo, di fermate ne farà tante, anche all’ufficio postale di Roth Park». Quindi, si fece coraggio, spiegò la situazione e azzardò: «Possiamo salire?». L’impiegato gettò gli occhi sui due bambini intabarrati nella coperta come un grosso pacco postale e alzando un sopracciglio disse: «Ok, follow me». Prima scaricò nel furgone tre sacchi di posta, poi fece cenno di salire ai tre imprevisti passeggeri. Le soste furono davvero tante, il postale impiegò quasi un’ora per arrivare a Roth Park. Un’ora piena di domande, di sorrisi, di silenzi, di carezze. «Com’è andato il viaggio?». «Bene, bene», rispose Giorgio.


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«Avete avuto problemi?». «Di freddo e di fame», intervenne Rita. «Ma no, sciocchezze», fece Giorgio lanciando un’occhiataccia alla sorella e stringendosi al braccio del babbo. «La mamma vi aspetta. Fra poco potrete bere un buon latte bollente col pane e ficcarvi in un letto caldo». Mario fece fermare il furgone in una piazza tonda con una bella fontana al centro. Ringraziò, scesero e imboccarono Richmond Road, un viale alberato con tante case in fila, ordinate, se non tutte uguali, molto simili. La maggior parte era fatta di mattoncini rossi con pochi scalini che conducevano al portone. Edifici in stile vittoriano su due o tre piani, una volta abitati da famiglie benestanti e dalla loro servitù ai piani alti, divisi in più appartamenti dopo la fine della guerra in seguito alla crisi degli alloggi. «Eccoci», disse Mario ai figli arrestandosi davanti al numero 111. Giorgio alzò gli occhi su un edificio grigio, pulito e silenzioso, circondato da aiuole verdi e dal frusciare del vento sulle foglie degli alberi. Stava sognando? Ma no! Questa era proprio la manona callosa del papà e questa era neve, neve ghiacciata, e i piedi erano gelati perché l’acqua entrava dai buchi delle scarpe. Se fosse stato davvero un sogno, le scarpe non sarebbero state di certo bucate, anzi ai piedi avrebbe avuto scarponi di cuoio impenetrabili. Provò a immaginare la casa, calda e grande; la sua stanza: sua o da dividere con Rita? Il portoncino si aprì lentamente e sull’uscio, tra i fiocchi di neve, si stagliò la figura di una donna alta e magra, vestita di nero, con uno scialle sulla testa stretto dalla mano destra; la sinistra tremante si sollevò verso quel gruppetto fermo ai piedi degli otto gradini, due bambini ai lati di un uomo massiccio e impietrito. Gli occhi di Giovanna, velati dalle lacrime, cercavano con febbrile rapidità quelli di Giorgio e di Rita, per dar luogo alla scintilla che avrebbe bruciato di colpo tre anni di lontananza. La prima a staccarsi dal quadro immobile, a salire di corsa le scale e a gettarsi nelle braccia della mamma di cui conservava solo una pallida immagine fu Rita, che si sciolse anch’essa in pianto. Giorgio rimase piantato in terra come un tronco, finché suo padre lo scosse per un braccio tirandolo fin sul grembo di sua madre, nel quale trovò un calore intenso. Salirono al secondo piano facendo attenzione a non far rumore. Entrarono in una stanza piuttosto ampia, con un letto matrimoniale e due lettini da campo ai lati, un armadio in noce a due ante, un piccolo scrittoio davanti alla finestra dove era stato sistemato un fornelletto a gas, due quadri di scene di caccia alle pareti foderate di carta damascata. Su un comodino, la statuetta di una madonnina con un ramoscello d’ulivo rinsecchito ai piedi. Quello era tutto. La loro casa in una stanza. Come a Pontecimato. Giorgio era così stanco che neanche riuscì a masticare la delusione. Le ossa intorpidite e il bruciore degli occhi avevano scacciato persino la fame. Bevve d’un fia-


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to la ciotola di latte caldo, si spogliò, baciò i genitori e si ficcò sotto le coperte. La notte sognò di essere un principe vestito con giubba e alamari, come quelli del cadetto incontrato alla stazione di Londra, di entrare in sella a un cavallo bianco nel proprio castello e di venirne espulso con la forza da un’orda di barbari. A guidarli era un indemoniato cavaliere con gli occhiali: Tonino “il guercio”.


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