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«Serial Cult»

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Collana originale diretta da Jean-Baptiste Jeangène Vilmer e Claire Sécail Edizioni italiane dei volumi curate da Alessio Billi

Trasmesse sugli schermi televisivi o commercializzate in DVD, le serie televisive prodotte negli ultimi tempi hanno conosciuto un successo di critica e di pubblico senza precedenti, giustificando quell’idea di quality television che caratterizza il rinnovamento dei programmi televisivi americani dopo gli anni Ottanta. Forgiando «comunità» specifiche di telespettatori, esse generano un proprio universo culturale e sono in grado di esportare da un continente all’altro i loro valori fondanti. La presente collana si pone come obiettivo quello di analizzare tali oggetti culturali, approfondire le ragioni della loro prosperità e suggerirne nuove chiavi interpretative.


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GĂŠrard Wajcman

CSI La polizia dei morti

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GREMESE

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Titolo originale: Les Experts – La police des morts © Presses Universitaires de France, 2011 Traduzione dal francese: Marco Bertoli Stampa: Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) 2013 © GREMESE New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-765-8


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INDICE Prologo . . . . . . . . . Catena di delitti . . . . Le leggenda vivente . . Rilancio mortale . . . . L’apparenza . . . . . . Contro ogni evidenza . Il profumo della morte Lascia che sanguini . . Il suono del silenzio . . Mi piace guardare . . . L’altra verità . . . . . . Grave Danger, part one Grave Danger, part two False accuse . . . . . . L’arte imita la vita . . .

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«AMLETO: Non vedi nessuno, là? REGINA: Nessuno, eppure vedo tutto quello che c’è da vedere.» Shakespeare, Amleto, a. III, sc. IV (trad. it. di Gabriele Baldini)


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CSI Carta d’identità

Titolo originale: CSI: Crime Scene Investigation Paese d’origine: Stati Uniti Ideazione: Anthony E. Zuiker Produttore: Jerry Bruckheimer Prima messa in onda: CBS/CTV (Canada), 2000 Prima messa in onda in Italia: Italia 1, 2002 Numero di stagioni: 13 (in corso) Diffusione nel paese d’origine: 2000 – (in corso) Genere: serie poliziesca Cast: Williams Peterson (Dr. Gilbert [Gil] Grissom), George Eads (Nicholas [Nick] Stokes), Jorja Fox (Sara Sidle), Eric Szmanda (Greg Sanders), Marg Helgenberger (Catherine Willows), Gary Dourdan (Warrick Brown), Robert David Hall (Dr. Albert [Al] Robbins), Paul Guilfoyle (Cap. James [Jim] Brass), Laurence Fishburne (Dr. Raymond [Ray] Langston)… CSI mette in scena le inchieste condotte da un’unità del turno di notte della polizia scientifica di Las Vegas.


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Oggi come oggi, le serie televisive sono narrazione del mondo. «Non c’è e non c’è mai stato in nessun luogo un popolo senza narrazioni», scrive Roland Barthes1. Ossia, di racconti ce ne sono sempre stati. Barthes abbozza quindi una tipologia di forme della narrazione che, con il suo senso dell’eternità, dà l’idea di un’infinita varietà: Il racconto può basarsi sul linguaggio articolato, orale o scritto, sull’immagine, fissa o mobile, sul gesto o su una determinata miscela di tutte queste sostanze: lo si ritrova nel mito, nella leggenda, nella favola, nel racconto, nella novella, nell’epopea, nella storia, nella tragedia, nel dramma, nella commedia, nella pantomima, nel quadro, nella vetrata, nel cinema, nei fumetti, nella cronaca, nella conversazione.

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Roland Barthes, «Introduzione all’analisi strutturale dei racconti», in AA.VV., L’analisi del racconto, Milano, Bompiani, 1969.

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In questa cornice, la serie televisiva non fa eccezione. Il Rinascimento aveva conosciuto l’invenzione di una maniera nuova di raccontare il mondo. Attraverso la pittura. In precedenza, il mondo era un libro da decifrare. Al principio del Quattrocento, il dipinto, invenzione prodigiosa, apre una finestra su un mondo che non è più da leggere, ma da vedere. Si tratta di scoprire, di esplorare, di guardare con i propri occhi. E con la forma-dipinto, con la prospettiva legittima che implica l’idea di cornice e di unità della rappresentazione – di luogo, di tempo e di azione –, i pittori inventano uno spazio nuovo in cui gli uomini prendono posto sulla scena del mondo in quanto attori della storia, la loro stessa storia. In precedenza, Giotto aveva tolto dalla loro solitudine le figure sacre, ereditate dalle icone bizantine, e per la prima volta le aveva radunate facendone personaggi di un unico dramma, che si trovano sulla terra condividendo uno spazio. Un secolo dopo, nel Quattrocento, l’individuo si distacca dal gruppo per apparire sulla scena non da solo, ma come persona discernibile, distinta, con il proprio nome. La raffigurazione pittorica della battaglia, un genere particolarmente sensibile a questa dimensione, cessa di essere lo scontro informe di masse confuse e anonime per farsi descrizione di fatti d’arme compiuti da singoli individui, eroi riconoscibili, identificabili, nominabili. Paolo Uccello racconta la battaglia di 10


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PROLOGO

San Romano del 1432 (Firenze contro Siena) mediante una serie di tre episodi: Niccolò Mauruzi da Tolentino alla testa delle sue truppe, contrattacco decisivo di Micheletto Attendolo da Contignola e, ultimo atto, Bernardino Della Ciarda messo fuori combattimento, da cui la sconfitta della parte senese. Partecipando all’avanzata del mondo, che a poco a poco diviene il suo mondo, l’Uomo scrive il suo destino di propria mano. Si profila ormai sulla scena del mondo come attore della propria storia. Già in precedenza erano comparsi dei personaggi, ma, in conformità alla poetica di Aristotele, essi altro non erano che coloro i quali mettevano in pratica un’azione, a quella restando completamente subordinati. A questo punto, invece, essi sono diventati entità psicologiche, sciolte dalle proprie azioni, esseri autonomi che continuano a esistere anche se non fanno nulla. Il personaggio diviene persona. È così che la pittura ha anticipato Cartesio, tracciando la cornice di una nuova storia: o meglio, tracciando quella nuova storia in cui gli uomini sono maestri e padroni della natura così come di loro stessi. La pittura (primo atto filosofico a colori) si definisce come l’arte attraverso la quale si è potuta compiere la narrazione del mondo nuovo. L’arte ha fondato una nuova storiografia. La pittura ha cambiato il modo di raccontare il mondo, e il suo racconto ha cambiato il mondo stesso. Dall’affresco politico raffigurante la città degli uomini fino all’invenzione del paesaggio, 11


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l’arte della pittura non si è ridotta alla semplice produzione di un ritratto del mondo; è il mondo reale che si è svolto secondo l’immagine della sua pittura. Il mondo moderno si è formato a pennellate. E il mondo ipermoderno? È evidente come oggi la pittura non sostenga più un simile ruolo. Ma la narrazione continua. «Internazionale, trans-storica, transculturale, il racconto esiste, come la vita», ha scritto ancora Roland Barthes. Formulazione sorprendente, che collega la narrazione alla vita, la narrazione originaria e ininterrotta dell’umanità alla permanenza della vita che scorre. La vita scorre, oggi, non c’è dubbio; ma sarà possibile dire che così come la vita, anche la serie televisiva esiste, internazionale, trans-storica, transculturale? A proposito di questa permanenza, in effetti, una domanda sorge spontanea. Il fatto che un racconto ci sia sempre stato non implica che ci debba sempre essere. È stato Walter Benjamin a evocare la possibilità che la narrazione, di colpo, possa interrompersi. Un momento d’afasia. L’uomo rimane senza parole, incapace di esprimersi: così Benjamin descrive l’ingresso nel XX secolo. Quel secolo, parto delle trincee insaguinate della guerra 1914-1918, a differenza degli altri sarebbe nato nel silenzio. Più esattamente, il rumore e il furore hanno ricoperto e soffocato la parola fino a spegnerla. Alla guerra (alla quale, da Omero in avanti, cioè da sempre, si sono affiancate narrazioni in forma di epopee, chansons de geste e leggende) per 12


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PROLOGO

la prima volta corrisponde un silenzio, il mutismo degli uomini, incapaci di raccontare quanto hanno visto, quanto hanno fatto, ciò che i corpi – quelli dei commilitoni, quelli dei nemici, i propri – hanno vissuto e sofferto. «Non si era forse visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita; non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?»2. Questa impossibilità di raccontare, Walter Benjamin la farà assurgere a sintomo dei tempi moderni. Qui, il silenzio dei sopravvissuti contiene il silenzio risonante della prima guerra disumana, industriale, di massa. Quella che traspira dalla sospensione del racconto è la sospensione della vita, le bocche senza più fiato di innumerevoli morti. I loro nomi sono stati inghiottiti dal fango. Il Milite ignoto dà testimonianza di tutti quei morti anonimi. Nella Grande guerra, apocalisse della modernità nelle parole di Emilio Gentile3, la narrazione viene a essere sospesa dall’indicibilità della morte, dilapidata dalla vita messa fuori uso. «Con la Grande guerra», continua Benjamin, «diventa palese un processo che non si arresterà mai più». Di fatto, un altro silenzio, più assoluto, trapasserà ben presto il cuore del XX secolo. Intenzionalmente senza tracce né

2 Walter Benjamin, «Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov» [1936], trad. ital. di Renato Solmi, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, pag. 248. 3 Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2008.

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testimoni, le camere a gas hanno lasciato il mondo interdetto. In ultima analisi, la Shoah ha dato ragione a Benjamin. Il quale però, morto nel 1940, non ha mai potuto sapere quanta ne avesse. La narrazione sconnessa dalla vita. Una domanda s’impone: che narrazione rimane, quando viene meno la vita? O meglio: può continuare a essercene una? Quale forma avrà trasmesso questo silenzio di morte, ammesso che esista una forma in grado di trasmetterlo? Non la pittura, anche se alcuni pittori compiono il gioco di prestigio filosofico di mettere in mostra l’impossibilità stessa di mostrare, si pensi a Malevi . L’arte contemporanea, in modo necessariamente spostato, conferisce forma all’assenza, rappresentando l’irrappresentabile attraverso qualcos’altro. E la letteratura? No – a parte, va da sé, Georges Perec. Il cinema? Se ne può discutere. È esploso dopo la Prima guerra mondiale, diventando allo stesso tempo arte e industria. Griffith mostrerà le trincee del 1914, ma filmate in teatro di posa, negli Stati Uniti. A proposito della Shoah, Jean-Luc Godard ha individuato nell’assenza di immagini delle camere a gas la colpa del cinema del XX secolo, ossia il suo peccato originale. Nel 1985, mostrando ogni cosa senza usare immagini, Shoah, il film di Claude Lanzmann, ha insomma salvato il cinema. Soprattutto, ha permesso di «salvare l’onore del reale», aspirazione di Godard stesso. La narrazione disintegrata dall’indicibile. È incontestabile: il racconto non esiste sempre, per lo 14


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PROLOGO

meno non sempre dove lo si crede e come lo si crede. Le battaglie si possono raccontare, si può raccontare l’eroismo e perfino la morte eroica, ma le carneficine, i corpi ridotti a brandelli, la paura, il soffocamento, il disgusto, la sofferenza, l’orrore? E il delitto? Ci sono cose che non tollerano di essere dette. È questo l’oggetto della proposizione 6522 del Tractatus logico-philosphicus di Ludwig Wittgenstein, che enuncia: «Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé (…)» (trad. it. di Amedeo G. Conte). Si danno quindi due ordini, quello del dire e quello del vedere, entro una dottrina che postula che quello che si mostra cominci là dove si arresta quello che si può dire. Rivive il dibattito dell’ut pictura poesis, ma in forma di scissione, senza ut: separazione della poesis dalla pictura. Occorre immediatamente sottolineare il fatto che la dottrina di quanto si possa e non si possa dire non concerne l’arbitrio, la morale o l’interdizione, ma il reale: esiste quello che non si può dire, l’ineffabile. Ma esiste anche un al-di-là del silenzio, nel campo del visibile. E va sottolineato anche come esso si ripresenti in questo campo non in effigie di quanto non si può dire, ma come ostensione, nell’atto di un dito che indica. Non si tratta, cioè, di fissare un semplice perno fra arti visive e arti del linguaggio, dove le une prendano il testimone dalle altre, ma di disvelare un atto essenziale, esclusivo dell’arte, che permette di capire come la lingua abbia anche il potere di mostrare ciò che non riesce a di15


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re. Vale in ogni caso il principio di un’intima compenetrazione fra dire e mostrare, operata da ciò che si scrive, dalla letteratura come dalle arti visive, articolate non come complemento una dell’altra, ma precisamente intorno e attraverso un’impossibilità. Che vi siano cose inesprimibili a parole, e che quest’ineffabile sia destinato a fare ritorno nell’ordine visivo, è qualcosa che tocca il cuore della creazione nel XX secolo, dell’arte in primo luogo. Anche del cinema. Si può immaginare di disporre i film lungo due versanti: da una parte i film attraverso i quali il cinema è riassorbibile in un dire, dall’altra i film attraverso i quali il cinema comincia là dove il dire si arresta: e non intendiamo con essi i film muti, che possono essere ciarlieri, bensì quel cinema in cui la parola e l’immagine non solo si mostrano, ma mostrano. Cinema-poesis e cinema-pictura, per così dire. Da una parte Truffaut; dall’altra, Hitchcock. La serie televisiva attiene a questa connessione di dire e mostrare. Le serie televisive rappresentano questa compenetrazione di dicibile e reale. Soprattutto CSI.

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CATENA DI DELITTI La serie televisiva è il racconto del mondo d’oggi, di un mondo che vuole credere che nulla esista d’impossibile, che si possa sapere e vedere tutto, che ogni cosa possa essere resa visibile, che si possa fare luce di tutto e su tutto. Strappare alla realtà il suo segreto, strapparla dal suo silenzio, dalla sua opacità, renderla trasparente e infine ridurla. Tanto promette il discorso della scienza, ed è proprio alla scienza che ci si rimette. Il delitto è una delle principali denominazioni della realtà. Anzi, di più: ne è la denominazione originale e fondatrice. Piace pensare, con Roland Barthes, che la narrazione sia come la vita; si sa che, fin dalla notte dei tempi i racconti sono innanzi tutto racconti della morte. Al cuore di tutti i nostri racconti, ben prima della permanenza della vita, c’è il delitto. Dire che «non c’è e non c’è mai stato da nessuna parte un popolo senza narrazioni» significa dire anche che non c’è e non c’è mai stato da nessuna 17


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parte alcun popolo senza delitto. Il delitto è la scena che precede i titoli in quella serie che è la storia dell’uomo, una scena che non smette di ripetersi. Tutte le società ci si confrontano, e non ce n’è una che possa sottrarvisi. La polizia esiste per questo. La pulsione di morte si trova al cuore della vita umana. È attorno a questa cosa innominabile che gravitano la nostra storia e le nostre storie, la narrazione in ogni sua forma, dal mito al romanzo, dalla leggenda alla tragedia, dall’affresco al cinema, dal racconto alla cronaca. Tutte le culture, tutte le civiltà trovano il loro ordine disponendosi intorno a un delitto assurto al rango di colpa originale, al punto che il racconto della colpa sembra costituire la cultura stessa. Non c’è civilizzazione senza delitto. Freud, a sua volta, ha dato in Totem e tabù la versione psicanalitica di questa colpa e del delitto di fondazione: l’assassinio del padre. In principio era il delitto. Ma anche alla fine. Il delitto s’infiltra nell’insieme delle rappresentazioni e lo irradia. Un tempo questa funzione era adempiuta da una colpa immaginaria, un fantasma a cui le varie mitologie fornivano forma e luogo. Questo delitto mitico produceva a sua volta altre narrazioni, che conferivano senso a tutto e, allo spirito, le sue proprie regole. Al suo posto, a partire dal XX secolo, si è venuto a trovare un crimine reale: la Shoah. Questo evento, che non si è immediatamente presentato come tale, ha costituito una frattura nella storia degli uomini, lasciandoli privi di voce. E non solo la Shoah è rimasta senza 18


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rappresentazione: la sua onda di shock ha scisso la rappresentazione in quanto tale. È l’immagine ad averne risentito: press’a poco ogni immagine, ormai, che ne sia consapevole o no, risuona di questa realtà priva d’immagine. Non se ne sottrae nemmeno il semplice servizio televisivo sull’abbattimento a scopo sanitario di una mandria di mucche pazze. Pare che ogni periodo storico conosca un avvenimento che mette di fronte all’impossibile, una realtà che mette in crisi la rappresentazione. Avvenimento impossibile a pensarsi e a dirsi, a rappresentarsi e a rappresentare, ma anche impossibile a dimenticarsi. È impossibile non pensarci, non pensarlo; assilla il pensiero e lo fa vacillare per ripresentarsi altrove, in modo diverso, feroce, rimaneggiando nella loro essenza la narrazione e la rappresentazione. Allo scorcio iniziale del XXI secolo, ecco un nuovo avvenimento tellurico. Lo spostamento d’aria della sua esplosione ha fatto vibrare il secolo. L’11 settembre 2001 è di quegli avvenimenti che scuotono il mondo, scandendo un prima e un dopo nell’ordine della rappresentazione: e occorre osservare che è stato concepito proprio a questo scopo. In questo crimine era contenuta la volontà di un attentato contro l’immagine, l’immagine umana. L’11 settembre si propone in modo opposto a quello della Shoah. Non è stato perpetrato nel silenzio e nella segretezza, ma sotto l’occhio delle telecamere, in pieno giorno; non nel profondo di foreste oscure, ma nel centro 19


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della più grande città d’America, la capitale della modernità; non un delitto industriale, frutto di lavoro metodico, quotidiano e meticoloso, ma un fatto istantaneo, con una regia da film catastrofico, destinato a essere visto in diretta nel mondo intero, per raggiungere il maggior numero possibile di spettatori. Quello dell’11 settembre è un delitto ipervisibile. È la realtà all’opera nel momento in cui trionfa il discorso della scienza. E così, anche all’inizio del XXI secolo, si trova il delitto.

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