I film di Clint Easywood

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Gran Torino (2008) (GRAN TORINO)

di Clint Eastwood

vicini di casa sono ormai quasi tutte morte, oppure si sono trasferite altrove e sono state sostituite da immigrati provenienti dal Sudest asiatico, che lui disprezza. È pieno di risentimento per quasi tutto quello che vede intorno a sé: le grondaie spioventi, i prati incolti e pieni di vegetazione, le facce di stranieri che lo circondano, le bande senza meta di adolescenti hmong, latinoamericani e afroamericani che pensano che tutto il quartiere sia

che non erano mai riaffiorati dai tempi della guerra.

loro, il modo in cui i suoi figli sono diventati dei perfetti estranei. Fino alla notte in cui qualcuno cerca di rubargli la sua Gran Torino del ’72, ancora splendente e scintillante come il primo giorno. L’autore del tentato furto è proprio il suo vicino di casa, il timido adolescente Thao, costretto da una banda di teppisti asiatici. Walt affronta la banda e diventa suo malgrado l’eroe del quartiere, soprattutto per la madre di Thao e per la sorella più grande, Sue, che insistono affinché il ragazzo si metta a lavorare per Walt. Nonostante all’inizio l’uomo non voglia avere nulla a che fare con quelle persone, alla fine cede e assume il ragazzo per alcuni lavoretti, dando il via a un’amicizia improbabile che cambierà le loro vite. Attraverso l’incessante gentilezza di Thao e della sua famiglia, Walt comprende alcune verità sulle persone che gli vivono accanto. E su se stesso. Quelle persone, rifugiati dal passato terribile, hanno molte cose in comune con Walt, più di quante l’uomo abbia con la sua famiglia, e gli rivelano aspetti del suo animo

insieme a molte famiglie hmong, la quasi sconosciuta razza del Laos e di altre parti dell’Asia che si è alleata con gli USA durante la guerra del Vietnam. La famosa Gran Torino è un vero veicolo giunto da Vernal nello Utah. Era molto ben tenuta e funzionante; sono state fatte solo un paio di modifiche, come per esempio sostituire i paraurti e qualche altra piccola cosa, e poi è stata lucidata. La produzione ha acquistato la macchina e l’ha portata nel Michigan per le riprese. Nonostante la sceneggiatura inizialmente fosse ambientata a Minneapolis, Eastwood ha pensato che il passato di Walt come meccanico automobilistico per cinquant’anni avrebbe trovato uno sfondo più adeguato se fosse stato residente a Detroit, nel Michigan. Le riprese si sono svolte nei quartieri di Royal Oak, Warren e Grosse Point, e nell’ex quartiere benestante di Highland Park. Un esempio delle innovazioni di Eastwood è un monitor wireless portatile che si è fatto costruire su misura per consentire la massima efficienza

Gran Torino è arrivato alla compagnia di produzione di Eastwood, la Malpaso, dallo sceneggiatore esordiente Nick Schenk, che aveva scritto il copione ispirandosi a una storia che aveva elaborato insieme a Dave Johannson. Originario del Minnesota, Schenk ha tratto ispirazione dal tempo che aveva trascorso lavorando in fabbrica

Soggetto: Dave Johannson, Nick Schenk – Sceneggiatura: Nick Schenk – Fotografia: Tom Stern – Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens – Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach – Scenografia: James J. Murakami – Costumi: Deborah Hopper – Suono: Walt Martin – Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz e Bill Gerber per Warner Bros./Village Roadshow Pictures pres./Double Nickel Entert./Malpaso Prod. – Distribuzione: Warner Bros. – Origine: USA – Durata: 115’. ◗ Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Bee Vang (Thao), Ahney Her (Sue), Christopher Carley (padre Janovich), Brian Haley (Mitch Kowalski), Geraldine Hughes (Karen Kowalski), Brian Howe (Steve Kowalski), Dreama Walker (Ashley Kowalski), William Hill (Tim Kennedy), John Carroll Lynch (Martin, il barbiere), Brooke Chia Thao (Vu), Chee Thao (la nonna). La voce italiana di Clint Eastwood è di Michele Kalamera. Vincitore del David di Donatello 2009 come miglior film straniero. ◗ Il soggetto: Meccanico in pensione, Walt Kowalski riempie le sue giornate facendo dei piccoli lavori di riparazione nelle case, bevendo birra e recandosi una volta al mese dal barbiere. Nonostante l’ultimo desiderio espresso dalla moglie, ormai deceduta, fosse che il marito si confessasse, per Walt – che tiene il suo fucile sempre pronto e carico – non c’è nulla da confessare. E non c’è nessuno di cui si fidi abbastanza per confessarsi, a eccezione del suo cane Daisy. Le persone che un tempo erano i suoi

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nel dirigere le scene nelle quali è anche attore. Il congegno consente di vedere la scena man mano che progredisce, senza dover correre dietro alla macchina da presa. Per le due case principali della storia – quelle di Walt e di Thao e Sue –, i

(in questa pagina) Walt Kowalski a bordo del suo vecchio furgone. (pagina a fianco) Accanto alla simbolica bandiera americana.

location manager e lo scenografo hanno trovato due abitazioni confinanti che rispondevano a tutti i requisiti. La casa di Walt doveva dare l’impressione che qualcuno l’avesse curata per tutta la vita; sono state invecchiate tutte le altre sulla strada per mostrare il senso di abbandono e di degrado che mostravano le altre abitazioni. Per trarre ispirazione per il design della casa di Thao e Sue, Murakami ha osservato numerose fotografie e ha visitato varie abitazioni hmong. Allo stesso modo, la costumista Deborah Hopper ha fatto delle ricerche e ha partecipato a un festival hmong dove ha consultato vari venditori per garantire l’autenticità dei costumi. È andata nei posti dove le donne hmong acquistano i loro indumenti tradizionali e moderni, e ha scoperto che una delle cose che le madri insegnano alle figlie è il modo di realizzare gli abiti tradizionali. Il mix di culture presente nel film si riflette anche nelle musiche. La canzone del titolo, Gran Torino, interpretata dal cantante/pianista jazz inglese

Jamie Cullum e da Don Runner, è stata scritta anche da Eastwood, dal figlio Kyle e dal partner compositore di Kyle, Michael Stevens. I due hanno composto la colonna sonora, che comprende anche un rap hmong e uno latino. La comunità hmong ha collaborato a ogni aspetto della produzione e nel suo insieme ha fornito molto aiuto per apportare al progetto un tono vivido e unitario. ◗ La critica «Il personaggio di Walt Kowalski, sostenuto dalla sceneggiatura, modulata tra archetipi e stereotipi, dell’esordiente Nick Schenk, è una variazione crepuscolare di Dirty Harry-Callaghan. Esaminate tutte le differenze, Gran Torino è per Eastwod quello che Il grinta è stato per John Wayne. Walt-Clint (quando personaggio e attore vivono in simbiosi simbolica) ringhia e brontola contro tutto quello che non gli piace o che disapprova, porta la mano verso un’invisibile fondina e punta il pollice e l’indice contro i “nemici” come se le sue dita avessero incorporato una pistola pronta a sparare». Enrico Magrelli, La Rivista del Cinematografo – EDS Cinematografo.it, 12 marzo 2009. «[…] chiudendo perfettamente il percorso che unisce questo film a Mystic River e Million Dollar Baby: la coscienza della responsabilità che i padri – veri o putativi poco importa – hanno verso i figli. E il carico di debiti morali da cui non possono certo liberarsi. Alla fine la storia riprende il suo percorso incalzante e sorprendente, che naturalmente lasciamo allo spettatore scoprire. Possiamo solo aggiungere che Eastwood lo fa con una assunzione di responsabilità inusitata anche per i suoi film, quasi fosse riuscito finalmente a fare i conti davvero con la morte che nelle sue ultime regie aveva sempre più invaso le avventure dei suoi non-eroi, finendo per assumere l’aspetto del convitato di pietra. E che Eastwood filma con la semplicità e l’immediatezza che hanno solo i grandi». Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 13 marzo 2009. 217

«Gran Torino, il nuovo gioiello di Clint Eastwood, racconta, estremizzando sia i toni da commedia che quelli da tragedia (perfino cristologica), insomma alla John Ford a braccetto con Billy Wilder, quella amicizia che riscalda emozionalmente gli ultimi mesi di vita, ai giorni nostri, del burbero caratteraccio di Walt Kowalski, ex operaio specializzato e altamente professionale, della casa automobilistica Ford negli anni Quaranta e Cinquanta e Sessanta. […] Quando si costruivano auto più o meno eterne (come si vede gironzolando oggi per l’Havana), e fatte apposta per sfasciarsi a tempo. E quando il metalmeccanico era sinonimo di vero uomo che poteva e sapeva sputare proprio come costruire e riparare tutto, dal frigorifero alle finestre, dalle grondaie ai tetti». Roberto Silvestri, il manifesto, 13 marzo 2009. «Il tragico eastwoodiano. Questa anarchia reazionaria trova oggi tutti d’accordo. Riformisti conservatori e riformisti progressisti. Nostalgici della rivoluzione e maniaci dell’avanguardia. Individualisti borghesi e volontari del sociale. Credenti e non credenti. Potenti e diseredati. Illuminati della ragione e integralisti della superstizione. È il vuoto reazionario che esclude i sistemi di pensiero possibili. È il vuoto anarchico che alimenta un sistema di pensiero libero, ovvero libero da ogni possibile via d’uscita o salvezza. Che non si possa andare da nessuna parte è il sollievo della società post politica contemporanea. Finalmente, l’altrove è abolito. Nella “libertà senza possibilità”, infatti, consiste il mondo in cui oggi si vive. Il mondo è “libero”, e al tempo stesso “senza alcuna possibilità di salvezza”. L’artista, allora, coglie l’esistente e lo ratifica nel segno dell’individualismo, “istituzionalmente” anarchico e “positivamente” reazionario. E così fan tutti, ma proprio tutti, progressisti e conservatori, populisti e barricaderi, pacifisti e belligeranti, fedeli e infedeli, felici e contenti». Flavio De Bernardinis, Segnocinema, n. 157, 2009.


Invictus (2009) (INVICTUS)

di Clint Eastwood

Soggetto: dal libro Playing the Enemy di John Carlin – Sceneggiatura: Anthony Peckham – Fotografia: Tom Stern – Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens – Montaggio: Joel Cox, Gary Roach – Scenografia: James J. Murakami – Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz e Lori McCreary per Malpaso Productions – Distribuzione: Warner Bros. – Origine: USA – Durata: 134’. ◗ Interpreti e personaggi: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt

Damon (François Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng (Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko), Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo (Mary). ◗ Il soggetto: Sconfitto l’apartheid, Nelson Mandela, capo carismatico della lotta contro le leggi razziali, diventa presidente del Sudafrica grazie alle libere elezioni. Anche lo sport viene coinvolto dall’evento: il paese si vede assegnato il mondiale di rugby del 1995 e sulla scena internazionale ritornano gli Springboks, la nazionale sudafricana dagli anni Ottanta bandita da tutti i campi. Il rugby, infatti, è sempre stato lo sport più seguito dagli afrikaner e ai cittadini sudafricani di colore veniva riservato negli stadi un misero settore, di solito occupato per tifare la squadra avversaria. La sfida viene raccolta soprattutto dal capitano del team, François Pienaar, protagonista di un’impresa storica. La squadra

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sudafricana, dopo aver vinto la semifinale contro la Francia per un solo punto, batte i mitici All Blacks neozelandesi in una partita durissima e dall’esito incerto. In occasione della cerimonia di apertura del campionato mondiale, l’ingresso del presidente Mandela, che indossa la maglia degli Springboks, segna un passo decisivo nel cammino verso la pace tra bianchi e neri. Di fronte a oltre sessantamila sudafricani, Pienaar s’inginocchia per ricevere la coppa dalle mani di Mandela. Il film in un primo momento doveva intitolarsi The Human Factor. Poi fu Eastwood stesso a scegliere Invictus, ispirandosi al titolo di una poesia inglese del 1875 di William Ernest Henley, tra le letture preferite di Mandela (in questa pagina) Morgan Freeman (Nelson Mandela) con Matt Damon, nel ruolo di François Pienaar, capitano della nazionale sudafricana di rugby. (pagina a fianco) In alto, Eastwood e Damon sul set. Sotto, Mandela festeggia la vittoria degli Springboks.


durante la lunga prigionia. Clint Eastwood è tornato di nuovo a lavorare con Morgan Freeman, che interpreta il leader sudafricano, dopo Gli spietati e Million Dollar Baby. «I primi tempi da presidente furono i più difficili per Mandela – ha detto Eastwood –, doveva dimostrare tutto e subito a una nazione che lo vedeva come un santo. Andò anche contro chi lo aveva eletto pur di raggiungere il suo obiettivo». Mandela, infatti, deciso a usare il rugby come legame per il paese, lottò contro lo smantellamento della squadra nazionale, gli Springboks, vista come una reminiscenza del potere bianco dalla maggioranza nera. Del personaggio del capitano François Pienaar, Matt Damon ha detto: «Ho conosciuto Pienaar prima delle riprese, mi sono fatto spiegare le varie regole del rugby e il ruolo del capitano. Inoltre, mi ha raccontato di quel mondiale, di cosa ha significato per lui, afrikaner, avere a che fare con il presidente Mandela». «Questa è la storia di una nazione di cui si sa troppo poco – ha dichiarato Freeman –, non riesco a immaginare un altro evento che abbia unito un popolo come quel mondiale di rugby. Recitare nella parte di Mandela è stato un onore per me. Già in passato il presidente aveva affermato che in un eventuale film avrebbe voluto che fossi io a interpretarlo. Appena l’ho visto l’ho ringraziato per questo». «Quando siamo stati nel carcere dove il leader era stato imprigionato, ci siamo tutti commossi», spiega Clint. «È un luogo pieno di storia. Dormendo per terra e spaccando pietre Mandela è riuscito a trovare la forza di governare la nazione che lo aveva ridotto in quel modo. Solo un eroe poteva farlo». «Il perdono libera l’anima», dice il leader nel film per convincere la figlia e gli altri sudafricani neri a perdonare i bianchi e a unirsi a loro. Nonostante solo un componente del team, Chester Williams, fosse nero, gli Springbocks riuscirono per mano di Mandela a far appassionare la gente a uno sport fino a poco tempo prima sconosciuto ai bambini neri. Mandela era uno stratega, aveva

studiato gli afrikaner e la loro lingua, e sapeva che il rugby era la loro religione. Portando i bambini dei sobborghi allo stadio e i giocatori nei sobborghi, riuscì nell’intento di creare dal nulla un popolo finalmente unito. ◗ La critica «Credo che Clint Eastwood abbia […] cercato di fare un film che era sicuro di poter fare, su un soggetto che sentiva congeniale. Eastwood è troppo vecchio e troppo affermato per essere interessato a fare un

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film soltanto per denaro. Doveva aver letto le sceneggiature per i precedenti progetti su Mandela. Ma avevano tutte una cosa in comune: non erano state realizzate. Tutti concordavano sul fatto che Morgan Freeman fosse l’attore giusto (nel suo incontro con Mandela si era stabilita un’intesa meravigliosa), ma insieme alla storia non erano arrivati anche il finanziamento e il contratto. Con il suo film Eastwood ha messo tutti d’accordo.


man mano che va avanti l’importanza di Invictus non cresce, ma diminuisce». Mick LaSalle, San Francisco Chronicle, 11 dicembre 2009.

Sopra, un sorridente Morgan Freeman, tornato a lavorare con Clint dopo Gli spietati e Million Dollar Baby. A destra, gli Springboks durante un allenamento.

È davvero un ottimo film. Alcune scene suscitano grande emozione, come quella in cui gli uomini, bianchi e di colore, della sicurezza del presidente (inflessibili attivisti dell’ANC – l’African National Congress – e poliziotti afrikaner) riescono tra mille difficoltà a trovare un accordo per collaborare insieme. O la scena in cui il personaggio interpretato da Matt Damon – François Pienaar, il capitano della squadra di rugby – visita la cella dove Mandela restò imprigionato per tutti quegli anni a Robben Island. Mia moglie, Chaz, e io siamo stati accompagnati sull’isola una mattina di buon’ora da Ahmed Kathrada, uno dei compagni di prigionia di Mandela, e sì, il film mostra proprio la cella vera, con il sottile lenzuolo steso a terra. Guardi la cella e pensi: qui un grande uomo ha atteso con fiducia il suo appuntamento con la storia». Roger Ebert, Chicago Sun-Times, 10 dicembre 2009. «Invictus dimostra i nessi tra sport e politica, come nella superba

scena in cui la squadra si reca in una povera cittadina abitata da soli neri per insegnare il rugby ai bambini. Ma mentre scorre lentamente, Invictus assume i contorni di un tipico film sportivo, rendendolo prevedibile – indovinate come va a finire? – e riduttivo: certamente il Sudafrica aveva problemi più grandi del rugby, e sul suo piatto Mandela aveva molto di più della World Cup. Eastwood dedica circa venti minuti alla partita finale. E lo fa bene: per dirne una, non fa ricorso al solito espediente del telecronista che commenta l’azione in campo. Ma arrivati a questo punto, Invictus si concentra soprattutto sulla partita, e soltanto in parte sul Sudafrica e Mandela. Non è mai meno che meritorio e divertente, tuttavia CLINT

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«Invictus, coinvolgente storia di un trionfo sportivo, è anche l’ultima riflessione del regista sulla vendetta, filo conduttore della sua carriera […] ma per certi versi costituisce anche un’eccezione, un film sulla riconciliazione e il perdono – all’incirca l’opposto della vendetta – che assume autorità morale proprio perché la possibilità dello spargimento di sangue getta ovunque la sua ombra. […] Dietro l’epoca e l’ambientazione immediate, ha inoltre implicazioni che è difficile non cogliere. È un eccitante film sportivo, un racconto ispirato sul superamento dei pregiudizi e, più di ogni altra cosa, un’affascinante analisi della leadership politica […]. Invictus è prevalentemente lo studio di un personaggio avvincente incentrato su uno degli uomini più straordinari dei nostri tempi, ed è inoltre arricchito da personaggi minori e storie secondarie ben delineati che illuminano nella loro dimensione umana il percorso di riavvicinamento tra le due razze. Le guardie del corpo nere e i loro colleghi bianchi passano dall’ostilità a una circospetta tolleranza fino a un cauto calore in una maniera che è indicata senza essere esasperata. E che, per la maggior parte del film, caratterizza la regia di Eastwood, sempre umile, pacata ed efficiente. Questo film racconta una grande storia attraverso una serie di piccoli momenti ben osservati, e la racconta nel suo solito modo asciutto, pratico, lasciando da parte le sfumature». Anthony Oliver Scott, The New York Times, 11 dicembre 2009. «Fatta eccezione per Morgan Freeman, che interpreta un favoloso Nelson Mandela, c’è troppo sapore in Invictus, racconto ottimistico di una rappacificazione razziale abilmente confezionata in un trionfalistico film sportivo: per fortuna manca qualunque parallelo con Barack Obama.


Inoltre, potevamo usare un momento felice della storia mondiale, e Eastwood ne sceglie uno dalla storia del Sudafrica per il resto traballante, quando il primo presidente post-apartheid del paese uscì dalla prigione dove era stato lasciato a languire per ventisette anni e con fermezza mise da parte ogni vendetta politica in favore dell’unità nazionale. […] Come ogni produzione di Eastwood, Invictus è solenne, ben montato, attento a ogni minimo dettaglio, e spietatamente convenzionale. Come ritratto di un eroe, il film fa venire facilmente un nodo alla gola (Freeman offre un’interpretazione abilmente eseguita che fonde la fragilità fisica di Mandela con il suo fascino naturale e acuto senso dell’umorismo); come storia, sfiora la stupidità e la distorsione degli eventi. È pur vero che non si può far entrare a forza la storia di una nazione dentro un solo film, ma i dialoghi di Peckham, zeppi di spiegazioni vigorosamente messe in rilievo, traccia un percorso inverosimilmente veloce dal sospetto reciproco all’amore e all’intesa tra le due razze». Ella Taylor, The Village Voice, 8 dicembre 2009. «Le note del piano come gocce di pioggia segnalano la presenza di Clint Eastwood, che avrebbe scelto per sé il ruolo di Mandela, e quello di Charlie Parker in Bird. Perché Invictus – L’invincibile, al di là del Sudafrica liberato, e della leggendaria partita di rugby contro i guerrieri maori All Blacks, gira tutto intorno a lui, al regista di Lettere da Iwo Jima, al “revenant”, il fantasma che torna a fare giustizia, a riconciliare i nemici. Più che a un altro film “sportivo”, Million Dollar Baby, Invictus – L’invincibile assomiglia a Gran Torino, dove il vecchio, amaro razzista che in Corea uccise i “musi gialli” si innamora di un ragazzino dagli occhi a mandorla, il vicino di casa, tormento e rivelazione, e per salvarlo si fa martire. Così Mandela, salvato dalla poesia di William Ernest Henley, che dà il titolo al film, libero dopo ventisette anni di carcere, sa che per vincere

è necessario essere migliori dell’avversario. Per allontanare gli incubi e andare in meta bisogna sorprendere, conoscere bene il proprio carnefice e disorientarlo». Mariuccia Ciotta, Film TV, n. 8, 28 febbraio 2010. «E Invictus diventa così un “buddy movie” old fashion alla Frank Capra, o alla Ford o alla Hawks, un duetto tra nemici che si alleano. Il capitano boero della squadra, François Pienaar (non poco diffidente sulle prime: è uno strepitoso Matt Damon) e il presidente xhosa, il primo democraticamente eletto (è Morgan Freeman, ma, scrive un critico sudafricano, è talmente bravo che pare Mandela nell’interpretazione di Freeman), che sogna un Sudafrica arcobaleno e sa quanto gli Springboks o i Bafana Bafana o Miriam Makeba possano esprimerlo. Bisognerà dare però, prima, reciprocamente l’esempio. Io, Pienaar, faccio vincere, con il cuore, una squadra per quattordici quindicesimi bianca, se tu fai decollare, coeso, un paese per quattordici quindicesimi nero. Bisognerà trovare, poi, l’ispirazione giusta. Eccola, una poesia: Invictus di William Ernest Henley, lo scrittore vittoriano che ha permesso al prigioniero Mandela di resistere ventisette anni ai suoi aguzzini in una cella minuscola (la vedremo): “Dal profondo della notte che mi avvolge... ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile... Io sono il padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima”. Bisognerà avere infine fortuna e aspettare, quasi all’ultimo minuto della finale, sperando in un perfetto calcio piazzato. E conquistare la coppa del mondo, in un mondo davvero cambiato». Roberto Silvestri, il manifesto, 26 febbraio 2010. «Il finale te lo aspetti, ma non vedi l’ora che accada. E anzi hai paura che qualcosa possa andare storto, che la palla ovale possa far perdere il grande sogno della nuova nazione: il mondiale alla squadra del Sudafrica. La vittoria finale contro i rugbisti maori della Nuova 221

Zelanda non è una vittoria sportiva ma uno dei risultati politici internazionali più importanti del Novecento. Un popolo che si unisce in una squadra. Esco dalla sala contento che il vecchio Clint non sbagli un colpo come speravo. Il Sudafrica oggi è quanto di più lontano esista dal paradiso arcobaleno in cui molti avevano sognato ma questo non toglie nulla alla lezione eastwoodiana di come la politica sappia essere cosa diversissima da quella che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Di come possa essere, in tutti i sensi, il sogno di un uomo e di un popolo ancora desideroso di conquistare diritti e felicità. Che Nelson Mandela ha descritto con queste parole del poeta Henley: “Sotto i colpi d’ascia della sorte, il mio capo sanguina, ma non si china... Non importa quanto sia stretta la porta... quanto piena di castighi la vita / Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”». Roberto Saviano, la Repubblica, 26 febbraio 2010. «E così siamo all’emozione. È emozionante l’incontro paradossale fra la miseria delle township e gli idoli degli afrikaner. Sono emozionanti gli sguardi dei bianchi che per la prima volta vedono davvero quelli dei neri. Ed è emozionante il crescendo che porta persecutori e vittime all’esplosione di gioia della vittoria finale. Ma sempre queste loro emozioni – come le nostre – sono “ancorate” da Eastwood alla consapevolezza morale di Mandela. E in questo è bene evidente anche la consapevolezza morale del regista di Million Dollar Baby e di Gran Torino: nella coscienza del singolo sta il valore d’ogni scelta, e la coscienza di molti singoli può fare del mondo un posto migliore. Alla fine, ci sembra che Eastwood abbia compiuto la sua opera più matura, la più semplice e diretta, e insieme la più aperta al rischio generoso dell’emozione. Questo a noi pare sia Invictus: un racconto che “racconta” la grandezza del suo autore». Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2010.


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