Folle

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Nelly Arcan

Folle romanzo Traduzione dal francese di Micol Bertolazzi

GREMESE


Titolo originale: Folle © Editions du Seuil, 2004 Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma Copyright edizione italiana: 2013 © GREMESE New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-758-0


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l Nova, in rue Saint-Dominique, dove ci siamo visti per la prima volta, non avremmo potuto fare niente per evitare il disastro di quell’incontro. Se l’avessi saputo – come si dice di solito senza specificare quello che si sarebbe dovuto sapere con esattezza, e senza capire che saperlo prima genera il peggio –, se avessimo potuto leggere nei tarocchi di mia zia ad esempio il colore dei capelli delle rivali che mi aspettavano dietro l’angolo e se dal mio anno di nascita avessimo potuto calcolare che non te ne saresti mai più andato dai miei pensieri dopo il Nova… Quella sera, in rue Saint-Dominique, ti ho amato subito senza riflettere sulla mia fine programmata dal giorno del mio quindicesimo compleanno, senza pensare che non solo saresti stato l’ultimo uomo della mia vita, ma che probabilmente non ci saresti stato a vedermi morire. Quando ci siamo conosciuti meglio, è diventato un problema; tra noi, c’era l’ingiustizia del tuo futuro. Oggi so che ti ho amato per il tuo accento da francese in cui si coglieva la razza dei poeti e dei pensatori venuti dall’altra parte del mondo per riempirci le

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scuole; quell’accento così particolare modificato dai tuoi anni vissuti in Québec, quell’accento che ti separava dal resto del mondo, dai quebecchesi come dai francesi, quell’accento che faceva di te un portatore della Parola, come diceva mio nonno a proposito dei suoi profeti. D’altronde, se mio nonno fosse stato là, al Nova, in rue Saint-Dominique, mi avrebbe spinto tra le tue braccia per dare più vigore al disastro; mio nonno credeva nella bellezza delle disgrazie. Ha sempre convissuto con la resistenza della terra e la minaccia dei cattivi raccolti; mio nonno è nato nel 1902 ed era un contadino, aveva bisogno del cielo sopra la testa per nutrire la propria famiglia e tuttavia attendeva immobile l’apocalisse, era il suo grande paradosso. Il tuo accento donava un valore particolare al nostro incontro. Quando ero piccola, mio padre leggeva sempre due volte lo stesso libro; la seconda volta, lo leggeva ad alta voce. Quella seconda volta, la storia guadagnava spessore, gli sembrava che la voce soppesasse le parole, gli sembrava anche di ricevere un messaggio dall’esterno. Quando mio padre leggeva ad alta voce camminando senza sosta per la sala, con il libro tenuto lontano come fosse un avversario, era come mio nonno, cercava il testo fra le righe, trovava Dio. L’accento con cui mi parlasti quella sera significava che prima di morire qualcuno mi avrebbe parlato come mai prima di allora; significava che sulle tue labbra la vita aveva un altro senso. In quel momento, non sapevo che dall’inizio alla fine della nostra storia mi avresti davvero parlato come nessun uomo mi aveva mai parlato, ma non come mi sarei aspettata, non in quel modo che si aspettano le donne innamorate e insaziabili che vogliono sentirsi sulla bocca dei loro uomini. Non sapevo neppure che anch’io ti avrei

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ininterrottamente parlato in un modo che non avevi mai sentito, e che per quel mio accanimento nel dirti tutto, nel farti portare sulle spalle il peso del mondo cercando di intrappolarti, mi avresti lasciata. Al tuo accento si è aggiunto dell’altro, sicuramente la tua altezza, le tue mani da gigante e quegli occhi così neri che non si riuscivano a distinguere le pupille. Da piccola, mi sono innamorata di un ragazzo perché aveva un nome insolito, si chiamava Sébastien Sébapcédis. In tutta la mia vita non ho mai più sentito quel nome. Mio nonno mi ha sempre detto che le ragioni per cui si ama sono puerili e senza fondamento e che, esattamente come per l’instabilità dei sentimenti verso Dio, bisogna avere fede. La nostra storia è nata nell’equivoco del particolare e ha conosciuto una fine tragica, ma in passato era già successo ad altri. Ad esempio, c’è stato il principe di Cenerentola che l’ha inseguita per tutto il regno con una scarpa e che, una volta trovata, le ha confessato che ballare il valzer con lei fino al rintocco della mezzanotte non era bastato a svelargli il suo volto. Voglio dire che con quell’unica informazione nessuno avrebbe potuto prevedere che la storia sarebbe arrivata da qualche parte. Quando i genitori avranno imparato a essere onesti con i propri figli, potranno spiegare loro che dall’incontro tra un principe e i piedi di Cenerentola alla fine di buono sono usciti soltanto i numerosi bambini, e che la tragicità della loro storia deriva dal fatto che lei si è fermata lì, ai numerosi bambini. Quando i genitori saranno onesti, potranno dire ai loro figli che le favole mascherano la noia della vita e non vanno oltre la procreazione.

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Anche tu mi hai amato, ma non subito, perché per te l’amore viene dopo una scopata o resta per sempre là dove si è fermato la volta precedente, per esempio tra le mani di Nadine, che sapeva istintivamente come masturbarti, o tra le sue cosce di bruna sicura di sé e molto più calda di una bionda, come hai detto un giorno senza renderti conto che non ero né bruna né bionda. Qualcuno ha detto che bisogna andare a letto con una ragazza almeno dieci volte per esserne innamorati e molte di più per chiamarla “tesoro” in pubblico; di frasi così sono piene le riviste di moda ogni settimana, che è il sesso che fa la coppia. Hai cominciato ad amarmi dopo un mese o due, e quando mi sono fatta bionda per avere un posto nei tuoi discorsi sulle donne, ero contenta che venissi ancora a letto con me. È vero che alla fine mi hai amato, ma la differenza fra il tuo amore e il mio già dall’inizio era che per te sembrava un lavoro; per amarmi hai dovuto metterci del tuo, hai dovuto convincertene. Bisogna dire che per te il lavoro ha sempre avuto una grande importanza, nell’amore come in tutto il resto, me l’hai detto tu stesso quando ci siamo lasciati. Quella sera mi hai detto che da quel momento volevi dedicarti alla carriera e che quindi dovevi concentrarti e risparmiarti la pesantezza della mia presenza nella tua vita; pensavi alle cose in termini energetici, dicevi che ti esaurivo. Non sei il primo ad avermelo detto. Mi è già stato detto in passato che non sono una ragazza facile e mi sono sempre chiesta cosa potesse significare non essere facile. Sapevo che non si trattava di un complimento, che non lasciava ben sperare, anche se dicevano che dietro il baluardo del mio atteggiamento si intravedeva il fascino del mistero. Per me non essere facile

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erano parole d’addio, era un modo per dire che il mistero sarebbe rimasto un mistero, per me era una rinuncia. Quando oggi ripenso alla mia vita, sono convinta che è per essere più facile che sono diventata una puttana; è vero che questo mestiere esige un’apertura immediata, del resto in passato l’hanno scritto spesso in rete, che sono aperta. Tante volte mi hanno attribuito l’aggettivo open minded: in questo mestiere, la mente deve aprirsi prima di tutto il resto. Insieme abbiamo però vissuto dei bei momenti. Un mese o due dopo il nostro primo incontro al Nova, ci siamo amati reciprocamente. Tra di noi ci sono stati attimi magnetici in cui non ci preoccupavamo di terminare le frasi, tanto uno sapeva dove l’altra voleva arrivare: era lo stadio della contemplazione di sé nell’altro. Tra di noi c’è stato un breve periodo in cui eravamo d’accordo su tutto e anche sul fatto che gli uomini e le donne non possono capirsi. Mi ricordo quel libro che avevi letto in cui gli uomini venivano da Marte e le donne da Venere, mi ricordo che l’incomprensione veniva spiegata in lungo e in largo e che secondo te quelle spiegazioni avevano fatto di noi una coppia tipica; uno di fronte all’altra, i nostri sessi reagivano come previsto. Poi ci è accaduto qualcosa che non è stato casuale, ma il risultato di una serie di eventi, credo che potremmo chiamarla usura. Un po’ prima che mi lasciassi sono rimasta incinta senza dirtelo e ho abortito; era la prima volta che ti nascondevo i miei pensieri. Prima che mi lasciassi, ho voluto fare qualcosa da sola. Credo che nel panico dopo la tua partenza avessi dimenticato il misero finale delle favole che si concludono con i bambini, avessi dimenticato anche che mi

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restava poco da vivere. Suppongo anche che per spirito di vendetta, tu dovessi ripagarmi con quel bambino o sarei rimasta per sempre incollata a te. Mio Dio, quanto detesto la forza degli uomini nel restare distaccati, mio Dio quanto vorrei essere un uomo per non dover dire certe cose. Qualcosa in me non c’è mai stato. Lo dico perché mia zia non è mai riuscita a leggere il mio futuro nei tarocchi, non è mai riuscita a dirmi una qualsiasi cosa sul mio avvenire, nemmeno quando ero una bambina non ancora devastata dalla pubertà. Penso che per alcuni il futuro non inizi mai, o solo dopo una certa età. Ogni volta che andavo da lei, le carte non le dicevano niente. Davanti a me, le carte erano solo carte, la mia presenza aveva il potere di smascherarle. Per delicatezza mia zia non me l’ha mai confessato, ma so che pensava che davanti a me le sue carte perdessero la terza dimensione, so che all’improvviso vedeva soltanto il sudiciume del cartone plastificato e il profilo stampato delle figure, vedeva solo un insieme muto di linee e colori. Ne osservava la grandezza e non trovava più alcuna differenza tra esse e il calendario sul muro, le sue carte e il calendario ormai le davano solo informazioni sullo spazio e il tempo a cui non si poteva aggiungere altro. Per lei non era la mia vita a perdere senso, ma la materia stessa di ogni futuro. So anche che la mia esistenza le faceva mettere in discussione tutto quanto; sicuramente, le dispiaceva che i tarocchi non sapessero rappresentare il dubbio, l’inerzia o il tempo immobile di chi attende la morte. Quando ho compiuto quindici anni, ho preso la decisione di uccidermi il giorno del mio trentesimo compleanno, e forse alla fine questa decisione si è op-

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posta alle sue carte non armate contro l’autodeterminazione delle persone. Con gli anni, la paura di non vedere niente turbava mia zia e le impediva di concentrarsi. Si reputava la responsabile principale, forse con me ha compreso lo smarrimento degli uomini che non si eccitano a letto. Era molto imbarazzante per lei e per me, ovviamente; significava che in tutta la mia vita c’era un errore che mi riguardava, significava che alla mia nascita doveva essere successo qualcosa, ad esempio che secondo la dichiarazione medica ufficiale, mia madre aspettava un maschio e una volta tra le sue braccia, mentre urlavo a più non posso verso di lei perché non mi facesse cadere, non ha creduto al mio sesso. Forse è per questo motivo che i miei primi ricordi sono legati all’azzurro; d’altronde, come si vede in certe foto dell’album di famiglia, le pareti della mia camera erano ricoperte da tappezzeria azzurra, e mi sembra anche che in altre foto le bambole che ho in braccio abbiano un’aria strana. Quando ci siamo incontrati per la prima volta al Nova, avrei compiuto ventinove anni un minuto dopo. Il problema tra di noi riguardava me, era la data del mio suicidio fissato per il giorno del mio trentesimo compleanno. Immagino che se non mi avessi lasciata, che se mi avessi amata fino alla vigilia dei miei trent’anni, la mia morte ti avrebbe segnato a vita, e non perché la solitudine del giorno dopo ti avrebbe dilaniato, e neppure perché in futuro non avresti potuto amare altre donne senza temere di ucciderle ancora con il tuo amore, ma perché nello shock della mia scomparsa avresti capito che ero appena fuggita con tutte le risposte, e anche perché in ogni ricordo che avresti conservato di me ti saresti imbattuto nel

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mio cadavere. Se ce la prendiamo con le persone che si suicidano è perché hanno sempre l’ultima parola. Non abbiamo mai parlato della mia morte imminente. Con te, ho imparato che ci sono cose molto più intime del sesso; ho imparato che nella vita cose come la disperazione non si condividono, è un fardello che ci si tiene per sé. Durante la nostra storia mi hai parlato molto delle tue ex e io ti ho parlato pochissimo dei miei; quando conosciamo un uomo, dovremmo pretendere da lui che le sue ex restino fuori, dovremmo avere la massima libertà di bruciare gli album fotografici e le lettere, dovremmo anche poter ripulire il suo sistema informatico da ogni traccia delle altre. Non c’è mai stato nessun problema di questo genere tra noi, sulla via d’uscita dei miei trent’anni; eri sano, e le persone sane lo sono troppo per capire che si possa pianificare la propria morte, le persone sane non rincorrono qualcosa che prima o poi, anche senza richiederla, arriverà. In ogni caso, parlarne finisce per mobilitare troppa gente; lo so perché quando a quindici anni ho affrontato l’argomento con i miei genitori mi sono ritrovata immediatamente in ospedale. In camera con me c’erano altre ragazze che ne avevano parlato, ricordo che una di loro aveva anche provato a farlo, aveva ingoiato cento aspirine. Che ancora vivesse mi sembrava miracoloso, probabilmente perché era il numero cento ad avermi impressionato; mi sembrava che quello fosse il numero esatto della dose mortale, era il punto di non ritorno verso il niente, mi ricordo che aveva suscitato l’invidia di molte. In ospedale, si diceva che tra le adolescenti malate nel mondo occidentale ci fossero quelle che volevano

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uccidersi con un’overdose di aspirine e quelle che perdevano peso fino a scomparire. Secondo le statistiche, quelle che si lasciavano morire di fame ci mettevano più tempo ma avevano più successo, ciò significava che morire poco a poco pagava sul lungo termine. Si diceva anche che morire di fame dava molta visibilità all’interno della famiglia, costretta a riorganizzarsi per non essere trascinata nel buco nero. Dopo essere uscita dall’ospedale sono diventata anoressica. In ospedale, dicevano anche che i ragazzi riuscivano a uccidersi in modo più efficace delle ragazze, le quali raramente raggiungevano lo scopo perché avevano una concezione troppo romantica del suicidio. Spesso, il giorno stabilito, indossavano i loro vestiti più belli e decidevano prima la posizione in cui volevano essere ritrovate. Si diceva che ne parlassero troppo e che quindi le si riconoscesse da lontano. Si diceva che la maggior parte di loro scriveva lettere che impiegavano una settimana a comporre e che cambiavano idea in corso d’opera, l’impulso passava; si diceva che scrivere servisse a informare i familiari, del resto nelle scuole superiori del Québec si mettono in guardia i genitori sul piacere delle loro figlie per la scrittura. Si dice loro che è strano scrivere in un’età in cui si dovrebbe ascoltare musica leggendo riviste di moda; si dice anche che scrivere può essere una richiesta d’aiuto, che in fondo scrivere significa avere cose da dire senza dirle e quindi nasconde un problema di comunicazione. Quando mi hanno ricoverata, ero in pediatria. Sembrava che tutti, i medici, la famiglia, i vicini, gli amici e tutta la scuola avessero una parola per me, ma non ho mai saputo quale fosse perché nessuno ha mai detto niente. Quella parola

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poteva essere “povera”, a significare “povera ragazza”; o “povera” poteva voler dire “deficit”, “bisognosa”, “handicap mentale”. Con l’avvento della modernità, il suicidio ha perso il suo lato eroico. Se mio nonno fosse ancora vivo, direbbe che ormai uccidersi non è più un oltraggio a Dio ma una sorta di fuga; direbbe che senza più la minaccia della condanna eterna in fondo alla strada, il suicidio è diventato un’opzione. Mia zia mi voleva molto bene nonostante i nostri mancati appuntamenti con il futuro. Io e lei avevamo lo stesso naso, grande e perfettamente dritto, ci piaceva anche l’idea che i morti avessero abbastanza influenza sulla materia per vendicarsi dei vivi. Quando le hanno comunicato la notizia del mio ricovero, è venuta in ospedale con i tarocchi. Davanti a me è indietreggiata, all’improvviso si è ricordata che avevo voluto morire e che fallire ancora una volta nel tentativo di vedere il mio futuro nelle carte non poteva che farmi del male. Ha preferito parlarmi con il cuore, mi ha detto che mi amava come una figlia e che ero un caso; non ho mai saputo se volesse dire unico o senza speranza. Poi ha voluto fare le carte a qualcuno, non poteva essere venuta per niente con i suoi tarocchi quando attorno a lei c’era tanta gente in difficoltà; in un moto di compassione, ha scelto la ragazza delle cento aspirine. Mia zia, illuminata all’improvviso dai tarocchi disposti a croce in cui la Luna e il Sole si confrontavano, le disse che il fatto di essersi salvata avrebbe segnato una svolta nella sua vita; essere sopravvissuta era un segno di grandi realizzazioni, da quel momento in poi, per lei, ci sarebbero stati molta calma e amore; sarebbe stata circondata dal bianco, da pareti bianche e grembiuli bianchi, senza dubbio

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il bianco avrebbe dominato la sua vita. Mia zia le disse che l’attendeva una professione di dedizione e che avrebbe vissuto una vita lunghissima durante la quale avrebbe certamente lavorato in ambiente ospedaliero; le disse che probabilmente sarebbe diventata medico o forse anche ostetrica, che avrebbe salvato delle vite o che le avrebbe portate dal ventre delle madri verso la luce, insomma che in ogni caso, la vita sarebbe stata una scommessa. Mentre mia zia le diceva queste cose, la ragazza piangeva come una bambina e, attraverso le lacrime, confessò che ci aveva già pensato, da piccola, a diventare infermiera come sua madre. Un mese più tardi abbiamo saputo che, dopo essere uscita dall’ospedale, aveva tentato ancora il suicidio usando delle lamette sui polsi. Quando l’hanno trovata, indossava un vestito bianco e aveva una lettera accanto. Quando quella sera mi hai visto al Nova, partivo in vantaggio perché sapevi già chi ero, conoscevi la mia reputazione. Sapevi che in passato avevo fatto la puttana, sapevi anche che avevo scritto un libro che aveva venduto e per questo pensavi che fossi ambiziosa. La prima volta che mi hai visto è stato da Christiane Charette dov’ero l’ospite d’onore. Accanto a me c’era Catherine Millet e dietro, su uno schermo, scorrevano delle foto di lei nuda. Seduto nel tuo salotto, hai visto in me quel qualcosa di inafferrabile che teneva le distanze e che stonava nel contesto di una trasmissione televisiva in cui avrei dovuto essere entusiasta di confessarmi davanti a un pubblico; hai visto il mio atteggiamento di reticenza e che invece avrebbe dovuto essere di gratitudine, consenso e collaborazione. Hai pensato che fossi una snob, che dovevo passarmela

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bene per respingere le domande con quell’aria irritata e che mai una donna come me si sarebbe interessata a un uomo come te; avevo avuto il riconoscimento dei francesi e tu non avevi ancora pubblicato, per te ero sicuramente una donna intelligente. Dal tuo salotto ero una conquistatrice, durante la trasmissione hai anche dimenticato Nadine. Conoscermi prima di conoscermi ti ha indotto in errore. Per esempio, la prima volta che mi hai visto in televisione non hai pensato che la telecamera ingrandisce le persone dando loro la capacità di saturare lo spazio, non hai pensato che così le persone diventano il centro del mondo e di tutti gli sguardi come le stelle all’estremità del telescopio di tuo padre; tuo padre era appassionato di astronomia e ogni sera andava al suo punto di osservazione sul tetto di casa vostra per contemplare stelle di cui cercava di cogliere il momento finale dell’esplosione, lasciandoti solo con i tuoi giocattoli e il tuo bisogno di stupirlo. Non hai pensato che sullo schermo di una televisione si oltrepassa di molto la propria grandezza reale e che l’azzurro degli occhi sembra sempre più azzurro; che sotto le luci del set, la pelle riveste all’improvviso il bagliore dorato del successo. Mio Dio, cosa darei per continuare a vivere sotto questa forma nella tua mente, mio Dio quanto avrei voluto non esserci mai incontrati al Nova, in rue Saint-Dominique. Un giorno mio nonno mi ha detto che c’è uno stretto legame tra l’amore e la distanza; mi ha anche detto che il giorno dopo la creazione dell’uomo, Dio si è ritirato lontano nel cielo. Quando ti ho conosciuto, ho conosciuto anche le tue tre ex: Nadine, Annie e Annick. Ho anche cono-

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sciuto le ragazze della rete ammassate nel tuo computer e che avevano i nomi raggruppati in grandi categorie: le Schoolgirls, le College Girls e le Girls Nextdoor, le Wild Girlfriends e quelle che portavano gli stivali che ti facevano sempre perdere la testa, le Fuckmeboots. Grazie a te ho imparato che in rete c’erano poche Women. Oggi so che tra noi c’è sempre stata troppa gente, so che l’essere stata una puttana in passato ti ha convinto di molte cose, ad esempio che avrei accettato tutto, mi ci dovevo solo abituare. Hai pensato, nelle tue manie da cliente, di avere già ottenuto la mia complicità. Sul tema dello squilibrio tra il sesso maschile e il sesso femminile, avevo parecchie teorie che ti facevano ridere. Tra le tante, dicevo che l’equilibrio tra gli uomini e le donne sarebbe potuto esistere se Dio avesse permesso che l’ovulazione si producesse con l’orgasmo e non con l’autonomia di un sistema che non tiene in considerazione il piacere né la necessità di svuotarsi e nemmeno gli stati d’animo che potrebbero ostacolare la liberazione dell’ovulo. A questo aggiungevo che se le donne avessero potuto scaricare la loro fertilità come gli uomini, gli uomini avrebbero perso i loro mezzi per eccitarsi e che quella questione della scarica delle donne li avrebbe assorbiti completamente, ne avrebbero parlato per ore al telefono con gli amici e avrebbero speso un capitale per essere sexy. Dicevo che la bipolarità che regge l’universo organizzando tutti gli atomi e facendo capovolgere i poli sud e nord ogni tot milioni di anni, avrebbe conferito agli uomini una natura da donna. Se mio nonno mi avesse sentito, si sarebbe sconvolto; mio nonno non credeva nell’evoluzione della specie umana, credeva solo nella sua scomparsa.

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Prima di me, avevi conosciuto solo more. All’inizio non ne ero sicura, ma adesso so che il mio biondo spalmato ciclicamente sui capelli castani ha avuto un ruolo nel tuo amore che non sapeva più dove andare dopo soli otto mesi di storia e che è tornato alle donne dei tuoi sogni. Dico questo perché ci sono delle costanti nelle tue ex, come i capelli scuri e i nomi che si assomigliano per la sonorità infantile della N e della I: Nadine, Annie e Annick. Nella vita ho avuto almeno dieci nomi ma tu mi hai conosciuta come Nelly; è strana questa ripetizione che tende verso un nome supremo come Nannie, la donna delle donne perché vera madre nel senso di seni da cui attingere e braccia tra cui dormire al principio dei tempi del tuo mondo, dopotutto perché la chiave del tuo cazzo non potrebbe trovarsi nel più piccolo significato di una lettera e un colore come il bruno non potrebbe essere la risposta a tutte le tue domande. Mi sono chiesta se dietro ai nomi degli uomini che ho amato ce ne fosse un altro, un nome da patriarca per esempio, un nome fatto per il mio nome, opposto al nome scelto da mio padre e capace di farmi superare i miei peggiori incubi; il nome del grande amore per il quale darei la vita, come si dice quando si vuole spiegare ai bambini che l’amore si paga a caro prezzo. Non ho trovato niente e forse è meglio, vedere il proprio destino nel nome degli altri può obbligare a vivere. Al punto in cui mi trovo, preferisco che i tarocchi di mia zia non si mettano a parlare. Al Nova usavo il mio vero nome con gli amici e Nelly con gli altri. È dunque legandomi ai nomi del tuo passato che sono arrivata a te. Ma resta il mistero

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del tuo amore perché io non ero mora e quindi il colore dei miei capelli non faceva parte dei tuoi piani. Tutti pensano che mi racconto delle storie perché esistono bionde focose e more brutte di cui non si parla, ma dimenticano che la bellezza di una donna non serve a niente se non piace a chi le interessa, e che una bionda non regge il confronto agli occhi di un uomo che ha bisogno del calore generalmente riconosciuto all’amore di una mora. Se non avessi preso la decisione di uccidermi dopo aver finito di scriverti, avrei potuto provare con te l’esperienza di farmi mora per vedere se mi avresti voluto ancora, ma a quale scopo permetterti di intravvedere, con la ricrescita, il mio vero colore sotto la tinta, ne ho abbastanza di queste tecniche di seduzione da laboratorio che troppo spesso mi hanno fatto male. Tu mi dirai che le more non meritano tutta questa attenzione perché al Bily Kun dove andavamo ogni venerdì, guardavi le bionde proprio quanto le altre, soprattutto perché le loro teste chiare erano punti di riferimento nell’oscurità del bar. Mi hai detto di un venerdì in cui, dall’alto del tuo metro e ottanta, potevi vedere che le bionde rimanevano immobili mentre le more non stavano ferme; mi hai detto che era perché le bionde non avevano bisogno di agitarsi per essere viste mentre le more dovevano sgomitare per attirare l’attenzione degli uomini. Grazie alle bionde biondissime, hai detto quel venerdì appoggiandomi la tua mano da gigante sulla testa, la tua mano enorme che sapeva toccarmi senza farmi male, che il bar sembrava un cielo stellato. Quel commento avrebbe potuto essere un complimento, uno vero, di quelli che fanno capire ai bambini quanto vale l’amore, se non avessi subito aggiunto che il tuo odio per l’Orsa

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Maggiore e Minore e per le vacanze in campeggio dove ciascuno racconta la propria filosofia spicciola sull’universo veniva dall’amore di tuo padre per l’astronomia. Tuo padre cercava in cielo delle novæ che avessero liberato, in una sinfonia di colori, tutto il loro gas o, meglio ancora, delle supernovæ esplose violentemente sotto la pressione atomica e talmente grosse da poterle osservare a occhio nudo; tuo padre amava nelle stelle il risultato spettacolare della loro morte. Spesso ti facevo notare che il nome delle sue amate stelle era anche il nome dell’after hour del nostro primo incontro e questo ti tormentava, ti sembrava che i fatti significativi della tua vita non potessero, anche metaforicamente, riallacciarsi a una dimensione spaziale né essere calcolati in anni luce. Ogni volta che si presentava l’occasione, e anche quando non si presentava, dicevi che l’universo era perso nelle sue eccessive dimensioni e che quindi non valeva la pena studiarne la geografia. Dicevi anche che per strappare tuo padre dalla distrazione avevi scelto di disinteressarti alle cose lontane per dedicarti a quelle vicine. Spesso mi sono chiesta se le ragazze della rete con cui ti piaceva masturbarti facessero parte del lontano o del vicino. Quando ci siamo lasciati definitivamente, il giorno in cui ho capito che dovevo morire per mia volontà e non schiacciata dalla tua forza troppo grande, eravamo d’accordo sul fatto che il Bily Kun ti spettasse di diritto, perché ci andavi prima che ci venissi anche io, e che a me toccava il Laïka, che tu detestavi. Quella sera ci siamo divisi i bar di Montréal per evitare di incontrarci dimenticandoci che Freddy, qualche giorno prima, aveva detto, parlando delle coppie che si sepa-

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rano, che vietare all’altro dei luoghi precisi della città era un modo per dargli un appuntamento. Oggi, il Bily Kun non fa più per me, né gli after hour organizzati dall’Orion, il raduno dei DJ di cui ti piacevano le serate ma con cui non volevi socializzare, forse perché molti erano ex di Nadine, ma soprattutto perché il vocabolario che li caratterizzava ti ricordava tuo padre. Purtroppo, tuo padre non perdeva mai occasione di portare in tavola, a cena, il nome di tutti i fenomeni cosmici pensati in funzione delle loro forme, come la miriade di nebulose dell’Elica, dell’Aquila, dell’Uovo, della Clessidra e dell’Occhio di Gatto. Tuo padre non perdeva occasione per intrattenervi, te e tua madre, con i venti stellari che facevano deviare gli astri dal loro corso oppure con le stelle blu il cui calore superava di molto quello delle stelle rosse o gialle. Ogni anno, l’Orion organizzava, in un immenso loft in rue Saint-Dominique, quattro grandi after hour in corrispondenza del primo giorno di ogni stagione: Gigante Blu il primo giorno di primavera, Nova il primo giorno d’estate, Buco Nero il primo giorno d’autunno e Big Bang il primo giorno d’inverno. C’era anche Pulsar per il nuovo anno, durante il quale una folla di persone, eccitate dall’anfetamina, solitamente richiamava le forze dell’ordine che temevano il crollo del pavimento sulla testa di quelli di sotto. Dopo i debutti dell’Orion, non eravamo mai mancati alle loro serate che erano le più belle della scena techno di Montréal; è strano pensare che in questi ultimi tre anni in cui, almeno dieci volte, siamo stati nello stesso luogo, non ci siamo mai incontrati. In questi tre anni non hai mai notato nell’oscurità del loft il mio profilo da bambola, e nel rumore della musica te-

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chno la tua voce non mi è arrivata. Il primo giorno di primavera di quest’anno non sono andata al Gigante Blu e il primo giorno d’estate che si avvicina a grandi passi come la mia deadline non andrò al Nova. Non voglio partecipare a una festa dove possa trionfare il mio dolore nel vederti con un’altra, non voglio tenerti d’occhio tutta la sera per rendermi conto che non mi guardi. A ogni modo, tutti sanno che la separazione di una coppia infetta i luoghi che prima frequentava e che il contagio può estendersi anche ai posti delle rivali capaci di cattiveria. Di rivali ne ho avute molte con te, come Nadine passata in ogni posto e anche in quelli meno frequentabili, Nadine conosciuta da tutti e che viene chiamata La Nadine, Nadine che è ovunque e che ci si aspetta sempre di veder arrivare durante la serata, Nadine che ha il dono di farsi amare da tutti e soprattutto quello di non amare nessuno, Nadine che ti ha tradito, che ti ha lasciato e da cui, forse, sei tornato. Chiunque può immaginare che una nullità come me abbia paura della propria ombra, si può anche capire che abbia paura di riconoscere in tutti i mori di Montréal la tua figura immensa che si fa strada tra la folla di pedoni che non hanno altra scelta se non quella di lasciar passare la tua massa scendendo dal marciapiede e proteggendosi il viso dalle raffiche di vento che si sollevano al tuo passaggio. Tutti capiscono il bisogno che ha questa donna di evitarti, limitandosi a frequentare le quattro strade del Quartiere Latino, per la paura di sentire su di sé il peso della propria piccolezza. La nostra storia aveva i suoi luoghi che non erano solo dei bar. Non molto lontano dal Bily Kun c’è il

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