Generation Kill

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Dialoghi

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Evan Wright

GENERATION KILL Da Nasiriyah a Baghdad


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Titolo originale: Generation Kill

Devil Dogs, Iceman, Captain America and the New Face of American War Copyright © 2004, 2008 di Evan Wright Pubblicato negli Stati Uniti da

The Berkley Publishing Group 375 Hudson Street, New York New York 10014

Un sentito ringraziamento alla rivista Rolling Stone, dove parti di questo libro sono apparse per la prima volta in forma diversa.

La citazione contenuta nella dedica è tratta da Il secondo libro della giungla di Rudyard Kipling (1895).

Nota dell’Autore:

In questo libro, alcuni uomini sono identificati solo con i soprannomi che hanno attribuito loro gli altri marines.

Traduzione dall’inglese: Fabio Bernabei

Fotocomposizione: Redigraf – Roma Stampa:

La Moderna – Roma Copyright edizione italiana GREMESE

2011 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-696-5


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Ai guerrieri di Hitman-2 e Hitman-3: La forza del branco è il singolo lupo.


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Ringraziamenti Questo libro non avrebbe mai visto la luce senza il coraggio dei Marines, che nella missione in difesa della Costituzione americana hanno permesso a un reporter di stare in mezzo a loro. Grazie a tutti gli uomini del First Recon, a partire dal Padrino, per avermi sostenuto e aiutato nell’accesso ai luoghi e nel fare le interviste. Un ringraziamento particolare a Nate per la sua saggezza, a Josh per la sua guida eccezionale, e a Brad, James, Gabe e Walt per la calda ospitalità e i tiri precisi. Questa iniziativa è stata appoggiata da Jann S. Wenner e ha avuto l’avvio con l’aiuto dei seguenti mentori: Allan MacDonell, Michael Louis Albo, Dylan Ford, Janet Duckworth, Karl Taro Greenfeld, Will Dana, il sergente di artiglieria Mark Oliva, Rex Bowman, Sean Woods, Richard Abate, Rob McMahon e David Highfill.

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Personaggi principali Aubin, Alex, capitano di corvetta Bodley, Christopher, capitano di corvetta Bryan, Doc, vedi Bryan, Robert Timothy, infermiere di seconda classe Bryan, Robert Timothy, infermiere di seconda classe Burris, John, caporale Capitan America Carazales, Jeffrey, caporale onorario Casey Kasem Chaffin, James, caporale Christopher, Nathan, vicecaporale Colbert, Brad, sergente Cottle, Robert, primo sergente Dill, David, sergente artigliere Dowdy, Joe, colonnello Eckloff, Todd, maggiore Encino Man Espera, Antonio, sergente Ferrando, Stephen, tenente colonnello Fick, Nathaniel, tenente Garza, Gabriel, caporale Graham, George, ufficiale sanitario Graves, Charles, sergente Gunny Wynn, vedi Wynn, Mike, sergente artigliere Hasser, Walter, caporale 7


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Holman, Caleb, caporale Holsey, Teren, caporale Hossein, Sadi Ali Jacks, Anthony, caporale Jeschke, Ryan, caporale Kocher, Eric M., sergente Lilley, Jason, caporale Lovell, Steven, sergente Manal Manimal, vedi Jacks, Anthony, caporale Mattis, James, maggior generale Meesh O’Connor, Daniel, capitano Pappy, vedi Patrick, Larry Shawn, sergente Patrick, Larry Shawn, sergente Patterson, Bryan, capitano Person, Josh Ray, caporale Redman, Daniel, caporale Reyes, Rudy, sergente Saucier, Michael, caporale Shoup, Michael, maggiore Stafford, Evan, caporale Stinetorf, Michael, caporale Sutherby, Ken, sergente Swarr, Jason, sergente artigliere Trombley, Harold, caporale onorario Valdez, Ray, sergente maggiore Weiss, Randy, sergente Wynn, Mike, sergente artigliere

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Capitolo uno

L

a mattina del 31 marzo, verso le nove, la squadra di Colbert e il resto del First Recon lasciano l’accampamento all’incrocio delle Route 7 e 17, in Mesopotamia centrale, per dare inizio alla prossima missione. L’obiettivo del giorno è Al Hayy, una cittadina di circa cinquantamila abitanti, una trentina di chilometri più a nord. È il quartier generale del partito Baath e la sede di una unità di diverse migliaia di soldati della Guardia Repubblicana. I seimila marines dell’RCT-1 prevedono di assaltare il centro di Al Hayy nelle prossime ventiquattro ore. Ma per primi muoveranno i marines del Recon. Come già per l’avanzata verso Al Gharraf, il battaglione lascerà la Route 7 e seguirà una pista in terra battuta che costeggia un canale. Inizialmente, l’RCT-1 procederà sull’altra sponda in parallelo con il First Recon. Poi questo avanzerà rapidamente, supererà una serie di ponti sul canale fino ad Al Hayy, proseguirà di buon passo in direzione nord e prenderà il principale ponte sull’autostrada alle porte della città, per bloccare la ritirata delle forze nemiche durante l’attacco dell’RCT-1. Durante la missione, il First Recon avrà meno effettivi del normale. La compagnia Alpha è stata temporaneamente staccata dal battaglione, per un’operazione separata in una cittadina irachena dove si presume sia stato linciato il marine disperso. Attraversiamo un ponte basso e stretto sopra il canale e, ancora una volta, i circa duecentonovanta marines del First 9


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Recon, suddivisi in cinquanta veicoli, sono l’unità più a nord nell’Iraq centrale. È la prima mattina calda da parecchi giorni. In cielo si scorgono nubi colme di pioggia, ma il sole riesce comunque a penetrare e l’aria è pulita. Il canale scorre alla nostra destra e in alcuni punti raggiunge quasi i trenta metri di larghezza. Il battaglione avanza in fila indiana lungo una via non lastricata e a corsia unica che attraversa il mosaico, ormai familiare, di campi erbosi, distese di fango tagliate da fossati e berme, palmeti e gruppetti di casupole. Alcune hanno le pareti a ridosso della strada e indirizzano gli Humvee tra i villaggi a sinistra e il canale a destra. Un terreno ideale per gli agguati. Sulla sinistra, superiamo dei contadini al lavoro nei campi. Colbert li guarda con diffidenza: «Questa è gente semplice. Sono loro che sono venuto a liberare». «Fuoco da armi leggere in testa!», dice Person, che riferisce il rapporto ricevuto via radio. Procediamo a circa trenta chilometri l’ora, quando colpiamo qualcosa di duro. Come dal nulla, sulla destra del veicolo spunta un cane selvatico, che balza in avanti e ringhia contro i finestrini. «Porca puttana!», sussulta Colbert, impressionato come non l’ho mai visto prima. Nonostante la paura e lo stress, Colbert rimane pur sempre un invasore educato. Quando superiamo altri contadini al lavoro nei campi, alza la canna dell’M-4 per non puntare nella loro direzione. Un paio di Cobra si abbassano alla nostra sinistra. Gli elicotteri corazzati, che non vediamo da qualche giorno, si spostano in cielo con la grazia di grossi martelli volanti. Si distinguono per il rumoroso sferragliare, sgradevole quanto il loro aspetto. «Più avanti i Cobra hanno individuato uno Zil – un camion militare russo – blu, con truppe irachene a bordo», afferma Colbert, anche lui riferendo un rapporto ricevuto via radio. Ci fermiamo. 10


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Capitolo uno

Da qualche parte, sulla strada, si sente il ronzio di una mitragliatrice. «Sparano sul nostro veicolo in testa», dice. Non ci muoviamo. Colbert fissa la sterpaglia accanto al finestrino. «Sarebbe l’ideale per una bella cacata», osserva. «Dovevo farla quando ci siamo fermati la prima volta». Stamattina ha cercato di svuotarsi l’intestino, ma è stato interrotto all’improvviso quando la missione è stata anticipata di due ore. Adesso, alle dieci di mattina, mentre le armi hanno già cominciato a sparare, il problema si è fatto pressante. Ormai ho una certa esperienza in fatto di marines. Vi sono alcuni punti saldi nel loro mondo, persino nel caos della guerra. Appena un’unità si ferma per la notte e finisce di scavare le fosse di protezione, gli uomini vengono spostati in una posizione leggermente differente e costretti a ricominciare daccapo. Quando una squadra riceve l’ordine di tenersi pronta a partire in cinque minuti, i militari sanno già che dovranno rimanere fermi per ore. Se l’ordine è di mantenere la posizione per tre ore, quello seguente sarà di muoversi in due minuti. Ma soprattutto, è un dato di fatto che Colbert non riuscirà mai a cacare in santa pace. Ci raggiunge Fick: «Hanno trovato dei lanciagranate RPG in un fosso sulla strada, a circa duecento metri da qui. Sappiamo che più avanti c’è un plotone iracheno appiedato». Un sibilo attraversa l’aria. Un chilometro più avanti, i Cobra volano rasentando i palmeti, lanciando razzi e sparando raffiche di mitragliatrice su un piccolo agglomerato di case dall’altra parte del canale. «Stanno attaccando i technical – veicoli civili con armi da fuoco montate sul retro – individuati tra quelle abitazioni laggiù», spiega Colbert. Dall’altra parte del canale, a circa settantacinque metri sulla nostra destra, i mezzi anfibi Amtrac dell’RCT-1 rombano attraverso la boscaglia, rasentando alcune casupole di fango. Quando si muovono, producono un rumore inconfondibile (come quan11


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do sei in una lavanderia automatica, riempi tutte le asciugatrici e regoli il calore al massimo). Se gli stai troppo vicino, ti danneggiano l’udito. E anche se avanzano tra gli arbusti, lungo il canale, fanno un fracasso terribile. Poco dopo, le mitragliatrici cominciano a sparare a raffica verso obiettivi in prossimità delle case. Riecheggiano i lanciagranate Mark-19. Non sappiamo a che cosa mirino. Riusciamo solo a scorgere i veicoli grigi al di sopra della boscaglia: avanzano a scatti per qualche metro, si fermano e lanciano dei piccoli lampi arancioni. Mentre ascolta i rumori del piccolo scontro a fuoco, Colbert si sporge dal finestrino dell’Humvee e cerca di scrutare la scena dal mirino del fucile. Poi si appoggia seccato allo schienale del sedile: «Spero solo che non orientino i colpi su di noi». Rimaniamo in attesa. «Vaffanculo», esclama Colbert durante il fuoco sporadico della mitragliatrice. «Stavolta la faccio». Salta fuori, si addentra nella boscaglia accanto al veicolo, si accovaccia e svolge l’incombenza. Person comincia a cantare “I Feel Like I’m Fixin’ to Die”, l’inno pacifista di Country Joe McDonald, da And it’s one, two, three/What are we fighting for?. Viene interrotto dalla radio, che riferisce l’ordine di muoversi. Chiama Colbert, accovacciato tra l’erba: «Ehi, ci rimettiamo in moto!». Colbert arriva salterellando e mezzo svestito, le bretelle della tuta MOPP oscillano avanti e indietro: «Ce l’ho fatta!». Tira un sospiro. Mentre Person porta avanti il veicolo, Colbert dice: «Credo proprio che alla prossima curva ci beccheremo un po’ di fuoco». Il suo istinto è prezioso. Il primo colpo di mortaio della giornata esplode in direzione del veicolo appena voltiamo strada. Nessuno sa dire da dove è arrivato ma, a giudicare dal rumore attutito, è probabile che sia caduto a qualche centinaio di metri di distanza. Ci fermiamo. Alla nostra sinistra, un pic12


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Capitolo uno

colo villaggio: quattro o cinque abitazioni con pareti di fango a circa quindici metri dalla strada, raggruppate sotto alberi di fico non molto alti. Di fronte, una recinzione grossolana di canne essiccate che fa da steccato per pecore e capre. Il gruppo di casupole ha il sapore primitivo dei presepi allestiti nelle piazze a Natale. Attorno scorrazzano i polli, e cinque o sei abitanti – donne in età avanzata vestite di nero, anziani in sudici abiti bianchi, tutti scalzi – ci fissano con aria intontita. Il luogo ha un aspetto quasi biblico, eppure in alto corrono i cavi elettrici che vanno a finire nelle capanne. I marines scendono dagli Humvee, si riparano dietro il cofano dei veicoli, lasciando aperte le portiere, e prendono a esaminare i tetti, le pareti e i campi con berme alle spalle del villaggio, per scovare eventuali nemici armati. Cinque minuti dopo questa fase di stallo, la gente del posto comincia ad avvicinarsi. I marines lasciano la posizione di copertura. Arriva l’interprete. Gli abitanti dicono che nel villaggio non ci sono forze nemiche. Frattanto, però, continuiamo a sentire esplosioni in lontananza. Seduto sull’Humvee, Person riceve un rapporto via radio: altre unità del First Recon, stanziate lungo quasi due chilometri di questo sentiero angusto, sono sotto l’attacco dei mortai nemici. Si avvicina un contadino scalzo. Ha il volto ossuto e scavato, a quanto sembra a causa di un’esistenza fatta di fame e stenti. Agita il pugno in modo concitato e, grazie all’aiuto dell’interprete, spiega con voce stridula che attende l’arrivo degli americani dalla prima guerra del Golfo. Un tempo viveva in una regione paludosa a maggioranza sciita, a sud del villaggio, ma Saddam ha fatto bonificare gli acquitrini e mandato in rovina i terreni coltivati per punire chi aveva sostenuto la ribellione del 1991. «Saddam crede che se riduce alla fame il popolo, noi ci sottometteremo come schiavi. È terrorismo per mano del sistema stesso». Chiedo al contadino come mai saluti con favore gli america13


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ni, che pure invadono la sua terra. «La nostra vita è già un inferno», risponde. «Se ci lasciate pregare e non date fastidio alle nostre donne, siamo pronti ad accettarvi». Capelli brizzolati, volto affilato coperto dalle rughe, il contadino avrà sui sessant’anni, buona parte dei quali, immagino, siano stati assai duri. Gli chiedo quando è nato: 1964. Gli dico che siamo coetanei. Si sporge verso di me e si indica il viso sorridendo. «Rispetto a te, sembro un vecchio», dice. «Tutta colpa di una vita passata sotto Saddam». Mi disorienta notare quanta consapevolezza di sé abbia quest’uomo. Quando vedo immagini di popoli lontani che soffrono, una delle poche consolazioni è la speranza che il classico bambino affamato con le mosche sul viso non si renda conto di quanto sia toccante il suo aspetto. Se il suo mondo è solo indigenza e squallore, magari la sofferenza non gli sembrerà tanto brutta. Questo contadino, invece, ha spazzato via anche tale confortevole illusione. Conduce un’esistenza squallida, e lo sa bene. Prima di allontanarsi, avverte l’interprete che siamo in prossimità di un’area dove il partito Baath è ben radicato. Chiede, infine, ai marines di accompagnarlo a Baghdad: «Voglio uccidere Saddam con le mie mani». A cinquecento metri dal secondo plotone, nei pressi del villaggio, i marines del terzo scorgono uno Zil avanzare a scatti tra i campi. Nel vano posteriore sono stipati circa venti giovani iracheni. Sono armati, ma hanno abiti civili. Il camion si ferma, e gli iracheni cercano di fuggire lungo il canale. I marines gli puntano contro le armi, e i giovani alzano le mani in segno di resa. Gli iracheni sostengono di essere contadini e di girare armati per timore dei banditi che infestano la regione; ma, prima di essere fermati, hanno lanciato delle borse nel campo. Le recuperano i marines. All’interno, documenti militari della Guardia Repubblicana e uniformi ancora zuppe di sudore. È palese che i giovani se ne siano appena liberati. Gli 14


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Capitolo uno

uomini del terzo plotone li prendono come prigionieri, gli legano i polsi con le manette di plastica (una sorta di versione robusta dei lacci per chiudere le buste della spazzatura) e li caricano su un camion del battaglione. Il battaglione procede per qualche chilometro. In lontananza, il ronzio delle mitragliatrici dei Cobra. I colpi dei mortai esplodono a intervalli di qualche minuto, ma presumiamo che siano ancora distanti diverse centinaia di metri. Qua e là, la strada sembra un tunnel, delimitato da staccionate di canne e alberi sporgenti. È il terreno più pericoloso in cui operare, dopo la città. Ma la cosa strana è che è oltremodo grazioso, e nel veicolo sembrano accorgersene tutti. Qualche giorno addietro, mentre il battaglione si spingeva verso Al Gharraf sotto il fuoco nemico, alcuni marines mi hanno riferito che quando hanno visto il blu abbagliante della cupola della moschea, nei pressi dell’ingresso, hanno avvertito una sensazione di pace, nonostante tutt’intorno vi fossero solo i colpi di artiglieria. In sostanza, ci sono cose alle quali si reagisce in modo automatico, anche in periodi di stress. Un sentiero fiancheggiato da alberi che curva accanto a un canale è ancora un’immagine affascinante, persino quando si è attorniati da forze nemiche. Durante una sosta, la squadra di Colbert è distratta da un gruppo di bufali d’acqua che si bagnano sulle sponde del canale. Trombley esce dal veicolo e si avvicina agli animali (nonostante ci arrivi nitido il rombo dei tanti colpi di mortaio), e Colbert deve ordinargli di tornare indietro. Il secondo plotone giunge in un altro villaggio, un gruppo di circa sette abitazioni, cinto da mura. Gli uomini di Colbert e gli altri ricevono l’ordine di smontare e perlustrare, casa per casa, questo e i vari villaggi lungo la strada. I vertici del battaglione sono sempre più preoccupati per il fuoco dei mortai. I Cobra non sono ancora riusciti a individuare le postazioni nemiche. Il piano prevede che i marines dislocati sul territorio si mostrino più 15


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aggressivi, nella speranza di raccogliere informazioni più accurate dagli abitanti del luogo. Colbert entra nel piccolo villaggio alla testa della squadra; si avanza per zone, i fucili pronti a fare fuoco. Spuntano diversi uomini. Colbert urla: «Giù!», mimando il gesto con l’M-4. Si gettano pancia a terra tra la sporcizia. Poi i marines si avvicinano, fucili spianati, e li costringono a intrecciare le dita dietro la nuca. Arriva anche una ventina di donne e bambini. Espera ha il compito di radunarli verso la strada. Tre colpi di mortaio esplodono duecento metri a nord-ovest, sollevando una nuvola di polvere e fumo dietro al villaggio. I marines non vi prestano attenzione. Un proiettile cade a circa settantacinque metri a ovest, come spuntato dal nulla. Quando arrivano così vicini, si sente una sorta di fffft! poco prima dello scoppio. Poi, in seguito all’aumento della pressione dell’aria, si ha la sensazione che il corpo venga investito da una scarica elettrica blanda. Ma ormai siamo fermi qui e non c’è niente da fare. I colpi cadono in modo del tutto casuale. Non è come quando c’è un nemico armato di fucile e rannicchiato nei campi, che cerca di inquadrarti nel mirino. Qui non ci sono bersagli individuali. Occorre farsi coraggio e abituarsi alla casualità dei proiettili. Raggiungo Espera, che sorveglia le donne e i bambini lungo la strada. Un’anziana in abiti neri gli grida qualcosa dimenando le braccia. «Mi fa venire in mente quando andavo a sequestrare l’auto a chi non pagava», dice il sergente. «Le donne sono sempre quelle che protestano con più rabbia. Non si sa mai come possano reagire. E non cambia niente se si tratta di una puttana nera di South Central o di qualche ricca troia bianca di Beverly Hills. Appena ti vedono, prendono a urlare. Non fa nulla se hai una pistola. In un certo senso, pensano che non possa succedergli mai niente». La squadra di Colbert si addentra nel primo gruppo di case. Le pareti di fango sono ravvivate da immagini di fiori e tramonti, ritagliate dalle riviste. La giornata si è fatta calda. Fuori siamo 16


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Capitolo uno

sui trentacinque gradi, ma le abitazioni rimangono fresche. Trombley ne è colpito: «Non sarebbe niente male vivere in una di queste». La camera da letto di una casupola lascia i marines disorientati. Le pareti sono molto semplici, ma ci sono un lettore cd, un televisore con dvd, specchi, il quadro di un cavallo su velluto, lampade elettriche e quello che ha tutta l’aria di essere un letto California King (telaio cromato e laccato nero, copriletto a macchie di leopardo). Sembra quasi di essersi imbattuti nel rifugio di qualche trafficante di droga di Los Angeles Est. Nelle vicinanze, una casupola senza finestre e chiusa a chiave. I marines provano a sfondare la porta a calci, ma è bloccata con il lucchetto. Lo aprono con le tronchesi e scoprono l’arsenale del villaggio: due fucili AK, cataste di marijuana e borse contenenti una polvere bianca, con ogni probabilità cocaina o eroina. Colbert sequestra i fucili, ma lascia stare la droga: «Non siamo venuti a rompergli i coglioni su come campano». Riprendiamo lentamente la strada, mentre i colpi di mortaio continuano a cadere per un’ora. Il caldo si fa più intenso. Le tute MOPP dei marines – che devono attraversare i campi, scavalcare muri e sfondare porte – sono zuppe di sudore. Minuscole zanzare sciamano dappertutto. Sembrano avere denti in miniatura. Scendono giù in nuvole nere e danno la sensazione di poter masticare collo, palpebre e orecchie della preda. Colbert si lascia cadere contro l’Humvee per una sosta, rosso in viso dalle palpitazioni impazzite del cuore. «Nell’ultimo villaggio stavo per crollare. Sono arrivato al limite». Succhia l’acqua dal tubo attaccato a un sacco CamelBak e comincia a cantare “I’m Sailing Away!”. Ma poi si ferma. «Troppo pericoloso», osserva. Poco più avanti, uno sparo. «Un cane ha cercato di attaccare un compagno e quello gli ha sparato», riferisce Person dopo avere ricevuto un rapporto via radio. 17


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«Ma che bisogno c’era?», commenta Colbert. Più in là esplodono due colpi di mortaio. Capitan America incede impettito, la baionetta pronta all’uso. «Charlie tra gli alberi!», lo prende in giro Colbert, citando una battuta del film Platoon. Alle tre e mezza del pomeriggio, raggiungiamo una curva del canale, a circa dieci chilometri a sud dell’obiettivo, Al Hayy. Più avanti c’è una moschea. Poco prima, i Cobra hanno aperto il fuoco verso i campi accanto al tempio, polverizzando le presunte postazioni dei nemici in agguato, ma adesso la situazione è tranquilla. Il battaglione si ferma, mentre gli ufficiali pianificano l’avanzata finale verso Al Hayy. Rimangono tutti seduti nell’Humvee di Colbert, in attesa di notizie. Dopo sei ore trascorse a cercare un inafferrabile nemico lungo questo sentiero secondario, gli uomini sono spossati e con i nervi logori. Niente più schiamazzi, volgarità e battute varie. Perfino Person si limita a fissare il finestrino con aria assente. Il silenzio è rotto da un suono nuovo, insolito, una serie di sibili acuti. I proiettili traccianti arancione scuro squarciano l’aria come fulmini e vanno a sbattere con violenza contro le berme davanti e dietro l’Humvee. Sull’altra sponda del canale, ci sparano proiettili di grosso calibro. Alcuni li vediamo rimbalzare e ruzzolare via poco dopo aver colpito il terreno, a pochi metri da noi. Per un istante, rimaniamo solo a osservare, come ipnotizzati. «Person, scendere dal veicolo!», ordina Colbert. Balziamo tutti fuori dal lato sinistro dell’Humvee, per evitare il fuoco in arrivo sulla destra. Saliamo carponi su una berma di un metro circa e ci rifugiamo dall’altra parte per ripararci dall’attacco. Le raffiche colpiscono a ventaglio la fila degli Humvee con un rumore bizzarro – zip zip zing –, che ricorda un po’ i buffi 18


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Capitolo uno

proiettili sparati nei cartoni animati del pistolero Yosemite Sam. Gli altri marines saltano fuori dai veicoli e si mettono al riparo. Dietro la berma, Colbert esclama: «È un maledetto Zeus!». “Zeus” è il nomignolo dello ZSU, un potente mezzo di artiglieria antiaerea multicanna di fabbricazione russa; più tardi, altri marines dicono che, in realtà, gli iracheni stavano usando un mezzo leggermente diverso, lo ZPU. Al di là del fiume, alcuni uomini del battaglione rispondono al fuoco in modo casuale e inefficace, con fucili e mitragliatrici calibro .50. Ma quando arrivano le altre raffiche dello Zeus, si precipitano al riparo anche loro. Nessuno riesce a individuare la posizione del nemico. I marines, che spesso si fanno beffe delle armi altrui, si rannicchiano nel tratto di terra più vicino. L’intero battaglione è immobilizzato. L’unico che vedo sporgere la testa è Trombley. Quando si è lanciato fuori dall’Humvee, ha avuto la presenza di spirito di afferrare il binocolo. Adesso, scorrazza sulla berma, vi si siede tranquillo come una tartaruga e scruta l’orizzonte. Si guarda intorno euforico per questa nuova esperienza terrificante. Lo vedo addirittura sorridere. «Che ficata», sussurra, mentre un’altra salva di Zeus gli sibila accanto. Poi aggiunge: «Credo di vederlo, sergente». Colbert e Person salgono sulla berma, con maggiore cautela di Trombley. Su indicazione di questi, individuano dove sembra si trovi l’artiglieria nemica, a circa un chilometro di distanza. Colbert ordina a Hasser di prendere posto al lanciagranate Mark-19 sul veicolo e, mentre i colpi di Zeus continuano a fischiarci sopra, la squadra dirige metodica il fuoco verso la postazione nemica. Un Cobra si abbassa sul campo davanti al canale per unirsi alla caccia, ma si impenna di nuovo quando da terra lo attacca la contraerea. I colpi del nemico mancano l’elicottero, che torna indietro all’attacco. Il Cobra fa fuoco con il cannone Gatling da 20mm, facendo 19


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esplodere un camion bianco parcheggiato nel campo. Poi il pilota spara un missile Hellfire verso la presunta batteria contraerea dello Zeus. Infine, a corto di carburante, il Cobra è costretto a interrompere l’attacco. Le differenti prospettive sul terreno producono versioni discordanti degli eventi. Kocher, circa centocinquanta metri sopra la posizione di Colbert, osserva il camion bianco colpito dal Cobra e ha l’impressione che sia una delle cose peggiori mai viste in guerra. Più tardi dice: «C’erano dei civili là dentro, li ho visti bruciare vivi!». Il capitano Daniel O’Connor, del First Recon, anch’egli intento al controllo degli attacchi aerei del pomeriggio, dichiara: «Non ero certo che il camion bianco fatto saltare in aria dal Cobra fosse del nemico ma, ogni volta che spuntava, le cose si mettevano male, così ci hanno autorizzato a eliminarlo». Dall’altro lato del fiume, si alzano due colonne di fumo nero come l’inchiostro. Il fuoco dello Zeus è cessato. Chiedo a Trombley come mai non sembrava che avesse paura, ma anzi apparisse piuttosto calmo, quando si è seduto sulla berma e ha individuato la posizione della mitragliatrice che, ai miei occhi, stava terrorizzando tutti i marines del battaglione. «So che suonerà strano», risponde, «ma dentro di me desidero provare cosa si sente a essere colpiti. Non che voglia essere ucciso, ma sono senz’altro più nervoso di fronte a un quiz in onda alla tv, che non qui». Apre con voracità il sacchetto di plastica con la sua razione pasto. «Tutti questi scontri a fuoco mi mettono una fame incredibile», dice con un sorriso luminoso. «E tutta questa stupidità mi fa venire voglia di uccidermi», controbatte severo Person, una delle prime volte che lo vedo scoraggiato in Iraq. Grazie all’intervento dei Cobra, abbiamo spazzato via diverse batterie contraeree nemiche, eppure alla curva del canale ricominciano a piovere sul battaglione i colpi di mortaio. I marines 20


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Capitolo uno

ricevono l’ordine di interrompere i contatti e di ritirarsi di un paio di chilometri. Il battaglione lascia il sentiero e si addentra in una depressione fangosa circondata da berme. I veicoli arrivano insieme. Attendiamo che i Cobra facciano rifornimento, per accompagnare il battaglione nell’avanzata finale verso Al Hayy. Il fuoco dei mortai si fa più costante. A ogni ondata di bombe in arrivo, le esplosioni sembrano un po’ più forti, un po’ più vicine. Le prime raffiche atterrano a oltre un chilometro di distanza, poi passano a circa cinquecento metri dal First Recon. La progressione regolare dei colpi lascia intendere che nel territorio circostante vi sia un osservatore nemico che orienta il fuoco con scrupolo. I cecchini dei marines si portano fuori dal perimetro e provano a individuare un uomo o una donna con una radio tra i pastori, i contadini e gli altri civili nei campi. Il veicolo di Colbert è parcheggiato accanto a un’autocisterna per carburante del battaglione. Non mi piace stare vicino a 3800 litri di diesel durante un attacco di mortaio. Raggiungo il camion dove sono tenuti i circa venti prigionieri di guerra che il terzo plotone ha preso stamattina presto. Sono stipati nel retro del pianale, seduti sulle panche disposte lungo entrambi i lati. Durante l’attacco dello Zeus, mentre i marines saltavano fuori dal veicolo per mettersi in salvo, i prigionieri lasciati nel camion hanno rosicchiato le manette di plastica. I marines prendono la corda per paracadute e legano di nuovo gli iracheni con i polsi dietro alla schiena. Sono tutti uomini sui vent’anni, indossano jeans o pantaloni neri e magliette delle squadre di calcio, uno addirittura una T-shirt con il logo della Opel. Ma questi non sono come i docili prigionieri incontrati all’inizio del conflitto. Molti hanno un atteggiamento sprezzante. Fissano i marines con fare risentito e si dimenano sui sedili per liberarsi dalle corde che gli legano i polsi, o per impedire di essere legati di 21


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nuovo. Fanno smorfie esagerate e si lamentano in arabo ad alta voce. Stringergli forte i polsi fino a fargli sanguinare la pelle è una sorta di punizione passiva. Qualche marine con cui parlo più tardi se ne vanta, come pure va orgoglioso di prenderli a schiaffi in faccia o di dargli botte sui testicoli quando non lo vede nessuno. Devo riconoscere che è davvero complicato avere a che fare con venti ragazzi che fanno di tutto per non essere legati. Gli americani, come è ovvio, sono addestrati a resistere e magari a sfuggire all’eventuale cattura, ma non è meno irritante quando il nemico lo fa con loro. «Che cosa ci farebbero, se fossero loro a tenerci prigionieri?», urla un marine nelle vicinanze. «Come pensi che ci tratterebbero?». «Questi stronzi dovremmo legarli sul cofano degli Humvee, prima di andare incontro al prossimo agguato», dice un altro. Per calmare la tensione crescente, interviene un ufficiale con vaghe nozioni di arabo. In un linguaggio zoppicante per quanto garbato, comunica ai prigionieri che non subiranno percosse né saranno giustiziati, e chiede loro di cessare ogni tentativo di fuga, altrimenti i marines saranno costretti a mettergli dei sacchi di tela in testa. A queste parole, i prigionieri si calmano subito. Due ragazzi nella parte posteriore del camion, entrambi con baffi alla Saddam, cominciano a fare i buffoni per fingere di volersi ingraziare gli americani. Uno dice in inglese: «Fanculo Saddam!»; ogni volta che lo ripete, il compagno scoppia a ridere. Poco dopo, anche gli altri si uniscono allo spettacolo, tra grida e smorfie da pagliacci, e all’improvviso il camion assume l’aria di un piccolo circo viaggiante di soli clown. Una salva di mortaio pone fine al clima allegro. I colpi esplodono a circa duecento metri di distanza, con colonne di fumo che si levano dal campo vicino. I prigionieri cercano di abbassarsi rapidi, ma hanno i polsi legati ai lati del camion. Uno si dimena terrorizzato sulla panca. Sul camion si sente un odore 22


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Capitolo uno

forte e acre. A quanto sembra, ha avuto la classica reazione da stress da combattimento e se l’è fatta nei pantaloni. Dopo essersi inoltrati nel campo, i due tiratori scelti, Pappy e Reyes, si accovacciano dietro a una berma e predispongono i fucili M-40. Scorgono un uomo che sospettano sia l’osservatore avanzato dei mortai. È a bordo di un pick-up bianco parcheggiato nel campo, a circa un chilometro di distanza. Considerato che in guerra il concetto di “prova” è in un certo senso più incerto, l’uomo nel furgone si becca una condanna a morte perché colpevole di tenere in mano due oggetti, in apparenza un binocolo e una radio. Pappy spara tre colpi, mirando al centro della sagoma. Quando il fucile tace, il cecchino si ferma a osservare il bersaglio. Riverso in avanti, l’uomo sembra morto. Per Pappy, è la seconda eliminazione di un bersaglio in Iraq. Tornato all’Humvee, però, non sembra che ne vada orgoglioso. Quando i compagni gli chiedono con insistenza i dettagli dell’operazione, preferisce non parlarne. Si limita a rispondere: «È andato». Frattanto, il fuoco dei mortai è cessato. È evidente che il tiratore scelto ha ucciso l’uomo giusto. Fick raduna i capisquadra per illustrare la fase finale della missione. Tra cinque minuti il battaglione muoverà di nuovo verso l’ansa del canale, si spingerà oltre la moschea, proseguirà per qualche chilometro attraverso villaggi densamente popolati, per poi avvicinarsi al margine occidentale di Al Hayy. La parte più complicata sarà entrare in città. Il convoglio dovrà passare per una serie di curve a S e superare due ponti sui canali. I marines dovranno quindi percorrere in fretta i due chilometri di territorio urbanizzato, fino a raggiungere una strada in salita. Da lì, passeranno a una rampa di sterrato, si immetteranno nell’autostrada principale in uscita dalla città e prenderanno un ponte giudicato strategico. L’obiettivo è di isolare la via di fuga primaria da Al Hayy in vista dell’assalto dell’RCT-1 al centro abitato, previsto nell’arco di una decina di ore, intorno alle quattro del mattino. 23


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Dopo aver dato istruzioni agli uomini, Fick mi prende da parte: «Questa missione è simile a quella situazione di merda di Black Hawk Down». E aggiunge: «Il fatto che non siamo mai noi ad attaccare per primi i nemici, ma sono sempre loro che ci sono addosso, sta logorando i miei uomini. Durante l’addestramento dei marines del Recon, la missione si considera fallita ogni volta che veniamo colpiti per primi. E purtroppo non importa se ci difendiamo bene dai possibili agguati, perché in teoria dovremmo essere noi, non il nemico, a dare inizio allo scontro». Quando il convoglio si sposta dalle distese fangose in cui si è posizionato e comincia ad avanzare in fila verso Al Hayy, i Cobra di scorta riversano razzi e colpi di mitragliatrice su un palmeto vicino. Colbert osserva l’attacco: «Questo paese è infido e pericoloso; prima ne usciamo, meglio è». Tra gli uomini nessuno parla mai di religione, eppure capita di vedere qualche marine pregare in silenzio. Giunti in uno spiazzo poco prima della moschea, il veicolo di Espera affianca quello di Colbert. Andranno entrambi a quaranta chilometri l’ora. Intravedo il caporale Jason Lilley, ventitré anni, alla guida del mezzo di Espera, stringere il volante e guardare fisso davanti senza battere ciglio. Noto che muove le labbra. Più tardi, mi dirà che, sebbene non sia un bravo cristiano, ripeteva all’infinito «Signore, aiutaci». Superata la moschea, le mitragliatrici e i piccoli razzi, gli zuni, sparati dai Cobra sollevano una nuvola di polvere massiccia che avvolge il convoglio. La strada scende e si snoda tra piccoli villaggi fiancheggiati da alberi. Qualche camion da trasporto al centro dell’autocolonna è preso di mira dal fuoco nemico. Almeno uno ha i pneumatici a terra, ma procede comunque sui cerchioni. Raggiungiamo il limite della città e attraversiamo il primo ponte che immette in un’area industriale di bassi edifici in cal24


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Capitolo uno

cestruzzo; alla nostra destra, un gruppo assai denso di condomini. Con tutta la polvere alzata, diversi mezzi di rifornimento del Recon sbagliano strada. La squadra di Colbert e il resto del plotone rimangono indietro per coprirli, mentre gli autisti capiscono di aver fatto una stupidaggine e raggiungono il convoglio. Ci fermiamo per diversi minuti, circondati da pareti e finestre dall’aria ostile. Sentiamo lo sferragliare di AK e mitragliatrici, ma non vediamo i tipici lampi delle armi da fuoco. La compagnia Charlie, che adesso attraversa il secondo ponte nella curva a S, viene attaccata da un edificio a circa settantacinque metri. Al comando del veicolo in testa c’è il sergente Charles Graves, un tiratore scelto di ventisei anni. Un colpo di RPG esplode accanto al suo Humvee. I frammenti entrano dal tettino aperto e feriscono un marine alla gamba, ma non è grave. Il mezzo è preso di mira dalle sventagliate delle mitragliatrici. Un colpo stacca un pezzo di metallo a qualche centimetro dalla testa di Graves. Il mitragliere del Mark-19 apre il fuoco sull’edificio che nasconde i nemici. La costruzione è grossomodo gradevole, una struttura in stucco celeste piuttosto lunga, con tanto di archi al secondo piano. L’artigliere di Graves le scarica contro una raffica da trentadue colpi, che lasciano grossi buchi sulla facciata e fanno saltare parte del tetto. Osservandone la distruzione, mentre la sua squadra si affretta a superarla, Graves – come mi rivelerà più tardi – pensa: “Cazzo, bello davvero!”. Dall’edificio non sparano più. La squadra di Colbert ha recuperato i camion dei rifornimenti che si erano smarriti. Voltiamo verso la costruzione colpita dalla compagnia Charlie. Quando superiamo le rovine ancora fumanti, Person grida: «Vaffanculo, stronzi!». Davanti all’edificio, un arabo ancora vivo giace in mezzo alla strada. Indossa una sudicia veste bianca ed è schiacciato tra due pile di macerie. Supino, le mani sugli occhi, l’uomo è a meno di due metri da dove passano i nostri mezzi. Dopo essere stati ber25


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Generation Kill

saglio del fuoco ostile per tutto il giorno, la vista di un altro essere umano, sia pure un combattente nemico, rannicchiato per terra e impotente, ci dà una sorta di malsana sensazione di trionfo che fa sentire forti e depressi al contempo. Tutti i marines che passano accanto all’uomo, gli puntano contro le armi ma senza sparare. Non costituisce una minaccia, e lo dimostra quel modo fanciullesco di coprirsi gli occhi con le mani. Per i marines non merita nemmeno di essere ucciso. Superato il secondo ponte, il convoglio accelera fino a sessanta chilometri l’ora. La zona urbanizzata di Al Hayy scorre alla nostra destra. Più avanti, la compagnia Charlie è fatta oggetto di tiri sporadici di AK provenienti dalla città. I marines rispondono al fuoco. Il caporale Caleb Holman, diciannove anni, addetto al calibro .50, vede un uomo rialzarsi in piedi tra la vegetazione bassa, a circa cinquanta metri dal suo Humvee, verso il centro del convoglio. Spara una raffica di proiettili penetranti SLAP: la testa dell’uomo salta in aria.

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