Kafka in love

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Narratori Francesi Contemporanei

Kafka in love


NARRATORI FRANCESI CONTEMPORANEI Collana diretta da Gianni Gremese

NELLA STESSA COLLANA: Laurent Seksik Gli ultimi giorni di Stefan Zweig Philippe Vilain Non il suo tipo Antoine Choplin L’airone di Guernica Natalie David-Weill Le madri ebree non muoiono mai


Jacqueline Raoul-Duval

Kafka in love romanzo

Traduzione dal francese di Giulia Castorani

GREMESE


Titolo originale: Kafka, l’éternel fiancé © Flammarion, Paris, 2011 Stampa: Tipografica Artigiana – Roma Copyright dell’edizione italiana: 2013 © GREMESE New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere registrata, riprodotta o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-757-3


I FELICE - Dal 13 agosto 1912 al 27 dicembre 1917 -

«Posso amare soltanto ciò che posso collocare tanto in alto sopra di me che mi diventa irraggiungibile.» «Lei mi è irraggiungibile, devo rassegnarmi, e le mie forze sono in condizioni tali che lo fanno con gioia.» Lettere a Max Brod



Fin dal primo sguardo Quel 13 agosto 1912, all’ora tardiva in cui inizia questa storia di amori singolari, un vento da sud ha spazzato via le coltri di nebbia e i rovesci di pioggia che si sono abbattuti su Praga durante tutta la giornata. Ora il cielo è stellato, una vera notte d’estate. Nel cuore della città vecchia, nella Obstgasse quasi deserta, un giovane uomo in completo chiaro, senza panciotto, con un cappello di paglia in testa, cammina a passo svelto. Davanti a lui, sul selciato sconnesso, pozzanghere d’acqua scintillano alla luce dei lampioni. Come in una corsa a ostacoli, salta a piedi uniti da una pozzanghera all’altra, da un riflesso all’altro. Qui un frontone decorato, lì l’ogiva di una finestra, l’architrave di una chiesa, il braccio proteso di un apostolo, un piccione che si alza in volo. In accelerazione, vede sfilare ai suoi piedi vari frammenti della sua città. Lo si può sentire fischiettare “Collection de boutons au Louvre”, che Léonie Frippon canta da qualche giorno al cabaret Wienerstadt. Con una grande 7


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busta rossa sotto il braccio, come accade da molte sere, questo giovane si sta recando a casa del suo amico, Max. Lui e Max Brod si sono incontrati per caso all’università, il 23 novembre del 1903. Stavano preparando un dottorato in legge, con la stessa indifferenza. Max, giovane capofila, animava un circolo di studenti e organizzava conferenze sulla letteratura e la filosofia, le sue passioni. Durante una serata dedicata a Schopenhauer, Max definisce Nietzsche un ciarlatano. Ne segue un dibattito, il pubblico lo applaude. Quando la sala si svuota, viene apostrofato da un ragazzo. Non si può dare del ciarlatano a Nietzsche. In poche frasi, questo sconosciuto espone il suo pensiero. Voce ferma, atteggiamento timido. Max osserva questo giustiziere, che lo supera di una testa. È colpito dall’eleganza del suo abbigliamento, cravatta e collo diplomatico, e dall’intensità del suo sguardo, due occhi neri in cui brucia una fiamma. Pensa a un eroe di Dostoevskij. La magrezza e la distinzione di questo studente dagli zigomi alti lo mettono in imbarazzo, si rimprovera i suoi eccessi con la birra e i cibi grassi, il suo disprezzo per lo sport. Senza avergli lasciato il tempo di rispondere, il giovane è già scomparso. Da dove è uscito questo fantasma? Non l’ho mai visto, non si è mai unito a nessun gruppo, non ha mai preso la parola. Ma forse legge i filosofi con molta più attenzione di ciascuno di noi? L’indomani mattina, Max riceve una lettera dallo sconosciuto: questi gli presenta le sue scuse, ma sviluppa le proprie critiche. Argomenti vagliati con la massima cura, stile estremamente lineare. Max ha 8


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conservato quella lettera. E le decine di altre che l’hanno seguita. Molte sono decorate con piccoli disegni, strane marionette nere sospese a fili invisibili. I due studenti sono diventati inseparabili. Si entusiasmano per gli stessi libri e gli stessi film, il cinematografo li affascina. Nel tardo pomeriggio li si vede uscire dalla città per fare lunghe passeggiate in campagna. La sera assistono agli stessi spettacoli, applaudono e sostengono il teatro yiddish, frequentano gli stessi caffè. Max gli presenta attori, giovani romanzieri, poeti; conosce i cenacoli, le compagnie, i cabaret e i music hall più interessanti della città. Max gli rivela che scrive. Ma ha paura di sottoporgli i suoi racconti, non sono all’altezza delle esigenze letterarie del suo amico. Esigenze che lo infastidiscono ancor più del suo ascetismo. Il suo amico non beve, né alcol né tè né caffè, non fuma, dorme con la finestra aperta nel cuore dell’inverno, nuota nei fiumi ghiacciati, si nutre appena. Fin lì, passi. Ma per di più seziona un testo, lo scarnifica senza pietà: quella metafora non ha nulla a che vedere con la letteratura, quella frase gli sembra un borbottio, quell’altra suona male, quelle due stridono l’una contro l’altra, come la lingua su un dente cariato! Con una voce che sembra una preghiera, ripete: «Bisogna tirar fuori le parole dal vuoto!». «Di quale vuoto parli?» chiede Max. Come risposta il suo amico vanta le delizie della banalità, elogia il dettaglio. «L’odore della pietra umida in un vestibolo» dice, dilettandosi di ogni singola parola, è così che bisogna scrivere.

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Quel 13 agosto 1912, all’ora tardiva in cui inizia questa storia di amori singolari, il giovane in completo chiaro che correva dietro i riflessi della sua vecchia città suona alla porta dell’amico. «Hai visto l’ora?» si indigna Max, aprendogli la porta. «È sempre in ritardo» esclama una voce dalla camera accanto. «Finché si ostinerà a mettere indietro il suo orologio di un’ora e mezza, sarà sempre in ritardo con tutti. Che razza di idea. Mettere indietro l’orologio di un’ora e mezza!» Il giovane si mette a ridere. Lascia il cappello nell’anticamera ed entra nella sala da pranzo, cui seguono una biblioteca e una piccola sala per la musica. Otto, il fratello di Max, è seduto al pianoforte e sta suonando la sonata in si minore di Liszt. La madre è al telefono, il signor Brod cerca un libro sugli scaffali. Salutano con la mano il loro visitatore serale. Nella sala da pranzo, una ragazza con indosso una camicia bianca sta cenando da sola. Vedendola, il giovane per un momento sembra indeciso. Poi si dirige verso di lei, le tende la mano e si presenta: «Franz Kafka». Le si siede di fronte e la osserva con una tale fissità che lei abbassa gli occhi ed esita prima di rispondere: «Felice Bauer». «Lei non è di Praga. Da dove viene? Viaggia sola? Per quanti giorni resterà qui? Come conosce i Brod? Lavora?» Felice Bauer si rilassa, e con il medesimo tono a scatti: «Abito a Berlino. Sono nubile. Ho legami familia10


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ri con i Brod. Sì, lavoro. Dirigo il servizio di dittafono della società Karl Lindström. E parto domani mattina. Le basta?». «Mi perdoni, faccio sempre troppe domande. Posso tenerle compagnia?» Senza aspettare una risposta che non arriva, Franz Kafka estrae dalla sua busta rossa una custodia per fotografie e ne svuota il contenuto sul tavolo. «Signorina, posso mostrarle queste fotografie? Le abbiamo scattate io e Max a Weimar, dove abbiamo passato qualche giorno insieme. Perché sta cenando da sola a questo grande tavolo?» «Sono rientrata tardi. Ero a teatro. Nessuno mi ha aspettata.» Rivolge un sorriso imbarazzato a Max, che si è appena seduto accanto a lei. Franz le porge una foto: «Ecco prima di tutto la casa di Goethe, con le sue quattordici finestre sulla strada e…». «Le hai contate?» esclama Max. «Io invidio tutto quello che riguarda Goethe, assolutamente tutto. Il suo salone. Lo studio dove lavorava, quella scala realizzata da un forzato a partire da un’enorme quercia e senza neanche un chiodo, le sue porcellane cinesi, il suo busto opera di David d’Angers, il suo teatro all’aria aperta con due file per gli spettatori. E anche, sopra al suo feretro, quella corona d’alloro in oro offerta dalle donne tedesche di Praga.» Sceglie altre fotografie: «Con una mancia al guardiano abbiamo potuto fotografare tutto, anche la camera da letto con il suo baldacchino. La vuole vedere?». 11


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Felice guarda con attenzione ogni fotografia. Ha spostato da parte il suo piatto ancora pieno. «La sua carne si raffredda» dice Max. «Nulla mi ripugna quanto le persone che mangiano continuamente.» Una domestica viene ad annunciare al signor Brod, che sta leggendo nella biblioteca, che lo vogliono al telefono. Si alza e lascia la stanza. «E invece a me nulla ripugna quanto il campanello di quel telefono» si lamenta Max. Felice racconta la prima scena dell’operetta Das Autoliebchen, che ha visto al Residenz Theater: «Si sente suonare il campanello del telefono quindici volte di seguito. Qualcuno, utilizzando le stesse parole, invita uno per uno tutti i quindici personaggi presenti sulla scena ad andare all’apparecchio». «Per fortuna non siamo così tanti» risponde Max. Felice continua a guardare le foto che Franz commenta: «Ecco la casa di Liszt. Sembra che lavorasse solo dalle cinque alle otto. Dopo andava in chiesa, quindi tornava a letto e a partire dalle undici riceveva i visitatori. In questa foto potete vedere la casa di Schiller. Salotto d’aspetto, stanza di ricevimento, studio, alcova. Una buona disposizione per un appartamento da scrittore». Max afferra una foto che Franz cercava di nascondere. «Guardi piuttosto Franz che nuota. Viaggiare con lui è un vero inferno. A ogni tappa, a costo di vagare per intere ore, dobbiamo trovare un albergo sen12


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za neanche un cliente, senza un cane nei dintorni, senza alcun rumore e, oltretutto, vicino a un ristorante vegetariano e a una piscina all’aperto. Se non nuota, se non rema, se non cammina tutti i giorni, è insopportabile.» «Viaggiate spesso insieme?» «Sì. Siamo stati in Italia: Brescia per vedere gli aeroplani, Milano, Riva, Lugano. Zurigo. E due volte a Parigi. Otto è venuto insieme a noi. Mi ha aiutato a sopportare le stravaganze del nostro naturista.» «Lei è un naturista?» esclama Felice. «Non proprio… Mi chiamavano “l’uomo dalle mutandine da bagno”. In effetti questa estate, alla colonia di Jungborn, sono stato colto da una certa nausea alla vista di quella gente completamente nuda, senza alcun pudore. Quando corrono la situazione non migliora. I vecchi poi che saltano oltre i mucchi di fieno non mi piacciono affatto.» Ridono tutti e tre. «Allora perché ci va?» «Sono persone tranquille che vivono a stretto contatto con la natura. Dormire sotto le stelle, camminare a piedi nudi sull’erba, il mattino presto, è molto piacevole.» Max mostra a Felice un’altra fotografia: «Guardi Franz davanti al giardino di Werther con Grete; mangiano ciliegie». «Chi è Grete?» «L’incantevole figlia del guardiano. Franz l’ha seguita giorno e notte. Confessalo, ne eri innamorato. Le hai regalato cioccolatini, garofani, un cuoricino, una catenina, e non so più cos’altro. Le avresti chiesto di sposarti se lei avesse risposto alle tue avances.» 13


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Max guarda l’orologio: «Sono già le undici, e non abbiamo ancora deciso l’ordine dei tuoi racconti. Devi assolutamente mandarli domani mattina, di buon’ora. Sediamoci qui accanto mentre Felice finisce di cenare». Si alza, prende la busta rossa appoggiata davanti a Franz e ne estrae un manoscritto. Felice guarda Franz con aria stupita: «Anche lei scrive?». È Max a rispondere: «Soprattutto lui! Scrivere è la sua ragione di vita. La sua testa brulica di storie prodigiose. Se non le scrive diventa pazzo. Lui è tutta letteratura. Non ha mai letto nulla di suo?». Felice sfoglia il volume delle opere di Goethe che il signor Brod ha lasciato sulla sua poltrona: «No, ma ho letto tutti i suoi libri, Max. Tranne il suo primo romanzo, Il castello di Nornepygge. Non sono riuscita a venirne a capo. Ci ho provato più volte». Franz la osserva con aria costernata. Cala il silenzio, che Felice rompe con voce tranquilla: «Sono la prima che se ne stupisce. Mi ripropongo di tentare di nuovo alla prima occasione». Max trascina Franz verso un tavolino con tre zampe dritte e sottili: «Mettiamoci al lavoro. Ci vorranno solamente pochi minuti. Devo farti una proposta, l’ho appuntata su un foglio. Dove l’ho messo?». Si fruga le tasche, si guarda intorno e lo scorge sul marmo del caminetto. «Eccolo! Metterei per primo Bimbi sulla via maestra, seguito da La gita in montagna e Desiderio di diventare un indiano. Per ultimo, Essere infelici. Per gli 14


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altri racconti sono d’accordo con l’ordine che hai scelto tu.» Felice si avvicina a loro: «Mi piace molto copiare manoscritti. Mi capita di farlo a Berlino. Le sarei riconoscente, Max, se potesse inviarmene qualcuno». Franz la guarda: «Per leggere un testo o semplicemente per copiarlo?». «Semplicemente per copiarlo.» Franz batte con forza la mano sul tavolino. Sobbalzano tutti. «Franz, accetti l’ordine che ti ho proposto? Posso riordinare i tuoi racconti?» «Non spedirò nulla domani.» «Ora ricominci, è esasperante! Devo battermi con te a ogni pubblicazione. Perché questo rifiuto dell’ultimo minuto?» «Perché non c’è alcun motivo di pubblicare un testo che non sia perfetto. Non ho alcuna fretta. È a causa dell’impazienza che gli uomini sono stati cacciati dal paradiso, ed è a causa dell’impazienza che non ci tornano. E poi, non voglio deludere il tuo editore ancora una volta.» «Ma è lui che mi chiede con insistenza il tuo testo, ancora ieri, per telefono! Gli ho promesso formalmente che glielo spedirai domani mattina. Non puoi farmi questo.» «Gli ho chiesto quante copie ha venduto della prima edizione di questa raccolta. Undici. Dato che io ne ho comprate dieci, mi piacerebbe sapere chi possiede l’undicesima. E perché il tuo editore pubblica libri che non si vendono?» 15


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«Perché sa che un giorno ne venderà centinaia. Vuoi che ti ricordi cosa dicono di te Rilke, Werfel, Heine, Musil? Non te ne andrai di qui senza avermi assicurato che domani spedirai questo testo.» «Alla posta centrale rivolgiti alla signorina dello sportello 14, è la più graziosa» aggiunge Otto. «Spediscilo per raccomandata» dice Max. «Non ho mai spedito una lettera, neanche una cartolina, che non fosse per raccomandata.» Otto ha chiuso il pianoforte. Si inginocchia davanti alla stufa. Franz lo guarda, si mette a ridere e chiama a testimone Felice: «A ogni mia visita Otto, il quale tiene ad andare a letto puntualmente, si dà vistosamente da fare con la stufa. È il suo modo di ricordarmi che è ora di andarmene. Mi ha soprannominato “il disturbasonno professionista”. A volte l’intera famiglia Brod deve unire le forze per spingermi fuori dall’appartamento. Questa sera temo di aver fatto fare tardi anche a lei. A che ora parte domattina?». «Alle sei e mezza. Non ho ancora fatto la valigia. E voglio finire il mio libro prima di andare a dormire.» Franz sorride: «Le piace leggere fino a tardi, la notte?». «A volte fino all’alba.» «Torna a Berlino?» «No, vado a Budapest. Al matrimonio di mia sorella. Lei vuole veramente sapere tutto?» La signora Brod si inserisce nella conversazione: «In albergo Felice mi ha mostrato l’abito di batista che indosserà per la cerimonia. Incantevole!». Felice si alza. Franz, che non le toglie gli occhi di dosso, osserva: 16


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«Porta le pantofole della signora Brod?». «Sì. Il tempo è stato orrendo durante tutta la giornata, ho dovuto mettere ad asciugare i miei stivaletti. Ma sono abituata alle pantofole con i tacchi.» «Pantofole con i tacchi? Che novità!» La giovane prende il corridoio che porta alla sala da bagno. Una porta sbatte. La signora Brod esclama: «Felice sembra proprio una gazzella!». Franz fa una smorfia. Max si avvicina al suo amico e gli chiede a voce bassa: «Come trovi la nostra berlinese?». «Senza fascino, senza attrattiva. Quando sono arrivato, era seduta a tavola eppure mi parve una domestica. Viso ossuto, vuoto. Naso quasi rotto, capelli biondi un po’ lisci. Pare vestita alla casalinga, benché non lo sia affatto, l’ho constatato rapidamente. È decisa, piena di sicurezza, robusta. Come se…» Si sentono dei passi nel corridoio. Si interrompe. Corre di fronte a Felice e le mostra la rivista che ha tirato fuori dalla sua busta: «Signorina Felice, ho portato per caso un numero di Palästina». Felice tende una mano, Franz la afferra e la tiene stretta a sé. «Conosce questa rivista? Io e Max stiamo progettando di andare in Palestina l’anno prossimo. Vuole venire con noi?» «Che strana idea… Sta scherzando?» Ritira la mano. «Niente affatto, non sono mai stato così serio.» «Non è un viaggio che si possa decidere così, per un colpo di testa! Lei parla l’ebraico?» 17


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«No, non proprio. Invece il mio bisnonno materno, di cui io porto il nome, Amschel, era un famoso talmudista; però sto prendendo lezioni di ebraico moderno. Verrà? Vorrei una promessa. Una promessa formale.» «Non lo so. Mi lasci riflettere. E prendere congedo dai miei ospiti.» Sotto lo sguardo di Franz, che continua a seguirla, Felice indossa un ampio cappello beige e bianco che ferma con tre spilloni. Il signor Brod le propone di accompagnarla in albergo. «Posso unirmi a voi?» si affretta a chiedere Franz. Nella strada stretta dal selciato irregolare Felice e il signor Brod camminano fianco a fianco. Franz li segue, immerso in uno strano mutismo. A metà strada si chiede se sia il caso di portare dei fiori alla ragazza, l’indomani alla stazione. Ma dove trovare dei fiori all’alba? Senza motivo, spinto dall’inquietudine, dal desiderio e dallo sgomento, mentre cammina lungo il ciglio della strada incespica più volte sul marciapiede. Quando imboccano Perlgasse, Felice si gira verso di lui: «Dove abita?». «Vuole il mio indirizzo?» Un’ondata di gioia lo travolge, vuole scrivermi per confermare il suo viaggio in Palestina. «Il suo indirizzo? No, vorrei essere sicura che la sua strada coincida con quella per il mio albergo. Non vorrei ritardarla.» «Non ho mai fretta di rientrare. Dormo molto poco. La mia notte consta di due parti: una desta e una insonne.» Felice riprende la sua conversazione con il signor Brod. Vergognandosi, Franz li sente sprecare il tem18


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po facendo paragoni fra il traffico di Praga e quello di Berlino. Il signor Brod ora le dà consigli per il viaggio e le elenca le stazioni dove potrà comprare qualcosa da mangiare. Felice afferma di avere intenzione di fare colazione nel vagone ristorante. Spera di ritrovare il suo ombrello, dimenticato in treno alcuni giorni prima. Entrano nella hall di un albergo di lusso, La Stella Blu. Franz sembra talmente turbato che, giunto alla porta girevole, si infila nello stesso scomparto in cui sta entrando Felice e quasi le pesta un piede. Balbetta delle scuse. Si dicono arrivederci davanti alla porta aperta dell’ascensore. Franz le ricorda il loro progetto di viaggio. In quel momento Felice scorge il portiere e valuta con lui l’opportunità di prenotare una carrozza per recarsi in stazione l’indomani. Si dicono nuovamente arrivederci. Felice esclama: «Vuole ricordarmi ancora una volta…». Franz la interrompe: «No, no, ho un’ultima domanda: quanto tempo si può conservare la cioccolata senza che si guasti?».

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Una passione senza amore Il 20 settembre 1912, Franz scrive la sua prima lettera a Felice Bauer. Una lettera scritta sulla carta intestata dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori, dove ricopre un posto importante. Una lettera di due pagine, battuta con una macchina a cui non è avvezzo, e iniziata dopo la sua sesta ora di lavoro. Le ricorda il suo nome, Franz Kafka, il loro incontro dai Brod, il loro progetto di andare in Palestina. Nel caso in cui lei non avesse motivi per prenderlo come accompagnatore, guida, zavorra, tiranno e tutto quello che potrebbe diventare, le propone, nell’attesa, di prenderlo in prova come corrispondente. Aggiunge di non essere puntuale e di non aspettarsi, in compenso, che gli si scriva con regolarità. Si firma: «Suo cordialmente devoto, Dr. Franz Kafka». (È dottore in legge.) Questa prima lettera rimane senza risposta. Franz ne scrive una seconda, a mano. Ha un’infinità di cose da dire: il tempo è bello e caldo, la fine20


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