La notte del diavolo

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«GRANDI ROMANZI»

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Miguel Dalmau

La notte del Diavolo ROMANZO

GREMESE


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Questo volume è stato pubblicato con il sostegno della Direzione Generale del Libro, degli Archivi e delle Biblioteche, del Ministero della Cultura spagnolo.

Titolo originale: La noche del Diablo © Miguel Dalmau, 2009 EDITORIAL ANAGRAMA, S.A., 2009 Traduzione dallo spagnolo: Vittorio Bonacci Copertina: www.lamelaverde.it Stampa: C.S.R. – Roma Copyright dell’edizione italiana: GREMESE 2011 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-697-2


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A mio padre, che mi ha insegnato il valore della spada e il peso della croce.


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Resta con noi, Signore, perchĂŠ si fa sera. Luca, 24, 29


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LA NOTTE DEL DIAVOLO

Sanatorio di Caubet. 1946

In principio fu il Verbo. Poi il Verbo si fece carne. Et verbum caro factum est. Mi chiamo Julián Alcover e sono nato nell’isola di Maiorca. Per tutti questi anni ho mantenuto il silenzio, fino a quando la malattia mi ha lasciato solo nel mio studio, di fronte a un muro di ricordi. Per essere fedele ai fatti, dovrei confessare tutto; ma il medico mi ha consigliato di amministrare le mie forze con prudenza. Che devo raccontare? La vita è un mistero nelle mani di Dio, e soltanto Dio conosce la risposta agli enigmi umani. Da quando sono arrivato in questo sanatorio, mi domando spesso cosa ho fatto della mia vita. Allora, la mia memoria risale agli anni precedenti alla guerra, e mi vedo di nuovo in un convento nei dintorni di Palma, su una collina popolata da pini e distante dal mare. Accadeva nel 1936. Sono passati dieci anni. Un soffio. Poi faccio ritorno a questa cella bianca, immacolata, e guardo oltre la finestra che si affaccia sul giardino. Mentre osservo le monache che passeggiano tra i fiori, capisco che la pace è tornata sull’isola. Deo gratias. Eppure, ormai non riconosco più il paesaggio della mia terra, perché non riconosco più neanche il paesaggio della mia stessa anima.

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MIGUEL DALMAU Tutto è troppo confuso. Se il Signore ha avuto bisogno di sei giorni per dare ordine al caos, io non riesco invece a raccontare la mia storia pienamente, sapendo, come so, che sto per morire. Né posso tanto meno avere la certezza di cogliere nel segno con la mia testimonianza. Se avessi avuto a disposizione del tempo, mi sarebbe piaciuto scrivere per esempio della mia infanzia, perché l’infanzia è libera dal peccato e si dispiega come un territorio unico, aperto e chiuso al tempo stesso. Tuttavia, quella felicità non torna, così come non tornano neppure la purezza perduta e la voce dei morti. Sarà sufficiente dire che a quattordici anni entrai nel Seminario Conciliare di Palma, con lo scopo di intraprendere la carriera ecclesiastica. Dopo essere stato ordinato sacerdote, mi rinchiusi nel convento dei padri teatini, e per un decennio mi sono dedicato alla preghiera e allo studio delle lingue. In quel periodo, credevo onestamente di compiere la legge di Dio. Nemmeno nei miei incubi peggiori potevo immaginare che sarei diventato un personaggio sinistro, che ha venduto la propria anima nell’ora decisiva. La guerra. Quanto è stato ingiusto tutto ciò! Che amarezza! Ma ormai non c’è più nulla da fare. Prego soltanto la Madonna di Lluch affinché mi conceda le forze necessarie per tenere in mano la penna. E poter poi morire in pace. Ricordo che, nei primi tempi, evitavo i rapporti prolungati con gli altri miei confratelli. Sebbene rispondessi con diligenza alle loro attenzioni, mostravo i segni di una grande propensione per la solitudine. L’unica eccezione era rappresentata dal priore, un uomo buono e giusto, la cui compagnia calmava le mie ansie. Quell’uomo aveva capito che ero una persona dal temperamento fragile. È vero che avevo alcune inquietudini, espresse attraverso la mia sete di conoscenza e il mio desiderio di andare a Roma; ma, in fondo, non ero molto diverso dalle migliaia di sacerdoti sparsi per il mondo. Se il Signore avesse potuto riunirci in piazza San Pietro, avrebbe scoperto

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LA NOTTE DEL DIAVOLO una legione di individui che si vestivano, pensavano e si comportavano esattamente come me. Lo affermo come argomento soggettivo, senza il benché minimo compiacimento, e ben consapevole del fatto che quelli erano la mia vocazione e il mio destino. Quanto al carattere, la mia memoria mi rimanda a una persona silenziosa e ritrosa, senza eccessiva vivacità. Non ero, insomma, uno di quei sacerdoti popolari che, spinti da un prurito vanitoso, utilizzano l’abito per procurarsi l’affetto della gente. Al contrario. Le relazioni con il gregge suscitavano in me una certa avversione, e solamente quando i colpi della vita si abbattevano su qualche peccatore ero pervaso da un sentimento cristiano. Poco prima di quella fatidica estate, acquisii la cattiva abitudine di guardarmi allo specchio. Non ritengo di essere incorso in una sorta di peccato contro il pudore: cercavo semplicemente di capire chi fosse quell’estraneo riflesso sul mercurio. Ero io? O qualcuno che stava usurpando il mio vero essere? Non l’ho mai saputo e temo che non lo saprò mai. Ricordo solamente che il mio viso era quello di un uomo senza importanza: uno come tanti. Vedevo i miei capelli neri, radi, e gli occhi piccoli, di colore indefinito, che gli occhiali ingrandivano fino a dimensioni apprezzabili. La faccia era bianca, lattiginosa, monacale. Poi un sottomento un po’ flaccido, il naso plebeo, e i denti leggermente sporgenti come quelli di un coniglio. Quello ero io, Julián Alcover. Il priore era solito dirmi che un corpo avvenente non fa un buon cristiano. Aveva ragione. Ma nemmeno un corpo ingrato. A volte mi piacerebbe che le suore di questo sanatorio conoscessero il mio segreto. Ma temo che abbiano già sofferto abbastanza durante la guerra, e da queste parti nessuno vuole ricordare. Qual è il mio proposito? Essere fedele al dramma? Oppure scrivere per recuperare la calma? So soltanto che il Male non sorge in maniera innocente. Come la malattia che mi corrode i

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MIGUEL DALMAU polmoni ha avuto bisogno di un lungo periodo di incubazione, allo stesso modo le tragedie umane si nutrono del tempo, per quanto noi uomini tendiamo a disperderci in questioni mondane. Ed esiste qualcosa di più frivolo della politica? Nelle mie attuali condizioni, non vorrei peccare di superbia, ma è inutile confessare i miei peccati senza fare riferimento al grande errore della mia epoca: il furore delle ideologie. A questo punto dovrei parlare un po’ del mio popolo e iniziare con il dire che noi maiorchini non eravamo granché interessati alla politica. Da sempre, ci eravamo contraddistinti per una marcata indifferenza verso di essa, quasi che in realtà non fosse altro che una faccenda arbitraria imposta dal governo. Come per altre isole, il continente rimaneva troppo distante, in un altro mondo, e noi coltivavamo una nostra propria filosofia, basata su un codice impresso nel corso dei secoli e delle generazioni. Eravamo indifferenti, lo ribadisco, ma anche comprensivi e accomodanti. La migliore prova di ciò si ebbe nel 1931, dopo l’improvvisa caduta di Alfonso XIII. Per quanto il nostro popolo fosse tradizionalmente monarchico, noi maiorchini ci adattammo al nuovo sistema – la Repubblica! – senza farne una tragedia. Una volta passato il primo momento di timore, si imposero prudenza e buon senso. Ma nel fondo dei nostri cuori, Maiorca non voleva essere repubblicana; per quanto i venti diabolici potessero soffiare da Mosca, il seme marxista non mise radici nel nostro suolo. Nulla alterò il tradizionale predominio della destra. Eravamo uniti. Lo ripeto. La politica non ci interessava. Ma nel continente le cose erano assai diverse. Dopo la fuga del re, il popolo si precipitò a bruciare conventi e chiese delle grandi città. Era un pessimo auspicio, che dava ragione a quanti, come me, vedevano la Repubblica come una grande portatrice di disastri. Sin dal primo giorno, il governo repubblicano mise sotto assedio la Chiesa e ci allontanò dagli affari

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LA NOTTE DEL DIAVOLO di Stato. Fummo perseguitati, umiliati, depredati… E, al culmine dell’oltraggio, alcuni barbari iniziarono a gridare: «Preti, prelati, tutti fucilati!». Per ben due anni dovemmo assistere increduli agli atti di vandalismo di quella nefasta utopia giacobina, finché i figli della luce non recuperarono il potere. Tuttavia, nonostante il trionfo della destra, nel 1934, ci avesse restituito la speranza, i marxisti non seppero accettare la sconfitta e misero nuovamente in moto la macchina del caos. Ci furono scioperi selvaggi, insurrezioni contadine, tafferugli nelle strade. Poi arrivarono i crimini. E, siccome il Maligno vedeva che la sua opera restava incompleta, si scatenò una rivoluzione in Asturia che dovette essere soffocata dall’Esercito. Nel febbraio del 1936, ebbe luogo una nuova consultazione elettorale che si risolse con l’inattesa vittoria dei nostri nemici. Quel nefasto trionfo ci riempì i cuori di costernazione. Sin dall’inizio, il Fronte Popolare si mostrò come una creatura abietta e scellerata. La creatura bolscevica tentò di instaurare la rivoluzione sul più cristiano dei suoli. Il nostro. In pochi giorni, cominciarono a ripetersi i soprusi del 1931, ora protetti dalla situazione internazionale. Nel corso di quella primavera, la Spagna si affacciò alle porte dell’Averno, e nei nostri viali gli operai sfilavano sotto colossali ritratti degli idoli rossi. Nel frattempo, le autorità repubblicane se ne lavavano le mani. Non facevano nulla o, peggio ancora, attizzavano il fuoco. In poche settimane, i marxisti trasformarono il Parlamento in un luogo dove venivano investite di legalità tutte le viltà e tutte le turpitudini. Per colpa loro, la plebe finì per impadronirsi della piazza. Povero Julián! Sempre perso tra i libri. Ho l’impressione che mi stia nascondendo. Forse pretendo di dare lezioni di Storia? Oppure di dare voce alle mie esperienze? E, in tal caso, quale devo scegliere? In questa cella silenziosa tutto ritorna, in maniera inesorabile; ma devo rimanere fedele ai fatti e

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MIGUEL DALMAU scrivere di ciò che ci condannò. So che l’Angelo di Dio mi guiderà. Benché fosche nubi coprissero l’intera Spagna, Maiorca se ne manteneva al riparo. Ricordo che a quel tempo molti viaggiatori la chiamavano «L’isola della calma». Era vero. Persino in quel periodo così turbolento, la mia terra continuava a rappresentare un mondo ordinato, che proclamava la grandezza di Dio: i monti si innalzavano maestosi, le onde azzurre si infrangevano contro le scogliere, il grano cresceva e maturava per il raccolto. I turisti che ci visitarono in quella primavera trovarono un tesoro, lo stesso tesoro che splende nella mia memoria con il fulgore benedetto dell’armonia. Per loro, era il Paradiso. E ora mi rendo conto che, in parte, inizia a esserlo anche per me. È come se in questo autunno di prostrazione, nel sanatorio, io desiderassi fuggire verso un tempo di immagini idilliache. Allora penso alla mia isola. La Maiorca precedente alla guerra. Ciononostante, non posso dimenticarmi della mia modesta persona. Recluso nella mia cella, vivevo circondato da breviari, libri e carte… Conservo ancora Introduzione alla vita devota, di San Francesco di Sales, Omelie domenicali, di Antonio María Claret, Sermoni e panegirici detti da monsignore Spirito Flechier, vescovo di Nîmes, Le origini del Cristianesimo, di Le Camus, Anno cristiano di Croisset, il Breviarium Romanum, e Educazione e buone maniere del sacerdote, di Branchereau, il padre superiore del seminario di Orleans. Fu grazie a tali opere – e ad altre scritte dai grandi pensatori della Chiesa – che imparai a rispettare quel linguaggio che rappresenta il fondamento della vita sociale, e in virtù del quale tutte le anime entrano in comunione di sentimenti e di idee, così da rendersi sensibili. Leggevo inoltre assiduamente riviste religiose quali L’Aiuto Perpetuo, Il Messaggero del Cuore di Gesù o L’Araldo di Cristo. In realtà, soltanto le chiacchierate quoti-

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LA NOTTE DEL DIAVOLO diane con il priore mi tenevano lontano da un’esistenza monotona e ripiegata sulla lettura. Sì, mi alimentavo degli altri. E tuttavia non ero nemmeno talmente cieco da ignorare che la situazione politica si stava facendo disperata. Verso la fine del mese di maggio, i socialisti al governo si tramutarono in burattini nelle mani dei comunisti, e correva voce che questi ultimi stessero preparando un colpo di Stato. Come ho già detto, questo accadeva in continente, e non a Maiorca. D’altro canto, noi maiorchini avevamo la percezione che qualcosa di fatidico stesse iniziando a estendersi, come un’epidemia. Dalla Sierra de Tramontana vedevamo nuvole scure che avanzavano verso di noi. In tali circostanze, tutto ciò che accadeva nel continente colpiva la nostra immaginazione, generando sfiducia, e quando la sfiducia si insediò nei cuori, fu come se il dramma fosse già in atto anche sull’isola. Come mi sembra strano rivivere quel timore! Veramente lo avvertivamo tutti? O si tratta soltanto dell’eco della mia anima pusillanime? Non lo so. Ricordo soltanto che un inferno di chiese vuote cominciò a popolare i miei sogni. Poi, ebbi quell’incubo. Era una mattina di giugno. Passeggiavo per una città a me sconosciuta, vestito da contadino. Al momento di svoltare l’angolo, scoprivo una meravigliosa piazza da cui si innalzava la chiesa più bella che avessi mai visto. Poi accadeva qualcosa di terribile. Improvvisamente, veloci figure nere si agitavano intorno al santuario mentre le fiamme esplodevano dalla facciata. In brevissimo tempo, l’incendio divampava assumendo vaste proporzioni. Volevo correre, ma non ci riuscivo. Quando finalmente le guardie entravano in azione, la folla si rivoltava contro di loro, scagliando sassi e lanciando insulti. Lo stesso accadeva con i pompieri, i quali, di fronte alla violenza della folla, rinunciavano a intervenire ritirandosi nella caserma. Nel frattempo, i più esagitati avevano fatto irruzione nella chiesa, armati di tani-

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MIGUEL DALMAU che di combustibile, e davano fuoco ai banchi, agli altari e ai confessionali. Dalla strada era possibile vedere le fiamme rossastre uscire dalle finestre, mentre la gente applaudiva e gridava. I malfattori che circolavano ancora all’interno dell’edificio si davano a gettare dal balcone libri, sedie, cuscini, vestiti, quadri… Vedendo cadere quel tesoro, la marmaglia si avventava su di esso. I più sfrontati si agghindavano con stole e casule, e si mettevano a ballare in mezzo alla strada, consumando il sacrilegio. Mi svegliai terrorizzato alla vista di un miliziano che faceva indossare un abito da monaca a una delle sue donnette. Mentre il resto del paese viveva ogni giorno calamità simili, a Maiorca il dramma si consumava in sordina. Non ci furono delitti né chiese distrutte. Deo gratias. Tuttavia, pregavamo affinché quell’odio segreto che insidia le piccole comunità non esplodesse alla luce del sole. Ignoro il momento in cui anche la nostra aria si avvelenò. È ovvio, però, che dopo l’assalto alla Casa del Popolo qualcosa cambiò definitivamente. La Casa del Popolo di Palma era un centro ricreativo in cui gli operai organizzavano assemblee ed eventi culturali. Per i marxisti si trattava di qualcosa di simile a una cattedrale operaia, che Iddio mi perdoni. Per i cattolici, invece, era il simbolo del trionfo repubblicano e il tempio dove venivano divulgate le idee dissolutrici. A quanto pare, era dotata di una biblioteca, di un teatro e di diverse aule dove venivano impartite lezioni di calcolo, ortografia e contabilità. Ma i rossi non potevano trarci in inganno: nessun buon cristiano sarebbe mai entrato nella Casa del Popolo. E, tanto meno, Julián Alcover. Ebbene, nel giugno di quell’anno si verificò un’esplosione nell’edificio. Vi furono diversi operai feriti e ingenti danni. Sin dal principio, i nostri nemici accusarono alcuni membri della Falange, ritenendoli responsabili di aver collocato la bomba. Ma non riuscirono a provarlo, visto che a quel tempo i principali falangisti si trovavano reclusi nel forte di San Carlo. A

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LA NOTTE DEL DIAVOLO causa dell’accaduto, i più esaltati si diressero verso la parrocchia di San Giacomo con l’intenzione di distruggerla. Ci fu un gran tumulto, alcuni danni, e soltanto l’intervento divino riuscì a evitare la catastrofe. Poche ore dopo, comunque, i dirigenti sindacali emanarono un comunicato urgente con il quale proclamarono una giornata di sciopero generale, al quale aderirono gli operai delle fabbriche e i lavoratori delle linee tranviarie e ferroviarie. Nel contempo, i picchetti costrinsero alla chiusura i caffè e i piccoli negozi, e venne ridotta l’attività nel Mercato Municipale. Quel giorno, non uscimmo per strada, ma si racconta che Palma fosse una città perduta, lontana da Dio. In quello scenario, l’assassinio di Calvo Sotelo a Madrid fu una vera tragedia. L’eco di quel crimine scosse tutte le coscienze, attraversò il mare e si fece sentire anche nella nostra pacifica città di provincia. La Bestia aveva parlato. E lo aveva fatto consapevole del fatto che la Spagna eterna aveva rivolto a quell’illustre connazionale i propri occhi pieni di speranza. Tutti potemmo vedere il suo cadavere gettato come un mucchio di stracci insanguinati sul selciato sporco di una necropoli. Per colpa dei marxisti, l’intero paese si rivestì di lutto, e diventammo la vergogna della Terra. Quattro giorni dopo, venne celebrato un solenne funerale per la sua anima nella chiesa di San Francesco. In previsione di possibili tumulti, il sindaco repubblicano inviò un distaccamento di polizia per mantenere l’ordine, e gli agenti si appostarono davanti alla porta del santuario. Temendo le perquisizioni, alcuni giovani della Confederazione Spagnola delle Destre Autonome si videro costretti ad assistere al funerale senza armi. Malgrado ciò, le fidanzate e le sorelle di quei fedeli riuscirono a entrare nella chiesa con le pistole nascoste sotto i vestiti. In quel momento, un fatto così aberrante avrebbe dovuto metterci in guardia. Ma non fu così. Pensavamo a una cosa sola: nel momento in cui dei buoni cristiani devono por-

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MIGUEL DALMAU tare con sé le armi per potere assistere a una messa e, quel che è peggio, devono nasconderle tra le sottane delle loro donne, l’ordine è morto. E così giunse il pomeriggio del 18 luglio, quando tutta la Spagna era in ebollizione. L’Esercito d’Africa si era sollevato contro la Repubblica. In poco tempo, tale sollevazione si estese in tutto il paese. Come una marea. Successivamente, alcuni militari mi misero al corrente del loro profondo disgusto e mi informarono che già da vari mesi stavano preparando il Putsch. Venni anche a sapere che i falangisti conoscevano perfettamente i progetti dell’Alzamiento, e che il capo della Falange aveva dato istruzioni ai comandanti dei villaggi perché attendessero il segnale convenuto. Nel nostro convento, però, non arrivavano queste voci, che invece altrove circolavano sin dalla primavera. Che cosa sarebbe accaduto? Ora le emittenti del governo repubblicano ci tormentavano con notizie allarmanti e non perdevano occasione per alternare la lusinga all’offesa, la spavalderia alla promessa di perdono. Sin dal primo momento, i marxisti rivolsero le loro minacce contro di noi. Se avessimo appoggiato il colpo di Stato, saremmo stati considerati dei traditori. Traditori verso che cosa? Verso Dio, verso i nostri princìpi? La Chiesa aveva sofferto molto. Troppo. All’alba del 19 luglio, un gruppo di repubblicani maiorchini si recò dal governatore civile per ottenere armi e per impedire che la gente perbene si riversasse per le strade. Fortunatamente, il signor Espina si rifiutò di soddisfare le loro richieste, sostenendo di disporre di forze sufficienti per garantire l’ordine pubblico. Al tempo stesso, proibì ai militanti di organizzazioni operaie, come la CNT e la UGT, di portare armi con sé. Egli intendeva in tal modo evitare quei disordini che tanto eccitano il popolo e tanto danno avevano procurato negli anni della Repubblica. Grazie a tale iniziativa, così, non si dovette-

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LA NOTTE DEL DIAVOLO ro registrare grandi spargimenti di sangue. Nel giro di poche ore, i nostri occuparono le sedi governative e iniziarono l’assalto a quelle locali, dove risiedevano i raggruppamenti politici di sinistra. Ricordo che quel giorno scesi a Palma colmo di inquietudine. Nei dintorni della città non c’era un’anima, ma nelle strade del centro circolavano automobili piene di gente benestante che intendeva lasciare quanto prima la città. Trattandosi del primo fine settimana d’estate, i miei concittadini credevano forse che tutto si sarebbe risolto con una crisi ministeriale. E se ne andarono in vacanza. Dal convento, il priore si manteneva al corrente dei fatti. Seduto accanto alla radio, ascoltava attentamente le notizie: ora Radio Maiorca stava promulgando un Bando di Guerra, decretato dal governatore militare, con istruzioni assai precise per tutta la popolazione. Anche se non arrivai in tempo per ascoltare le parole iniziali, rammento chiaramente il terzo punto in cui il generale Goded si dichiarava deciso a mantenere l’ordine e l’autorità: «Saranno passati per le armi tutti coloro che tenteranno in qualsiasi modo, sia esso azione o parola, di opporre la benché minima resistenza al Movimiento Salvador della Spagna. Allo stesso modo, sarà punito anche il minimo tentativo di provocare scioperi o sabotaggi di qualsiasi genere e il possesso di armi, che devono essere consegnate immediatamente presso le caserme». Dopo la lettura, il priore mi guardò in silenzio. E successivamente si fece il segno della croce. Qualcosa di molto grave era accaduto fuori dall’isola, e qualcosa di molto grave iniziava ad accadere al suo interno. Non avevamo mai vissuto una situazione simile. La nostra unica consolazione era la speranza di un Movimiento Salvador – anche se veniva dall’Africa – perché «salvatore» è la parola più bella per il cristiano stanco di soffrire. Mentre le principali città spagnole continuavano a trovarsi nelle mani dei marxisti, Maiorca riacquistò la Luce. Tuttavia,

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MIGUEL DALMAU benché il Bene avesse vinto, l’isola rimaneva accerchiata da nemici. Immaginiamo soltanto per un istante una Maiorca isolata nel più assoluto senso della parola, una terra circondata da un mare ostile, che incomincia a subire la minaccia dell’Esercito Repubblicano. Il litorale mediterraneo era rosso: Barcellona, Valencia, Alicante… A poche miglia dalla costa navigavano navi da guerra i cui cannoni erano puntati contro di noi. Tutto annunciava odio, fuoco, devastazione. Quando guardavamo verso terra, ci sentivamo al sicuro, ma se guardavamo verso il mare, il cuore ci si stringeva in petto. Il nostro spirito era prostrato, soprattutto mentre osservavamo gli stranieri affrettarsi a partire di fronte all’imminenza del disastro. Un certo cappellano inglese mi riferì che l’Inghilterra aveva inviato una nave verso l’isola per recuperare i propri sudditi. Una mattina, il cacciatorpediniere Devonshire apparve maestosamente nella baia, con la sua bandiera bianca che sventolava sul colore smeraldo del mare. Nei giorni successivi, altri navigli stranieri – francesi e tedeschi – approdarono a Palma per raccogliere i propri compatrioti. L’isola si era trasformata in una nave. Una nave alla deriva, colma di persone inquiete, incalzate, intimorite. Eravamo circondati. E, quel che è peggio, eravamo rimasti soli. Verso la fine di luglio, i marxisti iniziarono le incursioni aeree. Dalla mia finestra ebbi modo di assistere al passaggio del primo aereo: in lontananza tutto appariva tranquillo, poi il rombo del motore risuonò minaccioso sopra i tetti della città. Udii il latrato dei cani e successivamente il rintocco delle campane. Improvvisamente echeggiò uno sparo, e i piccioni del chiostro si alzarono precipitosamente in volo. È singolare il fatto che la guerra cominciasse, per me, con quello sparo che metteva in fuga i piccioni. Fu il primo segnale. Fino ad allora noi tutti eravamo stati come uccelli, creature semplici che vivevano in un giardino preservato dal mare. Ma quello sparo

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LA NOTTE DEL DIAVOLO ci espulse dall’Eden con un suono terribile: il suono dell’uomo che si scaglia contro il suo stesso fratello. Caino e Abele. Mentre l’aereo pirata continuava a profanare il nostro cielo, si succedettero altri spari. Ricordo che noi frati salimmo in molti sulla terrazza, allarmati dai colpi. Era tutto oltremodo confuso. In realtà nessuno di noi si era ancora abituato all’idea di uno stato di guerra: la maggioranza non pensava nemmeno che Palma fosse già presieduta dalle nostre truppe, e ci costò non poco scoprire che erano state queste ultime ad aprire il fuoco sull’aereo dei rossi. Non il nemico. La sparatoria si fece più intensa, e la città intera iniziò a pulsare di un’eco sincopata e violenta, fino a che l’aeroplano concluse le sue evoluzioni e scomparve in direzione del mare. Poco dopo, giunse l’ora dell’Angelus e ci riunimmo nella cappella. Rammento un altro particolare deprimente: in pochi minuti le nostre voci erano cambiate. Ormai non c’era più né speranza, né serenità, poiché l’accaduto aveva estirpato da tutti noi qualunque sentimento di allegria. Fu allora che compresi che i drammi più profondi della vita spesso si manifestano nelle cose più insignificanti: un rumore, lo sbattere di una porta, il battito d’ali di un uccello. Al termine della preghiera, ritornammo alle nostre faccende con il cuore in apprensione. In conseguenza del primo attacco, e delle furibonde raffiche che si erano scatenate per le strade, i nostri cominciarono a predisporre strategicamente le difese. All’approssimarsi del pericolo, rispondevano con mitragliatrici e mortai antiaereo collocati su alcune terrazze. Oggi mi domando se esista ancora l’edificio della Società Anonima Cross, o se sono soltanto io a conservare il ricordo delle sue mitragliatrici che sputano fuoco. Non credo che le suore lo sapessero, e neppure che questo le interessasse particolarmente. Comunque, nel mio racconto voglio mettere in risalto il fatto che ora finalmente potevamo difenderci.

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