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Emilio Sassone Corsi
OCCHI AL CIELO Il telescopio: storia, evoluzione, consigli pratici
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Ai miei figli Martina e Andrea
In copertina: (prima) Large Binocular Telescope (Archivio LBT); (quarta, dall’alto in basso e da sinistra a destra) il perspicillum di Galileo Galilei (Museo di Storia della Scienza, Firenze); Giant Magellan Telescope (Archivio GMT); Hubble (Archivio NASA) Fotografie: Le immagini fanno parte della collezione privata dell’Autore, tranne che nei seguenti casi. Pag. 20, 36-38, 41, 59, 60, 63, 75 Enciclopedia Britannica; pag. 23 www.fisicamente.it; pag. 24 Libreria dell’Accademia dei Lincei, Roma; pag. 18, 19, 39, 40-42, 46, 47, 49, 62, 64, 69, 83 Wikipedia, Wikimedia; pag. 26-32, 34, 35, 58 Museo di Storia della Scienza, Firenze; pag. 47, 68 Archivio storico Osservatorio Astronomico di Monte Palomar; pag. 51 Archivio storico Osservatorio di Yerkes; pag. 53 Archivio Osservatorio di Padova-Asiago; pag. 54 Archivio Osservatorio Bolshoi Teleskop; pag. 25 www.scienceclarified.com; pag. 64, 89, 90 Archivio fotografico online dello Space Telescope Science Institute; pag. 65, 74, 76 Archivio storico della Specola Vaticana; pag. 70, 71 Archivio storico del National Radio Astronomy Observatory; pag. 73 Archivio storico dell’Osservatorio Astronomico di Parigi; pag. 77 Archivio storico dell’Osservatorio Astronomico di Monte Wilson; pag. 83 www.jaxa.jp; pag. 86-88, 91, 93, 94, 105, 107 Archivio NASA; pag. 98 Archivio Giant Magellan Telescope; pag. 98 Archivio Thirty Meter Telescope; pag. 99, 100, 102, Archivio European Southern Observatory; pag. 119 Archivio Large Binocular Telescope; pag. 122, 123 Archivio Lowell Observatory; pag. 128 Archivio del Swedish Solar Telescope; pag. 137 Archivio Very Large Telescope; pag. 150 Archivio Osservatorio Astronomico di Capodimonte. L’editore si scusa di eventuali errori, lacune od omissioni nell’indicazione di altri o diversi copyright, dichiarandosi fin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Stampa: XXX Copyright GREMESE 2010 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-607-1
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INDICE Prefazione di Attilio Ferrari Introduzione
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PRIMA PARTE: LA STORIA 1. L’Astronomia a occhio nudo L’occhio: una macchina (quasi) perfetta I Babilonesi e l’Astronomia Eratostene di Cirene e la misura della Terra Le osservazioni di Tycho Brahe e i modelli di Giovanni Keplero
15 15 17 18 20
2. L’invenzione del telescopio e le rivoluzionarie osservazioni di Galileo Galileo e il perspicillum Le prime osservazioni della Luna Galileo osserva Giove e i suoi satelliti L’osservazione delle macchie solari Le tante altre scoperte astronomiche di Galileo Ma Galileo è stato molto di più
23 25 27 28 29 30 32
3. Dal perspicillum di Galileo allo speculum di Newton Il telescopio kepleriano L’aberrazione cromatica delle lenti Il primo telescopio acromatico Lo speculum di Newton
33 33 34 36 37
4. Lenti e specchi Il telescopio rifrattore I telescopi riflettori L’oculare L’ingrandimento La necessità di grandi diametri La combinazione tra lenti e specchi
39 39 41 42 43 45 46
5. Montature La montatura equatoriale alla tedesca La montatura equatoriale a forcella La montatura altazimutale Treppiede o colonna
49 49 52 54 55
6. Dall’Astronomia all’Astrofisica Giovanni Domenico Cassini e gli anelli di Saturno Frederick William Herschel e la scoperta di Urano
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OCCHI AL CIELO Joseph von Fraunhofer e lo spettro del Sole Il Conte di Rosse e il grande telescopio da 180 cm Padre Angelo Secchi e la spettroscopia stellare George Ellery Hale e i grandi telescopi dell’inizio Novecento Karl Guthe Jansky e lo sviluppo della Radioastronomia
6 61 63 64 66 68
7. Breve storia della fotografia astronomica Dal dagherrotipo alla fotografia Il progetto Carte du Ciel L’evoluzione della fotografia astronomica nel Novecento La fotografia astronomica nell’era digitale
73 73 75 76 79
8. Telescopi nello spazio Gli anni pionieristici dell’Astronomia spaziale Il telescopio spaziale Hubble (HST) Telescopi spaziali per tutte le onde
83 85 87 90
9. I grandi occhi del futuro Il futuro dei telescopi sulla Terra Il “multinocolo” GMT Trenta metri a Mauna Kea EELT, la sfida europea ai nuovi grandi telescopi Il miglior sito osservativo sulla Terra Il futuro dei radiotelescopi ALMA: la rivoluzione dell’Astrofisica a 5000 m SKA: il futuro della Radioastronomia è già in costruzione Il futuro dei telescopi spaziali Il nuovo Hubble: James Webb Space Telescope Darwin: una costellazione di telescopi spaziali Quali prospettive?
95 96 97 98 99 101 101 102 103 105 105 106 108
SECONDA PARTE: I VIAGGI 10. Arizona terra di Astronomia Kitt Peak Il Mirror Lab Il Meteor Crater Il Large Binocular Telescope Il Vatican Advanced Technology Telescope Il Lowell Observatory
111 111 114 116 117 120 122
11. Astronomia alle Canarie Il Telescopio Nazionale Galileo Lo Swedish Solar Telescope GranTeCan! MAGIC, un telescopio senza cupola Il cielo del Roque
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INDICE
12. In visita al Cerro Paranal Il raggio verde Al cospetto di Kueyen L’interferometria ottica Il cielo stellato a Cerro Paranal
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13. Mauna Kea, Clearly the Best! Il Keck Observatory
141 145
14. Il mio telescopio Breve storia dei miei telescopi Come avvicinarsi all’Astronomia e all’acquisto del proprio telescopio
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Letture consigliate
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Indice analitico
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Biografia dell’Autore
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PREFAZIONE Le osservazioni astronomiche risalgono agli albori della nostra civiltà, l’astronomia scientifica è testimoniata dalle tavole di argilla dei sacerdoti caldei già quattromila anni avanti Cristo. Da allora l’occhio umano ha scandagliato il cielo alla ricerca delle leggi che governano il meccanismo del succedersi del giorno e della notte, dell’avvicendarsi delle stagioni, del levarsi delle stelle e del vagare dei pianeti. Ma quattrocento anni fa Galileo Galilei ha lanciato l’umanità in una nuova avventura: levando il suo perspicillum al cielo, un occhiale potente, ha scoperto l’esistenza della Galassia, una miriade di stelle che sono ben al di là dei limiti ristretti del nostro sistema solare. Per trecento anni matematici, fisici e astronomi hanno lavorato a migliorare le capacità di quel primo telescopio, ampliando la nostra conoscenza delle stelle, non solo per quanto riguarda il numero, ma soprattutto la misura della loro massa, luminosità, temperatura e composizione chimica. L’Universo in quei trecento anni dopo Galileo è stato l’Universo delle stelle. Poi, agli inizi del Novecento, la tecnologia è riuscita a costruire enormi telescopi, con diametri superiori al metro con cui raccogliere e focalizzare la luce da sorgenti sempre più deboli, e sono state scoperte molte altre galassie oltre la nostra. L’Universo è progressivamente diventato un sistema che richiede miliardi di anni alla stessa luce per attraversarlo. Infine, mettendo in orbita sofisticati osservatori spaziali, l’astronomia ha aperto “nuovi occhi” nelle altre regioni dello spettro elettromagnetico prima irraggiungibili, dal radio alle microonde, all’infrarosso, all’ultravioletto, fino ai raggi X e gamma, con cui ha potuto comprendere l’evoluzione dei singoli oggetti celesti e investigare l’origine e il futuro dell’Universo fisico. Emilio Sassone Corsi, presidente dell’Unione Astrofili Italiani, ha voluto con quest’opera celebrare il quarto centenario della nascita del telescopio astronomico ad opera di Galileo Galilei, raccontando con passione e competenza come si è giunti a costruire i “grandi occhi” con cui oggi gli astronomi scrutano le profondità del cosmo. Ma non ha voluto soltanto spiegare come tali occhi siano fatti. Ha soprattutto voluto trasferire al lettore l’emozione profonda che l’umanità ha provato nello scoprire sempre nuovi orizzonti; e lo ha fatto mettendo per iscritto, con grande efficacia, la sua propria emozione nel visitare i grandi centri astronomici oggi sparsi nei siti più remoti, ma anche più protetti del nostro pianeta. Gli astronomi sono ancora oggi una categoria di sacerdoti o magi come nel lontano passato, dediti a studiare i cieli, sempre pervasi dall’emozione di giungere più in là, in spazi inesplorati dove nessun altro si è ancora spinto. Ma a differenza degli antichi sacerdoti, i moderni astronomi non vogliono usare la scienza per raggiungere la divinità che ha creato l’Universo, ma più umilmente vogliono capire le regole che guidano l’Universo fisico, lasciando a ciascuno di decidere sul perché l’Universo esista ed esista nella forma che si rivela a noi. Nella loro ricerca continuano a professare la libertà della scienza secondo il principio definito pubblicamente e con rischio personale da Galileo nei suoi Dialoghi sui massimi sistemi quattrocento anni fa. Come dice l’amico Emilio, gli occhi puntati al cielo dagli astronomi sono il segno della più grande impresa della storia dell’umanità. La Terra è oggi un osservatorio globale con
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cui l’umanità ha messo l’Universo nel proprio cervello, visitandone le più lontane propaggini fino al big-bang iniziale da cui tutto è partito. Siamo ancora ben lontani dall’aver visto tutto. Oggi sappiamo che ci servono altri “occhi” per vedere la materia oscura e l’energia oscura, ma ancora non sappiamo come costruirli, tanto elusive sono queste componenti dell’Universo sebbene siano apparentemente dominanti. Emilio dedica un capitolo anche alle sue personali esperienze osservative, ai suoi telescopi. L’osservazione del cielo è affascinante ed ha un grande valore sociale: il cielo è aperto a tutti e anche con pochi mezzi si può imparare non solo a guardare le costellazioni, ma anche a comprendere il significato di ricerca scientifica. Son sicuro che dopo aver letto il suo libro tutti rivolgeranno gli occhi al cielo con nuovo stupore e vorranno cimentarsi in un’avventura affascinante e gratificante che porta agli estremi limiti dell’Universo. Attilio Ferrari
Professore Ordinario di Astrofisica all’Università di Torino Visiting Professor al Department of Astronomy & Astrophysics – University of Chicago Direttore del Consorzio Interuniversitario per la Fisica Spaziale (CIFS)
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INTRODUZIONE
Sin dal momento del suo primo impiego da parte di Galileo Galilei, nell’ottobre 1609, il telescopio ha accompagnato lo sviluppo dell’Astronomia seguendone l’evoluzione in tutte le sue fasi. Il rapporto tra l’Astronomia e il suo principale strumento di indagine è stato strettissimo: telescopi sempre più grandi e perfezionati hanno dato la possibilità di osservare meglio oggetti celesti sempre più lontani e hanno consentito agli astronomi di comprendere in maniera via via più approfondita l’Universo. Non esiste altro strumento scientifico che ha avuto un’influenza così determinante sulla Scienza come il telescopio ha avuto sull’Astronomia. È di questo straordinario connubio che desidero raccontare nel libro. La storia del telescopio è lunga e piuttosto complessa. Inevitabilmente l’ho dovuta semplificare, altrimenti più che un libro ne sarebbe uscita un’enciclopedia. E, per evitare ogni eccesso di erudizione, mi sono soffermato sugli aspetti che personalmente mi hanno colpito di più e che hanno indirizzato la mia passione, sperando che possano accendere la passione anche di coloro che leggeranno queste pagine. Come tutti i libri di storia si parte da un prologo. In questo caso il prologo è rappresentato dall’occhio umano: un sofisticato strumento di osservazione che per molti millenni ci ha consentito di effettuare precise ed utilissime indagini astronomiche. Dalle prime e celeberrime osservazioni astronomiche di Galileo alle eccezionali immagini del telescopio spaziale Hubble: una storia che dura da quattrocento anni, costellata da scoperte straordinarie e grandi personaggi che hanno gradualmente svelato il racconto dell’Universo. Dal tronco principale della storia si dipartono dei rami che, in realtà, sono altre importanti storie che procedono in parallelo. Negli ultimi centocinquant’anni, ad esempio, con l’avvento della fotografia, l’Astronomia ha subito una drastica trasformazione e la registrazione delle osservazioni, prima su supporti chimici e oggi su sistemi elettronici, le ha rese molto più sicure e documentabili. L’introduzione della spettroscopia ha trasformato le osservazioni descrittive e geometriche del Settecento e della prima metà dell’Ottocento in osservazioni di fenomeni fisici, facendo evolvere l’Astronomia in Astrofisica. La possibilità di osservare in zone dello spettro elettromagnetico non visibile ad occhio nudo, come ad esempio le onde radio, ha fatto vedere un Universo completamente nuovo. Le imprese spaziali e l’invio dei primi telescopi nello spazio hanno consentito di eliminare l’atmosfera tra noi e le lontane stelle e galassie e poter osservare il cielo stellato in tutte le bande dello spettro elettromagnetico. La seconda parte del libro è una raccolta di racconti molto personali delle straordinarie sensazioni vissute durante i viaggi che ho fatto ai più grandi osservatori astronomici oggi esistenti nel mondo. A causa dell’inquinamento luminoso, i grandi telescopi sono collocati in luoghi estremi della Terra: dal Roque de los Muchachos sull’Isola di La Palma alle Canarie al Deserto di Atacama in Cile, dal Monte Graham in Arizona a Mauna Kea nelle Isole Hawaii. Durante la mia vita di astrofilo ho avuto la possibilità e la fortuna di visitare questi enormi centri di ricerca e ho voluto raccontare la tecnologia d’avanguardia, gli
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ingenti investimenti economici, i personaggi interessanti che li popolano e gli straordinari cieli stellati godibili da questi luoghi estremi. Aver avuto la possibilità di osservarli dal di dentro non è da tutti e desidero condividere queste esperienze con tutti i lettori di questo libro. Il libro si conclude con un capitolo nel quale cerco di fornire i miei consigli su come compiere i primi passi in Astronomia, come far evolvere una curiosità in una vera e propria passione e come scegliere il primo, fondamentale, telescopio. Spero che siano consigli utili e che consentano ad un numero sempre maggiore di persone di avvicinarsi a questo mondo meraviglioso. L’Astronomia è, a mio modo di vedere, la Scienza più bella ed entusiasmante, è nata con l’Uomo ed è fonte di continue ispirazioni. Il telescopio accompagna fedelmente da quattrocento anni l’avventura dell’Uomo e dell’Astronomia: i grandi occhi al cielo hanno trasformato le credenze popolari in osservazioni e misure oggettive. E il futuro ci riserva ancora tante e meravigliose scoperte. Emilio Sassone Corsi
Ringraziamenti Questo libro ha richiesto una lunga e complessa raccolta di informazioni e di viaggi in visita a vari osservatori astronomici e centri di ricerche in giro per il mondo. Desidero ringraziare tutti gli Astronomi che mi hanno dato la possibilità di visitare queste strutture e ricevere informazioni dettagliate sulle tecniche costruttive, i tempi di realizzazione, le persone coinvolte, i fondi stanziati. La fase di raccolta della documentazione sulla storia del telescopio è stata agevolata dalle recenti mostre che si sono svolte in Italia nel corso del 2009, Anno Internazionale dell’Astronomia. Vorrei ringraziare gli astronomi e i tecnici che hanno contribuito a realizzare queste iniziative perché mi hanno dato modo di documentarmi via via che scrivevo i capitoli di questo libro. La revisione di tutto il testo, la cui prima scrittura ha richiesto circa due anni, è stata effettuata dall’amico Giancarlo Favero, già professore universitario di Chimica a Padova, Presidente dell’UAI prima di me e oggi direttore del magnifico Osservatorio Astronomico del Celado. L’accuratezza delle sue annotazioni è stata per me fondamentale per riuscire a indirizzare l’opera sulla giusta strada. Una visita all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri da Piero Salinari mi ha chiarito molte cose in merito alle ottiche attive e adattive e alle più recenti tecnologie che si adottano in questo settore in continua evoluzione. Ringrazio molto Piero anche per avermi indirizzato verso la copertina giusta per questo libro. Ringrazio inoltre le numerose persone che mi hanno stimolato lungo questo percorso. Primo fra tutti il giovane amico Fabio Pacucci: è per merito suo che è nato questo saggio. Mi chiese un anno e mezzo fa di realizzare una conferenza per il Collegio Universitario “Lamaro Pozzani”, dove lui è ospitato in qualità di studente di Fisica, e colsi l’occasione per strutturare il lavoro svolto fino ad allora. Ringrazio il Prof. Attilio Ferrari per i precisi consigli e per la bella prefazione che mi ha voluto regalare. Infine ringrazio mia moglie e i miei figli per la prima lettura dei vari capitoli ma soprattutto per la pazienza che hanno avuto nei miei confronti.
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Prima Parte
LA STORIA
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1. L’ASTRONOMIA A OCCHIO NUDO Fino all’autunno del 1609 il cielo stellato, per alcuni lunghi millenni, è stato osservato dall’Uomo solo attraverso l’occhio nudo. Non avendo molte altre distrazioni, tipiche del nostro tempo (televisione, Internet…), i nostri antenati avevano a disposizione almeno lo spettacolo naturale del cielo stellato come straordinario palcoscenico nel quale immaginare avventure, battaglie, amori. E che eccezionale spettacolo doveva essere il cielo stellato di mille, duemila o tremila anni fa! Senza l’inquinamento luminoso, che oggi sovrasta la debole luce delle stelle, la visione del cielo doveva essere qualcosa di meraviglioso e coinvolgente, come oggi è possibile osservare solo in alta montagna e in luoghi molto lontani dalle città. L’unico strumento di osservazione utilizzato in tutto questo lunghissimo periodo di tempo è stato l’occhio. L’occhio: una macchina (quasi) perfetta Il meccanismo della visione è complesso e straordinario. Il primo strumento che l’Uomo è stato in grado di usare per osservare l’Universo può essere distinto in tre componenti fondamentali: – L’occhio: una precisa camera fotografica il cui sistema ottico proietta le immagini su una superficie sensibile; – La retina: la superficie sensibile che raccoglie le immagini, ne fa una prima elaborazione e trasmette l’informazione al cervello; – Il cervello: il ricevitore dei dati provenienti dalla retina che li elabora ulteriormente e rende disponibile l’immagine definitiva.
Il tutto agisce come una moderna fotocamera (o meglio ancora come una videocamera) digitale con i vari componenti di obiettivo, camera CCD e software di elaborazione delle immagini (Photoshop o simili) opportunamente assemblati. Ma è molto meglio! La Natura è stata in grado di selezionare un sistema estremamente sofisticato e può farlo agire in tempo reale con prestazioni davvero portentose. Entriamo un po’ più nel merito di com’è fatta la nostra macchina della visione. L’occhio umano è un sistema ottico relativamente semplice racchiuso in una quasisfera dove da una parte ci sono la cornea, l’umor acqueo e una lente biconvessa (il cristallino) e dall’altra la camera posteriore e la retina sulla quale si forma l’immagine, rimpicciolita e capovolta. Tutta la sfera è riempita di un liquido, l’umor vitreo, che ha un indice di rifrazione 1,33, mentre il cristallino ha un indice di rifrazione di 1,44. La curvatura della faccia anteriore del cristallino è in grado di essere modificata attraverso la contrazione dei muscoli ciliari, variando così la distanza focale della lente; ciò consente di mettere distintamente a fuoco oggetti vicini (a partire da circa 20 cm) e lontani (fino all’infinito). Il sistema ottico ha una distanza focale variabile fra 2,4 e 1,7 cm. L’iride è un perfetto diaframma naturale al cui centro è ricavata un’apertura, la pupilla, che serve a regolare la quantità di luce che entra nell’occhio. La superficie sensibile dell’occhio, la retina, è costituita da fotorecettori che si distinguono in due tipi: i coni e i bastoncelli. I primi sono circa 6 milioni e sono molto concentrati nella parte centrale della retina, i secondi sono oltre 120 milioni, abbondano
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OCCHI AL CIELO nelle parti periferiche e consentono la visione in basse condizioni di illuminazione. Questi fotorecettori hanno sensibilità spettrali diverse e un diverso adattamento al buio, svolgendo il compito di trasformare in impulsi elettrici le informazioni ricevute dalle reazioni fotochimiche, che vengono attivate dalla radiazione luminosa, e di inviare questi segnali ai neuroni retinici, una sorta di sistema di pre-elaborazione del segnale visivo prima di trasmettere l’informazione al cervello per l’elaborazione finale. Tutto il fondo dell’occhio è ricoperto dai fotorecettori tranne nel punto dove passa il canale di comunicazione delle informazioni dall’occhio al cervello, il nervo ottico. Si tratta di una piccola area di 1,5 mm di diametro, dove convergono i nervi e i vasi sanguigni della retina; in questo punto, detto punto cieco, non essendoci fotorecettori, l’occhio non è sensibile alla luce. Tuttavia il cervello riesce a ricostruire l’immagine mancante attraverso un processo di riempimento virtuale. Le parti più periferiche della retina contengono quasi solo bastoncelli, che sono tanti ma poco precisi. Non distinguono né la forma, né i colori degli oggetti; quando un oggetto entra nel campo visivo dell’occhio e si desidera osservarlo più approfonditamente, si effettua un movimento istin-
Fig. 1 – Una schematizzazione del sistema visivo umano.
16 tivo dell’occhio e della testa allo scopo di portare l’immagine nella zona centrale della retina, dove si ha la massima acutezza visiva. Man mano che ci si sposta verso la zona centrale della retina si ha una visione sempre più nitida, sino a raggiungere il massimo della precisione nella cosiddetta fovea, al centro della macchia lutea, dove sono presenti solo coni. Si possono quindi distinguere tre aree di osservazione: la visione panoramica dell’occhio, che abbraccia un campo molto vasto di circa 140° orizzontali e di circa 120° verticali; la visione della cosiddetta macchia lutea, che abbraccia un campo di 8x6°; il campo della fovea, la zona di massima acutezza visiva, che è ampia poco più di 1°. L’elaborazione del cervello è estremamente complessa e un software di elaborazione di immagini anche sofisticato come Photoshop rimarrebbe allibito nello scoprire le sue capacità elaborative. Oltre a ricostruire l’immagine che non proviene dal punto cieco, il cervello è in grado di esaltare un oggetto rispetto allo sfondo, organizzare l’informazione visiva associando concetti a ciascun oggetto e far riferimento alle esperienze e alle immagini precedenti. Se a questo si aggiunge che di occhi ne abbiamo due e che il cervello, attraverso la combinazione informativa dei due organi, è in grado di far apprezzare la terza dimensione, la profondità, conferendo all’immagine, in movimento continuo, la tridimensionalità, si capisce che siamo di fronte a uno strumento unico, grandioso, irriproducibile. L’occhio, o meglio il nostro sistema visivo, ha anche qualche lieve difettuccio. Tra i più evidenti c’è la non possibilità di accumulare energia luminosa proveniente da immagini di oggetti deboli. In una camera fotografica è possibile allungare quasi indefinitamente il tempo di esposizione in maniera da accumulare l’energia ricevuta dai fotoni e mettere così in evidenza le pallide luminescenze provenienti da nebulose o galassie deboli. L’occhio non ha questa capacità: circa ogni ventesimo di secondo
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17 l’immagine viene acquisita e processata, senza avere la possibilità di un’accumulazione fotonica. Un altro e forse più importante difetto del nostro sistema visivo è quello di elaborare troppo le immagini, fino a farci vedere, qualche volta, cose che nella realtà non ci sono. È difficile distinguere in maniera netta ciò che è elaborazione pura e semplice dell’immagine da ciò che è interpretazione che il cervello ne fa per organizzarla, categorizzarla e confrontarla con altre simili. Sta di fatto che, se proviamo a descrivere un’immagine memorizzata nel nostro cervello, è probabile che alcuni dettagli siano stati elaborati in maniera tale da risultare differenti dalla realtà. Queste differenze sono qualche volta determinanti per il successo o l’insuccesso di un’operazione di investigazione di polizia così come di un’osservazione planetaria, come vedremo in altri capitoli di questo libro. Il fatto poi che il nostro sistema visivo non sia dotato di stampante digitale a colori incorporata non possiamo considerarlo un difetto! Forse potremmo immaginarci di poterlo dotare di una interfaccia USB per la connessione a unità esterne… può sembrare uno scherzo ma non ci allontaniamo troppo dalla realtà. Infatti la ricerca neurobiologica e la bioingegneria stanno facendo passi da gigante e oggi è già possibile “far vedere” a un cieco, cioè trasmettere al cervello immagini riprese da una telecamera e farle elaborare dal cervello come se provenissero dall’occhio umano. È impossibile descrivere, anche sinteticamente, tutto ciò che l’Uomo è stato in grado di osservare in cielo con il proprio occhio nei vari millenni della sua vita ed evoluzione. E non è lo scopo principale di questo libro. In letteratura si trovano centinaia di testi che illustrano minuziosamente l’Astronomia pre-telescopica effettuata dalle varie civiltà nelle diverse epoche preistoriche e storiche. Mi limiterò quindi a tre soli esempi che possono far comprendere con quanta
1. L’ASTRONOMIA A OCCHIO NUDO intensità e precisione l’Uomo abbia osservato il cielo, anche senza alcuno strumento ottico in grado di amplificare la propria vista. I Babilonesi e l’Astronomia Nella regione asiatica tra il Tigri e l’Eufrate, genericamente denominata Mesopotamia (che in greco antico vuol dire “terra tra le acque”), si svilupparono le civiltà dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi. Durante il regno di Hammurabi, intorno al 1700 a.C., il Primo Impero Babilonese ebbe il massimo del suo splendore e ciò coincise anche con un crescente interesse del Re e dei suoi sudditi nei confronti dell’Astronomia. I Babilonesi furono i primi a riconoscere la periodicità dei fenomeni astronomici e i primi ad applicare la logica e una formulazione matematica alle loro predizioni. Alcune tavolette d’argilla rinvenute documentano come i Babilonesi utilizzavano la matematica per misurare e predire la variazione della lunghezza delle ore del giorno durante l’anno solare. Per diversi secoli hanno tenuto sotto costante osservazione alcuni specifici fenomeni celesti che furono registrati in una settantina di tavolette, conosciute come «Enuma Anu Enlil» (il cui significato è all’incirca “Nei giorni di Anu e Enlil”, due re babilonesi del Primo Impero). Sulla «Tavoletta di Venere di Ammisaduqa», gli astronomi hanno riportato il primo e l’ultimo momento di visibilità di Venere nell’arco di circa ventuno anni. Si tratta della prima testimonianza che mette in evidenza la periodicità di lungo periodo dei fenomeni planetari. Per esempio, i Babilonesi scoprirono che, al di là della periodicità mensile delle fasi della Luna, ne esiste una più lunga, di circa diciotto anni, chiamata Ciclo di Saros, con cui si ripetono le eclissi di Sole e di Luna. Attraverso queste osservazioni di lunghissimo periodo i Babilonesi furono in grado di predire la gran parte dei fenomeni astronomici rilevanti, quali congiunzioni di pia-
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Fig. 2 – La Tavoletta di Venere di Ammisaduqa.
neti, considerate per lo più nefaste, e le eclissi di Sole e di Luna. Tutto è riportato in maniera sistematica sulle varie tavolette in caratteri cuneiformi. Il testo denominato Mul.Apin, che si fa risalire a circa il 1000 a.C., contiene un catalogo di 66 stelle e costellazioni, così come schemi per predire la levata del Sole e le posizioni dei pianeti, la lunghezza delle ore diurne misurata attraverso clessidre, gnomoni, ombre e infine metodi per sincronizzare il calendario lunare a quello solare. Ci sono decine di testi mesopotamici che descrivono osservazioni di eclissi, soprattutto fatte dalla città di Babilonia. Tali osservazioni, di straordinaria precisione, sono state tramandate fino a noi, risultando fondamentali per lo studio prodotto nel 1997 da F. Richard Stephenson (1941, vivente), professore di Storia dell’Astronomia all’Università di Durham, che ha dimostrato che la Terra sta rallentando nella sua rotazione di circa 2,3 millisecondi
18 al secolo, a causa dell’effetto mareale della Luna. Questa piccolissima variazione, su scala millenaria, ha comportato uno spostamento di diverse decine di chilometri dell’ombra prodotta dalle eclissi totali di Sole verificatesi durante il periodo babilonese, e da ciò Stephenson è stato in grado di calcolare il leggero rallentamento della rotazione della Terra. Più recentemente, quando ormai la civiltà babilonese era in fase di declino per essere soppiantata gradualmente dalla civiltà greca, l’astronomo caldeo Seleuco di Seleucia (circa 190 – 150 a.C.) trovò delle concrete giustificazioni alla teoria eliocentrica, per la prima volta ipotizzata dall’astronomo greco Aristarco di Samo (circa 310 – 230 a.C.), attraverso l’osservazione delle maree. Purtroppo, circa tre secoli più tardi, l’astronomo greco Claudio Tolomeo (100 – 175 d.C.), attraverso un’opera che diventò rapidamente molto popolare, l’Almagesto, tornò a una formulazione geocentrica del Sistema Solare, tolemaica, appunto. Tale concezione rimase come riferimento per tutto il mondo occidentale e arabo fino al Medioevo, quando fu sostituita nuovamente da una teoria eliocentrica per merito dell’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473 – 1543), che descrisse la sua tesi nel famoso De revolutionibus orbium coelestium, pubblicato per la prima volta a Norimberga nel 1543. Come si vede, l’influenza che i Babilonesi hanno avuto nell’evoluzione della conoscenza dell’Astronomia è straordinaria, e ancora oggi i loro studi non sono del tutto compresi. Eratostene di Cirene e la misura della Terra Circa duemila anni dopo rispetto al Primo Impero Babilonese, Eratostene di Cirene (276 – 194 a.C.), astronomo, matematico, geografo e filosofo greco, essendo anche bibliotecario alla Biblioteca di Alessandria d’Egitto, aveva potuto compiere da lì fondamentali osservazioni astro-
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19 nomiche, anch’esse poi cadute nel dimenticatoio. Dai suoi studi era venuto a conoscenza del fatto che a Syene, una città nel sud dell’Egitto (l’attuale Assuan), a mezzogiorno del solstizio d’estate, il Sole si trovava esattamente sullo zenit, la verticale del luogo, tanto da illuminare il fondo di un pozzo profondo, perciò un bastone piantato verticalmente in un terreno perfettamente pianeggiante non avrebbe proiettato alcuna ombra in terra. Ad Alessandria, invece, questo non succedeva mai: gli obelischi proiettavano comunque la loro ombra sul terreno. L’idea che la Terra dovesse avere una forma sferica era già comunemente accettata dagli astronomi e filosofi dell’epoca. Una delle prove portate a dimostrazione della rotondità della Terra era la forma dell’ombra terrestre durante le eclissi di Luna. E già questa semplice considerazione dimostra la grande acutezza di osservazione dei popoli antichi: quanti di noi di fronte al
Fig. 3 – Lo schema del metodo di Eratostene per la determinazione del raggio della Terra.
1. L’ASTRONOMIA A OCCHIO NUDO fenomeno di un’eclisse di Luna farebbero oggi la stessa semplice considerazione? Ma quanto era grande la Terra? Eratostene aveva intuito che dalla differente posizione del Sole ad Alessandria e a Syene poteva calcolarne la dimensione. Eratostene, per procedere nei suoi calcoli, fece alcune semplificazioni: considerò la Terra perfettamente sferica e il Sole sufficientemente distante da poter considerare paralleli i raggi che giungono sulla nostra superficie. Inoltre assunse che Alessandria e Syene si trovassero sullo stesso meridiano; in realtà le due città differiscono di circa 3° di longitudine, ma la sua approssimazione era piuttosto buona. A mezzogiorno del solstizio d’estate, quando a Syene il Sole non produceva alcuna ombra perché si trovava esattamente allo zenit, ad Alessandria Eratostene piantò un bastone per terra perfettamente verticale e misurò la lunghezza dell’ombra. Ricavò l’angolo tra lo zenit e la posizione del Sole ad Alessandria: un po’ più di 7°. Eratostene stimò il valore in 7° 12’. Questo angolo, rispetto all’intera circonferenza di 360°, corrisponde a circa 1/50. Sulla base dei racconti dei carovanieri stimò la distanza tra Alessandria e Syene in circa 5000 stadia. Quanto fosse il valore in metri di uno stadium usato a quell’epoca ad Alessandria non ci è stato tramandato ma, secondo vari autori, questa unità di misura antica è compresa tra 160 e 180 m. La circonferenza della Terra, secondo i calcoli di Eratostene, doveva essere quindi di 50x5000 = 250.000 stadia. Convertendo questa misura in chilometri, la circonferenza della Terra era compresa tra i 40.000 e i 45.000 km, il che porta a un raggio compreso tra 6366 e 7161 km. Oggi noi sappiamo che la Terra non è esattamente sferica ma è un geoide leggermente schiacciato ai poli il cui raggio equatoriale è 6378,388 km e il raggio polare è 6356,912 km. La misura fatta da Eratostene, oltre due-
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OCCHI AL CIELO mila anni fa, senza l’utilizzo di alcun sofisticato strumento, era dunque di una precisione sbalorditiva. Ciò fa comprendere quanto fossero accurate le osservazioni e le misure degli astronomi dell’antichità. Oggi il metodo di Eratostene è spesso usato nelle scuole per riprodurre l’esperimento della misura del raggio terrestre: gli studenti di due scuole che si trovano all’incirca sul medesimo meridiano (per es. a Genova e a Cagliari o a Roma e a Palermo) misurano nello stesso istante, aiutati dai telefoni cellulari, la lunghezza dell’ombra di uno gnomone verticale e da questa semplice misura possono ricavare il raggio terrestre. Si cerchi su Internet “Rete di Eratostene” e si potrà leggere di questo interessante progetto didattico. Le osservazioni di Tycho Brahe e i modelli di Giovanni Keplero Circa duemila anni dopo Eratostene, Tycho Brahe (1546 – 1601) è stato l’ultimo grande astronomo che operò a occhio nudo. Danese, ricco di famiglia e appoggiato da re Federico II di Danimarca e Norvegia, costruì un grande Osservatorio astronomico, che chiamò Uraniborg, nell’isola di Hveen (l’attuale Ven, una piccola isola tra la Danimarca e la Svezia), che gli fu donata dal Re. Realizzò sofisticati strumenti astronomici per misurare angoli ed elevazioni che gli consentirono di seguire l’esatto movimento dei pianeti rispetto alle stelle fisse. Nel novembre 1572, Tycho osservò una stella molto luminosa che era improvvisamente apparsa nella costellazione di Cassiopea. Ciò contrastava la teoria aristotelica che il mondo delle stelle fisse fosse eterno e immutabile e per questo motivo alcuni astronomi del tempo sostennero che il fenomeno fosse dovuto a qualcosa che non riguardava il cielo stellato ma, forse, l’atmosfera terrestre. Brahe però osservò che la posizione di questa stella non cambiava di notte in notte rispetto alle stelle circostanti, suggerendo che l’oggetto fosse molto distante. L’anno seguente pub-
20 blicò un libro, De Stella Nova, coniando il termine nova per indicare una nuova stella. Nel 1577 e nel 1585 Tycho osservò due comete che gli diedero la conferma che le sfere celesti non erano affatto immutabili. Nonostante ciò, Tycho riteneva che il modello eliocentrico di Copernico fosse errato. Aveva infatti elaborato un modello, che prese poi il nome di modello tychonico, secondo cui il Sole girerebbe attorno alla Terra immobile, e tutti gli altri pianeti girerebbero attorno al Sole; a sostegno di questo modello Brahe portò le stesse osservazioni della supernova del 1572. Se la Terra fosse stata in moto, allora le stelle vicine avrebbero dovuto cambiare posizione relativamente alle stelle più lontane, mentre nessun movimento era visibile. In realtà questo effetto di parallasse esiste ma non poteva essere osservato a occhio nudo. Bisognerà attendere più di duecentocinquanta anni per avere la prima misura di parallasse stellare, la quale fu effettuata nel 1838 dall’astronomo tedesco Friedrich
Fig. 4 – Il modello tychonico di Brahe. La Terra era immobile, al centro di un Universo racchiuso dalla sfera delle stelle fisse. La Terra era il centro anche delle orbite della Luna e del Sole che, a sua volta, era il centro delle orbite degli altri 5 pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno).
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21 Wilhelm Bessel (1784 – 1846) sulla stella 61 Cygni. Il modello tychonico rappresenta una specie di compromesso tra il geocentrismo tolemaico e l’eliocentrismo copernicano; rispetto a quest’ultimo è più allineato alla tradizione, mantenendo valida l’ipotesi dell’immobilità e centralità della Terra, ma comunque generando un’incompatibilità con la Fisica di Aristotele che immaginava le sfere celesti cristalline concentriche alla Terra. L’illuminato re Federico II di Danimarca e Norvegia morì nel 1588 e a lui successe il giovanissimo figlio Cristiano IV. A causa di incomprensioni con il nuovo Re e del taglio dei fondi per l’Osservatorio di Uraniborg, Tycho Brahe fu costretto a trasferirsi e scrisse infuriato: «Gli astronomi devono essere cosmopoliti perché non ci si può attendere che uomini di stato ignoranti apprezzino i loro servigi». Si spostò a Praga nel 1597, dove trovò una splendida accoglienza da parte di Rodolfo II d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Costruì un nuovo Osservatorio nel castello di Benátky, una località a una cinquantina di chilometri da Praga, dove continuò a osservare il cielo stellato fino alla sua precoce morte, avvenuta a causa di una potentissima indigestione, o forse di un avvelenamento, durante un banchetto di corte. Tycho Brahe, sia durante la sua lunga permanenza a Uraniborg che successivamente al castello di Benátky, era stato in grado di formare una scuola di assistenti e allievi ai quali affidava incarichi osservativi e di calcolo. Tra questi vi fu Giovanni Keplero (1571 – 1630), matematico e astronomo tedesco. Più giovane di Tycho di venticinque anni e già noto in tutta Europa per le sue capacità matematiche, Keplero fu assunto alla corte di Rodolfo II in qualità di matematico imperiale. Il fortunato incontro tra Tycho e Keplero consentì l’integrazione tra due competenze molto diverse: per Tycho fu l’occasione di lavorare insieme a un grande matematico e, anche grazie al lavoro di questi, riuscire a
1. L’ASTRONOMIA A OCCHIO NUDO dare più solidità e completezza al suo modello cosmologico; per Keplero fu l’occasione per lavorare in un grande Osservatorio Astronomico e avere a disposizione una straordinaria quantità di dati accumulati in decine di anni da Tycho, sui quali poter continuare con maggior probabilità di successo la propria ricerca di un ordine matematico del Sistema Solare. Tycho assegnò a Keplero, fin dai primi tempi in cui cominciò a far parte dei suoi collaboratori, il compito di studiare il moto di Marte, di cui fino ad allora si era occupato l’astronomo danese Christen Sørensen (1562 – 1647) con scarso successo. Oggi sappiamo che Marte ha un’orbita piuttosto ellittica e che il modello copernicano con le orbite circolari vi si adattava piuttosto male. Dopo alcuni anni di conti, Keplero comprese che, per riuscire ad adattare le osservazioni di Tycho, era necessario deformare la traiettoria di Marte e farla allontanare da quella circolare; dopo alcuni tentativi provò con un’orbita ellittica e la curva interpolava molto meglio i dati osservativi. Nel 1609 Keplero pubblicò il trattato Astronomia nova, con il sottotitolo «De motibus stella Martis», nel quale enunciava le sue due prime leggi: – le orbite dei pianeti sono ellittiche e il Sole occupa uno dei due fuochi; – la velocità areolare, cioè l’area descritta dal raggio-vettore che collega il Sole a un pianeta nell’unità di tempo, è costante. Solo dieci anni più tardi, dopo una serie di gravi lutti familiari che colpirono suo figlio e sua moglie e dopo un trasferimento a Linz, Keplero formulò la sua terza legge nell’opera Harmonices Mundi, dove giunse finalmente a definire quella legge matematica che doveva descrivere i moti dei pianeti intorno al Sole e che aveva lungamente cercato. Com’è noto, la terza legge mette in relazione le dimensioni delle orbite con i periodi di rivoluzione: il cubo del semiasse maggiore di un’orbita di un pianeta è direttamente proporzionale al quadrato del suo periodo di rivoluzione.
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OCCHI AL CIELO Questi fatti hanno una sequenza di coincidenze impressionanti senza le quali la storia dell’Astronomia si sarebbe probabilmente sviluppata in modo differente. Se Tycho Brahe non fosse stato costretto ad andare via da Uraniborg, se Keplero non fosse stato assunto alla corte di Rodolfo II, se Tycho non avesse affidato a Keplero le osservazioni di Marte, il pianeta con l’orbita più ellittica del Sistema Solare allora conosciuto, probabilmente le precise osservazioni di Tycho e i modelli matematici di Keplero non si sarebbero mai incontrati e Keplero non sarebbe stato in grado di formulare le tre leggi. Ancora una coincidenza: Keplero pubblica Astronomia nova nel 1609, un anno straordinario per l’Astronomia, anno nel quale, in Italia, un certo Galileo Galilei (1564 – 1642) iniziava a compiere le prime osservazioni con un nuovo strumento: il telescopio. Ma questo lo vedremo nel prossimo capitolo.
22 Oggi gli astronomi non osservano più il cielo stellato a occhio nudo. Per compiere osservazioni scientificamente valide occorrono strumentazioni sempre più sofisticate e specializzate. La bellezza del cielo stellato a occhio nudo è però incomparabile. Allontaniamoci dalle città e andiamo in montagna, possibilmente oltre i 1500 m di altezza, distendiamoci su un prato e attendiamo la notte. Potremo godere di un cielo ancora poco inquinato dalle luci artificiali e osservare la Via Lattea, distinguere le costellazioni, individuare i pianeti, osservare stelle di vari colori dal rosso-arancio al blu, materializzare il moto di rotazione della Terra, distinguere nebulose, ammassi stellari, sacchi di carbone, e perderci per ore nell’infinità dello spazio che è sopra di noi. Il primo strumento per osservare il cielo stellato ed essere fatalmente attratti dalla folgorante bellezza dall’Astronomia è, e rimane, l’occhio nudo.
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2. L’INVENZIONE DEL TELESCOPIO E LE RIVOLUZIONARIE OSSERVAZIONI DI GALILEO Probabilmente da sempre l’Uomo ha inseguito l’idea di un super-occhio, in grado di ingrandire oggetti lontani o di osservare al buio. Per molti millenni questo sogno è rimasto tale. Ruggero Bacone, soprannominato Doctor Mirabilis (1214 – 1294 circa), un frate francescano filosofo e scienziato inglese, padre dell’empirismo, è stato probabilmente uno dei primi a immaginarsi uno strumento per ingrandire. Bacone è sicuramente un uomo vissuto fuori del suo tempo. Nella sua opera maggiore, De secretis operibus artis et naturae, si legge: «Arriveremo a costruire macchine capaci di spingere grandi navi a velocità più forti che un’intera schiera di rematori e bisognose soltanto di un pilota che le diriga. Arriveremo a imprimere ai carri incredibili velocità senza l’aiuto di alcun animale. Arriveremo a costruire macchine alate, capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli». Un visionario, senz’altro, che però ha previsto una quantità di macchine e strumenti che poi l’Uomo è stato in grado di realizzare. Un capitolo di questa sua opera è dedicato ai principi dell’ottica, così come conosciuti nell’XI secolo. Si intravedono delle lenti, forse per ingrandire oggetti vicini, ma anche strane configurazioni che possono far ipotizzare qualcosa di più complesso. Intorno al 1285 fanno la loro comparsa, in Italia, i primi occhiali con lenti convesse per correggere la presbiopia (per correggere la miopia bisognerà attendere la metà del Quattrocento, quando verranno prodotte le prime lenti concave). Firenze in quel periodo divenne uno dei centri più importanti d’Europa per la produzione di lenti e fiorì una cospicua attività di produ-
zione di occhiali che dava lavoro a una cinquantina di piccole imprese artigiane. A partire dai primi del Cinquecento i vetrai veneziani iniziarono a soppiantare i fioren-
Fig. 1 – Una pagina dell’opera De secretis operibus artis et naturae di Ruggero Bacone che tratta di ottica.
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OCCHI AL CIELO tini nella produzione delle lenti, anche per merito dell’invenzione di un nuovo tipo di vetro, più trasparente, puro e senza bolle, a cui fu dato il nome di vetro-cristallo. Bisogna attendere la fine del 1500 per trovare qualche riferimento certo di uno strumento che mettesse in grado l’occhio di migliorare le proprie prestazioni e avvicinare gli oggetti lontani. Giovanni Battista Della Porta (1535 – 1615), filosofo, scienziato e commediografo napoletano, è probabilmente la persona che si è avvicinata più di chiunque altro nel Cinquecento a una formulazione quasi definitiva di questo strumento. Della Porta ha lasciato decine di opere nei più disparati campi del sapere, che iniziò a pubblicare già da giovanissimo. A soli quindici anni, la sua prima opera enciclopedica Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium si occupa di cosmologia, geologia, ottica e molto altro: un coacervo di argomenti trattati in manie-
Fig. 2 – La lettera di Giovanni Battista Della Porta a Federico Cesi del 28 agosto 1609 che riporta lo schema dell’occhialetto per far vedere vicini gli oggetti lontani.
24 ra compilativa che spaziavano in qualsiasi campo dello scibile umano. Nel 1589 pubblicò un’opera dedicata solo all’ottica, De refractione optices, nella quale si legge: «Con una lente concava vedrai le cose lontane più piccole ma distintamente, con una lente convessa le cose che sono vicine più grandi ma più scure. Se sai come metterle entrambe insieme, vedrai più grandi e distinte sia le cose lontane che quelle vicine». Gli storici, ad oggi, non hanno ben compreso se il Della Porta abbia realmente realizzato questo strumento oppure lo abbia solamente immaginato e descritto. Solo molto più tardi, nell’agosto del 1609, in una lettera che Della Porta inviò allo scienziato romano Federico Cesi (1585 – 1630), egli parlò esplicitamente dell’occhialetto e ne disegnò gli elementi costitutivi. Ma già un anno prima, il 25 settembre 1608, un occhialaio olandese di Middelburg, Hans Lippershey (1570 – 1619), presentò agli Stati Generali d’Olanda una richiesta di brevetto per produrre in esclusiva uno strumento in grado di ingrandire. Senza attendere il parere di questa commissione, Lippershey si recò a L’Aia per presentare la sua invenzione al principe Maurizio di Nassau, il quale lo mostrò a sua volta ad Ambrogio Spinola, comandante delle forze spagnole nel sud dei Paesi Bassi. In poco tempo questa invenzione era stata divulgata, attraverso i canali diplomatici, a molte altre persone in giro per l’Europa. Solo un mese più tardi un produttore teatrale, sempre di Middelburg, Sacharias Janssen (1580 – 1638), dichiarò di aver inventato qualcosa di molto simile. Infine, un altro occhialaio di Alkmaar, distante oltre duecento chilometri da Middelburg, Jacob Metius (1571 – 1628), presentò una richiesta di brevetto analoga a quella di Lippershey. Gli Stati Generali, evidentemente molto efficienti, in pochissimo tempo espressero il proprio giudizio dichiarandosi molto interessati al nuovo strumento, in particolare per le importanti applicazioni militari, e chiesero sia a Lippershey che a Metius (Janssen non presentò mai richiesta di brevetto) di pre-
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2. L’INVENZIONE DEL TELESCOPIO E LE RIVOLUZIONARIE OSSERVAZIONI DI GALILEO Fig. 3 – Un’antica stampa raffigurante l’ottico Hans Lippershey che dimostra la sua invenzione.
pararne esemplari di migliore qualità e possibilmente binoculari. Nel dicembre 1608, dopo aver compensato Lippershey e Metius con 300 fiorini ciascuno per i loro sforzi, gli Stati Generali d’Olanda decisero di non concedere alcun brevetto dichiarando che il nuovo strumento, costituito da un semplice tubo di metallo, una lente da presbite come obiettivo e una lente da miope per oculare, era di troppo facile realizzazione. Non a caso, in pochi mesi, il segreto della costruzione di questo occhialetto era ormai circolato in mezza Europa. Nell’ottobre 1608 fu stampato a L’Aia il rapporto della missione diplomatica del principe Maurizio nei Paesi Bassi. Una parte consistente del rapporto descrive in dettaglio l’occhialetto presentato da Lippershey al principe Maurizio e al comandante Spinola e si legge: «Con l’aiuto di detto occhialetto, dalla torre dell’Aia si vedono chiaramente l’orologio di Delft e le finestre della chiesa di Leida, nonostante che queste città distino da L’Aia rispettivamente un’ora e mezza e tre ore e mezza di strada». Nella primavera del 1609 si potevano acquistare occhialetti, in grado di ingrandire fino a due-tre volte, nei negozi di Parigi e Londra e, probabilmente, qualche esemplare era giunto anche in Italia. Una copia del rapporto della missione diplomatica del principe Maurizio raggiunse il religioso e teologo Paolo Sarpi (1552 –
1623) a Venezia, circostanza rilevante, come vedremo nel prossimo paragrafo. Galileo e il perspicillum Che il telescopio non sia un’invenzione di Galileo Galilei è un fatto ormai assodato. Il grande scienziato pisano si era trasferito a Padova nel 1592 perché gli era stata offerta una cattedra di lettore di matematiche e, soprattutto, uno stipendio considerevolmente più elevato di quello che percepiva a Pisa. Si era ben inserito nella città veneta e, spesso, andava a Venezia per seguire le costruzioni navali all’Arsenale e per incontrare alcuni amici influenti nella città lagunare. Tra questi, sicuramente, incontrò più volte il religioso Paolo Sarpi, suo buon amico, e probabilmente da lui venne a sapere della nuova invenzione. Forse riuscì anche ad avere un esemplare di occhialetto da Parigi. Nel giugno del 1609 Galileo si mise a studiare le proprietà dell’occhialetto. Ne produsse una prima versione che ingrandiva circa tre volte. Essendo un abile costruttore di strumenti, rapidamente comprese che, per ottenere maggiori ingrandimenti, aveva necessità di accoppiare una lente obiettiva convessa più debole (a focale più lunga) e un oculare più forte (di focale corta). Il secondo occhialetto produceva circa otto ingrandimenti, molti di più di quelli già in commercio provenienti dai
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Fig. 4 – «Galileo Galilei mostra il cannocchiale alla Signoria di Venezia», rappresentazione del pittore Guglielmo De Sanctis (1829 – 1911).
Paesi Bassi che raggiungevano al massimo tre ingrandimenti. Il 21 agosto 1609 Galileo portò il perspicillum (così aveva chiamato questo nuovo strumento) sulla cima del campanile di San Marco a Venezia e ne dette dimostrazione al Doge e a un gruppo di nobili veneziani. Tre giorni dopo donò lo strumento al doge Leonardo Donato, facendogli apprezzare soprattutto gli usi militari dello strumento stesso. Così scrive Galileo al doge: «Ser.mo Principe, Galileo Galilei, humilissimo servo della Ser.a a V. , […], compare al presente avanti di quella con un nuovo artifizio di un occhiale cavato dalle più recondite speculazioni di prospettiva, il quale conduce gl’oggetti visibili così vicini all’occhio, et così grandi et distinti gli rappresenta, che quello che è distante nove miglia, ci apparisce come fosse lontano un miglio solo: cosa che per ogni negozio et impresa marittima o terrestre può esser di giovamento inestimabile». Il 25 agosto, solo quattro giorni dopo la prima dimostrazione ufficiale del perspicillum, a Galileo fu conferita una posizione a vita all’Università di Padova con un compenso raddoppiato: da 520 a 1000 fiorini. L’aumento però sarebbe scattato solo al rinnovo del contratto, dopo cinque anni. Nelle settimane e mesi successivi, Galileo continuò a migliorare la tecnica costruttiva del perspicillum, anche lavorando autonomamente le lenti. Comprese
che, se riduceva il diametro dell’obiettivo attraverso un diaframma, le immagini, anche se un po’ più scure, ne acquistavano
Fig. 5 – Il perspicillum di Galileo Galilei. Questi due esemplari sono custoditi al Museo di Storia della Scienza di Firenze che, dal 2009, è intitolato a Galileo Galilei.
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in nitidezza. Riuscì, attraverso questi vari miglioramenti, ad arrivare a poco più di trenta ingrandimenti con un obiettivo di circa 4 cm di diametro, che però diaframmava a circa 2,5 cm per contenere l’aberrazione cromatica. L’utilizzo di una lente divergente come oculare aveva lo svantaggio che il campo visivo dello strumento era molto limitato. Con circa 30 ingrandimenti, il campo era circa 10’ d’arco, un terzo del diametro lunare. Galileo adottò il termine perspicillum, da perspicio, che in latino significa guardare in profondità, penetrare con lo sguardo la realtà, senza che essa si sottragga a noi. Il termine cannocchiale, introdotto solo successivamente, non ha la stessa sensibilità: cannocchiale rimanda a considerazioni prevalentemente esteriori di questo strumento, la canna, un tubo, una lente, l’occhiale. Ma con il perspicillum l’intenzione di Galileo è di proporre qualcosa di più: vuole assicurarsi la capacità di conquistare l’intimità degli oggetti celesti. Perché il vero atto inventivo e rivoluzionario di Galileo è utilizzare questo strumento per elevarlo verso il cielo, osservando la Luna, il Sole, i pianeti, le stelle. Sono le osservazioni che hanno cambiato il modo di percepire il mondo e hanno trasformato l’Astronomia nella Scienza moderna che oggi conosciamo. Le prime osservazioni della Luna Thomas Harriot (1560 – 1621) è stato un matematico e astronomo inglese che ha avuto una vita piuttosto avventurosa, inframmezzata di luci e ombre. Laureatosi brillantemente a Oxford, partì, appena venticinquenne, per le Americhe al seguito di una spedizione organizzata da Walter Raleigh, un poco raccomandabile corsaro inglese. Pensando di conquistare il Nuovo Mondo, Harriot sbarcò sull’isola di Roanoke, al largo della costa del Nord Carolina e lì condusse alcuni studi sul comportamento di quelle popolazioni. Dopo qualche anno tornò in Inghilterra e fu ospi-
Fig. 6 – Alcuni dei disegni della Luna effettuati da Thomas Harriot: (a) il 26 luglio 1609, (b) il 17 luglio 1610 e (c) una mappa che completò nel 1611.
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Fig. 7 – Gli acquerelli della Luna fatti da Galileo tra il novembre e il dicembre 1609 (vedi Inserto fotografico, pag. I).
tato dal Conte del Northumberland con l’intento di dedicarsi agli studi di matematica. Fu però imprigionato per alcuni mesi con l’accusa di cospirazione. Nel 1607 osservò la cometa di Halley che fece risvegliare in lui l’interesse verso l’Astronomia. Il 26 luglio 1609 ebbe tra le mani un cannocchiale, probabilmente prodotto dagli ottici olandesi, e con questo osservò la Luna. Si trattava di un cannocchiale in grado di ingrandire le immagini non più di cinque o sei volte. Harriot iniziò a fare dei disegni della Luna in vari giorni e con varie fasi della Luna. Harriot, nella sua vita, non pubblicò mai alcun suo scritto o osservazione, forse anche a causa della sua vita travagliata e discussa. I suoi successori pubblicarono, dieci anni dopo la sua morte, l’opera Artes analyticae Praxis. Questo scritto può essere considerato il compendio del suo lavoro
28 nel quale si apprende, per esempio, che probabilmente Harriot scoprì la legge di Snell della rifrazione circa venti anni prima dello stesso Willebrord Snell (1580 – 1626), matematico, fisico e astronomo olandese. Le osservazioni di Harriot sono le prime osservazioni telescopiche della Luna. Galileo però non poteva sapere di questo suo oscuro predecessore. Tra il novembre e il dicembre 1609 Galileo punta il suo perspicillum dotato di una ventina di ingrandimenti sulla Luna. Ne effettua diversi schizzi con l’acquarello e ne parla dettagliatamente nel Sidereus Nuncius, pubblicato il 13 marzo 1610, in questo modo: «Cominciamo dunque a parlare della faccia lunare che è rivolta al nostro sguardo. La parte più chiara par circondare e cospargere di sé tutto l’emisfero; la più oscura invece, offusca a guisa di nuvola la faccia stessa e la fa apparire macchiata. Ora queste macchie, alquanto oscure e abbastanza ampie, sono visibili ad ognuno e sempre in ogni epoca furono scorte; e perciò le chiameremo grandi, o antiche, a differenza di altre macchie, minori per ampiezza. [...] Queste invero da nessuno furono osservate prima di noi; e dalle ripetute ispezioni di esse siamo giunti alla convinzione che la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto, ma, al contrario, diseguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra, la quale si differenzia qua per catene di monti, là per profondità di valli». La Luna è dunque un corpo planetario come la Terra. Questa è la semplice e straordinaria conclusione di Galileo una volta osservato il nostro satellite col telescopio. Galileo osserva Giove e i suoi satelliti La notte del 7 gennaio 1610, osservando Giove col suo perspicillum, Galileo scorge, nei pressi del globo planetario, tre stelle che descrive come «piccole ma luminosissime». La sera successiva egli trova una diver-
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sa disposizione delle tre stelline rispetto a Giove, come se il pianeta si fosse spostato verso est rispetto allo sfondo delle stelle fisse. In quei giorni, però, secondo le effemeridi, il pianeta avrebbe dovuto essere retrogrado e quindi si sarebbe dovuto spostare verso ovest; le stelline, se di questo si trattava, si sarebbero dovute osservare in una posizione differente. Decise allora di osservare sistematicamente il fenomeno. Il 10 gennaio Galileo, solo tre giorni dopo la prima osservazione, comprese che le posizioni osservate delle stelline erano spiegabili solo ammettendo che queste si muovessero attorno al pianeta. Infine, la notte del 13 gennaio Galileo scoprì un quarto astro in rotazione attorno a Giove. Continuò a osservare Giove e i suoi satelliti per molti anni, annotando scrupolosamente il balletto dei satelliti intorno al pianeta. In circa due mesi riuscì a determinare approssimativamente il periodo di rivoluzione dei quattro satelliti. La scoperta costituiva una formidabile argomentazione a favore del sistema eliocentrico copernicano, di cui Galileo era un convinto sostenitore, ed anche del sistema thyconico. I detrattori di questo modello sostenevano, infatti, che se tutto l’Universo ruotasse intorno al Sole non si spiegherebbe perché la Luna, e solo lei, ruoti intorno alla Terra. L’esistenza di lune di Giove era la chiara dimostrazione che anche altri pianeti possono avere astri che ruotano attorno a loro senza necessariamente pregiudicare il sistema eliocentrico. L’osservazione delle macchie solari I primi certi riferimenti alle macchie solari risalgono agli astronomi cinesi che riuscirono a registrare, sin dal 28 a.C., grossi gruppi di macchie a occhio nudo quando il Sole era molto basso sull’orizzonte e la sua luce era attenuata e arrossata dall’atmosfera terrestre. In Occidente le prime osservazioni sono molto meno certe. Il filosofo greco Anassagora sembra accennare a osservazioni di
Fig. 8 – Un brogliaccio di Galileo recante le osservazioni di Giove e la posizione dei satelliti dal 1610 al 1613.
macchie solari nel 467 a.C. Tuttavia Anassagora viveva in un clima culturale nel quale si pensava che il cielo dovesse essere perfetto e immutabile. Nel 1607 Giovanni Keplero aveva calcolato un transito di Mercurio sul Sole; praticò un piccolo foro sul tetto della sua abitazione e, nel giorno previsto, utilizzando la propria casa come una camera oscura, si mise all’osservazione del Sole. Vide un puntino scuro sulla superficie luminosa del Sole e credette di aver osservato Mercurio. Il giorno dopo, per conferma, osservò nuovamente il Sole e trovò lo stesso puntino, un po’ spostato, sul disco solare. A quel punto comprese che non poteva trattarsi di Mercurio, perché secondo i suoi conti il pianeta doveva impiegare solo qualche ora nel transitare davanti al disco solare. Quindi intuì che quella macchia doveva essere qualcosa che aveva a che fare con la natura stessa del Sole. Thomas Harriot, con il suo cannocchialetto, osservò per primo le macchie solari attraverso uno strumento e ne fece alcuni disegni che furono divulgati dall’astronomo tedesco Johann Fabricius (1587 – 1616) nell’autunno 1611, con la pubblicazione di
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Fig. 9 – Le osservazioni di Thomas Harriot delle macchie solari riportate nella pubblicazione di Johann Fabricius nel 1611.
un libretto dal titolo De Maculis in Sole observatis et apparente earum cum Sole conversione narratio. Galileo, indipendentemente dalle osservazioni di Harriot e di Fabricius, nella primavera del 1611 si trovava a Roma, perché invitato ad aderire all’Accademia dei Lincei, e in tale occasione fece osservare le macchie solari a un gruppo di scienziati e potenti signorotti romani. Nei mesi seguenti, Galileo, che, per non accecarsi, inizialmente osservava il Sole solo al tramonto o quando era parzialmente coperto da nubi, mise a punto la tecnica della proiezione su un foglio bianco e iniziò l’osservazione sistematica della nostra stella, verificando che il periodo di rotazione era all’incirca di 30 giorni. Notò anche che le macchie erano mutevoli formazioni legate, probabilmente, alla superficie visibile del Sole.
30 Sulla scoperta delle macchie solari è interessante segnalare la polemica che Galileo ingaggiò con il padre gesuita e astronomo tedesco Christoph Scheiner (1573 – 1650), il quale, nel 1612, usando lo pseudonimo di Apelle, si era dichiarato primo scopritore delle macchie solari. Padre Scheiner, però, riteneva che queste non fossero proprie del Sole ma fossero, in accordo con il dogma aristotelico dell’inalterabilità dei cieli, stelle o pianeti che gli ruotano intorno. Nel 1613 Galileo diede alle stampe, come pubblicazione dell’Accademia dei Lincei, la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti per rivendicare a sé tale scoperta. Iniziata nella tarda primavera del 1612, la stampa fu terminata solo il 22 marzo 1613. Tale ritardo fu dovuto soprattutto alla difficoltà di ottenere l’imprimatur a causa della tesi centrale dell’opera riguardante la corruttibilità dei cieli, teoria avversa all’allora imperante concezione aristotelica. La Istoria è infatti l’unica opera in cui Galileo sostiene apertamente la teoria copernicana, attaccando di conseguenza quella tolemaico-aristotelica. Galileo inoltre respinge le opinioni di padre Scheiner e afferma che le «macchie sono contigue o vicinissime alla superficie del corpo solare, dove esse si generano e si dissolvono continuamente». Le tante altre scoperte astronomiche di Galileo Tra il 1610 e il 1612 Galileo ha investigato tanti altri oggetti astronomici che hanno fornito una risposta a molti aspetti ancora ignoti dell’Astronomia pre-telescopica. Osservando la Via Lattea e alcuni gruppi di ammassi stellari, Galileo si rende conto che ci sono infinite stelle non visibili a occhio nudo che emergono dal buio del cielo attraverso il suo cannocchiale. Scrutando la nostra Galassia riesce a risolverla in una moltitudine di stelle e sfata la credenza mitologica che si tratti di un fiume di latte che scorre nel cielo. Queste
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Fig. 10 – L’ammasso delle Pleiadi osservato da Galileo.
osservazioni sono riportate da Galileo nel Sidereus Nuncius, che viene pubblicato nel marzo 1610. Nel settembre 1610 Galileo inizia a osservare Venere. L’11 dicembre scrive a Giuliano de’ Medici (1574 – 1636), che si trovava a Praga come ambasciatore della Toscana, e annuncia una straordinaria scoperta astronomica. Per renderla più misteriosa, ma soprattutto per garantirsene la paternità, Galileo utilizza un anagramma: «Haec immatura a me iam frusta leguntur oy». In una successiva lettera del 1 gennaio 1611, Galileo svela l’enigma risolvendo l’anagramma: «Cynthiae figuras aemulatur Mater amorum». La madre degli Amori, cioè Venere, imita le configurazioni di Cinthia, ovvero della Luna. Così come la Luna mostra le fasi, anche Venere ha lo stesso comportamento.
Fig. 11 – Le fasi di Venere disegnate da Galileo come riportate nel Saggiatore (1623).
Questa scoperta demolisce definitivamente il modello tolemaico basato sulla centralità della Terra nell’Universo. In quel sistema, anche con l’utilizzo di epicicli e deferenti opportunamente studiati, non è possibile che Mercurio e Venere abbiano un completo andamento delle fasi come per la Luna. Nel modello copernicano, invece, con il Sole immobile al centro dell’Universo, le orbite di Venere e Mercurio risultano comprese entro l’orbita terrestre e quindi mostrano l’intera gamma delle fasi. Galileo per primo riesce ad osservare questo fenomeno e ad annunciarlo al mondo. Nel luglio del 1610 Galileo rivolge il suo cannocchiale su Saturno, che si stava avvicinando all’opposizione, e si accorge che si tratta di un oggetto molto strano. Il 30 luglio scrive ai Medici descrivendo così la sua nuova scoperta: «Saturno non è un astro singolo, ma è composto di tre corpi, che quasi si toccano, e non cambiano né si muovono l’uno rispetto all’altro, e sono disposti in fila lungo lo zodiaco, e quello centrale è tre volte più grande degli altri due». Per evitare che qualcuno potesse appropriarsi di questa nuova scoperta, fa circolare tra i propri corrispondenti scientifici una sequenza di 37 lettere che nascondeva un anagramma: «s m a i s m r m i l m e p o e t a l e u m i b u n e n u g t t a u i r a s»; alcuni mesi dopo svela: «Altissimum planetam tergeminum observavi», cioè «ho osservato il più alto dei pianeti avere forma tri-corporea». Nel dicembre 1612, osservando nuovamente Saturno, Galileo si accorge che i corpi laterali sono scomparsi. Quattro anni dopo, nel 1616, scrivendo nuovamente alla famiglia Medici, suoi sponsor, afferma di vedere nuovamente i corpi laterali ma che questa volta sono a guisa di manici. Il cannocchiale costruito da Galileo, in realtà, non aveva il potere risolutivo e gli ingrandimenti minimi per poter distinguere la reale forma di ciò che circonda il pianeta e che oggi sappiamo essere un sistema di anelli concentrici. Bisognò attendere il 1659, quando Christiaan Huygens (1629 – 1695), astronomo e
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Fig. 12 – Il Saturno tri-corporeo osservato da Galileo nel luglio 1610 ed inserito nella lettera ai Medici.
matematico olandese, con un telescopio da lui stesso costruito che, evidentemente, doveva essere più potente di quello di Galileo, pubblicò un’opera dal titolo Systema Saturnium nella quale descrive la struttura che Galileo non aveva compreso come «un anello sottile e piatto, non collegato al pianeta, inclinato rispetto all’eclittica». Ogni quindici anni circa gli anelli si pongono di taglio rispetto ad un osservatore posto sulla Terra e quindi si rendono invisibili. È per tale motivo che Galileo non li vide nel 1612. Ma Galileo è stato molto di più Galileo Galilei rappresenta una figura mitica della storia della Scienza italiana e mondiale. Di Galileo è stato scritto tutto, vivisezionate ciascuna parola ed osservazione, interpretati migliaia di volte i suoi testi e i testi dei suoi biografi più prossimi. Queste poche pagine, nelle quali mi sono permesso una descrizione di quanto Galileo abbia scoperto negli anni tra il 1609 e il 1613, sono solo una sintesi, sicuramente non originale, della rivoluzione scientifica e astronomica che lui compì con le sue osservazioni.
32 Galileo ha spaziato in vari campi della Fisica e della Matematica e ci ha lasciato, oltre alle tante scoperte astronomiche, una meravigliosa quantità di scoperte e invenzioni tra cui gli studi sul piano inclinato, l’isocronismo delle piccole oscillazioni di un pendolo, la bilancia idrostatica, il termoscopio, il compasso proporzionale, il micrometro e molto altro ancora. Ma forse la più grande eredità di Galileo è la formulazione del metodo sperimentale, Il Metodo. Si tratta di qualcosa che ha cambiato il modo di fare Scienza e che Galileo, ancora oggi, insegna a tutti noi. Ogni volta che parlo del Metodo mi viene in mente il titolo del libro di Osservazioni Scientifiche che usai durante le scuole medie inferiori. Si chiamava Osserva, sperimenta e impara, che è esattamente la formulazione galileiana del Metodo Sperimentale. Più compiutamente, Il metodo galileiano si compone di due aspetti principali: – la sensata esperienza, ovvero l’esperimento, che può essere compiuto davvero e praticamente, o solo astrattamente, la cosiddetta esperienza mentale, quella che, molto più tardi, Albert Einstein (1879 – 1955) chiamò i gedankenexperiment. Questa esperienza deve basarsi su una precisa formulazione teorica; – necessaria dimostrazione, ovvero una analisi matematica e rigorosa dei risultati dell’esperienza, che sia in grado di trarre da questa ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile. Questa va ulteriormente verificata, con successive esperienze, ovvero il cosiddetto cimento, che è l’esperimento concreto con cui va sempre verificato l’esito di ogni formulazione teorica. In questo continuo loop tra esperimento e dimostrazione si realizza praticamente il Metodo Sperimentale. Una vera rivoluzione filosofica che ha reso moderna la Scienza.