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MARIUS PETIPA
MEMORIE A cura di VALENTINA BONELLI
GREMESE
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Dedico questo libro a mia sorella Claudia. V. B.
Ringraziamenti: Archivio del Museo Teatrale Centrale di Stato A.A. Bachruˇsin (GCTM) di Mosca, Archivio Statale Russo di Letteratura e Arte (RGALI) di Mosca, Biblioteca Livia Simoni del Museo Teatrale alla Scala di Milano, Fondazione Karina Ari di Stoccolma, Ljudmila Danilˇcenko, Anna Esterovich, Kira Zlotchewskaia, Ann-Marie Wrange.
Titolo originale: Petipa Marius, Memuary Mariusa Petipa solista ego imperatorskogo i baletmejstera Imperatorskich Teatrov, Trud, San Pietroburgo 1906.
In copertina: Marius Petipa in una foto ritratto del 1898. Copertina di: Patrizia Marrocco Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l. – Roma Stampa: C.S.R. – Roma Copyright edizione italiana: GREMESE 2010 © E.G.E. s.r.l. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-522-7
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SOMMARIO
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Memorie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Note e documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Appendici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La nostra famiglia, di Vera Petipa . . . . . . . . . . . . . . . Indice cronologico dei balletti e delle danze . . . . . . Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia essenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INTRODUZIONE Nei telegrafici Diari che documentano con maniacale precisione la sofferente quotidianità dei suoi ultimi anni, l’anziano maître de ballet Marius Petipa non dimenticò di registrare le diverse fasi di stesura delle proprie Memorie. La prima annotazione è del 31 gennaio 1904: «Sono rimasto a casa da solo a scrivere le mie Memorie ». Dalla mole di appunti ed elenchi manoscritti conservati con i Diari all’Archivio Statale Russo di Letteratura e Arte (RGALI) di Mosca (F. 1945, op. 1, d. 1), si può dedurre che le prime fasi del lavoro corrisposero a una cronologica ricognizione di date, balletti, debutti, interpreti e successi di un’intera vita. Preciso e metodico com’era, Petipa doveva avere sicuramente conservato la documentazione cartacea – che si immagina voluminosa e minuziosa – della sua attività, se non dell’infanzia e della giovinezza errabonde attraverso l’Europa e l’America, sicuramente dell’oltre mezzo secolo in Russia, come ballerino prima e maître de ballet poi. Seppure in gran parte perduto, ciò che resta oggi presso l’Archivio del Museo Teatrale Centrale di Stato A.A. Bachruˇs in (GCTM) di Mosca di quello che doveva essere l’archivio personale di Petipa (Fondo “Petipa”, F. 205) testimonia quanto egli meticolosamente raccogliesse e conservasse programmi di sala, locandine e recensioni dei suoi balletti, lettere scambiate tra i collaboratori e biglietti di ringraziamento dei ballerini. Sulla base della memoria cartacea 7
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del suo passato, l’anziano maître de ballet dovette affrontare un lavoro preparatorio che si immagina lungo e complesso, per ricucire con precisione i ricordi più lontani e rievocare con freschezza un’assai ricca aneddotica. Nel solitario lavoro “archivistico” preparatorio alla stesura, Petipa spese diversi mesi: il 20 settembre 1904 tornò ad annotare: «Ho scritto alcune note per le mie Memorie ». Finalmente, il 21 settembre 1904, Petipa iniziò probabilmente la stesura vera e propria, perché registrò: «Ieri ho iniziato a scrivere le mie Memorie. Devono presentarsi bene»; e ancora, il giorno seguente: «Ho lavorato alle mie Memorie ». Un’altra data dei Diari ne scandisce l’andamento: l’11 ottobre di quello stesso 1904, l’anziano maître de ballet scrisse: «Lavorato alle mie Memorie. 8 di sera. Sono triste e solo nel mio studio. Nessuno mi tiene compagnia». Anche il suo precario stato di salute dovette compromettere il lavoro, se Petipa scrisse, il 18 ottobre 1904: «Morire non è nulla, soffrire è tutto. Non ho l’energia per intraprendere niente o per finire le mie Memorie ». Poi più nulla, fino alla fine del 1905, quando Petipa ebbe probabilmente bisogno di qualcuno che ricopiasse in “bella copia”, in forma di manoscritto da consegnare all’editore, la probabile prima stesura di suo pugno, oggi perduta. Tale aiutante fu una certa mademoiselle Louise, un’amica di famiglia che dava lezioni di francese alla figlia Vera, tanto più preziosa in ragione dell’età avanzata di Petipa, allora ottantasettenne. Il 25 dicembre l’anziano maître de ballet scrisse: «Alle 3 volevo iniziare le mie Memorie ma mademoiselle Louise non è venuta». Il giorno seguente annotò: «Alle 4 ho iniziato le mie Memorie (mademoiselle Louise – prima volta)»; il 27 dicembre: «Mademoiselle Louise è venuta per la seconda volta»; l’indomani: 8
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«Mademoiselle Louise verrà la prossima settimana di domenica, venerdì e martedì». Si ritrova menzionata un’ultima volta questa signorina il 30 dicembre: «Mademoiselle Louise è venuta solo per un’ora, poi ha cenato con noi e ha dato lezione a Vera». Il lavoro si avviava probabilmente alla conclusione: Petipa e mademoiselle Louise dovettero terminare la stesura delle Memorie nei primi mesi del 1906, anno in cui il libro venne pubblicato, ma la perdita dei Diari dell’anno 1906 non permette di definirne con certezza le date delle fasi finali. Certo è che al completamento delle Memorie erano occorsi almeno due anni. Di tale manoscritto originale – poi presumibilmente consegnato all’editore Trud che procedette alla traduzione in lingua russa e alla pubblicazione a stampa nel 1906 – resta oggi purtroppo solo la seconda parte, oltre a qualche frammento della prima. Redatto su fogli protocollo a righe delle dimensioni di cm 34,9 x 22,2 scritti con inchiostro nero su entrambe le facciate e numerati dalla pagina 36 alla pagina 87, il manoscritto è conservato nel Fondo “Petipa” dell’Archivio del Museo Bachruˇsin. Del manoscritto l’Archivio conserva anche una “brutta” copia, quasi identica alla “bella”, se non per aggiunte e annotazioni ai margini. Due lunghi frammenti manoscritti relativi alla parte mancante si trovano invece in un quaderno di medio formato donato nel 1959 all’Archivio RGALI da una nipote del maître de ballet, la ballerina Ksenija Konstantinovna Cˇ ikova Petipa. Tale testo, anch’esso redatto in lingua francese e con la medesima grafia dei fogli del Bachruˇsin, si riallaccia esattamente al manoscritto principale, essendo numerato da pagina 18 a pagina 19 e da pagina 22 a pagina 35. La presenza sul quaderno di alcune correzioni fa pensare che si tratti di una stesura non ancora definitiva. 9
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Il confronto con la differente grafia di tanti documenti autografi di Petipa conservati sia all’Archivio Bachruˇs in che all’Archivio RGALI, esclude che il manoscritto – caratterizzato da una scrittura inclinata assai chiara, leggibile, piana – sia stato steso di pugno dallo stesso Petipa. A riprova che il manoscritto del Bachruˇsin e i frammenti dello RGALI non sono autografi di Petipa ma che fu un’altra mano a redigerli, è anche un appunto sparso tra i fogli della “brutta copia” in cui il maître de ballet, nella sua caratteristica grafia – disordinata, incerta, quasi tremante – scrive a matita, probabilmente rivolto a mademoiselle Louise: «Ho dimenticato di consegnarvi questo pezzo di carta – vi prego di aggiungere questi tre balletti». Il testo completo di riferimento delle Memorie è dunque ad oggi quello dell’edizione a stampa del 1906, pubblicata a San Pietroburgo in 114 pagine per i tipi Trud e ristampata nel 2003 a San Pietroburgo dall’editore Sojuz Chudozˇnikov. L’edizione del 1906 fu evidentemente il testo di riferimento anche per la prima traduzione in lingua inglese delle Memorie, The Memoirs of Marius Petipa, uscita nel 1958 per i tipi della casa editrice Adam & Charles Black di Londra, con la traduzione di Helen Whittaker e la cura di Lillian Moore. Nel 1990, da quello stesso testo russo, venne tratta la prima edizione a stampa in lingua francese, pubblicata dall’editore Actes Sud di Arles, tradotto e curato da Galia Ackerman e Pierre Lorrain. Nella presente edizione italiana, la prima in assoluto, si è scelto di attingere per la traduzione, ove possibile, dall’originale manoscritto in lingua francese conservato all’Archivio Bachruˇs in – corrispondente approssimativamente alla seconda parte delle Memorie – e ai 10
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tre frammenti, pure facenti parte del manoscritto originale, custoditi presso l’Archivio RGALI – sparsi lungo la prima parte del testo. Ove mancante il manoscritto – ovvero sostanzialmente per la prima parte delle Memorie – si è reso necessario ricorrere per la traduzione all’edizione a stampa in lingua russa del 1906, indicando l’utilizzo di tale fonte tra parentesi quadre. È vero che confrontando l’edizione a stampa russa del 1906 con quanto sopravvissuto del documento originale si nota come l’editore abbia aggiunto – non si sa quanto arbitrariamente o quanto di successivo concerto con Petipa – numerosi brani che non si trovano nella copia manoscritta. Se si tratta spesso di frasi atte semplicemente a legare un episodio all’altro e perciò utili alla comprensione e alla scorrevolezza del testo, curiosamente in qualche caso i brani inseriti riguardano fatti compromettenti della vita dei Teatri Imperiali o giudizi pesanti espressi dall’autore. Per completezza documentaristica si è scelto di non elidere tali supposte “aggiunte”, pur dubbie quanto a paternità, riportando anch’esse nel corso del testo tra parentesi quadre. Nella presente edizione italiana la giustapposizione di due fonti così differenti – il manoscritto in francese e la sua traduzione a stampa in russo – comporta ovviamente una differente qualità di stile: sintetico, colloquiale, brillante, caratteristico di un diario ed evidentemente scritto da un non letterato com’era Petipa il primo; formale, ampolloso, scandito da lunghi periodi in pieno stile fin de siècle il secondo. A discapito delle coerenza stilistica e del valore letterario è sembrato tuttavia documentaristicamente interessante ritrovare le espressioni autentiche di Petipa, attraverso le quali si può indovinare qualcosa del suo carattere e della sua personalità. Certo non mancano i problemi critici. La memoria 11
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di Petipa, ancora vivace all’epoca della stesura delle Memorie ma evidentemente non integra, comportò innumerevoli imprecisioni nel ricordo di date, nomi o episodi, di cui si dà rettifica nelle relative note. D’altra parte l’intento non strettamente autobiografico dell’autore e la generale carenza di fonti documentaristiche su Petipa rende purtroppo difficile delineare una biografia esauriente del più importante protagonista del balletto tardo-romantico. Un altro problema critico riguarda la fedeltà della traduzione dall’originale francese del manoscritto al russo della prima edizione: se ne ignora l’autore, ma si sa che Petipa non era per nulla soddisfatto. Lo testimonia anche l’articolo Gli ultimi minuti di Petipa, comparso l’8 luglio 1910, alcuni giorni dopo la morte del maître de ballet, sulla “Peterburgskaja Gazeta”, il settimanale di riferimento dei ballettomani pietroburghesi. Scrisse lo storico e critico di balletto Aleksandr Pleˇs-ˇ ceev, nella cronaca commemorativa: «Non privo di interesse per tutti gli appassionati di teatro sarà sapere che quando furono pubblicate anni fa le Memorie di Petipa, lo stesso autore trovò che in alcuni punti vi erano grossolanità, non esattamente rese nella traduzione in lingua russa. Evidenzio questo giudizio dal momento che molti furono scontenti delle Memorie e io stesso allora avanzai tale ipotesi sulla stampa, perché Petipa non poteva scrivere con un tono tanto volgare, non era verosimile per lui». Una simile opinione venne espressa anche un decennio dopo, nella pubblicazione dei Teatri Accademici Marius Petipa (1822-1919) che celebrava i cent’anni della sua nascita. Scrisse l’autore, Denis Leˇskov, storico di balletto: «In effetti le Memorie contengono alcuni errori nella cronologia, rivelano una totale 12
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assenza di correzioni e sono state tradotte male poiché tanti tra coloro che avevano conosciuto Petipa sono sicuri che molte delle sue espressioni, scritte ovviamente in francese, siano state sfortunatamente tradotte in una lingua che non è il russo letterario, ma un gergo da mercato con il quale non solo un vero francese non potrebbe mai parlare, ma nemmeno pensare. M.I. Petipa, nonostante avesse vissuto in Russia 63 anni, non conosceva quasi per niente la lingua russa, il che gli impedì di valutare la competenza del suo traduttore. Per capire quanto il traduttore delle Memorie fosse incompetente basti vedere come tradusse il cognome da sposata – Nevachoviˇc – della famosa ballerina Smirnova, scrivendo che era “nata [née in francese, N.d.C.] Vachoviˇc”. Altri grossolani errori di questo tipo si incontrano ad ogni passo delle Memorie». Leˇskov, che per molti anni fu anche direttore degli archivi dei Teatri Accademici, aggiunse: «Inoltre, se tutte le accuse rivolte alla direzione dal vecchio Petipa fossero state del tutto infondate, allora è poco probabile che si sarebbe richiesta la pubblicazione, in risposta alle Memorie, di un opuscolo pesantemente diffamatorio, il cui autore risulta l’avvocato della direzione, ovviamente con il consenso della direzione stessa. Questa brochure ai giorni nostri appare come una rarità bibliografica, poiché, dopo esserne stati presentati alcuni esemplari “a chi di dovere”, è rimasta in un magazzino totalmente inviolata fino al 1918, senza risvegliare il minimo interesse nel pubblico, ma adesso, a causa del caroviveri della carta, è sparita senza lasciare traccia». Dunque, stando alle testimonianze, la pubblicazione delle Memorie, se non fece clamore, dovette tuttavia disturbare qualcuno. Non a lungo però, né seriamente. Petipa era ormai fuori dal giro che contava: dopo ses13
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sant’anni alle dipendenze dei Teatri Imperiali e una carriera di maître de ballet in continua ascesa che ne fece lo zar assoluto del balletto russo tardo-romantico, la sua stella si spense improvvisamente. Ed ecco, dal punto di vista di Petipa, lo scopo delle Memorie : ricordare al mondo artistico pietroburghese che pareva averlo dimenticato, ma soprattutto a se stesso, l’importanza del suo operato e l’immutata bellezza dei suoi balletti. Quanto sembravano lontani, nella rievocazione delle Memorie, gli anni dell’infanzia girovaga in Francia e in Belgio, al seguito di una famiglia di artisti del balletto, e poi la gioventù baldanzosa, da avventuriero, in Spagna, in America e di nuovo in Francia, raccontata mezzo secolo dopo con il compiacimento nostalgico della vecchiaia. Le doti di ballerino non eccelse quanto quelle del fratello Lucien e il talento di coreografo non ancora rivelato in Occidente gli diedero l’ardire di azzardare la carta russa, accettando un invito dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo. Nella capitale dell’Impero Russo di cui si favoleggiavano la vastità, la lontananza e il gran freddo, Petipa arrivò nel 1847, quando ancora non era l’ospitale terra del balletto che sarebbe divenuta nei decenni successivi. Pur esibendosi come da contratto quale primo ballerino, apprezzato per il piglio di caractère più che per l’eleganza di danseur noble, Petipa iniziò presto ad allestire balletti, rimontando produzioni altrui con il tocco felice di nuove danze o variazioni e componendo con successo titoli originali. L’ambiente non era dei più favorevoli all’affermazione di uno sconosciuto maître de ballet: per volere degli zar, che amavano immensamente il balletto e volevano strapparne alla Francia la supremazia, la direzione dei Teatri Imperiali iniziò proprio in quegli anni 14
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ad investire cospicue risorse per assicurarsi, oltre alle grandi ballerine romantiche europee, anche i migliori maîtres de ballet francesi. Per una decina di stagioni la supremazia incontrastata fu di Jules Perrot, subito sostituito da Arthur Saint-Léon, che sarebbe rimasto maître de ballet principale dei Teatri Imperiali pure per un decennio. Nel frattempo Petipa lavorava nell’ombra: osservava il lavoro dei riveriti Perrot e Sant-Léon, studiava attentamente i libretti dei balletti che il fratello Lucien – premier danseur all’Opéra – gli spediva da Parigi, componeva petits ballets per la giovanissima e incantevole moglie Marija Surovˇscˇikova. Erano gli anni dell’entusiasmante rivalità tra i coniugi Petipa e la coppia artistica Saint-Léon-Murav’ëva, che infiammava il pubblico russo. Tuttavia le sue rispettose ma ferme proteste alla direzione dei Teatri Imperiali – che si serviva di lui, di fatto, quale maître de ballet pur senza averne il contratto né elargirgli alcun compenso – valsero a poco. Eppure per una ventina d’anni Petipa non alzò mai veramente la testa né cercò altri ingaggi: evidentemente non era ancora il suo momento ed egli stesso dovette capirlo. Quando il pubblico apprezzava Perrot e Saint-Léon, egli era lì, a supplire con la sua rigogliosa fantasia a mancanze, assenze e debolezze, regalando il suo tocco geniale a tanti titoli del primo romanticismo, fino a mutarne addirittura il volto entro una cornice già tardo-romantica: bastava uno scintillante pas de deux, una deliziosa variazione femminile, un sublime atto bianco, magistralmente inseriti nel vecchio balletto. Intanto Petipa coglieva il meglio di Perrot e di SaintLéon: i fini intrecci drammatici dell’uno, i divertissements colorati di danze nazionali dell’altro influenzavano la composizione dei suoi sempre più magnificenti ballets à grand spactacle. Fino a che il gusto del pub15
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blico iniziò a pendere dalla sua parte: allora il maître de ballet dal fiuto infallibile, il geniale intrattenitore, non ebbe rivali nell’accontentare le “file di diamanti” del capriccioso parterre pietroburghese. Balletti originali, revivals di vecchi titoli, petits ballets, divertissements, pièces d’occasion, danze per opere: una messe di creazioni dai soggetti più vari: storici, fantastici, mitologici, letterari, folkloristici, anacreontici, fiabeschi, di carattere, come raccontano titoli quali Il Re Candaule, Trilby, Le Avventure di Peleo, Sogno di una notte di mezza estate, Mlada, La Perla, Barbablu, La Sosta della cavalleria. Anche quando gli scenari erano esotici e le trame rocambolesche, i suoi balletti non erano mai ingenui, ma minuziosamente documentati, disseminati di riferimenti colti. Se non poteva viaggiare e conoscere personalmente quei mondi lontani, seducenti e favolosi che l’era delle esplorazioni iniziava a scoprire archeologicamente ed antropologicamente e il beau monde a guardare con altezzosa curiosità – si trattasse di Medioriente, India, Africa o anche Spagna, Montenegro, Scandinavia – Petipa si preparava attingendo a fonti letterarie o artistiche, ma al côté colto affiancava una vibrante documentazione di costume, tratta dalle cronache dell’epoca o da giornali illustrati in lingua francese come “L’Illustration” o “L’Univers Illustré”. La Figlia del faraone, La Bella del Libano, Don Chisciotte, La Bayadère, Rossana, La Bella del Montenegro, La Figlia delle nevi, Zorajja o La Mauritana in Spagna sembravano racchiudere piccoli mondi. Da forme narrativamente conchiuse Petipa giunse progressivamente ad un’orchestrazione della danza che aveva le forme del sinfonismo coreografico più che dell’ormai esausta féerie, anticipando così – non è azzardato sostenere – la vera novità delle avanguardie del Novecento. Il Risve16
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glio di Flora, Rajmonda, Le Stagioni, i suoi ultimi titoli, i primi aperti al nuovo secolo, altro non erano se non una profusione di danze tenute insieme da un labile libretto, secondo un nuovo modello affermato con La Bella addormentata di concerto con Cˇajkovskij. Per la prima volta dall’epoca romantica non era più la ballerina il fulcro e l’origine del balletto e della vicenda: piuttosto la danza stessa, con tutte le sue varianti e declinazioni, era diventata la ragion d’essere di ogni nuova messa in scena. Quando arrivava in sala, a provare con i ballerini, il suo lavoro era veloce e senza esitazioni: Petipa aveva già preparato tutto, in anticipo e nei dettagli. Con i collaboratori di sempre nascevano il libretto, la partitura musicale, le scene e i costumi; a lui solo spettava la composizione coreografica vera e propria. Non si serviva dei metodi di annotazione coreografica già allora esistenti, ma realizzava rudimentali disegni su carta fitti di simboli geometrici o di schizzi antropomorfi in guisa di ballerini, disposti a formare le mappe dettagliate delle sue coreografie come viste dall’alto. Spesso corredava tali disegni con scritte esplicative e fissava posizioni e movimenti nuovi, soprattutto dei pas de deux, disegnando figurine umane ancora più dettagliate. In un secondo tempo, per avere una visione prospettica e tridimensionale delle sue composizioni, si serviva di piccole sagome di cartapesta su piedistallo: aveva ormai distribuito i ruoli e ognuna portava scritto il nome dell’elemento della troupe che rappresentava. Le muoveva provando le diverse combinazioni coreografiche, a casa propria, come un appassionante gioco da tavolo. Né dimenticava di servirsi di tutti quei deliziosi accessori scenici che avrebbero aggiunto altro effetto alle sue composizioni: ghirlande di fiori, cesti di frutta, piccoli sgabelli. 17
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Sulla scena il lavorio compositivo di Petipa si traduceva in una cascata di enchaînements di sorprendente varietà, in un tripudio di danze di inesauribile fantasia, con i nitidi ensembles del corps de ballet, i contrappunti splendenti di pas de trois o variazioni femminili, i pas d’action a legare narrativamente, fino a quell’apice di forma e drammaturgia che era per Petipa il pas de deux. Ma se la tecnica era fondamentale, il balletto non vi si esauriva. Immedesimarsi nel personaggio, vivere il libretto, sentire la musica: questo continuava a raccomandare Petipa ai suoi interpreti. Certo per l’infaticabile maître de ballet nulla era mai acquisito: il suo vero metodo era ricominciare ogni volta, si trattasse anche di un vecchio balletto, altrui o suo, il nuovo allestimento non era mai una stanca ripresa. Anche soltanto una nuova interprete giustificava l’adattamento alle sue caratteristiche e attitudini di vecchie danze, o meglio ancora la composizione di nuove. Non bastasse il suo esemplare, irreprensibile metodo di lavoro, nella costruzione del successo, e soprattutto nel difficile mantenimento della posizione raggiunta, Petipa si mosse con intelligenza e perspicacia, senza intrighi né cospirazioni. Forse anche diplomaticamente, perché ebbe sempre rapporti buoni, se non ottimi, con i numerosi direttori che si succedettero al vertice dei Teatri Imperiali. Il suo atteggiamento era rispettoso ma non reverenziale e la sua dignità gli dava l’audacia di presentare fermamente le proprie ragioni. Ma fu soprattutto la sua capacità di mediare tra le richieste della direzione e il gusto del pubblico a mantenerlo sulla breccia per un tempo incomparabilmente lungo. I ballettomani, avamposto militante del pubblico aristocratico, furono sempre suoi sodali: Petipa se ne serviva probabilmente per cogliere umori e desideri del par18
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terre. Alcuni scrivevano libretti per i suoi balletti, altri si occupavano come d’uso della lucrosa vendita dei biglietti delle beneficiate, i più autorevoli potevano persino assistere alle prove presso la Scuola dei Teatri e avere voce in capitolo nella scelta delle interpreti; di tutti Petipa accettava gli inviti del “dopo teatro” alle esclusive cene della domenica al ristorante Kjuba. Dei ballettomani Petipa sapeva lusingare le manie di protagonismo e i caratteri bizzosi con concessioni che forse non gli dispiacevano del tutto: alternare nei ruoli principali le rispettive favorite; dare spazio a quelle ballerine italiane che egli – in fondo in fondo – considerava stilisticamente rozze e tecnicamente circensi; accorciare i tutù delle ballerine, perché – si sa – il balletto era anche l’unica occasione rispettabile, per la perbenista società dell’epoca, di ammirare le gambe nude e le braccia scoperte delle donne più belle e disinibite. Con il suo humour burbero, la franchezza un po’ snob, i gusti del bon vivant, i modi eleganti del francese sciovinista che non imparò mai la lingua russa ma ebbe ben due mogli russe, Petipa aveva tutte le caratteristiche per restare al centro di quel microcosmo imperiale. Lo serviva, sì, ma ne era anche illuminato di luce riflessa. Al termine del secolo l’eredità di Petipa era già lì, in tutta la sua grandezza: la definizione di uno stile e di una tecnica autenticamente russi e una compagnia che – egli stesso lo rivendicava – da sconosciuta era diventata, grazie a lui, la migliore d’Europa. Merito della vitale unione dell’eleganza dello stile francese e del virtuosismo della tecnica italiana, certo, ma anche della mano decisa di un geniale demiurgo, così come della ferrea disciplina che aveva imposto. E poi c’era la Scuola, della quale con severità e passione fu per decenni a capo, il fiorente vivaio di una compagnia 19
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dallo stile ormai definito, omogeneo e inconfondibile, che sarebbe sopravvissuto persino alle rivoluzioni artistiche – e non solo – del Novecento. Da uomo di potere, negli anni alla testa del Balletto Imperiale Petipa non ebbe nemici o detrattori in grado di turbarne la posizione: pressoché tutti ne riconoscevano evidentemente il talento e la superiorità. Dalle Memorie e dalle cronache dell’epoca nessun incidente sembrò turbarne la vita artistica e la quotidianità teatrale: le relazioni con i superiori, i sottoposti, gli artisti, la stampa, appaiono – viste oggi – serene e senza scosse. In occasione dei 50 anni di servizio presso i Teatri Imperiali la nomina a “solista di Sua Maestà” – primo artista del balletto ad esserne insignito – apparve come il coronamento di una carriera perfetta. Tutto cambiò improvvisamente con l’arrivo del nuovo direttore, Vladimir Teljakovskij, un ex colonnello dell’esercito, venuto dal Teatro Bol’ˇsoj di Mosca, che aveva diretto per un paio di stagioni. Tra i due fu guerra aperta. Nei suoi minuziosi Diari ma anche nelle Memorie date alle stampe, Teljakovskij non perse occasione per esprimere giudizi negativi sull’operato e i metodi di Petipa. Nelle sue parole c’è un misto di indignazione per i comportamenti a suo dire illegali del primo maître de ballet e di compatimento per l’estetica ormai superata del vecchio artista. Al di là dell’antipatia personale, il conflitto non poteva non esplodere: Teljakovskij e Petipa rappresentavano, con le loro possenti personalità, due epoche artistiche e due estetiche teatrali ormai contrapposte e inconciliabili. Teljakovskij si materializzò improvvisamente come paladino di quel nuovo che ormai covava sotto la cenere: i fratelli Legat, con le loro bozzettistiche miniature, avevano iniziato a far apparire magniloquente 20
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l’estetica di Petipa; l’allievo “degenere” Gorskij apriva alla ventata naturalistica di Stanislavskij; Fokin, con le sue impressionistiche visioni, affermava l’unione delle arti sceniche e l’assolutezza della danza insieme. Certo costoro guardavano al maestro Petipa come al loro modello, ma nello stesso tempo, con l’ineluttabile forza del nuovo secolo, lo travolsero dolcemente. A una lettura a posteriori, con la distanza limpida della storia, non sembra fu l’ostilità di un nemico e del suo entourage a provocare la subitanea rovina – inimmaginabile solo qualche anno prima – dell’onnipotente Petipa. Piuttosto la sua “caduta” appare come un’implosione epocale, l’effetto della forza delle nuove istanze artistiche pronte ad affermarsi. Gli allestimenti degli ultimi due balletti di Petipa, Lo Specchio magico e Il Romanzo di un bocciolo di rosa e di una farfalla, che si svolsero tra superstiziosi presagi infausti, sospette assenze dei ballerini alle prove, boicottaggi veri o presunti da parte della direzione, furono l’ultimo, triste atto di un maître de ballet al tramonto. Lo Specchio magico fu un fiasco annunciato: la collaborazione di Petipa con artisti della nuova vague non poteva che evidenziare, per la prima volta con stridore, l’appartenenza dell’uno al secolo passato e degli altri al secolo nascente. Il Romanzo di un bocciolo di rosa e di una farfalla, deliziosamente agé sin dal lezioso titolo, venne ideato, non a caso, insieme ai vecchi, fedeli collaboratori di un tempo e sotto l’ala di colui che aveva dato corpo al grande balletto del passato: l’ex direttore Ivan Vsevolozˇskij. Questa volta fu la storia a congiurare contro Petipa: lo scoppio della guerra russo-nipponica annullò per sempre la première, a pochi giorni dal debutto. O almeno questa fu la scusa adottata dalla direzione dei Teatri Imperiali. 21
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Ma viene da chiedersi: nei mesi presaghi di sangue e miseria che precedettero quel lugubre 1905 del calendario russo, che senso poteva avere un petit ballet lieve e spensierato come i tempi andati? Dopo due simili delusioni, forse Petipa capì da sé che il suo tempo era finito e accettò senza apparenti sospetti la “favolosa” pensione di 9000 rubli che gli veniva offerta dalla direzione. Nessuno ebbe dubbi, neppure allora, che si trattava di un modo elegante e generoso per liquidarlo. Secondo le annotazioni dei suoi Diari, Petipa ne fu inizialmente contento, ma se pensava di continuare il suo servizio presso i Teatri Imperiali con la maggiore libertà che l’anzianità e il prestigio gli avrebbero consentito, dovette presto ricredersi. Ne ebbe sentore dalle prime, eloquenti sgarberie, in un crescendo ingiurioso: lo si costringeva ad acquistare i biglietti per gli spettacoli, non gli si mandava più la carrozza per recarsi alla Scuola o a Teatro, non lo si avvisava delle prove dei suoi balletti e soprattutto, senza il suo consenso né il suo nome in cartellone, si riproponevano i suoi capolavori nelle revisioni di altri maîtres de ballet, rivoluzionari come Gorskij o mediocri come Gerdt. L’allontanamento fu repentino e spietato; la sua presenza non era gradita, o peggio: la sua persona e la sua opera sembravano già dimenticate. Soltanto in quelle febbrili e sanguinose giornate del 1905, il corps de ballet per la prima volta ribelle invocò il suo ritorno. Petipa se ne illuse, ma fu solo per lo spazio di uno sciopero: bastò il pugno di ferro della direzione sulla troupe e mai più se ne parlò. Così, d’improvviso, Petipa si trovò disoccupato, per la prima volta nella sua vita. Non gli restava che dedicarsi alla vita domestica: alla sua numerosa famiglia era profondamente legato, ma è vero che, totalmente 22
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immerso nel lavoro com’era sempre stato, l’aveva vissuta da lontano, quasi distrattamente. Ora invece quella quotidianità diventava l’unico orizzonte di tutti i suoi giorni, sempre uguali a se stessi. I figli maggiori se ne erano ormai andati da casa e il vecchio padre non ne aveva avuto neppure grandi soddisfazioni. I maschi, Marius, Victor e Marij, erano attori, ma solo il primo si era distinto nella professione; Marija, la figlia maggiore, era una nota ballerina sì, ma di carattere; Nadezˇda e Ljubov’ avevano abbandonato presto le scene per dedicarsi alla famiglia; Evgenija, l’unica veramente dotata per la danza, era morta adolescente in tragiche circostanze. Solo Vera, diplomata alla Scuola del Teatro e fresca di ingaggio presso i Teatri Imperiali, viveva ancora con i genitori e li seguiva anche nelle vacanze estive in Crimea. Il vecchio padre provava grande affetto per Vera e in lei ripose, senza successo, le ultime speranze di avere una figlia ballerina dalla brillante carriera. Nel complesso la vita familiare scorreva piana e monotona, animata soltanto, nei giorni di festa, dalle visite delle figlie maggiori e dei nipotini, verso i quali Petipa si dimostrava il classico nonno prodigo di giocattoli e caramelle in regalo. Certo talvolta scoppiavano liti familiari, anche violente: nei momenti più cupi Petipa lamentava l’egoismo e la cattiveria di sua moglie e delle figlie, le continue richieste di denaro dei figli, la maleducazione dei nipotini. Ma poi era lui stesso ad ammettere che il suo carattere era cambiato, a causa dell’umiliazione per l’esclusione dalla vita teatrale e della malattia che lo tormentava. Petipa infatti soffriva da tempo, e in forma molto grave, di una malattia di origine nervosa che causava lesioni della pelle, nota con il nome di “pemphigus” e, su insistenza del dottor Plotebnov, professore dell’Accademia medico-militare, 23
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ogni anno, nei mesi estivi, si curava con le acque all’arsenico di ferro di Levico, nel Sud Tirolo. Negli ultimi anni di forzata inattività la malattia si manifestò ancora più violentemente. Petipa, presumibilmente ipocondriaco, ne era letteralmente ossessionato: i suoi Diari sono un vero e proprio bollettino medico, con particolari sull’intensità e la durata del dolore, osservazioni sul progredire della malattia, registrazioni scrupolose delle visite del dottor Pavlov e dettagli intimi sui rimedi adottati. A tale malattia, evidentemente psicosomatica, si aggiungevano altri acciacchi e fastidi dovuti all’età. Petipa ne era terrorizzato e ad ogni nuova comparsa prediceva, anche un po’ teatralmente, la propria morte imminente, senza mancare di dare qualche nuova disposizione testamentaria. Quando non si trovava in questo stato di sofferenza fisica e psicologica, e se il tempo mite lo permetteva, il vecchio maître si decideva ad uscire, per un giro in carrozza con il figlio Marius o per una passeggiata solitaria nel Giardino d’Estate. Se l’umore era migliore del solito Petipa si concedeva addirittura qualche spesa imprevista, magari dopo aver ritirato lo stipendio: qualche piccolo regalo per la figlia Vera, un oggetto per la casa, prelibatezze come datteri e caviale per sé. Con parsimonia però: Petipa era sempre stato un risparmiatore ai limiti dell’avarizia, tanto da annotare meticolosamente ogni più piccola spesa quotidiana. Per il resto trascorreva lunghe giornate in casa, solo nel suo studio, anche la sera, quando la moglie e la figlia andavano a teatro. Diversamente da un tempo, pochi erano gli amici e i conoscenti che venivano a fargli visita: la più assidua era l’ex ballerina Evgenija Sokolova, intima della famiglia, che passava per dare una lezione di danza a Vera o per prendere un tè con i Petipa. Poi c’erano la prima ballerina Ol’ga Preobrazˇen24
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skaja e la giovane promessa Anna Pavlova, che a dispetto dell’ostracismo manifestato dal teatro passavano regolarmente a casa del vecchio maître, per apprendere una variazione o per chiedere qualche consiglio. Dei tempi d’oro era rimasto solo il legame con l’ex direttore Ivan Vsevolozˇskij: Petipa gli faceva visita spesso e continuò ad avere un’autentica venerazione per lui, tanto da dedicargli le sue Memorie. La pletora di grandi personaggi e piccoli lacché che un tempo lo riverivano, era invece sparita. Per parte sua Petipa, nelle Memorie pubblicate quanto nei suoi privati Diari, non perse occasione di smascherare, e spesso ingiuriare pesantemente, coloro che – a suo dire – avevano tramato contro di lui o si erano comportati vergognosamente: oltre al direttore Teljakovskij, il suo assistente Aleksandr Krupenskij, la prima ballerina assoluta Matil’da Kˇsesinskaja, il celebre ballerino Pavel Gerdt, i direttori di scena Sergeev e Aistov. Ma a poco a poco l’acredine di Petipa, inizialmente punto sul vivo, si smorzò, almeno nei confronti di coloro che considerava responsabili del suo allontanamento. Progressivamente l’anziano maître de ballet iniziò a seguire prima da lontano e poi quasi per nulla la vita artistica dei Teatri Imperiali: troppo doloroso era sbirciare dall’esterno quel mondo tanto amato dal quale ormai era uscito per sempre e che di lui non voleva evidentemente più saperne. Ormai andava a teatro raramente, e solo nelle occasioni che lo riguardavano: le riprese dei suoi balletti, una parte da solista della figlia Vera, qualche debutto della Preobrazˇenskaja o della Pavlova. Ma più spesso mandava la moglie e la figlia a vedere e a riferirgliene. Ciò che però non cessava di tormentarlo, anche senza vederne personalmente gli esiti, era sapere che dei suoi balletti più belli e più celebri si continuava 25
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a fare scempio. Tale preoccupazione lo spinse a drastiche decisioni, come testimonia ancora Pleˇscˇeev nell’articolo commemorativo della sua morte: «Negli ultimi anni Petipa, non avendo un’occupazione, continuò ad interessarsi letteralmente di tutto e a chiedere costantemente alla famiglia le novità teatrali; Victor Mariusoviˇc Petipa gli portava diversi articoli di giornali. Quando a Petipa giungevano voci che i suoi balletti venivano modificati anche senza il suo consenso, diceva: “Io ho seminato, altri raccolgono. Ti chiedo” si rivolgeva al figlio “quando morirò, di bruciare tutti gli appunti fatti da me dei miei balletti”». Dal suo esilio volontario nella casa sulla Fontanka o, sempre più spesso negli ultimi anni, nella daˇca a Gurzuf, presso Jalta, dove era costretto a soggiornare a causa della salute che peggiorava, Petipa seguiva ormai da lontano la vita teatrale. Per la prima volta nella sua vita aveva il tempo di interessarsi di tante cose: degli avvenimenti politici soprattutto, seguendo con apprensione le notizie sulla disastrosa guerra russo-nipponica o le giornate di sangue del 1905. Devoto dell’imperatore e della famiglia reale al punto da registrarne sui suoi Diari anniversari e onomastici, Petipa, pur deprecando i disordini popolari, non riusciva a non condannare l’indifferenza del suo mondo di fronte alla gente che moriva per strada. Ma con triste fatalismo poteva solo augurarsi una soluzione positiva per il bene della sua amata Russia. Una nuova epoca era ormai iniziata: presto quel mondo dorato e lieve che Petipa aveva rappresentato sulle scene, sarebbe caduto inesorabilmente sotto i colpi della storia. Il cruento Novecento, con le sue rivoluzioni sociali e artistiche, avrebbe spazzato via in pochi anni il glorioso Impero Russo, e nel modo più 26
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violento: da una parte i bolscevichi, annientando letteralmente la nobiltà committente e fruitrice del balletto classico; dall’altra le avanguardie novecentesche, smaniose di infrangere lo specchio autoriflettente dell’arte aristocratica. Petipa se ne andò al momento giusto, in tempo per presentire, ma non per assistere, alla fine del suo mondo. Ma la sua eredità – si sa – avrebbe retto ai contraccolpi più violenti, della storia e dell’arte. Valentina Bonelli
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