Il sangue dei sogni

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Collana «Grandi Romanzi»

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Mine G. Kirikkanat

IL SANGUE DEI SOGNI romanzo

GREMESE


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Volume pubblicato con il patrocinio del Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica Turca nell’ambito del progetto TEDA.

Titolo originale: Destina 2008 © Mine Kirikkanat ©Kalem Lit. Agency Traduzione a cura di: Alessia Piovanello Copertina: Patrizia Marrocco Stampa: C.S.R. – Roma Copyright edizione italiana GREMESE 2011 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-682-8


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Tutto ciò che è scritto in questo romanzo è vero, niente è reale… …Ma, prima o poi, la verità finisce per diventare realtà.


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Le celebrazioni del ventennale dell’imperatore romano Costantino ebbero inizio il 25 luglio 325, subito dopo il Concilio di Nicea. Nella primavera dell’anno 326, l’imperatore lasciò Costantinopoli, città scelta quale nuova capitale della cristianità, per raggiungere la vecchia, Roma, dove si sarebbero tenute le cerimonie di chiusura. Per partecipare alle festività, Flavio Giulio Crispo – suo primogenito e unico figlio avuto dalla prima moglie Minervina – si recava da Sofia a Roma con la moglie e i due bambini. Si tratta del celebre Crispo Cesare che, alla testa di ottanta galeoni, aveva annientato la flotta di duecento triremi di Licinio, avversario di suo padre, e aiutato Costantino nella presa di Bisanzio. Ma prima di poter mettere piede a Roma, nella città fortificata di Pola, nell’odierna Croazia, fu assassinato per ordine di suo padre. Costantino era ancora in cammino quando gli fu annunciata l’esecuzione della sentenza di morte pronunciata contro il figlio. Il 18 luglio 326, con i tre figli avuti da Fausta, l’imperatore fece il suo ingresso a Roma. Sarebbe stato il suo ultimo viaggio a Roma; Costantino, primo Augusto, non sarebbe più tornato nell’antica capitale dell’impero. Quando fu assassinato, Crispo Cesare, che aveva stabilizzato i confini settentrionali di Roma sottomettendo i Franchi e gli Alemanni tra il 320 e il 324, aveva ventitré anni. La sua consorte portava lo stesso nome della nonna paterna: Elena. I cronisti dell’epoca non hanno lasciato alcun documento sulla sorte riservata, durante o dopo l’assassinio, alla moglie Elena, alla figlia di quattro anni e al figlio di due.

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GIRNE (KYRENIA) CIPRO DEL NORD: IL SONNO DI SANGUE

Era in un bagno di sudore, mezzo sprofondato nel materasso troppo morbido che gli dava l’impressione di una bara. Avvolto nelle lenzuola sgualcite, le gambe parallele e le braccia lungo il corpo, giaceva come un cadavere in un sudario. Gli mancavano soltanto le braccia incrociate sul petto. Fin dentro la tomba, i miscredenti dovevano tenere le mani libere in segno di rivolta. “Libero da ogni vincolo, libero di perdere e di sparire”, pensò. All’interno del bungalow immerso nella penombra regnava un caldo infernale. Senza le luci della piscina, che penetravano attraverso la finestra aperta della stanza dai muri imbiancati a calce, avrebbe creduto di essere dentro un forno crematorio; lo stridio monotono e ininterrotto delle cicale era simile al crepitio delle fiamme. Già sentiva i demoni infernali lacerare con voci e risa acute il sordo brusio delle conversazioni che si protraevano nel bar a bordo piscina. Le risate delle donne, in particolare. Risate offerte, nervose e cristalline, che si riversavano a cascata suonando come un invito. Aveva già alloggiato al Courtyard Inn nei suoi precedenti soggiorni sull’isola. Con il bar aperto estate e inverno, il ristorante, il campo da golf, la piscina e i pochi bungalow, il complesso in riva al mare e in stile coloniale era il rifugio degli inglesi di Kyrenia. Era mezzanotte passata quando Abdurrahman, il proprietario anglopakistano, gli aveva comunicato con un sorriso a trentasei denti, di un bianco fosforescente, al cen-

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tro del viso olivastro: «Spiacente, Sir, mi resta un solo bungalow, ma il condizionatore è guasto». Il centro città non era esattamente a due passi, e non ebbe la forza di riprendere la macchina e percorrere chilometri in cerca di un altro albergo. Pensò che era questione di una sola notte, per di più un pezzo avviata. Ma le pale del ventilatore, che giravano come un fantasma nella penombra della stanza dal soffitto basso, parevano attizzare ancor di più la fornace. A ogni spostamento d’aria, il sudore gli sgorgava a fiotti dal corpo inerte. Si sarebbe con tutta probabilità liquefatto seduta stante, se avesse accennato il minimo gesto. In realtà, non era molto sicuro di aver voglia di dormire. In una maniera o nell’altra, avrebbe passato la notte in preda agli incubi. Che fosse l’incubo atteso o l’incubo dell’attesa, a ogni modo, non aveva via di scampo. Alla dogana dell’aeroporto di Nicosia, cosa sarebbe accaduto se al poliziotto che lo interrogava sul motivo della sua visita nella Repubblica Unita di Cipro avesse risposto che era venuto per fare incubi? L’avrebbero rimesso sull’aereo in men che non si dica. E se, nel mostrare i documenti, avesse mormorato che si trovava sulle tracce di un incubo, senza tanti complimenti gli avrebbero messo la camicia di forza. Naturalmente, al poliziotto aveva dato la risposta che questi voleva sentire: «Turismo». Ora, Daryal era veramente alla ricerca di un incubo e, tenuto conto della serietà degli uomini che lo avevano spedito a Cipro, era probabile che non fosse impazzito. Almeno non ancora. Doveva sognare un omicidio commesso settecento anni prima. «Non preoccuparti, sarà né più né meno come guardare un film al cinema», gli avevano detto. Quel sogno poteva farlo tanto nel sonno quanto da sveglio. Da un punto di vista psicologico, sarebbe stato impossibile essere più preparati. Per due mesi i migliori “svitati” dell’Europol gli avevano imbottito il cervello di informazioni mediche e paramediche, tanto per preparargli il conscio allo shock che stava per subire il suo subconscio.

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Dal canto suo, Daryal non si era risparmiato: nell’ultimo mese aveva letto più libri che in tutta la sua vita. E per di più, obbligandosi a memorizzare ogni riga che leggeva! Conosceva ormai a menadito la cronistoria dell’assassinio che doveva sognare. Le immagini che stavano per riflettersi nel suo inconscio non avrebbero fatto altro che chiarire i dettagli di quella cronaca. Resta la constatazione che temeva un po’ la prima seduta, giusto la prima… Era una tensione simile a quella provata da un centometrista in attesa del segnale ai blocchi di partenza. Da arco sarebbe diventato freccia non appena si fosse messo a correre. Una volta convertita in movimento la tensione della sua mente, si sarebbe concentrato sul bersaglio. A condizione, certo, di riuscire a individuarlo. Come in ogni missione, il suo scopo era arrivare primo, nello spazio e nel tempo. Ma stavolta, da che parte doveva dirigersi, dov’era il traguardo? Tutto restava indefinito. Ignorava chi fossero i suoi avversari e se dovesse fare i conti con un rivale, chi fossero i suoi nemici e chi dovesse battere, schiacciare o eliminare. Avrebbe applicato il metodo che conosceva meglio: stare a guardare. A più riprese aveva constatato che lasciare tempo al tempo, piuttosto che cercare di prevedere, era la migliore garanzia di vincere. I muri bianchi su cui si riflettevano i giochi d’acqua e di luce della piscina presero all’improvviso a tingersi di rosso. Daryal chiuse gli occhi. Quando li riaprì, tutta la stanza era immersa nella porpora, e i riflessi d’acqua che danzavano sulle pareti e sul soffitto erano aureole di sangue. Lo stridio delle cicale si era trasformato in un orribile ronzio delle orecchie. La testa gli si fece pesante, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Aveva l’impressione di essere intrappolato in un pozzo senza fondo, capovolto, inghiottito nelle profondità del sonno. Capì che era giunto il momento, senza che fosse stato necessario attenderlo. “Eccolo qua, il sonno di sangue, eccolo che inizia…”, si disse in un estremo sussulto di coscienza.

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UN SOTTOMARINO A NEW YORK

Benché situato all’ottavo piano, lo Stato Maggiore del SVR presso le Nazioni Unite meritava fin troppo il soprannome di sottomarino. Le pareti corazzate da placche di metallo erano tappezzate da fili che emettevano continue vibrazioni magnetiche. I pannelli metallici proteggevano dal rumore e dai proiettili quel sottomarino che non rischiava certo di affondare dal suo ottavo piano, ma i fili vibranti posti a eludere orecchi indiscreti lasciavano intendere chiaramente come più dei proiettili si temessero le voci¹. Sia l’agenzia del SVR che i piani inferiori, dove lavoravano i “semplici” diplomatici della missione russa, erano considerati territorio russo secondo le regole delle Nazioni Unite e, di conseguenza, inviolabili. Ma tali disposizioni non erano parse sufficienti ai servizi segreti. Fin dai tempi dell’URSS, come imponeva il contesto internazionale, era stato ritenuto opportuno isolare, tramite un sistema di elevatori, l’ottavo piano dal corpo dell’edificio delle Nazioni Unite, e costruire una camera stagna provvista di finestre finte per trarre in inganno dall’esterno. Il KGB, che in tal modo ostentava una sicurezza di facciata verso cittadini e colleghi diplomatici che lavoravano ai piani ¹ In questo romanzo, la descrizione dell’agenzia del SVR si basa su quella fornita da Sergei Tretyakov al giornalista Peter Earley, per il suo libro testimonianza Comrade J. Agente russo numero uno a New York sotto Boris Eltsin, Tretyakov si era in seguito dimesso per entrare nella CIA.

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bassi, riservati alla missione dell’URSS, assunse il nome di SVR quando l’impero sovietico si trasformò in federazione russa, ma la sua agenzia dell’ottavo piano conservò il nome di “sottomarino”. Gli agenti dei servizi segreti perpetuavano anch’essi l’antica tradizione della cabina pubblica per chiamare le loro “spie”. A ogni modo, l’uso del cellulare era fuori questione. Per entrare nel sottomarino, il sistema di codice azionato da un anello o da una moneta non era cambiato dall’epoca del KGB. A questo era stato semplicemente aggiunto un moderno metodo di rivelazione con sensori digitali. Yuri Kramar aprì il pollice e l’indice sinistri e presentò verso il sensore il dispositivo inserito nell’incavo tra le due dita. Quando lo sportelletto elettronico che proteggeva il meccanismo scivolò di lato, digitò il codice segreto con una moneta. Era avvezzo all’esercizio di memorizzare il codice che cambiava ogni settimana, così come faceva con tutti i dati cifrati. Per riuscirvi, era stato addestrato con una speciale formazione matematica. Tuttavia, aveva sviluppato un’ossessione nei confronti di quella porta, un’ossessione che lo perseguitava perfino nei sogni. In un incubo ricorrente, si ritrovava bloccato davanti alla porta del SVR, incapace di ricordare il codice segreto. E l’ultima missione che gli era stata assegnata, “l’operazione incubo”, aveva discretamente esasperato il suo assillo. I sogni in cui dimenticava il codice d’ingresso si facevano sempre più frequenti. Non incrociò anima viva nel lungo corridoio su cui dava la porta. L’illuminazione era ridotta e, visto che erano le undici di sera, il silenzio regnava sovrano. Ma Yuri Kramar sapeva per certo che l’ufficio del SVR non rimaneva mai deserto. Dietro i tramezzi mobili che separavano i diversi servizi, di sicuro qualche civile montava la guardia. La stanza in fondo al corridoio si apriva unicamente dall’interno, come le cabine dei piloti. Mentre il colonnello Kramar si avvicinava, con la testa sollevata verso la telecamera per avvertire il capo del suo arrivo, la porta si aprì e Andrei Kuliev comparve sulla soglia in tutta la sua impressionante stazza.

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Yuri Kramar sentì il cuore accelerare i battiti. Cosa che non mancò d’irritarlo. Era certo di non lasciare trasparire nulla ma, nonostante tutta la preparazione, faceva fatica a controllare l’emozione ogni volta che vedeva il suo capo. Senza alcun dubbio Andrei Kuliev era al corrente della sua omosessualità (del resto, c’era forse qualcosa che non sapesse, a qualunque livello, del SVR?). Nessun impiegato aveva segreti per lui. Ma aveva idea di quanto lo desiderassero? Andrei era un uomo estremamente seducente. Capelli castano chiaro, occhi a mandorla e di un azzurro ghiaccio come gli husky siberiani, era il russo per eccellenza. Benché snello e longilineo, il suo corpo slanciato come una liana sprigionava, anche quando completamente immobile, una feroce energia animale che naturalmente non sfuggiva alle donne, irresistibilmente attratte da lui, almeno quanto lui dal genere femminile. Così l’assistente del segretario generale delle Nazioni Unite era caduta tra le braccia di Andrei Kuliev e poi passata in seno al SVR. Il capo dell’agenzia di New York faceva ampio uso del suo ascendente sulle donne per servire la Russia. Ecco perché Yuri Kramar non si era mai fatto avanti. Ma talvolta capitava che il suo bel capo s’insinuasse per ossessionare i suoi sogni tra i codici delle porte. Con il suo passo felino, Andrei Kuliev avanzò al centro della stanza, seguito a ruota da Yuri Kramar. Ogni qualvolta entrava nell’ufficio del suo superiore, lo sguardo gli andava al ritratto di Lubakov, appeso sul muro dietro la scrivania. La somiglianza tra il giovane e atletico presidente russo e Andrei Kuliev era, almeno in quella foto, talmente sconcertante che, se i due non avessero avuto pressappoco la stessa età, Kramar avrebbe creduto che il suo capo fosse il figlio illegittimo del presidente. Ma un importante dettaglio rivelava la poca simpatia che, nonostante l’impressionante somiglianza, il più giovane generale “civile” dei servizi segreti russi nutriva nei confronti del presidente Lubakov. Sopra la cornice della porta, proprio di

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fronte al ritratto, era appesa una riproduzione di grandi dimensioni: Figura con carne, di Francis Bacon. Nella straordinaria immagine, il personaggio vestito di viola e seduto tra due quarti di carne, sospesi a dei ganci da macelleria, rappresentava in particolare il Papa e gli uomini di Chiesa in generale. Kramar non aveva ancora capito perché, in quell’ufficio, al più alto grado dello Stato Maggiore del SVR di New York, il presidente russo si vedesse costretto, seppure per interposto ritratto, a contemplare un Papa troneggiante tra due pezzi di carne grondanti sangue. Il raffronto non era certo privo di allusioni: ma che cosa intendeva comunicare il generale Kuliev? Probabilmente, era un’accusa al presidente, intento a trasformare la Russia in un bastione dell’ortodossia nel conflitto religioso che divideva il mondo, di mettere a tacere il popolo con la religione? La voce del suo superiore sottrasse il colonnello Kramar ai suoi pensieri: «E come vanno le cose, laggiù?». Andrei Kuliev si riferiva alla missione diplomatica incaricata di preparare la visita del presidente Boris Lubakov alla sede delle Nazioni Unite. «I lavori procedono. Non si aspetta altro che la conferma definitiva della data del suo arrivo per informare l’assemblea generale del giorno e l’ora dell’intervento del presidente». «Dipende tutto da noi… Sarà in funzione dello svolgimento dell’operazione a Cipro che il presidente si esprimerà all’assemblea generale. Quali sono gli ultimi sviluppi?». «Il bersaglio si è sistemato in un hotel di Girne. È marcato stretto dall’agente Xesus, che aspetta l’occasione giusta per entrare in contatto con lui. È tutto sotto controllo, per il momento… Attendiamo il famoso sogno». Il capo del SVR di New York scoppiò in una risata nervosa: «Il famoso sogno! È la prima volta nella storia che dobbiamo correre dietro agli europei. E come se non bastasse, nel momento in cui tutti si aspettano che ripetiamo la vittoria della croce sulla mezzaluna. Ci siamo fatti superare nel campo in cui

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eravamo all’avanguardia fin dai tempi di Stalin, intendo dire la neurobiologia». «Anche gli Americani si sono fatti superare», azzardò timidamente Yuri Kramar, come a consolare il suo capo, che con il suo selvaggio furore esercitava su di lui un fascino irresistibile. Dopo aver camminato avanti e indietro per la stanza, Andrei Kuliev parve ritrovare la calma quando gli chiese: «Possiede una buona conoscenza del bersaglio, colonnello?». «È l’elemento migliore dell’Europol, perché è totalmente imprevedibile. Non ha seguito la formazione classica nei servizi. È stato anche nella Legione Straniera. È un belga di origini turche. Con l’attacco al consolato degli Stati Uniti a Costantinopoli…». Kuliev lo fermò con un gesto della mano: «Lo so, ha portato la Russia e gli Stati Uniti sull’orlo della guerra! Mi sembra rischioso giocare con questo tipo. Bisogna farlo fuori prima possibile». «Ma soltanto dopo che avrò determinato l’identità dell’Erede – ricordò Kramar. – Sarà lui a trovare l’Erede. Dopo sarà facile. Li elimineremo tutti e due!». Andrei Kuliev rimase in silenzio. Yuri Kramar si alzò: «Quanto a me, è tutto per il momento. Ha istruzioni da darmi, generale?». Con gli occhi rivolti al ritratto del presidente Lubakov, il giovane generale borbottò: «La prima capitale della cristianità è tornata nel tenero grembo di Maria, nella luce del figlio e tra le braccia del padre. Contro la devianza della Chiesa cattolica romana, è ridiventata la capitale dell’ortodossia, la vera guida sulla via del Regno! È evidente che spetti alla Russia portare la fiaccola. Per opporsi al Vaticano, occorre assolutamente un patriarca russo che rappresenti la più importante popolazione ortodossa del mondo…». Lanciando un’occhiata all’immagine del Papa seduto tra due quarti di carne sul muro opposto, Yuri Kramar aggiunse: «Senza dimenticare che la situazione geostrategica della regio-

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ne, insieme al controllo del Fanar2 della capitale ortodossa, assicurerà alla Russia uno sbocco sui mari caldi. Inutile dire che, in un’epoca di ricomposizione religiosa, è indispensabile che il patriarcato ortodosso del Fanar diventi russo». Andrei Kuliev si rabbuiò: «E perché tirano fuori dal cilindro questa storia dell’erede che discenderebbe da Costantino il Grande? Tutti i figli di Costantino si sono uccisi tra di loro e hanno ucciso a vicenda i loro figli! E se il Discendente che ci obbligano a inseguire non fosse altro che un’esca, un’illusione? Del resto, che bisogno c’era di farlo discendere dall’albero genealogico di Costantino? Eccoli lì a cercare un Erede bizantino per non cedere il Fanar alla Russia. Un discendente dei Comneni o dei Palaiologos sarebbe del tutto sufficiente… A che serve risalire fino a Costantino?». «Perché è stato il primo imperatore romano cristiano ed è stato lui a fondare la capitale! Da quasi cinquant’anni, dalla Macedonia fino in Francia, in tutta Europa spuntano ciarlatani che sostengono di discendere dai Palaiologos, dai Comneni, o da Leone l’Armeno o da Giustiniano. In primo luogo, l’idea di un erede di stirpe imperiale va forse messa in rapporto con questi ciarlatani. Secondo, poi, è più facile rendere credibile l’impossibile. Ed esattamente in questo si danno da fare inventando per la capitale storica della cristianità un discendente generato dalla più antica schiatta fondatrice. Non sanno chi sia, lo cercano, e così facendo rendono le loro tesi ancor più convincenti. Inoltre, il loro candidato non lo cercano tra i Greci ortodossi! Il modello di pupillo che contano di opporre a quello del patriarcato russo per la nuova Roma, lo plasmeranno su un vecchio modello romano. Difatti, un discendente della stirpe fondatrice romana sarà un simbolo sufficientemente forte Fanar (o Fener) è uno storico quartiere di Istanbul, affacciato sul Corno d’Oro, che deve il nome a una colonna, esistente durante il periodo bizantino, alla cui sommità era posta una lanterna (in greco, fan£r). “Fanar” è ancora oggi il termine utilizzato per definire il Patriarcato di Costantinopoli, più o meno come si utilizza “Vaticano” per indicare la Chiesa cattolica [NdT]. 2

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per tenere a bada il custode del Fanar, chiunque esso sia. Quel simbolo può essere rappresentato sia da un uomo che da una donna… L’essenziale è assicurare continuità storica, incarnata da un rampollo della schiatta fondatrice della Roma orientale, e che il Discendente, al di sopra di un patriarcato che sarà probabilmente russo, sia un interlocutore asservito all’Europa e all’America…». Notando che Andrei Kuliev fissava i suoi occhi azzurro ghiaccio sul quadro di Francis Bacon fingendo di non ascoltare, Yuri Kramar capì di essersi spinto troppo oltre e chiuse subito il becco. Commetteva sempre l’errore di mostrare un’eccessiva padronanza dell’argomento in questione. E a nessun capo, tanto meno ad Andrei Kuliev, piaceva vedere un subordinato fare mostra della propria scienza o parlare più del richiesto. A Yuri era richiesto soltanto di dirigere l’operazione, e non di fornire un’analisi circostanziata dei perché e per come! Non spettava a lui, Yuri Kramar, farlo, anche se il suo interlocutore sembrava dargli il là, interrogandolo su quell’operazione. La Russia restava la Russia, e persino tra i Russi di New York la familiarità democratica e disinvolta era proscritta dalla disciplina gerarchica. A maggior ragione dall’organizzazione dei servizi segreti… Seguì un lungo silenzio. Yuri Kramar abbassò gli occhi, in attesa di un richiamo all’ordine. Si aspettava che il suo capo scoppiasse in urla molto meno gradevoli di quelle di piacere che popolavano i suoi sogni. Ma Andrei Kuliev non proferì parola. Quando Yuri Kramar rialzò la testa, il superiore lo fissava con i suoi occhi azzurro ghiaccio. Il principe dei suoi sogni non si degnò neppure di congedarlo. Si limitò a mostrargli la porta con un impercettibile cenno del capo. E, al SVR, un silenzio tra superiore e subordinato era un avvertimento che valeva più di mille ramanzine.

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