Il lavoro dello scenografo

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PICCOLA BIBLIOTECA DELLE ARTI

IL LAVORO DELLO SCENOGRAFO


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PICCOLA BIBLIOTECA DELLE ARTI Collana di testi e strumenti per la scuola e l’università


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Renato Lori

IL LAVORO DELLO

SCENOGRAFO CINEMA, TEATRO, TELEVISIONE

GREMESE


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Voglio ringraziare per gli amichevoli ma preziosi consigli il giornalista Sergio Lori (mio padre) che purtroppo ora non c’è più, gli scenografi Aldo De Lorenzo e Giada Calabria, il prof. Fedele Lizzi, che pur non avendo nulla a che vedere con la scenografia si è prestato a fare da cavia, i registi cinematografici Stefano Incerti e Valerio Jalongo, l’attore e regista teatrale Lucio Allocca, il datore luci Peppino Perrella, tutti quelli che avendo già letto la prima edizione di questo libro si sono complimentati con me e tutti quelli che, in tutti questi anni, mi hanno permesso di imparare. Tutti i bozzetti, gli schizzi, i disegni, i plastici e i progetti riprodotti in questo libro, dove non vi siano diverse indicazioni, sono relativi a scenografie di Renato Lori.

In copertina: Set del cortometraggio Scie (foto di Gaetano Accettulli) Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l. – Roma Stampa: La Moderna – Roma Copyright GREMESE 1a edizione © 2000 2a edizione integralmente rivista e ampliata: 2011 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-660-6


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A mio padre, che mi ha insegnato ad amare il teatro ed il cinema. A mia moglie e mio figlio, che mi hanno permesso (sopportandomi) di continuare ad amarli.


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Introduzione alla seconda edizione Il tempo passa in fretta! Ho messo piede per la prima volta su di un palcoscenico, per collaborare alla realizzazione di una scenografia teatrale, nella primavera del 1976, a vent’anni. Ho accettato il primo incarico di insegnamento in una Accademia nel 1996, avendo quindi, a quarant’anni, un’esperienza professionale già ventennale. Qualcosa da raccontare agli allievi l’avevo! Dai miei primi contatti con loro, mi accorsi subito quanto scarso fosse il materiale didattico a disposizione. Fu per questo che iniziai a considerare la possibilità di scrivere questo libro. Per cominciare a credere nell’idea, elaborarla, scrivere un sommario e proporlo ad un editore sono passati circa due anni. Gremese recepì immediatamente l’efficacia della mia proposta e ne accettò di buon grado la pubblicazione. Nei primi mesi del 2000 il libro era sugli scaffali delle librerie. Certo un libro come questo non sarà mai un best-seller, ma debbo dire che in questi anni mi ha dato molte soddisfazioni. Sopratutto nei riscontri diretti con i colleghi e gli allievi. Sono passati già un bel po’ di anni dalla prima pubblicazione, e molte cose sono cambiate. Prima di tutto nel mondo delle Accademie di Belle Arti, riformate proprio nel 2000, poi nell’universo dello spettacolo e in particolare nelle tecniche della scenografia. Solo per fare un esempio evidente, oggi gli scenografi lavorano più al computer che al tecnigrafo! Mi è parsa quindi indispensabile una revisione del libro per aggiornare quello che inevitabilmente era diventato obsoleto, e anche per correggere alcune cose che erano già nate “storte” e che non avevo fatto in tempo a migliorare. Vi assicuro che la scrittura di un saggio tecnico non è cosa facile! Ogni volta che lo si rilegge si scopre che c’è ancora qualcosa che non va. In circa dieci anni è cambiato molto, ed è cambiato, in peggio, il mondo che circonda la produzione sia teatrale che cinematografica: quello dei finanziamenti. La politica in Italia, dopo “tangentopoli”, sembrava essersi messa da parte, invece negli ultimi anni si è quasi del tutto appropriata della società civile, del mondo del lavoro e della cultura. Devo dire, con amarezza, che sempre di meno valgono le capacità e i meriti, e sempre di più contano le parentele, le appartenenze e la disponibilità a far girare i soldi, e questo indipendentemente dal colore politico di chi comanda. Accade quasi in

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ogni settore e il mondo dello spettacolo, come quello dell’arte, non ne è immune... anzi, la difficoltà di una valutazione obiettiva del prodotto artistico aumenta le possibili mistificazioni. Ma lasciamo perdere le amarezze, e pensiamo al testo, speriamo che ora, fra queste pagine, tutto sia a posto e che questo libro continui ad avere una lunga vita. Magari fra altri dieci anni richiederà una nuova revisione in cui diremo che, a parte la necessità di aggiornamenti dovuti alle nuove tecnologie, nel mondo del lavoro tutto va meglio, quelli bravi lavorano ed occupano i posti che spettano loro per onestà e competenza, anche se non appartengono alle solite consorterie. Ancora una volta, buona lettura!

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Introduzione Il lavoro dello scenografo, nell’industria dello spettacolo moderno, richiede una professionalità sempre più specifica, adeguata alle richieste di una qualificazione non solo culturale ma anche tecnica completa ed esauriente. Ancora trent’anni fa la figura dello scenografo poteva essere considerata come quella di un artista, magari svagato e bohémien. Oggi, invece, al responsabile dell’ambientazione di uno spettacolo, o di un film, viene richiesta anche una mentalità manageriale. La scelta dei collaboratori, la direzione di numeroso personale tecnico, l’organizzazione di gare di appalto fra i laboratori di scenografia, la gestione dei budget a disposizione, fanno sì che l’autore “globale” della scenografia debba sempre di più accollarsi responsabilità che a volte possono sembrare ben poco affini al suo ruolo, ma che diventano poi determinanti per ottenere buoni risultati artistici. Per chi si accosta a questo settore, o perché semplicemente affascinato dal mondo dello spettacolo, o perché interessato a far sì che diventi il proprio futuro lavoro, è alquanto complicato dipanare le matasse dei meccanismi, delle responsabilità, dei compiti, dei diritti e dei doveri, e comprendere i processi artistici che portano alla scelta di un certo tipo di messinscena. Mi è capitato, negli ultimi dieci anni, di accettare, compatibilmente con gli impegni professionali, incarichi di insegnamento in alcune Accademie di Belle Arti, fino a fare della didattica, quasi, la mia attività principale. Ciò mi ha portato a contatto con i giovani che, nel giro di qualche anno, dovrebbero diventare la futura leva degli scenografi. Mi sono spesso reso conto che al di là della preparazione culturale, più o meno vasta, ben pochi, pur sapendo magari disegnare bei bozzetti, avevano effettivamente idea di cosa fosse “il lavoro dello scenografo”, che pure stavano per intraprendere. Nel consigliare ai miei allievi la bibliografia necessaria per arrivare agli esami finali e alla “laurea” in scenografia, mi rendevo conto che i testi a disposizione, pochi e spesso introvabili, soprattutto per chi non risiede nelle città più grandi, erano, nella quasi totalità dei casi, dedicati alla parte tecnico-realizzativa, ma nessuno di essi spiegava quale è il percorso che, dal momento in cui viene ingaggiato per un lavoro, porta lo scenografo fino al debutto, e nessuno si preoccupava di “svelare i segreti del mestiere”.

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La cultura generale della materia era più che altro costituita dai racconti, purtroppo spesso folcloristici e imprecisi, di quei pochi docenti che effettivamente avevano avuto esperienze sul campo. Perché non tentare, allora, di riportare in un libro tutte quelle notizie, quei consigli, quelle nozioni che, cercando di tirare fuori dalla memoria e di organizzare in lezioni, mi sforzavo di trasmettere a quei ragazzi? È con questo spirito, se volete un po’ presuntuoso, che mi sono accinto a mettere su carta quello che ho imparato con modestia ed umiltà, spesso rubandolo con gli occhi e a volte sottraendolo con destrezza a chi non sempre era disposto a condividere il proprio “sapere” con altri, in venticinque anni di lavoro. Questo è il risultato. Speriamo che possa essere di aiuto a qualcuno.

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Che cos’è la scenografia? «Scenografia: termine composto da due parole greche: skenè (scena) e grafia (scrittura), quindi scrittura della scena. Tecnica e arte di creare e realizzare la scena, l’ambiente entro il quale si muove la vicenda rappresentata. Per estensione anche l’ambiente in cui si agisce».1 Potremmo dire che tutto quello che si trova intorno agli attori sul palcoscenico di un teatro, o in ogni singolo fotogramma di un film, è scenografia. Lo scenografo ne è il responsabile, è colui che, letta la storia e sentite le esigenze del regista, crea, sceglie, trova, modifica, disegna, progetta tutto quello che servirà a determinare l’ambientazione di uno spettacolo o di un film. Il teatro è il luogo della fantasia. Gli spettatori sanno bene che al di là del sipario, nella realtà, vi è solo una scatola vuota formata da tre muri spogli, decorati al massimo con tristi scritte “vietato fumare”. Comunque gli spettatori sono sempre coscienti del fatto che i personaggi che si trovano davanti a loro sono attori che stanno recitando e che lo spazio in cui si muovono è un luogo creato dalla fantasia dello scenografo. Il cinema, invece, ci restituisce la realtà della vita: qualsiasi storia appare allo spettatore credibile e reale. Spesso il pubblico cinematografico e televisivo finisce per identificare un attore con il personaggio che interpreta, seguendone le azioni come se fossero davvero frutto delle sue scelte e non della fantasia di uno sceneggiatore, a volte addirittura incitandolo a comportarsi in un certo modo. Se lo incontra per strada, spesso lo chiama con il nome che ha nella finzione scenica. Nello stesso modo, è raro che gli spettatori si rendano conto che quello che sullo schermo circonda gli attori sia stato pensato da uno scenografo. La tendenza è quella di credere che tutto preesista al film stesso e che l’uso delle ambientazioni e degli oggetti sia per lo più casuale. Nessuno immaginerebbe che la scelta di un ambiente sia preceduta da decine di sopralluoghi, fotografie, video, disegni di preparazione, meeting ed altro, e che spesso gli ambienti sono ricostruiti in teatro di posa o, se scelti dal vero, completamente riarredati. 1

Mario Santella, Lessico dell’attore, Colonnese, 1998.

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Fino all’inizio del 1900 il termine scenografia implicava sempre un presupposto illusionistico e quindi bidimensionale e pittorico. Ancora nel 1973 Maurizio Fagiolo nel suo libro La scenografia, dalle sacre rappresentazioni al futurismo definiva così la scenografia: «Il termine scenografia significa decorazione della scena (skenè in Grecia, scaena a Roma). Già nell’etimo si collega all’arte del costruire: infatti Vitruvio, il teorico dell’architettura romana, dice che l’architetto ha il compito di fare piante (orthographiae) e quadri prospettici (scaenographiae). Cioè la scenografia è quell’insieme di regole che permettono di rappresentare sul piano la terza dimensione». In realtà «l’insieme delle regole che permettono di rappresentare sul piano la terza dimensione» è la prospettiva, e anche se lo scenografo utilizza la prospettiva per rappresentare nei suoi bozzetti la scena che sarà, questa potrà spesso essere tridimensionale e reale non meno di una vera architettura. E anche se durante i secoli XVII, XVIII, XIX l’uso della scenografia dipinta fu prevalente, con l’avvento della luce elettrica divenne molto più difficile far credere agli spettatori che quello che era rappresentato pittoricamente sulla tela dei fondali e delle quinte fosse vero: la debole luce delle candele prima e dei lumi a gas poi aveva molto aiutato l’illusione. Il 1900 portò una crisi di identità alla scenografia così come il contemporaneo avvento della fotografia aveva messo in crisi la pittura (cadeva la funzione di rappresentazione e di celebrazione). Nell’ambito della pittura nascevano i movimenti che, allontanandola dalla rappresentazione realistica, avrebbero dato vita all’arte moderna. E in teatro le avanguardie spingevano sempre di più la scenografia ad allontanarsi dall’imitazione illusionistica della realtà e a cercare strade d’interpretazione psicologica e di ricerca.

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Breve storia della scenografia Prima di avventurarci nell’analisi del lavoro dello scenografo nell’ambito dello spettacolo contemporaneo, è opportuno volgere uno sguardo al passato per comprendere, seppure in maniera molto stringata, quale sia stata l’origine della scenografia e l’evoluzione dello spazio teatrale.

LA GRECIA E ROMA La nascita del teatro drammatico è ufficialmente fissata in Grecia nel VI secolo a.C. e ha la sua origine nei riti in onore del dio Dioniso. Durante le Dionisiache si eseguiva il Ditirambo, canto in onore del dio; il corteo dei Satiri e delle Menadi era diviso in due semicori capeggiati da due corifei che iniziavano a dialogare fra loro. Ai canti dei due semicori, che celebravano le gesta del dio, cominciò a rispondere una persona, l’hypopcrites (l’attore), che incarnava Dioniso in persona: da quel momento si può dire che ebbe vita la rappresentazione teatrale. Insomma, in origine c’era l’attore, soltanto l’attore. All’inizio la scenografia fu secondaria, ma in fondo anche oggi uno spettacolo con i soli attori, senza scenografia, si può fare. Viceversa, uno spettacolo fatto solo di effetti visivi scenografici non è più definibile “teatro”. È tradizione attribuire le prime vere e proprie forme di “teatro” a Tespi, il quale arrivò ad Atene dalla Icaria, verso la metà del VI secolo, con un carro che utilizzava anche come palcoscenico e su cui trasportava attrezzi e arredi che gli servivano per la rappresentazione. L’edificio teatrale nasce intorno alle esigenze del rito dionisiaco che si andava ampliando: la tragedia (da tragodìa, canto del capro, l’animale sacrificato) si sviluppa, dunque, intorno all’ara del dio, su cui il sacrificio in suo onore veniva offerto. I corèuti si dispongono in circolo intorno ad essa, e con l’introduzione del “risponditore”, cioè dell’attore, si spostano a circa due terzi del cerchio e lasciano l’altro terzo per la tenda da cui esce, e dove rientra per prepararsi, l’attore. Quella tenda chiamata skenè è, in embrione, la scena. Il pubblico che si radunava intorno, dapprima alla rinfusa e in piedi, fu poi fatto accomodare su gradinate di legno in modo che godesse di una migliore vista di quello che accadeva, ma, considerato il rischio di crolli e di incendi che le gradinate comportavano (nella settantaseiesima Olimpiade, 500-

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496 a.C., fu tanta la folla affluita che le impalcature crollarono), si passò a costruire teatri in muratura: furono all’inizio di forma rettangolare e trapezoidale, e solo successivamente semicircolari, sfruttando il declivio naturale di una collina per collocarvi i posti a sedere. Con la costruzione degli edifici in muratura, la semplice tenda che nascondeva i cambi dell’attore si trasformò in un vero e proprio edificio di pietra che, facendo da sfondo al palcoscenico (proskènion), rappresentava in maniera sempre più ricca la facciata di un palazzo regale con tre portali. Non dobbiamo pensare, però, che lo sfondo fisso del palazzo fosse l’unica scenografia utilizzata nel teatro greco. L’ambientazione poteva cambiare grazie ad elementi scenografici provvisori costruiti in legno o dipinti. I periatti, ad esempio, erano delle quinte a base triangolare che, disponendo di tre facce, ognuna dipinta in modo diverso, ruotavano fornendo tre differenti cambi di scena. Altri meccanismi utilizzati erano: l’ekkyklema, una piattaforma che avanzava in scena da uno dei portoni della skenè per portare in primo piano un’azione avvenuta all’interno; la mechanè, che veniva usata per il volo di divinità o eroi, il theologhèion, che serviva per far apparire in luoghi elevati gli dei quando risolvevano l’azione con il loro intervento finale (il Deus ex machina dei Romani); il brontèion per i tuoni e il keraunoscopèion per i fulmini. A proposito di queste prime “scenografie” è interessante notare che verso il 450 a.C. Agatarco di Samos descriveva le decorazioni che egli stesso aveva eseguito per alcune rappresentazioni di tragedie di Eschilo. Altre notizie in merito si trovano perfiFig. 1 – Teatro greco. no nelle opere di Democrito e Anassagora. Giulio Polluce, nel 200 d.C., parla delle prime tavole dipinte per la scena di un anfiteatro. Possiamo dire che nel dramma classico antico, malgrado l’utilizzo di alcuni oggetti scenici, l’elemento pittorico ed illusionistico intervenne solo in minima parte. Le impalcature di fondo e i periatti laterali girevoli erano normalmente sufficienti per indicare determinati luoghi dell’azione Fig. 2 – Teatro romano. teatrale. Si adornava la scena con

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immagini di torri, altari, tende, case, tombe, eccetera, delle quali però non ci resta purtroppo nulla: il materiale con cui erano fabbricati, facilmente deperibile, in prevalenza legno e tela, non ha resistito all’azione del tempo. Il teatro in epoca romana non si discostò molto da quello greco, abbandonò il declivio delle colline e fece appoggiare la cavea (le gradinate su cui sedevano gli spettatori) su una costruzione in muratura autonoma, ma in sostanza fu un proseguimento e uno sviluppo del teatro greco.

IL MEDIOEVO Dopo la caduta dell’impero romano vi fu un lungo periodo oscuro nel quale il teatro non godette di buona fortuna. Ad osteggiarlo furono soprattutto i cristiani che vedevano in esso il perpetrarsi del mito pagano. Ma proprio alla fede cristiana fu dovuta la sua rinascita perché, così come il teatro greco era nato dal rito dionisiaco, il teatro medioevale rinacque dal rito cristiano. Più o meno come era accaduto per i riti pagani, la liturgia dà vita a vere e proprie rappresentazioni dei fatti raccontati dalle sacre scritture. Le sacre rappresentazioni si tenevano per lo più sui sagrati delle chiese e nelle piazze antistanti l’edificio religioso ed erano caratterizzati dalle scenografie a “luoghi deputati”: sui lunghi palchi, davanti ai quali la gente, in piedi, era libera di muoversi, venivano realizzate tante piccole scene che simultaneamente rappresentavano i vari ambienti della storia (scena multipla simultanea): la casa di Maria o il palazzo di Erode, il mare di Galilea o il lago di Tiberiade e perfino il Paradiso o l’Inferno. La Passione di Valenciennes rappresentata nel 1547 in Francia, di cui ci rimangono la cronaca scritta ed una testimonianza grafica, è il migliore esempio di sacra rappresentazione. «La scena era all’incirca larga 50 metri e profonda 20. Da sinistra verso destra si succedevano: un padiglione a colonne con la raggiera del Paradiso e Dio in gloria; una muraglia con porte (Nazareth); un padiglione colonnato con un altare (il Tempio); un’alta muraglia con una torre e una casa (Gerusalemme); al centro un padiglione a quattro colonne con scale e un trono; una muraglia con due porte (Porta Fig. 3 – Teatro medioevale. Aurea); un bacino con una barca

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ancorata; e infine il Limbo e l’Inferno sintetizzati da una fortezza e da un dragone infuocato».2

IL TEATRO ELISABETTIANO Lo spazio che ospitava i drammi e le commedie di William Shakespeare e degli autori suoi contemporanei era ancora una volta all’aperto, il palco ed il grosso del pubblico si trovavano in quello che altro non era se non il cortile dell’edificio destinato alla rappresentazione. Inizialmente gli spettacoli si tenevano nei cortili delle locande e quindi, nell’edificare spazi appositi per il teatro, si tenne conto di quella impostazione. I teatri erano circolari, ottagonali o quadrati, avevano tetti di paglia che coprivano le pareti laterali. La zona centrale restava scoperta. Chi voleva vedere lo spettacolo pagava una somma non molto alta per stare in piedi nell’arena per tutta la rappresentazione. I ricchi, che potevano permettersi di pagare di più, salivano alle gallerie potendo sedere sulle panche lì sistemate. Le persone alla moda e danarose potevano occupare una delle stanze dei signori (gentlemen’s room), a volte pagare uno sgabello e sedere sul palco. Il palcoscenico era una grande pedana che veniva avanti fino alla metà dell’arena, in modo da poter essere quasi completamente circondata dagli spettatori; circa la metà del palco era coperto da un tetto che appoggiava su due colonne e nascondeva un vano superiore che fungeva da soffitta, da cui si potevano calare in scena o tirare su oggetti. In alcuni teatri il fondo di questo “tetto” sovrastante il palco era dipinto come un cielo stellato e veniva appunto chiamato cielo (heaven). La facciata dell’edificio che faceva da fondo al palco aveva alcune porte e una specie di loggia superiore che, formando una sorta di palcoscenico superiore (upper stage), di volta in volta veniva utilizzata come balcone, come spalti di castello, o per apparizioni. Sappiamo che gli attori potevano anche usufruire di un palcoscenico interno (inner stage), ma non sappiamo se si trattasse solo di una zona di servizio o di una vera e propria scenografia di interno, che al momento opportuno veniva scoperta ed utilizzata. Gli ogFig. 4 – Teatro elisabettiano. 2 Maurizio Fagiolo, La scenografia, dalle sacre rappresentazioni al futurismo, Sansoni, 1973.

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getti presenti in scena erano pochi e, a quanto pare, non c’era il tentativo di proporre attraverso pitture o costruzioni nessun tipo di scenografia. Molto era affidato all’immaginazione degli spettatori e possiamo dire con certezza che la struttura di quegli spazi influì non poco sul modo di raccontare e di descrivere i personaggi dei drammi rappresentati e che ancor oggi, a distanza di secoli, mantengono quei caratteri “a tutto tondo” risultando sempre molto attuali.

IL RINASCIMENTO ITALIANO Il Rinascimento italiano, nell’arte figurativa, fu caratterizzato soprattutto dallo studio dell’arte classica, dalla volontà di emularla e dalla scoperta della prospettiva. In campo teatrale, lo studio dell’antico non portò ad una ricostruzione né dello spazio adibito agli spettacoli in epoca greco-romana né al recupero di quella scenografia. Splendido tentativo di recupero dell’antico è il bellissimo Teatro Olimpico di Vicenza, ideato dal Palladio e terminato nel 1585, cinque anni dopo la sua morte, dallo Scamozzi. Pur rifacendosi all’impianto classico, questo teatro riporta novità di grande interesse: l’uso della costruzione in prospettiva delle strade, il fatto di essere all’interno di un edificio chiuso e la pianta semiellittica e non semicircolare della cavea. Anche il teatro di Sabbioneta, progettato proprio da Vincenzo Scamozzi, è un bellissimo esempio del Rinascimento italiano che, prendendo ad esempio l’impostazione greco-romana, sviluppa una nuova dimensione teatrale. Determinante, per lo sviluppo della scenografia, fu la prospettiva. L’applicazione delle sue regole dette il via ad un lungo periodo caratterizzato soprattutto dall’uso di scenografie dipinte che cercavano di riprodurre, attraverso l’illusione prospettica, spazi molto più grandi di quelli realmente a disposizione. L’evoluzione dalla scena multipla di tipo medioevale a quella prospettica rinascimentale fu repentina. Infatti nel 1487 troviamo ancora testimonianza dell’uso dei “luoghi deputati” (la rappresentazione di una commedia fatta da Domenico Fosso a Bologna). Poi nel 1508, nella rappresentazione della Cassaria dell’Ariosto, compariva «una contracta et prospettiva di una terra cum case, chiese, campanile et zardini» 3 di cui era autore Pellegrino da Udine. Splendidi esempi di scenografie di questo tipo sono quelle, solo di poco successive, della Calandria in cui era rappresentata «una città bellissima con le strade, palazzi, chiese, torri», dipinte con «bonissima pintura 3

Cit. da Allardyce Nicoll, Lo spazio scenico, Bulzoni, 1971.

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et prospettiva bene intesa» ma completata anche da strutture costruite. Ancora per la Calandria fu Baldassarre Peruzzi, nel 1514, ad immaginare una scenografia che mostrava grandissima ricchezza di particolari architettonici. Nel 1545 fu Sebastiano Serlio a teorizzare, nel suo Trattato sopra le scene, i tre tipi di scenografia evidentemente in uso nel periodo: la comica, la tragica e quella satirica: «Le scene si fanno di tre sorti, cioè la comica per rappresentar Commedie, la tragica per le Tragedie, e la satirica per le Satire: questa prima sarà la comica, i casamenti della quale vogliono essere di personaggi privati, come saria di cittadini, avocati, mercanti, parasiti e altre simili persone, ma sopra il tutto che non vi manchi la casa della ruffiana ne sia senza una hostaria e uno tempio vi è molto necessario… [la scena tragica]. Li casamenti di essa vogliono esser di grandi personaggi: per ciò che gli accidenti amorosi, e casi inopinati, morti violente e crudeli… sono sempre intervenute nelle case dei signori… [la scena satirica] nelle quali si riprendono, anzi si mordono, tutti coloro che licenziosamente vivono, e senza rispetto, nella satira antica erano mostrati a dito gli huomini viziosi e mal viventi. Però tal licenza si può comprendere che fosse concessa a personaggi che senza rispetto parlassero a dire con aria a gente rustica: percioché Vitruvio trattando delle scene vuole che questa sia ornata di arbori, sassi, colli, montagne, herbe, fiori e fontane».4 È però molto importante, per capire come fossero fatte quelle scene, immaginare che gli attori impegnati negli spettacoli non recitavano “nella” scenografia, ma “davanti” ad essa evitando così che il rapporto con le dimensioni umane smascherasse l’illusione. L’ultimo periodo del 1500, dominato nell’arte dal Manierismo, fu un periodo di crisi e di studio. In teatro la scenografia si fece sempre più complessa e, soprattutto attraverso gli intermezzi, si avventurò in rappresentazioni sempre più complicate. Gli intermezzi nacquero per mascherare i cambi di scena tra un atto e l’altro ma ben presto assunsero un valore a sé stante tanto da divenire essi stessi il centro principale dello spettacolo. Gli ingegni, invenzioni meccaniche tali da consentire i veloci cambi a vista delle scene, divennero l’elemento portante della scenografia. Uno dei principali artefici degli intermezzi fu Bernardo Buontalenti, architetto alla corte dei Medici nonché pittore, scultore, decoratore e direttore delle manifatture fiorentine. Con Buontalenti cambia sia il linguaggio espressivo, sia il senso dell’intermezzo. Le complicate raffigurazioni allegoriche e mitiche, volute dalla dotta filosofia di corte, esprimono il senso cosmico dell’universo. 4

Sebastiano Serlio, Secondo libro d’architettura, 1554.

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Riportiamo una parte della descrizione degli intermezzi per La pellegrina del 1589 che fu quasi una sintesi del teatro manierista, nonché preludio del Barocco: «Subito Bernardo fatta tor via la tenda, fece comparire la meravigliosa scena che rappresentava la città di Roma… Nel primo intermedio adunque comparve in terra un Tempio, e nell’aria una nuvola, che alcune femmine sosteneva nell’atto di sonare e cantare. Veddesi calare la nuvola entro al tempio, e fu rappresentata l’azione, ed in un subito non solo e la nuvola ed il Tempio, veddonsi sparire ma la scena tutta, ed in luogo di quella comparire un cielo stellato…». 5 I cambi a vista nell’“intermedio” in questione furono Fig. 5 – Scena rinascimentale. ben sei.

IL BAROCCO E IL ROCOCÒ Durante il 1600 ed il 1700 la sala teatrale, nata nel secolo precedente come sala di corte, si evolve. Lo spazio del palcoscenico s’ingrandisce in larghezza e profondità al di là dell’arco scenico che si precisa sempre di più. Ciò costringe gli architetti a rivedere anche la disposizione del pubblico: alle gradinate dei teatri rinascimentali (ancora nel seicentesco Teatro Farnese di Parma ne troviamo un esempio) si sostituiscono i palchi. La pianta dei teatri, dapprima a forma di campana (Teatro dei Rinnovati nel Palazzo Comunale di Siena e il teatro di Mantova progettati da Antonio Bibiena), si va orientando, intorno alla fine del Settecento, verso la forma a ferro di cavallo (Teatro San Carlo di Napoli progettato da G.A. Medrano e A. Carasale e la Scala di Milano del Piermarini). La sceFig. 6 – Commedia dell’arte. nografia segue la linea trac5

F. Baldinucci, Notizie vol. 8, Milano, 1811.

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ciata nel secolo precedente sviluppando il discorso illusionistico verso effetti sempre più grandiosi e complessi. Sono da ricordare, per le loro opere: Inigo Jones, scenografo inglese (1573-1652) che si ispirò alla scena italiana in contrasto con gli allestimenti elisabettiani; i Bibiena, Ferdinando (1657-1743) di cui è da sottolineare particolarmente l’introduzione della “veduta d’angolo”, e Francesco (16591739), progettista tra l’altro del Teatro Filarmonico di Verona, e i loro figli; Giacomo Torelli (1608-68); Filippo Juvarra (1676-1736). L’importante “fenomeno” della “commedia dell’arte” dominò la scena a partire dalla fine del Cinquecento sino alla fine del Settecento. Fu l’alternativa, satirica e professionale, al teatro di corte. Attori professionisti formavano compagnie girovaghe che davano spettacoli a pagamento per il popolo. Grande spazio era lasciato all’improvvisazione degli attori, i personaggi tendevano alla stilizzazione e i movimenti erano essenziali come in un balletto, la scenografia si riduceva a poche tele dipinte. L’attenzione era spostata sull’attore, sulla recitazione.

IL TEATRO OTTOCENTESCO Nell’Ottocento trova pieno compimento l’evoluzione della sala teatrale “all’italiana”, a palchi, e ancor oggi quando si pensa al “Teatro” lo si identifica immediatamente con l’immagine dei velluti rossi e degli stucchi dorati, della sala a ferro di cavallo contornata dai palchi. L’inizio del secolo è dominato dal Neoclassicismo che, assieme allo studio dell’antico, porterà gli scenografi ad un sempre maggiore interesse per lo studio della storia e degli usi e costumi dei vari paesi. Da ricordare le figure del Gonzaga, del suo allievo Paolo Landriani, di Alessandro Sanquirico e del pittore Appiani a Milano; dell’Algarotti e di Mauro Tesi a Genova; di Franceso Bagnara alFig. 7 – Teatro ottocentesco all’italiana. la Fenice di Venezia; di Antonio Nicolini e dei suoi collaboratori al San Carlo di Napoli. Con il successivo affermarsi del Romanticismo, prende sempre più forma il definirsi della figura professionale dello scenografo, non più architetto prestato allo spettacolo. Il melodramma e il bal-

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letto costringono gli scenografi a “stare dietro” ai librettisti più spregiudicati imponendogli la conoscenza di usi e costumi di tutto il mondo e di ogni secolo. Un primo esempio di attenzione “storica” negli allestimenti è data dalle rappresentazioni shakespeariane realizzate da Charles Kean in Inghilterra, che spinsero anche gli allestimenti in una direzione più realistica e costruita. Determinanti per l’evoluzione del teatro ottocentesco verso una concezione moderna furono le teorie di Richard Wagner. Nel 1876 si inaugurò il teatro da lui voluto a Bayreuth. In esso il pubblico ritornava ad essere democraticamente disposto su una cavea semicircolare a gradoni senza nette suddivisioni di posti, abolendo i palchetti, retaggio di privilegi aristocratici. L’orchestra, che fino ad allora aveva suonato a vista sotto il palcoscenico, venne collocata in una buca che la nascondeva agli spettatori. Un altro importante cambiamento fu dato dall’introduzione del sipario di velluto: si richiudeva fra un quadro e l’altro per nascondere i cambi di scena, che quindi non si susseguivano più “a vista”. La possibilità di controllare facilmente l’accensione e lo spegnimento delle luci, data dal gas prima e dalla luce elettrica poi, fece sì che si potessero spegnere le luci della sala prima dell’inizio della rappresentazione (fino ad allora il pubblico era stato illuminato allo stesso modo dello spettacolo). In questo modo l’attenzione si concentrava sulla zona illuminata, ponendo gli spettatori in una condizione quasi voyeuristica di osservatori non visti. Nel 1887 a Parigi veniva inaugurato il Thèatre Libre diretto dal regista André Antoine, uno dei maggiori propugnatori del realismo e della verità sulla scena. Il suo rigore verista (mise in scena veri quarti di bue per rappresentare una macelleria) fu tale da provocare addirittura una reazione idealista. L’introduzione del sipario e l’uso sempre più frequente di scenografie “costruite” e tridimensionali dettero l’impulso, sul finire del secolo, alla realizzazione di una serie di palcoscenici “meccanici” allo scopo di semplificare i macchinosi cambi di scena. Il Madison Square Theatre di New York, progettato da Steele McKaye, prevedeva un vero e proprio doppio palcoscenico, uno sopra ed uno sotto: funzionando come gigantesco montacarichi, permetteva di preparare una scena su uno dei due palchi mentre sull’altro si recitava. Altre soluzioni adottate furono quelle di fare scorrere tre palcoscenici affiancati in senso orizzontale, o di combinare i due movimenti, verticale ed orizzontale insieme, o ancora del palcoscenico girevole su cui era possibile montare più scene che venivano scoperte, una dopo l’altra, dalla rotazione della pedana.

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IL NOVECENTO Il Novecento, il secolo che da appena dieci anni si è concluso, non ha portato sostanziali modifiche alla struttura delle sale teatrali: anche se furono progettate e a volte realizzate (soprattutto nella prima parte del secolo) sale che avevano un’impostazione del tutto nuova, la grande maggioranza degli spettacoli rivolti al pubblico pagante aveva ancora luogo nei teatri esistenti di impianto settecentesco e ottocentesco. Solo raramente le forme spettacolari si orientavano verso una diversa disposizione “spettacolo-pubblico”. Fra i progetti da ricordare, miranti all’evoluzione della sala teatrale, va prima di tutto menzionato quello di Walter Grophius per il “Teatro Totale” ideato nel 1926 ma mai realizzato: si trattava di una sala in cui la disposizione pubblico-palcoscenico era modificabile e nella quale il palco poteva essere al centro della spazio, circondato dal pubblico. Altri progetti interessanti furono il teatro sperimentale dell’Università di Miami in Florida, del 1950, con lo stesso tipo d’impostazione del “Totale”, e il Teatro Sant’Erasmo di Milano che, attivo negli anni Sessanta, propose una soluzione di palcoscenico centrale. Tra gli spettacoli che hanno segnato un tentativo di uscire dagli schemi della sala teatrale di tipo ottocentesco sono da ricordare le esperienze del Living Theatre di Julian Beck tese ad ottenere il coinvolgimento emotivo e fisico del pubblico, le esperienze di Jerzy Grotowsky e di Eugenio Barba, oltre ad alcune regie di Luca Ronconi fra cui L’Orlando furioso allestito nel 1969: rappresentato in piazza o in chiese sconsacrate, poneva gli spettatori nello stesso spazio dell’azione scenica costringendoli a parteciparvi anche “materialmente”, addirittura spingendo le pedane usate per la scena. Non da meno, sempre con Ronconi, fu XX, tratto da un testo di Rodolfo Juan Wilcook: il pubblico era diviso in venti stanze che accoglievano sia l’azione scenica sia gli spettatori, i quali potevano assistere, in principio, solo ad una parte di ciò che accadeva; soltanto alla fine scoprivano il disegno complessivo dello spettacolo. Nella stessa direzione si mosse il Masaniello di Armando Pugliese del 1974, molto simile nell’impostazione all’Orlando ronconiano. Anche oggi continuano sperimentazioni di questo tipo, un esempio sono i recenti Il viaggio e Le confessioni, con la regia di Walter Manfrè. Se il Novecento non ha portato grandi cambiamenti nell’evoluzione della sala teatrale, ne ha portati invece, e di notevoli, nell’ambito della scenografia. I registi che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento realizzarono il cambiamento della forma spettacolare, e di conseguenza anche della scenografia, furono vari. In Russia, ad esempio, Kostantin Stanislawskij, fondatore del Teatro d’Arte, fu un oppositore della scena dipinta: «Che importa a me, in

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quanto attore, che dietro la mia schiena stia appeso un fondale uscito dal pennello di un grande artista? Spesso questo meraviglioso sfondo mi è persino di impedimento, poiché io e lo scenografo non ci siamo intesi e, nella maggior parte dei casi, tendiamo in direzioni opposte… Datemi piuttosto una poltrona in stile, datemi un pietra su cui sedere e sognare. Questi oggetti che noi possiamo toccare e vedere sulla scena… sono molto più necessari e importanti sul palcoscenico delle tele cariche di colore che non vediamo».6 Tra l’altro Stanislawskij teorizzò l’utilizzo dell’impianto scenico di velluto nero. In Germania Erwin Piscator, teorico del teatro politico, si fece promotore di una scenografia fortemente mobile e si avvalse anche della collaborazione del pittore George Grosz. Va poi ricordata l’importanza che per la scenografia ebbero i Balletti Russi di Diaghilev, il quale fruì dell’opera di grandi scenografi quali Aleksandre Benois e Léon Bakst, e di grandi artisti quali Picasso, Derain, Utrillo, Matisse, Braque, Mirò, Ernst, De Chirico. Bertolt Brecht, dal canto suo, come autore e come teorico del teatro cercò di mostrare al pubblico i meccanismi teatrali, di scoprirli, di abolire l’illusione anche nell’ambientazione. Proponendo quindi lo “straniamento” nella recitazione (l’attore mostra il personaggio che interpreta senza immedesimarsi in esso), inventando il “siparietto brechtiano” sospeso davanti alla scena – alto non più di metà del boccascena, che lasciava intravedere i cambi di scena – e immaginando una scenografia non illusionistica ma essenzialmente “didascalica”. Due veri pionieri della scenografia moderna furono lo svizzero Adolphe Appia (1862-1928) e l’inglese Edward Gordon Craig (18721966), i quali, molto vicini nel gusto l’uno all’altro, idearono una scenografia non più illusionistica e di imitazione del vero, e tesa invece, con l’uso di volumi costruiti, di luci ed ombre, ad accompagnare lo spettacolo attraverso atmosfere e simboli. La loro opera fu soprattutto teorica, vista la difficoltà all’epoca (gli inizi del secolo) di affermare principi così moderni, e influenzò in modo determinante tutto il teatro moderno. Ma lo scenografo che maggiormente ha caratterizzato la seconda metà del Novecento è senza dubbio Joseph Svoboda, che azzarderei a definire il primo scenografo postmoderno. È stato il primo ad aver teorizzato la necessità da parte dello scenografo di porsi dinanzi a un nuovo lavoro senza uno stile precostituito, in modo da potere scegliere, di volta in volta, un differente tipo di scenografia: pittorica, costruita, fatta di proiezioni o di schermi video, eccetera. 6

Cit. da Franco Mancini, L’evoluzione dello spazio scenico, Dedalo, 1975.

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In tal modo procedendo sempre in base alle necessità dello spettacolo e delle scelte del regista, e mai per una teoria precostituita.

IL NUOVO MILLENNIO In che direzione sta andando oggi la scenografia? Se nel mondo delle produzioni cinematografiche di un certo livello (soprattutto americane) il computer la fa sempre di più da padrone, le scenografie virtuali sono sempre più ardite (un esempio tipico è Avatar di James Cameron, film del 2010) e a volte perfino i personaggi principali sono ricreati con software raffinatissimi, nel cinema di medio livello le cose procedono in maniera abbastanza consueta, con scenografie spesso rappresentate da location dal vero o ricostruite (in teatro di posa o in esterni). Nel teatro, se le scenografie degli spettacoli di prosa sono sempre più essenziali e semplici, anche per motivi economici, nei musical e nell’opera lirica si azzardano invece allestimenti estremamente complessi e costosi, che spesso adottano l’uso di tecnologie innovative – il tutto grazie agli ingenti incassi dei musical e ai finanziamenti statali erogati agli enti lirici. Sempre di meno vengono usati i materiali consueti come il legno e la tela dipinta, e sempre più spesso si ricorre alle stampe con i plotter di grandi dimensioni e alle strutture in alluminio prefabbricate. Il massimo dello sfarzo, in questo senso, lo troviamo negli allestimenti dei palchi per i grandi concerti rock tenuti negli stadi, dove vengono montati schermi (a tecnologia led) anche di 70-80 metri di larghezza. Tutto questo sfoggio di tecnologia in genere non porta a un parallelo sviluppo delle idee, e la fantasia rimane sempre più spesso imbrigliata da un uso esasperato della tecnica. Alla fine l’evoluzione degli allestimenti si riduce, soprattutto in Italia, ad una sorta di gara a chi piazza sul palco lo schermo più grande!

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Come si diventa scenografo Ma come si diventa scenografo? Molto spesso mi sento rivolgere questa domanda dai giovani che vorrebbero incamminarsi sulla strada che porta verso l’ideazione delle ambientazioni del teatro, del cinema o della televisione. La risposta a questo quesito è molto meno facile di quanto si possa credere. Le strade, a dire il vero, sono molte, ma non sempre portano alla meta sperata. Quelle per così dire ufficiali sono spesso di scarsa efficacia, e quelle “non ufficiali” costringono i giovani a dure gavette e non sempre portano a buoni risultati. Le vie istituzionali per affrontare il lavoro di scenografo sono naturalmente quelle scolastiche. Tre le strade maestre: l’Accademia di Belle Arti; la Facoltà di Architettura; terza strada, ma non ultima per importanza, il Centro Sperimentale di Cinematografia, che oggi si chiama Scuola Nazionale di Cinema. A queste si aggiunga una serie di “scuole” private che spesso però non offrono sufficienti garanzie di affidabilità. Prima di tutto è necessario affermare che per affrontare la carriera di scenografo bisogna essere “portati” per il disegno e le materie artistiche, bisogna avere il dono del buon gusto, la capacità di scegliere in base alla propria sensibilità quello che sarà poi più giusto e utile alla messinscena dello spettacolo, intuire le necessità spaziali per la realizzazione di un’azione scenica. Sono tutte doti ovviamente innate che la pratica può senza dubbio migliorare, ma che nessuna scuola può insegnare se non esiste una predisposizione. Finite le scuole medie sarebbe opportuno iscriversi ad un Liceo Artistico o a un Istituto d’Arte. Non che tali diplomi siano indispensabili per l’accesso all’Accademia o alla Facoltà di Architettura: vi si può arrivare anche da qualunque altro liceo, o istituto superiore, ma passare quattro anni ad esercitarsi nel disegno ornato, nel disegno della figura e soprattutto nel disegno geometrico e architettonico, oltre che nell’uso della prospettiva, consente di giungere preparati meglio al primo anno di Accademia o alla Facoltà di Architettura. Ciò aiuta ad affrontare immediatamente lo specifico della scenografia con un’adeguata preparazione di base, senza essere costretti a imparare da zero i fondamenti del disegno e della prospettiva (cosa che accade a chi proviene da altre scuole), costringendo in questo modo i docenti a ricominciare daccapo e impedendo loro di affrontare subito l’insegnamento specifico della scenografia.

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Debbo tuttavia ammettere di conoscere colleghi, anche di ottimo livello professionale, che non hanno mai frequentato una scuola a indirizzo artistico o che poco o nulla sanno disegnare e che risolvono ogni problema grazie ad un innegabile gusto innato, e grazie a validi collaboratori, ma si tratta di casi eccezionali che non possono essere di riferimento per chi vuole iniziare con il piede giusto. Un’avvertenza prima di lasciarvi leggere i prossimi paragrafi: ogni nuovo governo pensa che sia suo dovere buttare a mare tutto quello che è stato fatto dal governo che lo ha preceduto, e quindi rimettere mano agli ordinamenti della scuola e dell’università. Nel momento in cui sto scrivendo la situazione è quella che descriverò, ma purtroppo non garantisco riguardo alla durata di questo assetto! Quindi, prima di decidere di intraprendere uno dei percorsi “scolastici” (Accademia, Facoltà di Architettura o Centro Sperimentale), verificate su Internet i regolamenti e le durate dei corsi.

L’ACCADEMIA DI BELLE ARTI L’Accademia di Belle Arti, con una legge del 2000, è entrata a far parte del Ministero dell’Università, confluita – insieme ai Conservatori, all’Accademia di Arte Drammatica e all’Accademia Nazionale di Danza – nel settore che prende il nome di Alta Formazione Artistica e Musicale (AFAM). Come la gran parte delle facoltà universitarie l’Accademia è attualmente strutturata su due livelli di studio: un triennio, che fornisce un diploma di laurea di base, e un successivo biennio specialistico. A questi cinque anni può seguire un ulteriore biennio di abilitazione all’insegnamento, detto “Cobaslid”, che fornisce un congruo punteggio per le graduatorie di insegnamento, ma a cui si accede solo tramite un esame di ammissione. Il numero dei pochi posti a disposizione viene deciso dai Provveditorati agli studi delle singole Regioni. C’è da dire che dopo i primi anni di sperimentazione di questa “formula del 3+2”, nessuno (anche nelle università) è del tutto soddisfatto. Non è da escludere che prima o poi si torni ai vecchi 4 o 5 anni complessivi; le Cobaslid già ora non vengono più avviate. L’Accademia è strutturata in cinque indirizzi fondamentali: scultura, pittura, decorazione, grafica e, appunto, scenografia, anche se molte Accademie stanno avviando indirizzi diversi, come ad esempio quello in fotografia. L’allievo, al momento dell’iscrizione, ne sceglie uno che frequenterà (all’Accademia è previsto l’obbligo di frequenza di almeno due terzi delle presenze previste). Per Scenografia, al corso principale e alle materie comuni agli altri indirizzi (Storia dell’Arte Romana, Medioevale, Moderna, Pedagogia dell’Arte, Computer Graphic, Fotografia, eccetera) si affianca una serie di materie

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“caratterizzanti” che possono variare da un’Accademia all’altra, quali: Scenotecnica, Regia, Costume, Storia dello Spettacolo, Illuminotecnica e, per il biennio specialistico, Scenografia Televisiva e Scenografia Cinematografica. Ogni allievo, in base all’offerta didattica della propria Accademia e alle regole dettate dal Ministero, potrà decidere un proprio piano di studi. La normativa, inoltre, introduce nelle Accademie il sistema dei crediti formativi universitari (CFU). Ogni esame, in base anche alla durata del corso, ha un certo valore in crediti. Per potersi laureare è necessario raggiungerne un certo ammontare, stabilendo un piano di studi basato sui corsi proposti dal Ministero e istituiti nelle singole Accademie. Indipendentemente dai crediti, restano le votazioni dei singoli esami e il punteggio con cui alla fine dei corsi ci si laurea. Al termine di ognuno dei due livelli di studio si dovrà discutere una tesi che potrà avere come relatore uno qualunque dei docenti dei corsi con il quale si sia sostenuto almeno un esame. I docenti sono spesso noti professionisti dei vari settori, ma a volte può capitare di imbattersi in insegnanti che (non ce ne voglia chi leggendo si senta chiamato in causa) ben poco hanno da spartire con la materia di cui discettano (ma ciò può succedere, purtroppo, in qualunque tipo di scuola). Senza prendersela troppo con la malasorte, converrà informarsi preventivamente sul corpo docente dell’Accademia alla quale ci si intende iscrivere e valutare se non sia opportuno svolgere i propri studi in un’altra città. Non sempre tuttavia le Accademie delle città più importanti hanno il miglior corpo docente e inoltre il sovraffollamento di queste sedi crea non pochi problemi agli studenti. D’altra parte c’è da considerare il fatto che trasferirsi in una grande città potrà poi aiutare il diplomato quando, finiti gli studi, cercherà lavoro. Attenzione, quindi, a valutare bene la scelta. Il maggiore pregio dell’Accademia, per chi vuole affrontare la carriera di scenografo, è senza dubbio quello che gli iscritti si ritrovano a frequentare un corso assolutamente specifico, che dovrebbe fornire loro tutte le conoscenze indispensabili alla futura professione. I difetti? Tanti, il principale è quello che i docenti sono spesso troppo “di manica larga” nei confronti degli allievi, con la conseguenza che chi si laurea non sempre possiede la preparazione necessaria, e che quelli bravi vengono confusi con la massa di “non capaci”, pure laureati con buoni voti. La vera selezione è quella che si svolge inevitabilmente al primo incontro con il mondo del lavoro!

LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA La laurea in Architettura fornisce oggi una preparazione generale un po’superiore rispetto a quella che dà l’Accademia (soprattutto in considerazione del fatto che solo da poco l’Accademia si è struttu-

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rata come Università, che molti corsi sono stati istituiti recentemente e che sarà ancora necessaria una lunga fase di assestamento) ma, d’altra parte, richiede anche un impegno di studio molto maggiore. Attualmente, la proposta didattica prevede sia corsi di laurea quinquennali che corsi di laurea brevi triennali. Il corso quinquennale prevede 30 esami più la tesi. Sarà bene consultare con attenzione le varie “Guide dello studente”, cartacee o su Internet, per capire bene come sono organizzati i corsi delle varie facoltà. La domanda da porsi prima di iscriversi ad Architettura è questa: “Voglio fare prima di tutto l’architetto e poi anche lo scenografo? O i miei interessi sono rivolti solo alla scenografia?”. Se la risposta è per la seconda via, probabilmente sarà molto più conveniente iscriversi all’Accademia di Belle Arti in quanto la laurea in Architettura comporta lo studio molto approfondito di una serie di materie che poco serviranno al futuro scenografo. Se comunque un laureato in Architettura viene folgorato “sulla via di Damasco” e decide di affrontare la carriera di scenografo, può farlo benissimo, usufruendo di un bagaglio tecnico e culturale maggiore di quello del diplomato all’Accademia (speriamo che la situazione cambi quando le Accademie diventeranno Università a tutti gli effetti e non solo sulla carta), ma dovrà poi imparare sul campo tutto lo specifico della materia, poiché lo studio della Scenografia in quella facoltà è piuttosto ridotto, spesso insegnato da architetti e non da scenografi professionisti, e in molte sedi del tutto assente.

LA SCUOLA NAZIONALE DI CINEMA La Scuola Nazionale di Cinema è parte del Centro Sperimentale di Cinematografia, fondato a Roma nel 1935 per iniziativa di un gruppo di studiosi e registi. Si trova sulla via Tuscolana, quasi di fronte a Cinecittà. L’architettura dell’edificio che ne è sede, soprattutto l’ingresso con i pilastri di travertino del portico e la doppia scalea, dichiarano ancor oggi con lo stile littorio la propria origine fascista. Al Centro Sperimentale ben funzionano, oltre alla Scuola, la Cineteca Nazionale e la Biblioteca “Luigi Chiarini” (la più grande biblioteca pubblica italiana, specializzata in cinema e molto fornita anche nel settore dello spettacolo in genere). Nelle aule della Scuola sono passati migliaia di allievi, molti dei quali sono diventati famosi ed apprezzati professionisti. Fra gli altri: i registi Michelangelo Antonioni, Pietro Germi, Nanni Loy, Carlo Verdone, Francesca Archibugi; gli attori Claudia Cardinale, Domenico Modugno, Arnoldo Foà, Giorgio Albertazzi, Enrico Lo Verso; i direttori della fotografia Pasqualino De Santis, Vittorio Storaro; lo scenografo Mario Garbuglia; il costumista Piero Tosi.

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Il nuovo assetto della Scuola ha avuto inizio nel 1998, con decreto legislativo dell’allora ministro per la Cultura Walter Veltroni. L’ente pubblico senza finalità economiche è stato trasformato in una fondazione con regime privatistico, aperto cioè all’entrata di capitali privati. I corsi, a numero chiuso di iscritti, sono: regia 6 posti, fotografia 8 posti, montaggio 6 posti, sceneggiatura 6 posti, scenografia arredamento e costume 6 posti, recitazione 16 posti di cui 8 uomini e 8 donne, tecnica del suono 6 posti, cinema d’animazione, corso di creazione e produzione di fiction 16 posti, produzione 8 posti, corso di cinematografia d’impresa, documentario e pubblicità. La durata dei corsi è in genere triennale. Si accede per concorso mediante una severa selezione che si sviluppa in varie fasi. Le lezioni si svolgono quotidianamente per cinque giorni alla settimana. Oltre alle lezioni teoriche ed alle esercitazioni pratiche degli allievi, che consistono nella costituzione di troupes formate dagli allievi stessi dei vari corsi, è prevista annualmente la realizzazione di una serie di produzioni volte sia alla ricerca di nuovi linguaggi sia a favorire l’inserimento dei discenti nel mondo del cinema. Il pregio maggiore della Scuola Nazionale di Cinema, a nostro avviso, non sta tanto nella indubbia preparazione che fornisce quanto nella “introduzione” nell’ambiente cinematografico. Molti dei suoi docenti sono impegnati, oltre che nell’insegnamento, anche nel lavoro professionale, cosicché gli allievi hanno la possibilità di mettersi “a ruota” dei propri maestri entrando nel mondo del cinema. Altro vantaggio da non sottovalutare è quello di costringere chi la frequenta a trasferirsi a Roma. E poi basta attraversare la strada per essere a Cinecittà.

LA “GAVETTA” La pratica e il lavoro “sul campo” sono assolutamente indispensabili non solo per impadronirsi delle regole del gioco e dei piccoli trucchi del mestiere ma soprattutto per far sì che quelle che all’inizio erano solo idee possano trasformarsi in realtà. Solo la pratica può far capire veramente cosa significhi mettere in scena un fondale in PVC (il PVC è un materiale plastico utilizzato per realizzare fondali neutri da illuminare dal retro o sui quali proiettare immagini) anziché in tela, o quali saranno le reali dimensioni di una pedana che si sta disegnando in pianta. È impensabile che un ragazzo appena diplomato possa cimentarsi nell’ideazione di una scenografia ottenendo risultati di buon livello professionale senza aver prima fatto qualche anno di apprendistato. Il grosso rischio è quello di “bruciarsi” perdendo in tal modo l’occasione offerta. Lo dico con cognizione di causa poiché a me è capitato di iniziare quasi subito

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a firmare scenografie. Vi assicuro che è stata una grande fatica disimparare, in seguito, tutto quello che, per risolvere problemi di cui non conoscevo la soluzione, ero costretto di volta in volta ad inventarmi. Imparare sulla propria pelle può essere molto romantico, ma di solito non è costruttivo. In proposito vorrei raccontare un aneddoto, spero, significativo: era la prima volta che mi cimentavo nella realizzazione di una scena. Per questo, io ed un mio collega (eravamo ancora all’Accademia, all’inizio del terzo anno di Scenografia) ci trovammo uno scantinato molto freddo e umido che faceva da deposito per il materiale della compagnia teatrale per cui stavamo lavorando e che avrebbe funzionato, per noi, da laboratorio. Avevamo la necessità di realizzare un fondalino di un colore uniforme, neutro, ma a disposizione avevamo solo un tessuto fiorato. Per risparmiare, pensammo di utilizzare quel tessuto e di dipingerlo. Così lo inchiodammo al muro e armati di pennellesse lo dipingemmo. Scoprimmo ben presto che coprire i grandi fiori stampati non era per niente facile e che occorreva mettere sulla stoffa una grande quantità di tinta. Inoltre, essendo la tela in posizione verticale, buona parte del colore ci colava sui piedi. Il giorno dopo, quando andammo a verificare le condizioni del nostro lavoro, scoprimmo che, a causa della forte umidità del posto, era bagnato come quando avevamo appena finito. Lo stesso successe il secondo giorno ed il terzo e lo stesso dopo una settimana, anzi iniziavano a comparire tracce di muffa. Alla fine, dopo aver tanto faticato a vuoto, decidemmo di comprare della tela di colore neutro risolvendo il nostro problema nel modo più ovvio. Ricordo che quando tornammo nello scantinato, un po’ di tempo dopo il debutto dello spettacolo, constatammo che il nostro primo “fondalino dipinto” in alcuni punti cominciava a marcire. Sono passati molti anni, ma sono convinto che quel pezzo di stoffa sia ancora lì, macerato dalla muffa, ormai diventato parte integrante del muro umido. Per una questione di dignità non approfondirò troppo il racconto di quando, sempre per lo stesso spettacolo e sempre per risparmiare, dipingemmo con lo smalto bianco alcune giacche nere, ottenendo il risultato di “ingessare” gli attori; dipingemmo, pure di smalto alcuni stivaloni di gomma: per una strana reazione chimica non si asciugavano, facendo bestemmiare l’attore che, dovendo calzarli, ogni volta si sporcava le mani di nero. Rievocando questi episodi, assieme a quel mio collega di Accademia, oggi affermato scenografo, ci facciamo matte risate. Ma se qualcuno ci avesse insegnato prima come si dipinge un fondale e quali materiali si usano, di certo avremmo penato di meno. L’unico modo per imparare le cose nel verso giusto è quello di

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osservare attentamente come fanno coloro che hanno già una notevole esperienza professionale, mentre ci si trova nella posizione privilegiata dell’assistente. Quasi tutti i ragazzi che frequentano l’Accademia di Belle Arti si accorgono del problema dell’inserimento nel mondo del lavoro soltanto il giorno successivo alla discussione della tesi. Mi è capitato di ricevere telefonate di miei ex allievi che mi chiedevano «e adesso che cosa devo fare per inserirmi nel mondo dello spettacolo?». A mio giudizio, attendere di aver finito gli studi per iniziare a far pratica è tardi. Quando si esce dall’Accademia, o da qualunque altra scuola, si rimane soli: è il momento più difficile; vicino a voi non ci sono più i colleghi con cui avete condiviso gli anni di studio e, soprattutto, non ci sono più i professori che forse erano quelli che avrebbero potuto darvi una mano. Nei limiti del possibile, si dovrebbe cercare di sfruttare i momenti di pausa nello studio, come le vacanze estive, per cercare di “racimolare” esperienze, facendo un po’ di volontariato come assistenti. Quello che dovreste fare, quando siete ancora a scuola, è, prima di tutto, cercare di individuare tra le persone che vi sono vicine chi vi potrebbe essere d’aiuto: quei docenti cioè che, oltre ad insegnare, svolgono un’attività professionale, o qualcuno che vi possa presentare ad un amico, o ancora qualcun altro che vi possa portare con sé a “vedere come si fa”. Se proprio intorno a voi non ci fosse nessuno disposto ad aiutarvi, non perdetevi d’animo: informatevi, cercate prima nella vostra città e poi in quelle vicine, telefonate alle persone “giuste”, prima o poi troverete qualcuno che vi prenda in considerazione. All’inizio non vi illudete, che siate già diplomati o no: nessuno sarà disposto a pagarvi per farvi imparare qualcosa, la strada è inevitabilmente quella del volontariato. Percorrerla, quando siete ancora giovani e state frequentando l’Accademia, è di sicuro meno doloroso. Può, sembrare ingiusto lavorare gratuitamente, ma il “meccanismo” è questo, e non è legato a un discorso di sfruttamento. Il punto è che normalmente le produzioni, per ovvie ragioni di budget, consentono allo scenografo di prendere un numero limitatissimo di assistenti pagati. Di conseguenza lo scenografo, che può prendere un solo assistente retribuito, dovrà essere più che sicuro che gli possa garantire una professionalità accertata risolvendogli tutti i problemi di cui gli si farà carico. D’altra parte il lavoro è sempre più complesso di quanto le valutazioni della produzione abbiano previsto. Quindi una persona in più fa sempre comodo: perciò se un giovane si propone come volontario di solito viene accettato con favore. Se sarà capace di farsi carico di alcuni compi-

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ti, avrà sgravato lo scenografo di una parte del lavoro. Se non sarà all’altezza, pazienza: la situazione sarà la stessa di prima. In merito rammento un altro significativo episodio. Alcuni anni fa ero impegnato come arredatore per un film televisivo. Come al solito, il lavoro era molto complesso ma il budget esiguo (spesso i film per la tv sono più “poveri” di quelli per il cinema) non ci consentiva di allargare il reparto. Mentre discutevamo di questo con lo scenografo, giunse una telefonata da parte di una ragazza triestina appena diplomata all’Accademia. Si trovava a Roma per cercare lavoro e si proponeva come assistente. «Sei disposta ad iniziare come volontaria?» fu la domanda, immancabile, che lo scenografo le fece. La risposta fu affermativa e così quella ragazza, dopo un primo incontro durante il quale ci mostrò la sua cartella, cominciò a lavorare con noi, prima in modo assolutamente gratuito, poi con qualche rimborso e, visto che “funzionava”, anche retribuita per qualche settimana al minimo della paga. Continuò a lavorare con noi per qualche anno e, per quanto ne so, prosegue tuttora con profitto a Roma la sua professioni di arredatrice. Non sempre tuttavia capita che, dopo aver trovato un numero sull’Informaset, ci si senta dire: «Stavamo appunto cercando una persona come te». Sicuramente, però, se quella ragazza non ci avesse provato non avrebbe mai iniziato a lavorare. A proposito, l’Informaset è una specie di elenco telefonico per il cinema, in cui sono riportati nomi, indirizzi e numeri di telefono di quasi tutti i professionisti che lavorano nel cinema: produzioni, stabilimenti, laboratori di realizzazione, addetti agli effetti speciali, eccetera. È reperibile nelle principali librerie specializzate della capitale. Una cosa fondamentale da tener presente è che se abitate in una piccola città di provincia o in una città pur grande ma priva di produzione teatrale, cinematografica e televisiva, dovrete decidervi a trasferirvi a Roma – che è da sempre il centro della produzione dello spettacolo – oppure sarà meglio lasciar perdere. Sarebbe come pensare di fare il marinaio rimanendo al centro del deserto del Sahara. Sia ben chiaro: non vogliamo dire che se andate a Roma e telefonate a qualche scenografo di sicuro intraprenderete una brillante carriera, ma trasferirvi nella capitale è un passo fondamentale senza il quale sarà impossibile incamminarvi sulla giusta strada professionale. Troppo spesso capita di sentire dire: «È inutile provarci; ci vogliono le conoscenze, le raccomandazioni. È impossibile». Chi ragiona così difficilmente concluderà qualcosa; e poi tenete conto che per uno scenografo le raccomandazioni contano poco: potranno aiutarvi al massimo la prima volta. Se non siete capaci, nessuno vi offrirà una seconda possibilità.

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