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PREFAZIONE Ultima conversazione con Romy di Curt Riess La telefonata arrivò a notte fonda, tra il 9 e il 10 maggio. Presumo fosse passata la mezzanotte. A ogni modo ero già andato a letto. «Pronto… sono Romy, Curt!». Sembrava lontana e la sua voce suonava in qualche modo insicura, tesa, nervosa. Io stesso, che avevo parlato così spesso con lei, non riuscii a riconoscerla immediatamente. «Romy, chiami da Parigi?». «No. Sono a Zurigo. Possiamo vederci domani pomeriggio? Per quella faccenda che sai…». «Certo. Sei nel tuo appartamento?». Soltanto in pochi sapevano che da molti anni Romy Schneider aveva un appartamentino nella Segantinistraße, nel sobborgo Höngg di Zurigo. «No, siamo al Baur au Lac…». “Quella faccenda che sapevo”: si trattava delle lettere e annotazioni che Harry Meyen, il suo primo compagno e mio amico di vecchissima data, mi aveva spedito poco prima di morire, per farne – come egli stesso aveva tenuto a precisarmi – ciò che volevo. Non avevo saputo affatto cosa farne, soprattutto dopo che, di lì a poco, Harry si era tolto la vita. Mi era venuto in mente soltanto che queste cose avreb7


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bero potuto interessare Romy, e le avevo perciò scritto. Ci eravamo messi d’accordo che nei giorni successivi, a metà o alla fine di maggio, durante un viaggio programmato a Parigi, le avrei consegnato gli incartamenti. E ora era venuta inaspettatamente a Zurigo. Le chiesi perché. «Voglio parlare con il nostro amico, il dottor Kaestlin, cioè, devo…». Anche Kaestlin apparteneva alla cerchia dei miei amici di vecchia data ed era l’avvocato svizzero di Romy da molti anni. Gli voleva molto bene, lui la ricambiava e spesso aveva provveduto a lei in maniera fraterna. Non ci dicemmo nulla di più durante questa telefonata notturna. Non vedevo Romy da tempo, dall’estate precedente, quando aveva girato un film a Berlino. E anche allora soltanto brevemente. Ma ci conoscevamo da molto. Ed eravamo buoni amici, tanto quanto era possibile per Romy, poiché aveva un temperamento forte, spesso imprevedibile: un attimo prima era amichevole e carina, poi marcatamente sgarbata e brusca. L’avevano constatato in molti. La conobbi che era ancora una bambina, aveva circa nove o dieci anni, comunque prima dell’inizio della sua sensazionale carriera cinematografica. Fu nella casa di Mariengrund, la tenuta di sua madre, non lontano da Berchtesgaden. La volta successiva che la vidi fu a Berlino, nel ristorante dell’albergo di Steinplatz con la madre Magda Schneider, la quale si compiaceva che la figlia stesse girando un film con lei. Avrà avuto una quindicina d’anni, ma sembrava molto più giovane. Quando, più tardi, andai a prendere mia moglie Heidemarie [Heidemarie Hatheyer, nota attrice austriaca, N.d.R.] a teatro, le dissi: «Stasera ho visto una bambina che farà una carriera strepitosa». Avevo dimenticato del tutto queste parole profetiche, ma 8


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Heidemarie me le ha ricordate dopo la morte di Romy. Qualche tempo dopo la vidi di nuovo, ancora a Mariengrund, quando aveva già alle spalle il primo film di Sissi, forse anche il secondo. Io ero andato lì per intervistarla. Certo, quella era la prima e d’altronde l’unica intervista che le feci. Stavo lavorando alla stesura di una serie di articoli per la rivista Stern dal titolo C’era soltanto una volta, la storia della cinematografia tedesca, in cui Romy, come ebbi modo di scoprire, compariva già di diritto. Successivamente la incontrai più volte: con la madre a New York, dove entrambe avevano fatto una sosta prima di proseguire per Hollywood; a Roma, per puro caso in via Veneto; a Vienna, dove stava girando con Preminger; a Strasburgo, dove debuttava in teatro con un’opera cèca e mi aveva chiesto di andare a vederla, perché voleva sapere come la trovavo sul palcoscenico. Gustaf Gründgens le aveva offerto di lavorare con lui ad Amburgo, e Romy era incerta. Io invece ero sicuro. E lo era anche Heidemarie che, all’epoca, era venuta a Strasburgo e si era dimostrata molto colpita, cosa che fece piacere a Romy. Poi la incontrai in una tenuta presa in affitto, non lontano da St. Tropez, dopo il matrimonio con Harry Meyen, dove trascorsi molti giorni con loro; all’epoca era già in uno stato avanzato di gravidanza. A Berlino, dove risiedeva con Harry, l’ho vista molte volte; ad Amburgo, dove entrambi si trasferirono, e infine a Parigi, città in cui, salvo occasionali interruzioni, trascorse il resto della sua vita. Come ho detto, non la vedevo da un po’, e rimasi alquanto colpito quando ci rincontrammo. Era cambiata, era diventata un’altra… Non appariva più spensierata, come le capitava spesso, o controllata, come prima era quasi sempre. Sembrava molto nervosa, ir9


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requieta, frenetica, si sedeva per poi rialzarsi subito, faceva un paio di passi per poi risedersi, e alzarsi nuovamente per sistemare qualcosa. Aveva l’aria incerta, quasi turbata. E il suo viso… quel meraviglioso viso che per me aveva sempre irradiato giovinezza e gioia di vivere… era un viso inquieto ed era, in un certo senso, anche un viso distrutto. Naturalmente pensavo che il suo turbamento derivasse sempre dalla tremenda perdita del figlio David, che se ne andò poco meno di un anno prima di lei. Però, nel frattempo, l’avevo vista, soprattutto a Berlino, molto abbattuta, ma piuttosto equilibrata. In ogni caso così mi era sembrato. Tanto che avevo esclamato: «È già passato un anno», e mi sarei quasi strappato la lingua per averlo detto. Ma Romy non fece praticamente caso alle mie parole. Le cancellò come se non le avessi mai pronunciate e disse senza alcun collegamento, senza un vero motivo: «Non ho più un soldo! E sono piena di debiti!». Queste parole non mi colsero completamente alla sprovvista. Circa dieci mesi prima, verso la fine dell’agosto 1981, avevo incontrato sua madre non lontano da Salisburgo e Berchtesgaden, e Magda mi aveva raccontato che poco prima aveva chiesto a Romy perché, invece di ritirarsi dopo la morte del figlio, magari in una casa di cura, avesse subito voluto girare un film a Berlino. E Romy le aveva risposto pressappoco: «Devo lavorare, non ho più un soldo!». All’epoca pensai che non poteva essere vero, aveva guadagnato così tanto negli ultimi anni, qualcosa come venti milioni di franchi francesi, forse anche di più, e comunque sempre dieci milioni di marchi tedeschi. Magda aggiunse che, ovviamente, non poteva controllare con esattezza, ma iniziò a imprecare con10


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tro gli uomini che avevano depredato Romy. Accusava proprio il suo ex marito, Daniel Biasini, di aver fatto piazza pulita di tutti i suoi conti bancari, poiché aveva ottenuto una delega generale da Romy. Parole a cui non diedi credito, perché Romy, quando aveva sposato Daniel, aveva assicurato al suo avvocato svizzero che non avrebbe commesso di nuovo gli errori del passato e che non avrebbe rilasciato alcuna delega sui suoi conti; suo marito avrebbe dovuto vivere con ciò che lei gli avrebbe corrisposto (era, secondo quel che si raccontava, anche il suo segretario). In precedenza, a detta di Harry Meyen, era stato il suo cameriere. Anche ora, durante la conversazione a Zurigo, non diedi troppo peso alla storia della bancarotta. Romy era incline alle esagerazioni. Probabilmente non aveva più così tanto denaro come pensava, probabilmente aveva speso più di quanto avrebbe dovuto, probabilmente Biasini, come cameriere qui e segretario là, le era costato più denaro del previsto. E lo stesso dicasi dell’ultimo fidanzato, Laurent Petin. Ma venti milioni di franchi non si spendono certo in pochi anni! E proprio questo le dissi. Mi sorrise debolmente. «Questo è esattamente il mio destino! Il primo a portarmi via i soldi è stato il signor Blatzheim!». Era un’allusione al fatto che il secondo marito della madre, il suo patrigno, che prima di allora chiamava “papi”, aveva incassato i suoi compensi e li aveva dirottati sulle sue aziende. E Romy non aveva riavuto neanche lontanamente ciò che le era dovuto, sempre se qualcosa aveva ottenuto. Anche il suo primo marito, Harry Meyen, le era costato un milione e mezzo di marchi tedeschi, che gli aveva elargito dopo la separazione. All’epoca ce l’avevamo tutti con Harry, il quale sosteneva che quel 11


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denaro gli spettava poiché, dopotutto, era stato per anni il suo manager. Cosa alquanto inverosimile, dato che, nonostante vivesse con Romy a Parigi, non conosceva neanche dieci parole di francese o di inglese, e non era affatto un manager. Però era vero che per vivere con lei a Parigi aveva trascurato del tutto la propria carriera, legata alla Germania e in particolare a Berlino, e che, come si scoprì in seguito (ma questo non fu colpa di Romy), non era più riuscito a tenere le fila di tutto. Poi divenne succube delle droghe e dell’alcol. Ma questa è un’altra storia. In ogni caso, Romy non sembrò essersela presa più di tanto per questa “transazione” finanziaria. Quando lui si tolse la vita, volò ad Amburgo per partecipare ai funerali. Partecipare? Fece in modo che non venissero comunicati né la data né l’ora dei funerali a nessuno degli amici, così che figurò come l’unico familiare del defunto. Nessuno di noi capì quel gesto. In seguito mi spiegò che non aveva voluto mettersi in mostra e che, per questo motivo, aveva avuto paura dei fotografi e dei giornalisti. Era arrivata ad Amburgo la mattina, aveva seppellito Harry ed era ripartita nel pomeriggio o in serata; non l’aveva vista nessuno. Era sempre stata allergica ai fotoreporter. La sua paura nei loro confronti ad Amburgo era comprensibile, ma gli amici non avrebbero avuto il diritto di salutare Harry per l’ultima volta? In ogni caso, il denaro che gli aveva versato per la separazione tornò indietro dopo la sua morte. Cosa che ci lasciò tutti profondamente stupiti, perché avevamo supposto che Harry ne avesse speso per lo meno la gran parte o l’avesse persa in investimenti sbagliati! Niente del genere, aveva addirittura lasciato in eredità più di quanto Romy gli aveva dato. Questa 12


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somma, secondo le volontà testamentarie, sarebbe dovuta andare in eredità al loro figlio David, e Romy avrebbe dovuto amministrarla fino alla sua maggiore età. La vita che Romy condusse, dopo Harry, non fu proprio encomiabile. Non si dovrebbe giudicare. E non vi è alcun motivo di dire qualcosa di male su Romy, poiché non soltanto era una persona con un talento geniale, un’attrice divina, ma era anche una persona perbene. Però, si deve dire che andava a cercarsi fidanzati, o, come si usa chiamarli ora, compagni, sempre e soltanto molto prestanti e molto più giovani di lei. E qualche volta erano addirittura tecnici delle luci o operatori di scena che duravano lo spazio di una notte. Perché? Forse perché aveva paura di invecchiare, anche se di certo non era così. O per la paura di stare sola. Non lo sapremo mai. Quello che è certo è che tutti questi ragazzoni, e non soltanto il suo secondo marito o il suo ultimo fidanzato, le costarono del denaro, moltissimo denaro, con l’eccezione, forse, di Alain Delon, con cui aveva convissuto a lungo, e che rimase sempre un suo buon amico. Tra l’altro era più grande di lei, anche se soltanto di poco. Lo stesso vale per il suo partner di molti film, l’attore Michel Piccoli. Sia come sia, tutti gli uomini con cui visse in seguito finirono per depredarla: si perpetuava un destino cominciato già nella casa dei genitori. Laurent Petin, che tra l’altro si era trasferito con lei a Zurigo, non apparteneva a quella categoria di uomini che avevano vissuto alle sue spalle. Sicuramente, non aveva un lavoro che gli rendesse molto, ma si diceva che provenisse da una famiglia più che benestante e che fosse, quindi, del tutto in grado di mantenersi da solo. Dopo la morte di Romy, si venne invece a sapere che Petin non era affatto benestante. 13


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Anche lui aveva vissuto a sue spese. Quale fosse il motivo che la spingeva a circondarsi di compagni economicamente dipendenti da lei, come il suo secondo marito, che le faceva da segretario, me lo confidò una volta la stessa Romy, dopo la separazione da Harry: «Voglio che l’uomo che amo sia lì soltanto per me. Harry non era lì soltanto per me. In fin dei conti, aveva anche il suo lavoro. Voleva di nuovo iniziare a girare e a produrre. Anche a Parigi non faceva che pensare a Berlino». Essere lì soltanto per lei… Perché? La vita, nonostante il trionfo più pieno, le aveva negato ciò di cui aveva più bisogno: sapere di essere indispensabile per qualcun altro, necessaria, che l’altro non potesse vivere senza di lei. Questo le avrebbe dato quella sicurezza che non possedette mai, ma che aveva cercato fin da bambina, quando, nel periodo più difficile del dopoguerra, sua madre era stata piantata in asso con i due figli dal padre, il bello e mediocre attore Wolf Albach-Retty. Certo, era andata bene, ma non era affatto sicuro che sarebbe filato tutto liscio. Si potrebbe obiettare che nella maggior parte delle famiglie della Germania e dell’Austria dell’epoca andava così. I figli non sempre lo capivano. Romy provò questa insicurezza e in seguito ne avrebbe parlato spesso. La sicurezza sembrò comparire quando la madre si risposò, precisamente con un uomo a cui le cose andavano in apparenza molto bene e che sembrava concludere affari enormi. In seguito, soprattutto dopo la morte di quest’uomo, il signor Blatzheim, si scoprì che gli affari erano stati sì probabilmente grossi, ma anche in perdita, cosa che colpì anche Romy, poiché, come già detto, non ricevette mai la liquidazione dei propri ingaggi, inghiottita dalle attività del patrigno. Fu così che una volta, ancora minorenne, dopo uno scontro con questo “padre”, abbandonò la casa ma14


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terna e ottenne di ricevere direttamente i compensi cinematografici guadagnati, invece di accontentarsi della “paghetta” concessale mensilmente dal patrigno. Non una somma irrisoria, ma comunque non tale da permetterle di vivere come gli altri attori, meno quotati di lei. A ogni modo insufficiente a fornirle il senso della sicurezza. E poi arrivò il giovane e bello Alain Delon, il suo primo grande amore, e forse l’unico, che però la abbandonò all’improvviso. O per lo meno, quando lei tornò dall’America, lui era partito, lasciando la casa in cui convivevano. Romy sembrò essersi dimenticata della mia presenza. Ripeteva in continuazione che non aveva più denaro, e infine esclamò: «Sono stufa di questa vita!», cosa che considerai come uno scatto di nervi e che non presi assolutamente sul serio. Invece avrei dovuto, oggi lo so, e lo compresi bene due settimane dopo. Ma cosa sarebbe cambiato? E poi c’era dell’altro. Beveva. Anche questo, dapprima, non mi aveva colpito più di tanto. Quando però ebbe vuotato la bottiglia di vino rosso che era sul tavolo e il cameriere apparve con una nuova, ne rimasi sorpreso. Non aveva mai bevuto prima o, comunque pochissimo, tanto che non lo si notava nemmeno. Ora si notava. Sapevo anche che prendeva delle pillole e sapevo (chi non lo sa) che le pillole e l’alcol non vanno d’accordo. Doveva avermelo letto sul volto, perché mi disse: «Ah, i medici me l’hanno proibito! Dall’operazione! Non dovrei proprio bere. Infatti non lo faccio, ma oggi sono decisamente giù di nervi!». Naturalmente, l’operazione! Era seguita poco dopo la morte del figlio. Le avevano asportato un rene. Da allora non avrebbe più dovuto bere. Non serve essere un medico per saperlo. E anche l’abuso continuo di 15


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pillole non poteva giovare a una persona che possiede soltanto un rene. Poteva essere che i medici le avessero prescritto delle pillole, all’epoca, durante i giorni successivi all’operazione per lenire il dolore. Ma sicuramente non pillole da assumere per molti mesi o addirittura per più di un anno. Per la prima volta mi venne l’idea che Romy stesse mettendo in pratica una sorta di autodistruzione, e sicuramente non in maniera inconscia, poiché era consapevole di vivere in maniera molto pericolosa, ma alla fine le era indifferente. Scacciai questi pensieri che, dopo la sua morte, sarebbero ritornati ad angosciarmi. Giunsi a parlarle delle sue difficoltà finanziarie. «È risaputo quanto ricevi per un film. Con uno, due film passerà tutto e sarai di nuovo una ricca signora!». «Errore!», bevve di nuovo, «ho dei debiti». «Hai dei debiti?», a questo non potevo davvero credere. «Ho debiti alquanto grossi. Perciò sono tornata di nuovo a Zurigo, per consigliarmi con il mio vecchio amico. Ma dubito che ci sia qualcosa da fare». Non lo avevo mai sentito dire e non riuscivo proprio a immaginarmi, nemmeno con tutta la buona volontà, dove, come e quando Romy avesse potuto contrarre dei debiti. Glielo chiesi. «Le tasse… mi stanno alle calcagna, perché ne ho pagate troppo poche». «Da quando? Perché? Di quanto si tratta esattamente?». «Moltissimo, credo oltre un milione, o forse due. Lo sai, di queste cose non ne capisco proprio nulla…». E i giovani uomini di cui si era circondata ne capivano ancor meno e non se ne interessavano affatto. «Ma sicuramente avrai un fiscalista, vero?». 16


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«Ne ho addirittura due, e si presume siano i migliori di Parigi. Ma non combinano niente». Tutto suonava assolutamente incredibile, eppure era vero. Poi, dopo la sua morte, venni a conoscenza dei fatti: erano anni che Romy praticamente non pagava le tasse. Perché? Durante il suo primo matrimonio e forse anche dopo, era stata una tedesca con residenza in Svizzera, residenza formale, certo. Le imposte svizzere erano relativamente sostenibili, molto più contenute rispetto alle alte tasse francesi – secondo i suoi fiscalisti, addirittura la metà. Ma lei le aveva semplicemente ignorate. E ora doveva pagare non solo le tasse, ma, venni a sapere, anche una somma stratosferica come ammenda: il doppio se non il triplo. Ma perché i suoi fiscalisti non se ne erano occupati? In realtà l’avevano fatto, ma Romy non aveva preso seriamente i loro consigli né seguito le loro disposizioni. E per di più non aveva pagato neanche loro, così, un giorno, le avevano comunicato che non avrebbero più mosso un dito, fintantoché non avesse saldato le loro parcelle. Così, per lo meno, mi disse Romy. C’era un altro motivo per cui aveva tanti debiti: il suo stile di vita dispendioso. D’altra parte Romy, che non aveva mai avuto denaro in tasca, o comunque molto poco, non sapeva come gestire i soldi. Comperava alla rinfusa e in maniera incontrollata tutto ciò che piaceva a lei o ai suoi compagni. Seppi che aveva acquistato mediamente tre o quattro automobili all’anno, auto costose, Mercedes, Cadillac, Porsche, di cui lei e il suo compagno si stancavano dopo pochi mesi. Non le aveva mai date in cambio, come qualsiasi persona ragionevole avrebbe fatto, bensì le aveva svendute per acquistarne di nuove, ancora più costose. Inoltre, aveva il vizio di far trasferire continuamente i propri compagni in appartamenti arredati con 17


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mobili pregiati, per rivenderli subito dopo e comperarne di nuovi. Poco prima della nostra ultima conversazione, sulla stampa si diceva che avesse acquistato un vecchio casale in un paesino non lontano da Parigi. Era vero. Ma all’epoca già non aveva molto denaro, e non era stata nella condizione di pagare l’intero prezzo, bensì soltanto una piccola parte. La casa era tornata successivamente al proprietario originario. Ma anche se Romy non aveva ancora preso possesso del casale, aveva già iniziato una costosa ristrutturazione e fatto costruire una piscina in giardino; tutto ciò proprio quando disponeva di pochi mezzi finanziari, contando solo sul fatto che stesse per arrivare un nuovo compenso. Per questo, ora diceva, perdendosi di nuovo nelle sue elucubrazioni: «Grazie a Dio presto riprenderò a girare un nuovo film». Tuttavia, questo «grazie a Dio» non significava affatto che sperava di pagare i propri debiti con quell’ingaggio. Sarebbe stato plausibile se non avesse girato più film da tempo, ma ne faceva praticamente uno dopo l’altro. Gli amici, che non sapevano nulla delle sue difficoltà finanziarie, si erano meravigliati spesso del perché non si prendesse mai una pausa e girasse film in continuazione. Il motivo era che si sentiva realizzata soltanto nel cinema. Perché lì poteva dimenticare chi era e la propria situazione. Poteva immergersi in un ruolo, vivere le gioie, o anche le sofferenze, della donna che stava interpretando, e consolarsi con la consapevolezza che non si trattava di preoccupazioni reali. Ma, in ogni caso, riusciva a scacciare le proprie ansie, anche se provvisoriamente, e a non essere tormentata da loro. In fondo, girare un film era anche una fuga da se stessa. Richiamai la sua attenzione sulle carte che avevo 18


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portato con me. L’avevo informata già qualche settimana prima al telefono. Scosse il capo e vuotò il bicchiere per riempirsene subito un altro. «No, non voglio vedere nulla di tutto questo… Portatele via di nuovo. Fanne quello che vuoi». E aggiunse: «Penso spesso a Harry. Forse sarei dovuta tornare in Germania con lui, ad Amburgo o a Berlino. Forse si sarebbe sistemato tutto, non lo so… ma non ci voglio più pensare. Vorrei solo dimenticare». Me ne andai. Cos’altro c’era da dire? Ero profondamente scosso. Andai prima al caffè del Baur au Lac. Poi corsi velocemente in macchina per un’ora in lungo e in largo per Zurigo. Riuscii a malapena a formulare dei pensieri ragionevoli durante il resto della giornata. Era chiaro che quella donna, che conoscevo da tanto, si trovava in serio pericolo. Ricordo perfettamente di averne parlato con pochi intimi amici nelle ore o nei giorni successivi: temevo che se non fosse successo qualcosa di nuovo, Romy si sarebbe suicidata. Quindi fui fin troppo contento di lasciarmi convicere che probabilmente avevo lasciato correre troppo la fantasia. Sicuramente non stava pianificando alcun suicidio; ma forse stava mettendo in atto un suicidio, per così dire, a rate. Non pensai assolutamente di rendere la cosa pubblica: non mi aveva rilasciato un’intervista. E che senso avrebbe avuto che il pubblico sapesse quanto mi erano sembrate disperate le condizioni di Romy? Nessuno. Però, quando, pochi giorni dopo, arrivò da Parigi la notizia che era stata trovata morta, tutto il mondo credette che si fosse uccisa, nonostante non ci fossero riscontri in tal senso. Ma la diceria rimase, almeno a Parigi. Avrei voluto prendere un aereo e andare al suo funerale, ma non lo feci: immaginai che ci sarebbero stati migliaia e migliaia di curiosi e il pensiero mi ripugnava. 19


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Solo qualche giorno dopo la sua morte, volai a Parigi e parlai con uno dei consulenti che aveva lavorato per lei fino ad allora. Mi fece notare che il medico aveva constatato un collasso cardiaco. Quindi una morte naturale? A ogni modo, non venne eseguita alcuna autopsia. L’aveva proibito Delon, sfruttando le proprie conoscenze. Ma perché? Mi disse faccia a faccia che un’autopsia non avrebbe avuto senso. Poteva essere vero: Romy non si era suicidata come ci si immagina in genere un suicidio. Non aveva ingoiato nessun veleno, presumibilmente non ne aveva nessuno, e nemmeno una dose eccessiva di sonniferi, non si era impiccata, né sparata. Il suicidio a cui credo e crederò sempre non fu un suicidio mirato. Non aveva deciso di farla finita qui e ora. Non si era trattato di un colpo di testa, che peraltro sarebbe stato anche possibile: dopo una notte passata in giro a sbevazzare non si era sentita bene, il suo compagno di vita Petin l’aveva riportata a casa e, come ha ripetuto in ogni occasione, si era addormentato profondamente. Altri affermano invece che se n’era tornato alla vita notturna parigina, per tornare a casa alle prime luci dell’alba e trovare Romy senza vita. Non aveva più avuto la forza… di continuare a vivere.

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