#AImagazine
Canton Ticino Chf 16,00
â‚Ź 5,00
THE ART REVIEW
portfolio Paolo Ventura Giuliano Sale Davide Balula
F/W 2017
interview Zad Moultaka Carlo Ratti Angela Madesani Stefano Serretta
#AImagazine - The Art Review | Redazione: Milano, 20143 - Piazza Arcole, 4
chi ama, segua.
#AImagazine THE ART REVIEW
Rivista di approfondimento delle arti visive.
Erede di una tradizione di passioni, #AImagazine - The Art Review analizza e discute il mondo contemporaneo delle arti visive, con impostazione interdisciplinare, in una prospettiva culturale e visionaria più ampia possibile. www.ai-magazine.it
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sinestesia / si·ne·ste·sì·a/ sostantivo femminile 1.Nella critica letteraria, l’associazione espressiva tra due parole pertinenti a due diverse sfere sensoriali (per es. parole calde, silenzio verde). 2. Sinestesi. Scegliere un’immagine di Paolo Ventura per la copertina, significa nuovamente interrogarci sulle dinamiche stesse della fotografia o più in generale del rapporto tra il reale e la sua rappresentazione, o meglio, restituzione. Perché Ventura è uno di quegli autori (fotografi?) che mescola le carte utilizzando il mezzo fotografico come nel riaffiorare di un sogno, nel momento esatto del risveglio, in quell’istante di indecisione, dove tutto può apparire reale, anche se di reale c’è ben poco, forse solo una confusa sarabanda di ricordi sovrapposti. Ed è in questo stato di lento risveglio che la fotografia perde l’insana fiducia di cui ancora gode e si emancipa rendendosi libera, anarchica e forse finalmente felice. Scene, piccoli racconti dove il confine tra reale e costruzione del reale è reso volutamente ambiguo, mettendo in moto un dialogo aperto con l’osservatore che non è più protetto da quell’antica garanzia di meccanica fotografica, ma aperto a soluzioni multiple, a scelte inevitabili per proseguire la narrazione. Una sorta di sinestesia visiva, in cui gli elementi in gioco spiazzano lo sguardo di chi osserva, mettendolo alla prova, interrogando la sua attenzione e capacità critica. “La fotografia può essere anche una grande bugia”, ed è questa incertezza, questa sottile linea di demarcazione, ambigua e beffarda che non lascia via di scampo a chi guarda, al nuovo pubblico. E parlo di nuovo pubblico non perché tali meccanismi fossero, in passato, assenti nella storia dell’immagine, ma perché il processo di instabilità del racconto è uno dei temi importanti su cui riflettere: l’informazione sta perdendo i propri canali tradizionali, per frantumarsi in una presa diretta difficile da metabolizzare e contenere. Non è un caso che la sessantanovesima edizione del Prix Italia sia stata dedicata al fenomeno delle ‘fake news’, o false notizie se preferite, a sottolineare la perdita graduale di una capacità, dei media tradizionali, di controllare i dati, gestirli e trasmetterli.Tutto diventa plausibile, più incerto, come nel momento stesso del risveglio, quando ancora il sogno si aggrappa a quel desiderio che lo rende reale, dove tutto si confonde e l’orientamento è instabile, zoppo, malato. Ma
è proprio qua che si gioca la partita, che è anche quella dell’immagine. In quel confine di indecisione dove le possibilità sono aumentate e non esiste un vertice a cui aggrapparsi, un oracolo a cui chiedere rassicuranti verità. La capacità di dettare la notizia in tempo reale e l’impossibilità di contenere i nuovi informatori, spiazza inevitabilmente l’osservatore/lettore, costretto ad un meccanismo di autoregolamentazione molto complessa se il media non restituisce una selezione credibile a monte, autorevole e riconosciuta. È chi cerca la notizia, (immagine, testo, video che sia) che la rende reale, che ne deve garantire l’autenticità in un meccanismo di autogestione del processo di ricerca. Abbiamo strumenti avanzati di raccolta dati e piattaforme urlanti in cui i confini geografici si perdono nella nebulosa della rete, ed è la complessità della selezione che rende interessante e inedito il gioco, che ci rende spettatori partecipi, capaci di sostituirci alla fonte in qualsiasi momento. Nell’immagine di copertina vediamo una donna appoggiata a braccia aperte ad una parete, su cui campeggia un cerchio rosso, e due coltelli che lambiscono il corpo. Dall’altra parte, quello che non vediamo, forse un esperto lanciatore di lame, forse un assassino dal cuore tenero o forse una giraffa che si allena in un curioso gioco di equilibri possibili. L’esercizio è riuscire a passare dall’altra parte, riuscire a sostituirci alla figura appoggiata alla parete, a guardare con gli stessi occhi terrorizzati, a guardare in faccia chi ci sta lanciando affilati coltelli e capire se il pericolo è reale o se è semplicemente un complice che strizza l’occhio ad ogni preciso lancio. È l’osservatore/ lettore che deve emanciparsi da una dialettica biunivoca e accettare una complessità informativa sferica, dove ovunque può arrivare un messaggio sotto forma di un ‘tweet’, video, immagine, lettera in bottiglia. E forse guardare, osservare quelle immagini incerte, spurie, traballanti, agganciate a mondi diversi, a diversi pianeti (terrestri, marziani, lunari) è un corretto esercizio nella direzione di un nuovo pubblico, o almeno qualcosa di simile.
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di Andrea Tinterri
L’Editoriale
the portfolio interview Photographs: ŠPaolo Ventura Text: ŠAndrea Tinterri
Paolo Ventura, le
apparenze ingannano 6
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paolo ventura, le apparenze ingannano | di Andrea Tinterri
#AImagazine,The Art Review | Fall Winter 2017 | The Portfolio Interview
Quando la fotografia gioca con sé stessa, costruisce
un teatro in carta, dove il limite con il reale è volutamente
instabile.
Paolo Ventura inventa brevi storie in cui ossessioni, ricordi e ritagli di favole si mescolano tra disegno e fotografia mostrando la propria illusoria personalità. Un breve percorso che dalla strada entra all’interno di un caseggiato, una sorta di labirinto per accedere allo studio, come se fosse necessario perdere un minimo d’orientamento prima di conoscere Paolo Ventura e iniziare a osservare quello che lo circonda, le carte, i libri, i ritagli fotografici, solo una minima parte del suo lavoro. Perché la fotografia è una forma di scrittura che Paolo Ventura usa solo se necessario, confondendola con altri indispensabili passaggi: il pensiero e i ricordi. Mi chiede il permesso di continuare a lavorare; ha un bisturi in mano con cui taglia un piccolo cartoncino a fatte, un chirurgo che ricucirà la propria creatura prima di mostrarla al mondo come un’apparizione surreale.
A me non è mai interessata la fotografia per quello che è. Mio padre faceva l’illustratore, e pure i miei fratelli, non ho mai avuto l’ambizione di fare il fotografo. L’ho sempre pensata come un mezzo per esprimere idee, in maniera libera, mi interessava lo strumento per raccontare delle storie e non il mondo in quanto tale. A questo, però, si arriva per passaggi, ho fatto
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il fotografo di moda per tanti anni che è comunque il racconto di un sogno e mai della realtà, è un qualcosa di costruito. Forse mi interessava la moda proprio perché è la rappresentazione di un mondo immaginario da cui, col tempo, mi sono distaccato per costruirmene uno mio. Un lavoro anche metafotografico, come lo è qualunque operazione che mette in crisi il mezzo, guardandolo con diffidenza e un certo sospetto.
La fotografia è un individuo che rispetto alla famiglia delle arti è rimasta in collegio per molto tempo e questo l’ha resa autonoma dalla storia dell’arte contemporanea, evitando che ci fosse un’attenta introspezione rispetto al mezzo: si è come conservata vergine, sia nel bene che nel male. Le uniche avanguardie che hanno avuto un’interazione con la fotografia sono state il dadaismo e il futurismo, ma forse adesso è il momento di capirla e sovvertirla dall’interno e non sostenere che è una grande bugia, ma può essere “anche” una grande bugia. È un linguaggio e quindi si presta a manipolazioni, ma ha una potenzialità maggiore rispetto ad altre arti perché questa mancanza di dibattito interno ha permesso che la fotografia si costruisse una propria verità, una veridicità illusoria.
Questa ambiguità diventa utile nel momento in cui la usi a tuo favore. C’è una credibilità di fondo che nell’immaginario comune rimane molto forte che mi permette di costruire un discorso partendo dall’idea che quello che vedi sia vero. Una verità su cui sovrascrive altri segni, colori a pastello, pezzi di carta, collage, in cui utilizza il disegno come linguaggio parallelo, un infiltrato che si nasconde perfettamente.
Anche in questo caso credo che tutto provenga dalla famiglia, un luogo in cui la fotografia era considerata un qualcosa di serie C e il disegno l’arte nobile.Crescendo questa cultura e questo complesso mi sono rimasti. Nel tempo le cose si sono integrate, la fotografia a me ha salvato, perché in famiglia ero quello meno talentuoso nel disegnare, ma questa mancanza di talento mi ha permesso di pensare di più, ho dovuto sopperire con le idee a una mia lacuna. Questa ginnastica è stata poi tradotta in linguaggio, quando ho iniziato a fotografare ho iniziato a pensare e i problemi li ho risolti non facendo, ma pensando. Anche perché, forse, la fotografia è qualcosa di limitante, che in alcuni momenti ha bisogno di essere sovvertita, quasi frantumata.
La fotografia credo abbia il limite di usare un mezzo e quando c’era ancora l’analogico era una specie di cassa misteriosa che conteneva il lavoro; dovevi aprirgli la pancia e tirargli fuori le budella, non conoscevi nulla e spesso il risultato era una sorpresa. Quindi ho sempre guardato con antipatia a questo oggetto che era geloso di quello che faceva, eri obbligato ad usarla, ma la odiavi, perché è come avere una mamma che ti dice cosa devi fare limitando la tua libertà. Questo mi ha fatto pensare a come ingannare la macchina fotografica. Questa sua antipatia l’ha avvicinato ad un mondo che è più vicino a quello dell’arte, anche dal punto di vista del mercato, soprattutto americano, uno dei pochi italiani veramente considerato oltreoceano.
Ho iniziato la professione di fotografo in Italia, ma la mia ricerca personale è incominciata ed è proseguita negli Stati Uniti e questa è stata una fortuna. Ho iniziato relativamente tardi, sono andato in America nel 2001, per due o tre anni ho lavorato sui miei progetti senza mostrarli, la prima mostra è stata nel 2006. Mi ricordo che sono andato da tutte le gallerie importanti a mostrare il mio lavoro e tutti mi ricevevano con grande disponibilità, avevo preso una guida delle gallerie della città, una mia amica mi aveva segnalato quelle da contattare e io chiamavo per un appuntamento, come lo avrei fatto con il mio dentista. Le gallerie di fotografia erano quelle più povere, non avevano l’accesso sulla strada, ma a
Chelsea restavano sui piani, adesso la situazione è cambiata, nel frattempo è cambiato il mondo. Adesso se vai a New York è veramente difficile contattare un gallerista, nei primi anni Duemila invece c’era un grande interesse e la fotografia iniziava a diventare un’opera d’arte, in quel periodo cercavano artisti, era una fase in cui avevi la sensazione di essere al momento giusto nel posto giusto. I suoi punti di riferimento iconografici, però, sembrano risentire molto di una cultura italiana, forse influenzati anche da un certo tipo di letteratura.
All’inizio, come tutti credo, guardavo i grandi fotografi americani Irving Penn, Richard Avedon, in quegli anni erano dei miti veri, adesso probabilmente molto meno, perché è cambiato il gusto e il ruolo delle riviste che in quel momento avevano un sapore novecentesco. In arte, in effetti, ho guardato molto le avanguardie storiche italiane, Savinio, Sironi, e anche autori minori, ma visionari come Usellini, Marussi, Bucci, Cagnaccio e poi l’espressionismo tedesco, il surrealismo francese, insomma quel tipo di panorama. La fotografia l’ho sempre guardata poco e quindi l’ho approfondita meno, ma ci sono autori a cui sono legato come ad esempio Franz Roh e i suoi fotomontaggi. Le letture invece sono ampie, ho letto molto Simenon, non Maigret ma i romanzi della provincia, poi saggi sull’arte contemporanea, saggi sulla prima guerra mondiale, che sono entrati prepotentemente nel mio lavoro, e anche molta letteratura italiana perché stando parecchio tempo a New York mi piaceva comunque leggere in italiano e compravo i libri da Strand, una vecchia libreria su Broadway che aveva una grande offerta in lingua italiana, tutto il Novecento, Cassola, Bassani, Fenoglio. È stata una lettura obbligata, ma che mi ha formato. Ma devo ammettere che nel mio lavoro entra tutto, l’incontro con le persone, il luogo in cui vivi, sono come un uomo sempre affamato, in giro a cercare del cibo, consciamente o inconsciamente. Io pesco molto anche guardandomi indietro. È quando sei bambino che inizi a costruire il tuo mondo interiore e conservi ricordi, ossessioni, ansie, metti tutto in una stanza e dopo devi cercare la chiave di quella stanza e non è facile, ma nel momento in cui la trovi hai un mondo infinito. Il mio compito è quello della mediazione, quando i ricordi li trascini fuori e in quel momento hai in mano una grande libertà, perché è come se non avessi più bisogno del mondo esterno, come se potessi lavorare all’infinito senza aver bisogno di nessuno. Davanti a lui rimangono delle strisce in cartoncino grigio, un gesto artigianale che andrà a definire un breve racconto, un qualcosa che in questo momento non mi è dato sapere.
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#AImagazine THE ART REVIEW
fall/winter 2017 [sinestesia]
pag. 5 | L’Editoriale | di Andrea Tinterri sinestesia pag. 6 | The Interview Portfolio | di Andrea Tinterri paolo ventura, le apparenze ingannano pag. 28 | L’immagine abitata | a cura di Franca Mancinelli Da dietro una vampa pag. 30 | Photography and Law | di Avv. Cristina Manasse L’originalità delle immagini pag. 32 | Intemporanea | di Mario Mariani Il respiro del mondo pag. 40 | Interview | di Christina Magnanelli Weitensfelder Milano chiama Lartigue pag. 43 | Interview | di Luca Zuccala nuove direzioni pag. 47 | Art Market | di Nicoletta Crippa CARTA Canta pag. 50 | About | di Jacopo Galli siria: voce futuro
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