Grit Magazine Issue 1

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Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas Art Director Andrea Basile Melis Yalvac Contributors Alessio Matteucci Giorgia Pallaro Marta Sanders Dario Sonatore Design Guest Giorgio Bonaguro Graphic Project ABS Translation Marta Sanders Cover photo Andrea Basile Typographic letter with toothpaste

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sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial In punta di piedi/ Tiptoe di Andrea Basile

32 > Fotografia/photography La maestosa tomba Brion/ the huge Brion tomb di Alessio Matteucci

06 > Fotografia/photography Il volto non segreto di Istanbul/ Istanbul people di Dario Sonatore

42 > Fotografia/photography La mia vita polvere di stelle/ My stardust life di Giorgia Pallaro

18 > Fotografia/photography Cosa vuole una scarpa/ to be a shoe today di Andrea Basile

50 > Fotografia/photography Il ritratto di un cavallo/ how stallions do it di Melis Yalvac

28 > design il design giovane/ Easy Table Lamp di Giorgio Bonaguro

60 > Fotografia/photography Modern rolleiflex, classic teenager/ photoessay di Marta Sanders


nonEditoriale


in punta di piedi

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Il 22 luglio di qualche anno fa, come al solito controvoglia perchè il mio difetto peggiore è la pigrizia, salgo sulla mia vecchissima Audi blu e vado a nord, Lugano è la direzione finale. Assistevo ad un servizio fotografico perchè “mi faceva bene” vedere come lavora un fotografo prima di impaginargli le foto. Molto era già digitale, ma quel giorno di digitale c’era solo il mio Casio al polso e al primo strappo di polaroid il mondo si è fermato. E’ stata la giornata più bella della mia vita sino ad allora. Ero già un fotografo affermato e capace nella mia testa, mancava solo una macchina fotografica che andai a comprare la mattina del giorno dopo. Quell’esperienza è stata il più bel regalo che Big G mi abbia mai fatto, pensare che l’ho maledetto durante tutto il tragitto di andata mi fa davvero sorridere.

A few years ago, on the 22nd July, I got in my old blue Audi and drove north, to Lugano, reluctantly as usual, since my worst defect is laziness. I was going to watch a photo shoot, because it would have done me only good to see how a photographer works before laying out his photographs. Photography had become mostly digital, but that day the only digital thing was my watch and at the first pull of Polaroid the world stopped. It was the best day of my life to that day. In my mind, I already was a successful and competent photographer, the only thing missing was a camera, which I bought the following morning. That experience was the best present Big G ever gave me, the fact that I cursed him on the way to Lugano makes me smile.

Di leggere il manuale d’istruzioni della mia nuova Canon non se ne parlava minimamente, ovviamente, io le foto le sapevo già fare. La realtà è stata ed è tutt’ora più dura di quanto potessi immaginare, sebbene mi sia sempre considerato un privilegiato e soprattutto una persona armata fino ai denti di buona sorte, ma la fotografia è un mestiere difficile da imparare per noi che ci proviamo tutti i giorni. La fotografia è complicata a tutti i livelli e in tutti i settori: per prima cosa imparare a produrre immagini tutti i giorni e non solo quando la luna è dritta; imparare a fotografare decentemente una scarpa, una ragazza o un appartamento, perchè “i giovani” li chiamano per tappare oggi quel buco, domani quell’altro. Imparare che i libri sono importanti perchè ti insegnano che fare un ritratto all’ombra a diaframma chiusissimo con un banco ottico e un fondo bianco non è affatto una buona idea, come non lo è produrne un altro con il soggetto posto in un angolo drammaticamente a “V”. Imparare ad auto-valutarsi in maniera obiettiva e non auto-celebrarsi mai, non per modestia, ma per sincerità nei confronti di se stessi e per rispetto nei confronti di chi ha “già dato e dà” meglio di noi. Imparare a gestire i costi, il cliente, il tuo piccolo studio, le persone che ti circondano, una redazione e i suoi tempi e via discorrendo. Nel nostro piccolo progetto ci siamo riproposti di raccontare la nostra fotografia per come ognuno di noi la interpreta. Ci piace l’idea di sottolineare il progetto e lo sforzo logico che cerchiamo sempre di imporci prima dello scatto. Andrea Basile

Why read my new Canon’s instructions? Obviously I could already take photos. Reality has been and still is much harder than I could imagine, although I’ve always felt privileged and, most of all, extremely lucky, but photography is a difficult job to learn, for those who try to do it every day. Photography is always complicated: first of all you have to learn to produce images every day, not just on good ones; you have to learn to photograph anything, a shoe, a girl or a flat, because young photographers are called to take over this and that. You have to learn that books are important, because they teach you that a portrait in the shade, at f/64 with an optical bench and a white background is not a good idea, and that placing the model dramatically in a corner isn’t either. You have to learn to judge yourself objectively and to never praise yourself, not for modesty, but for honesty toward yourself and respect towards those who have done and do better than us. You have to learn to handle the expenses, the client, your small studio, the people around you, the committees and their deadlines and so on. In our small project we have tried to show our photography in the way each of us interprets it. We like to emphasize the planning and the rational effort we always try to make before we take the photo.

not Editorial


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ISTANBUL PEOPLE

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IL VOLTO NON SEGRETO DI ISTANBUL

fotografie e testi Dario Sonatore Camminando per la città mi lascio trascinare dalla folla, dalle donne velate di nero che tengono i bambini per mano e dal vociare dei mercati, perché ad Istanbul non si decide dove andare, ma è lei a decidere dove portarti. Osservo i banchi di stoffe, di frutta, di pelli e tutti quei sciuscià, disseminati ad ogni angolo della strada. Mi sembra di essere a Napoli, le assonanze tra le due città sono concrete, probabilmente eredità di qualche vecchio scambio culturale. Ad ogni angolo si vedono donne camminare in gruppo, mentre sono intente a contrattare, a gesticolare, a sondare ogni tipo di merce, ma tutto in silenzio, senza mai alzare la voce, quasi come se fossero delle ombre. I bambini giocano tranquillamente a pallone nei vicoli laterali alle grandi vie, a volte a piedi scalzi, a volte con scarpe costosissime, ma sempre con quello sguardo innocente, che fa sembrare ogni loro gesto l’azione più normale della terra. Mi affascinano i venditori ambulanti, pronti a prepararti ogni sorta di cibo. Mi fermo ad osservarli e riconosco in loro molte delle scene che vedevo quando ero piccolo e passeggiavo per le vie di Napoli. Venditori di cozze crude, con le loro teglie circolari piene dei suddetti molluschi, un po’ di ghiaccio per mantenere fresco il loro prodotto, e limoni freschi per esaltarne il sapore ( a dire il vero non mi sono fidato a provarle). I profumi che saturano l’aria variano in continuazione, dallo zafferano del bazar delle spezie, al pesce fresco appena pescato dal ponte di Galata e pronto per essere cotto su minuscole bancarelle. La lingua è dura, a volte quasi violenta, ma è inevitabile fermarsi ad ascoltare ogni tanto qualche dialogo tra gli abitanti e notare la differenza di quando a mezzogiorno gli altoparlanti sparsi per la città recitano le preghiere del Corano. Le preghiere sono vocalizzi, nenie, lamenti, e la lingua assume un aspetto dolce, sembra quasi nata per il canto. Le voci melodiche del Muezzin irrompono nella testa come se un fulmine squarciasse il cielo, ma trascorsi pochi secondi, passano in secondo piano, e cominciano a sussurrarti nell’orecchio, quasi ipnotizzandoti. Le Moschee esternamente sembrano povere rispetto alle chiese cristiane, ma hanno una forza quasi magnetica e non puoi non rimanere incantato dalla loro grandezza. Il senso mistico che si prova entrando è molto forte, le luci sono soffuse, i piedi sono scalzi, i preganti si muovono quasi in maniera frenetica, alzandosi e abbassandosi senza sosta ad un ritmo incalzante. La concentrazione di edifici storici maggiore si trova nella zona di Sultanahmet, diciamo che è anche la zona più turistica. La coda per entrare al palazzo del sultano è notevole e purtroppo nonostante sia un posto incantevole, la sensazione che mi avvinghia è che sia veramente troppo turistico e finto. Ma del resto sono un turista anche io, cosa posso pretendere? Ed è qui che ho deciso di dedicare parte delle mie fotografie durante questo viaggio alla gente 8 grit

di Istanbul. Le persone di strada, durante un viaggio, penso siano una delle ultime vere attrazioni che si possono incontrare. Istanbul oltretutto ha dentro di sé una varietà di generi umani immensa, e non catalogabile. Ho cercato di rappresentare, e spero di esserci riuscito, l’unicità di ogni individuo e di dare ad ognuno di loro un’importanza che la vita reale non gli darà mai. Nella povertà, non ho visto mendicanti ai bordi delle strade, ma solo persone intente a “produrre” qualcosa per poter vivere, come lucidare le scarpe dei turisti, o cuocere il pesce appena pescato dai pescatori su delle griglie improvvisate. Istanbul è una città antica, dove ogni edificio trasuda la storia di millenni, dove ogni ciottolo della strada racconta i passi compiuti e le difficoltà superate da questa città e dai suoi abitanti nei secoli, per un’integrazione difficilmente riscontrabile in un qualsiasi altro luogo. Istanbul è pittoresca, ma senza volerlo. I colori al tramonto riscaldano i minareti di una soffice luce calda; il mar di Marmara esplode al grido dei gabbiani che partono come kamikaze alla ricerca della loro preda e in riva ad ogni ponte migliaia di direttori d’orchestra, con le loro canne da pesca, sembrano dirigerli. Istanbul è campanilista, ogni tradizione sembra sia rimasta quasi inalterata nei secoli. Non è difficile, mentre si gironzola per la città, incontrare giovani che danzano al suono di un Saz, oppure imbattersi in un hammam del 1500, costruito completamente in marmo, con omoni baffuti che ti aspettano all’ingresso. Istanbul è cosmopolita, e come potrebbe del resto non esserlo, essendo il punto di congiunzione tra oriente ed occidente. E’ sorprendente vedere l’accostamento di Moschee e McDonald’s. Istanbul è sorprendente. I giovani turchi hanno negli occhi l’entusiasmo di chi ha la possibilità di costruire qualcosa, un progetto, un futuro rassicurante. Hanno negli occhi una scintilla che non sono più abituato a vedere. Istanbul è bella, è bella da vivere, è bello camminare per ore, senza dire una parola, quasi per paura che i propri pensieri possano farti perdere qualche immagine straordinaria, che ad Istanbul può essere nascosta anche dietro ad un albero. Istanbul è malinconica nei vestiti che la gente normale indossa, sembra quasi di tornare negli anni novanta. Istanbul è malinconica nelle parole delle persone, che continuano a ricordare un passato oramai remoto. Non c’è Turco che al nome Ataturk non si senta in dovere di raccontare, con occhi emozionati, la storia di qualche parente vissuto in quel periodo, e di quanto fosse grande quell’uomo. Istanbul è una città che in fotografia racchiude in sé le sottilissime sfumature di grigio di una bella foto in bianco e nero, fatta in un’epoca passata, e i colori saturi e quasi innaturali di una fotografia a colori fatta al tramonto.


Walking around the city I am dragged by the crowd, by the women covered by black veils who hold their children by the hand, by the clamour of the markets, because in Istanbul you don’t decide where to go, but the city decides where to take you. I observe the stands of fabric, of fruit, of leather and of all those shoeshines, scattered at every street corner. It’s like being in Naples, the similarities between the cities are concrete, probably due to a past cultural exchange. At the corner of every street you can see women walking in groups, negotiating, gesticulating, looking at every kind of product, but always silently, never raising their voices, as if they were shadows. Children safely play football in the side roads, some barefoot, some with extremely expensive shoes, but all with that innocent look that makes any of their actions the most normal in the world. I am fascinated by pitchmen, who are ready to prepare any kind of food. I stop to look at them and I recognize in them many of the episodes that I saw when I was small and I walked along the streets of Naples. There were people who sold raw mussels in round dishes with some ice to keep them fresh and some fresh lemons to intensify their taste (truth is I never dared try them). The smell that fills the air keeps changing, from the saffron of the spices bazaar to the fish just caught from the Galata bridge and ready to be cooked on tiny stalls. The language is hard, sometimes it is nearly violent, but you can’t avoid stopping and listening to the dialogues between inhabitants, sometimes, and notice the difference from when at midday the speakers around the city say the prayers from the Koran. The prayers are vocalized, they are lullabies and moans, and the language seems mild, born to be sung. The melodic voices of the Muezzin brake through my head like a lightning striking the sky, but after a couple of seconds they lose importance and start whispering in your ear, nearly hypnotizing you. From the outside, Mosques seem much poorer than Christian churches, but they have a magnetic force and it is impossible not to be fascinated by their size. The mystical atmosphere is very powerful, the light is soft, the feet are bare, the praying people move nearly frantically, in a persisting rhythm. There are the most historical buildings in Sultanahmet, and it is also the most touristic area of the city. There is a long queue to go in the sultan’s palace, and I feel it is too touristic and fake although it is a beautiful place. But I am a tourist too, what can I do? It is here that I chose to take some photos of the people of Istanbul.

I think that one of the last true attractions during a journey are beggars. Istanbul inhabitants are of every kind. I tried, and I hope I managed, to represent the uniqueness of everyone and to give everyone an importance that real life will never give them. In poverty, I didn’t see any beggars at the edge of the roads, but only people making Something they can live on, for example polishing tourists’ shoes or cooking just caught fish on improvised grills. Istanbul is an ancient city, where every building talks about the history of millennia, where every pebble of the streets tells the story of the steps taken and the struggles this city and its inhabitants have gone past during the centuries due to an integration that has no corresponding in any other place. Istanbul is picturesque, without wanting to be it. The colours at sunset warm up the minarets with a soft warm light; the Marmara sea explodes with the scream of seagulls, who fly like kamikazes searching for their prey and on every bridge thousands of orchestra leaders, with their fishing rods, direct them. Istanbul’s tradition remained unchanged through the centuries. It isn’t difficult, whilst walking around the city, to come across youngsters dancing to the sound of a Saz or a hammam of the 16th century, completely built with marble, with moustached men waiting for you at the entrance. Istanbul is cosmopolitan, but how could it not be, being the junction point between east and west. The combination of Mosques and McDonald’s is surprising. Istanbul is surprising. Turkish youngsters have in their eyes the enthusiasm of who has the chance of building something, a project, a reassuring future. They have in their eyes a sparkle I’m not used seeing anymore. Istanbul is beautiful, it is incredible to live in, it is incredible to walk around for hours, without saying a word, afraid of missing an extraordinary image, which in Istanbul can be hidden even behind a tree. Istanbul is melancholic in the clothes normal people wear, it’s like going back to the nineties. Istanbul is melancholic in the words of the inhabitants, who keep remembering a distant past. No Turkish person, hearing the name Ataturk, doesn’t feel the urge to tell the story of a relative who lived in those times and to say how admirable that man was. In photos, Istanbul is a city that has in itself all of the shades of grey of a good black and white photo and the saturated and nearly artificial colours of a colour photograph taken at sunset.

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TO BE A SHOE 18 grit


TODAY

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LA VITA DI UNA SCARPA

fotografie e testi Andrea Basile

Quando mi hanno chiesto di fotografare un paio di scarpe di un noto brand americano ero a dir poco entusiasta. Un bel progetto per poter ragionare su come io immaginassi il racconto fotografico di una scarpa. Ammetto che in un primo momento l’unica idea che andavo ricercando era l’idea della sintesi massima e fine a se stessa, come esercizio tecnico. Immaginavo di trovare una soluzione iconografica di alto impatto visivo; pensavo ad un grande fondo bianco da cui uscisse la scarpa nella sua bellezza, forza e sportività. Sfogliando libri, riviste, guardando blog e pagine pubblicitarie l’idea che mi ero fatto era quella di colpire con un “one shoot”. Quello che però era evidente è che la scarpa, dal punto di vista pubblicitario, era stata fotografata davvero in ogni salsa ed era ancora più evidente che non avrei potuto affrontare “il problema” sotto il punto di vista squisitamente tecnico sperando di ottenere il risultato che volevo. Di conseguenza, foglio di carta alla mano, ho iniziato ad elencare tutta una serie di movimenti e gesti che normalmente compio con una scarpa. Cammino, corro, salgo e scendo le scale, do un calcio, esco da un ascensore, le appoggio alla mia scrivania per rilassarmi e via discorrendo. Dalla lista ho deciso di togliere tutti quei gesti davvero meno consueti ed ho deciso di riportare il mio racconto sui gesti davvero a me più comuni e quindi di più immediata e facile realizzazione. Ho indossato le scarpe e ho cominciato ad andarci in giro, cercando di capire quali gesti fossero interessanti e degni di essere ripresi e poi, per poter lavorare in maniera più concentrata sullo studio della luce, che volevo fosse artificiale, ma al tempo stesso la più plausibile e naturale possibile ho deciso quasi subito di abbandonare l’idea della ripresa della scena in prima persona ed ho usato dei modelli. Mi sono divertito molto nell’usare persone che avessero il piede più piccolo della scarpa, perché trovavo interessante ricreare in loro quella sensazione che personalmente mi è capitato di vivere spesso e volentieri per l’ansia e la fretta di concludere l’acquisto del nuovo “paio”. Il passaggio successivo è stato decidere con quale strumento riprendere la scena ed il problema, in realtà, non l’ho mai risolto. Avevo infatti deciso di scattare questo servizio con una Mamiya ed un dorso polaroid per raccontare la scarpa sotto un punto di vista emozionale e morbido, ma nel corso del progetto, ho sentito l’esigenza di sottolineare la texture materica della scarpa e la verticalità della scena attraverso l’uso della 35mm. Quello che è nato è il racconto dell’oggetto, indossato, rispettando la semplicità della sua funzione.

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When I was asked to photograph a pair of shoes of a well-known American brand I was really excited. It was a good project to think about how I would imagine the photo-story of a shoe. I admit that at first I was aiming for the maximum synthesis only as a technical exercise. I imagined finding a solution with high visual impact; I thought of a big white background out of which the shoe came in its beauty, power and smartness. Looking through books, magazines and looking at blogs and advertisements the idea I had was to strike with one shoot. But what was obvious was that the shoe, in advertising, had been photographed in every way and it was even more obvious that I couldn’t deal with the “problem” from a purely technical point of view, hoping to achieve the result that I wanted. So with a sheet of paper in my hand, I started to list a series of movements and gestures that I normally do with a shoe. Walk, run, walk up and down the stairs, kick, get out of a lift, rest my feet on my desk. I decided to remove from the list the less frequent gestures and to bring my story back to the most common movements to me, and therefore the easiest one to represent. I wore my shoes and started to walk around in them, trying to figure out what gestures were interesting and worthy of being photographed and then, to concentrate more on the lighting, which I wanted to be artificial but at the same time the most plausible and natural possible, I decided almost immediately to abandon the idea of ​​shooting the scene in first person and I used some models. I very much enjoyed using models who had feet smaller than the shoes, because I thought it would be interesting to recreate that feeling that I personally happen to live often of anxiety and haste to conclude the purchase of the new pair of shoes. The next step was to decide which camera to use, and in reality I never solved the problem. I decided to take these photos with a Mamiya and a Polaroid to tell the shoe’s story from an emotional and smooth point of view, but during the project, I felt the need to emphasize the texture of the material of the shoe and the verticality of the scene through the use of 35mm. What I achieved was the story of the object as it was worn, respecting the simplicity of its purpose.


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Giorgio Bonaguro

Easy table lamp

Easy table lamp

Nato a Catanzaro, Italia il 18/04/1977. Ha studiato Ingegneria Meccanica a Modena, e dopo ha frequentato la Scuola Politecnica di Design a Milano, Italia, dove ha fatto il doppio master in Industrial e Interior Design. Ha lavorato in alcuni studi di design a Milano, ha iniziato allo Studio Lorenzo Palmeri, e ora sta collaborando con il designer italiano Francesco Faccin, ha lavorato in alcuni progetti allo Studio Michele De Lucchi nel ufficio prototipi, e collabora con il designer e critico Marco Romanelli. Lavora anche ai suoi progetti personali nel campo

The Easy table lamp wants to go to the basics of a lamp (from this comes the name), made up of only two parts: an arm with the light source and a base for it. These elements are combined together simply fitting one into the other, the arm stands being inserted into the hole created in the base, making it easy to clean, and to store in a smal packaging. The lamp is made respecting an eco-friendly approach, for this the materials used are: wood for the arm; a compound made with resin and marble powder (all waste materials from tha marble production can be transformed into it) for the base (it is lighter than the pure marble); the light source is a group o LED lights with to possibles intensities of light, if you need an ambient light or a light to read.

La lampada da tavolo Easy Table Lamp vuole andare alle basi costruttive di una lampada (da questo deriva il nome), composta da solo due parti: un braccio con la sorgente luminosa e una base perper sostenerla. Questi elementi sono combinati insieme attraverso un semplice inserimento dell’uno nell’altra: il braccio viene inserito nel foro creato nella base, e questo rende la lampada facile da pulire, e con un packaging semplice. La lampada è costruita rispettando un approccio ecologico, per questo i materiali utilizzati sono: legno per il braccio; un composto di resina e polvere di marmo (tutti i rifiuti derivanti dalla produzione del marmo possono essere trasformati in polvere e utilizzati) per la base (che è più leggero del marmo puro); la fonte di luce è a LED o con due intensità di luce possibili, se avete bisogno di una luce soffusa per creare un’atmosfera o una luce più puntuale per leggere.

Born in Catanzaro, Italy on 18/04/1977. He studied Mechanical Engineering in Modena and then he graduated at Scuola Politecnica di Design in Milan, Italy, in the double master of Industrial and Interior Design. He worked in several design studios in Milan, he started at Lorenzo Palmeri Studio, and now he is collaborating with the Italian designer Francesco Faccin, works in some projects at Michele De Lucchi Studio and cooperate with the architect, designer and critic Marco Romanelli. in the prototyping office. He is working on his own projects in the fields of product design, interior design, packaging design and lighting. 28 grit

Photos Andrea Basile

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THE HUGE BRION TOMB

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IL COMPLESSO FUNERARIO PROGETTATO E REALIZZATO DA CARLO SCARPA fotografie e testi Alessio Matteucci

Non è la prima volta che faccio un giro nella Pedemontana, e non è la prima volta che vado a visitare la monumentale Tomba Brion, in quel di San Vito di Altivole in provincia di Treviso;vuoi perché un caro amico di famiglia, da sempre appassionato d’arte e cultura veneta, me ne parlava ogni volta che ci incontravamo, vuoi per un interesse che ho sempre nutrito per l’architettura funeraria. L’ accesso al “luogo” suggerisce quello che nei palazzi veneziani è il portego , luogo di incontri e di commenti. Scarpa è veneziano e di sicuro portava salde nei sensi le suggestioni della sua specialissima città fatta di pietra e d’ acque, due cifre che vivono nella tomba Brion ma immerse in uno scenario nuovo; è ben visibile infatti il contesto montano in cui è inserita. Non il sentore di “freschin” dell’ acqua lagunare; non il “ciacolesso” che rende sonore le calli; non il gusto esaltatorio delle architetture, ma un’opera che con una totale semplificazione del segno,dialoga con lo spazio e ci proietta in una idea di continuità espressa dal gorgoglio placido di acque , dal modesto profumo delle ninfee , dal pigro movimento dell’aria. Ogni volta che avevo occasione di visitarla portavo la reflex con me, ma spesso le condizioni di luce non erano favorevoli allo scatto ,ma mi immergevano in quello che è il tempo dei vivi,ora col sapore grigio di un giorno di pioggia,o col sole ,o con le morenti sfumature del tramonto. Alla fine di settembre del 2011 ho avuto la possibilità di tornare nel Veneto e approfittando delle giornate più asciutte e ventilate, ho deciso di andare nuovamente a San Vito di Altivole, ed è stato proprio in quei giorni che le immagini del servizio sono state realizzate. Una giornata nuvolosa ma a tratti soleggiata,ventilata e fredda, che farebbe storcere il naso a molti si è invece rivelata fondamentale per il mio lavoro,perché mi ha permesso di avere un’ottima nitidezza e condizioni di luce differenti a seconda della scena da realizzare,il tutto a pochi minuti di distanza. Dominante sul tutto è il silenzio e quasi il vuoto che caratterizza il gusto architettonico nipponico secondo il quale natura ed opera umana si compenetrano senza differenziarsi. 34 grit

It isn’t the first time I’ve done a tour in the foothills, and it isn’t the first time I’ve visited the monumental Tomba Brion, in San Vito di Altivole in the province of Treviso; either because a family friend, who’s always been passionate about Veneto’s art and culture, told me about it every time we saw each other, or because I’ve always been interested in funerary architecture. The access to the place suggests what in Venetian palaces is the “portego”, a place of encounters and comments. Scarpa is Venetian and he certainly kept alive inside him the charm of his unique city, made of stones and water, two key elements of the Brion tomb, which are set in a new situation: the mountain context it is in is clearly visible. Not a hint of “freschin” of lagoon water; not the “ciacolesso” that makes the streets resonant, not the glorifying taste for architecture, but a work, that with a major simplification of the sign, interacts with the space and push us into an idea of ​​continuity expressed by the gurgling of the placid waters, by the mild scent of lilies, by the air moving lazily. Whenever I had the chance for a visit I brought my camera with me, but often the lighting conditions were not favourable to shoot, but they plunged into the time of the living, either with the gray taste of a rainy day, or with the sun, or with the dying shades of sunset. At the end of September 2011 I had the opportunity to return to Veneto and in the driest and airiest days I decided to go back to San Vito di Altivole, and it was in those days that these photos were taken. A cloudy but sometimes sunny, breezy and cold day, at which many would have turned up their noses, was instead crucial for my work, because it allowed me to have excellent sharpness and different lighting conditions depending on the scene in a matter of minutes. It is all dominated by silence and the emptiness of Japanese architecture, according to which nature and the work of humans penetrate into each other without distinguishing between the two.


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CHE MALE C’È A FARE FOTOGRAFIE AD UNA LACRIMA? fotografie e testi Giorgia Pallaro

Una delle poche cose che ho compreso dopo questi quattro anni in cui io e la fotografia siamo venute in contatto, é che le fotografie da cui ero rimasta maggiormente spaventata coincidevano con quelle in cui ero stata talmente onesta con me stessa da rimanere spiazzata da quello che avevo poi rivisto sullo schermo del computer. Così, delle immagini realizzate fino ad oggi, quelle che più mi rappresentano sono anche quelle che più mi terrorizzano. Perché racchiudono la parte di me più nascosta e pura e infantile, che ad un certo punto ho cercato di nascondere, quasi a volerla proteggere e un po’ perché avevo iniziato a vergognarmene. Eppure, guardando indietro, le foto realizzate a mio fratello restano tuttora quelle in cui so di aver donato completamente me stessa, perché non mi sono posta limiti censure o barriere razionali che bloccassero il flusso di pensieri ed emozioni che mi aveva portato a crearle. E ciò che cerco di racchiudere in quelle immagini é una sorta di momento sospeso, un racconto interrotto a metà, un avvenimento che sta per accadere e la cui risoluzione resta negli occhi e nella mente di chi guarda. Cosí, non ho mai ben capito di che natura fosse il rapporto che legava me e la fotografia, e non mi sono mai soffermata troppo ad analizzare cosa mi spingesse a realizzare un determinato tipo di immagini. Forse il bisogno di comunicare, forse la volontà di incanalare in un qualche modo cose che se avessi tenuto dentro sarebbero marcite. Non ho nemmeno mai compreso appieno se la fotografia fosse effettivamente il fine o null’altro che uno strumento come un altro per riuscire a raccontare quello che ho nella testa. Ciò che ho capito dopo un po’ e che ora so per certo, è che tra i tanti mezzi che ho cercato di sfruttare, la fotografia resta quello che mi tiene viva di giorno e sveglia di notte. 44 grit

One of the few things that I realized after these four years in which I came in contact with photography is that the photos that I had been more scared of were the same ones in which I had been so honest with myself that I was startled by what I saw on the computer screen. So within all the images created till now the ones that represent myself the most are also the ones that most terrify me. Because they show the most hidden, pure and childlike part of me that I tried to hide at some point, as if trying to protect it, and because I had begun to be a little ashamed of it. But looking back, the pictures taken of my brother are still the ones in which I know I have given myself completely, because I didn’t put limits or rational barriers and I didn’t censor anything, stopping the flow of thoughts and emotions that had brought me to create the images. And what I tried to put in those pictures is kind of a suspended moment, a story broken in half, an event that is about to happen and whose resolution is in the eye and in the mind of the beholder. So, I never quite understood the nature of the relationship that bound photography and me, and I never stopped to analyze what pushed me to create a certain type of image. Perhaps the need to communicate, perhaps the will to channel in some way things that would have gone rotten if I kept them inside me. I never even fully understood if photography really was the purpose or just an other mean with which I could communicate what I have in my mind. But what I realized after a while and that I am now certain of is that among the many means that I have tried to use photography is what keeps me alive during the day and awake during the night.


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IL RITRATTO DI UN CAVALLO

fotografie e testi Melis Yalvac

“Ciao, sono Melis e fotografo cavalli” “Ah, lo stilista” “No, i cavalli. Equidi. Presente, quelli con 4 zoccoli, una coda e due narici così grosse che ci puoi infilare i piedi?” “Ah…[momento di silenzio] Ma solo cavalli?” “Si, solo cavalli.” E a quel punto leggi la delusione negli occhi di una persona che scopre che sei così tanto specializzata in un tipo di fotografia da risultare noiosa (che poi fotografo anche cavalli vapore, ma questo è un altro paio di maniche). Eppure io potrei dire le stesse cose di un ritrattista. “Cosa fotografi?” “Persone” “Che noia…”

“Hey, I’m Melis and I photograph horses” “Oh, the fashion designer” “No, horses. The animals. You know, the ones with 4 hoofs, a tail and two nostrils so big you could put your feet in them?” “Oh…[silence] Only horses?” “Yes, only horses.” And at that point you see the disappointment in the eyes of someone who discovers that you are so specialized in a kind of photography that you seem boring (but then I also photograph horse-power engines, but this is an other topic) But I could say the same thing about a portrait photographer “What do you photograph?” “People.” “Boring…”

Eppure io ci vedo così tanta diversità nei cavalli che fotografo. Infinite razze, infinite situazioni, infiniti caratteri, infinite espressioni. I cavalli li conosco, e soprattutto li capisco, molto meglio delle persone. Le persone mi imbarazzano, i cavalli no. E neanche loro si imbarazzano. Non gli interessa se fanno cose ridicole mentre le fotografi, se potessero, si infilerebbero anche uno zoccolo nel naso per scaccolarsi. Così, senza ritegno. Poi ci sono anche cavalli piuttosto riservati eh. Quelli che ti guardano come per dire “ma fatti un po’ i cazzi tuoi che quello che combino e penso io non ti riguarda.” Ci sono anche quelli che mi fanno una profonda tenerezza. Sono i cavalli dal passato sconosciuto, che hanno subito qualche trauma e non sanno bene come raccontartelo. Glielo leggi negli occhi. E poi ci sono gli stalloni. Gli stalloni sono dei pagliacci. Non hanno proprio nulla di diverso dagli uomini. Quando hanno due linee di febbre vengono da te come per dire “Ti prego coccolami adesso perchè domani sarò morto.” Sono quelli che quando li liberi ti danno più soddisfazione. Li osservi, il mondo gli appartiene e loro vogliono spaccarlo, sempre che non abbiamo due linee di febbre o male alla punta dell’orecchio, in quel caso gli fai il piacere, per favore, di spaccare tu il mondo per loro. Gli stalloni sono capaci di sfidare sè stessi allo specchio, di sfidare una porta, un bastone, una scopa, una panca, tutto. Torna utile in fotografia perchè hanno sempre un atteggiamento molto fiero e tu fotografo, non devi fare praticamente nulla per stimolarli ad avere un’espressione decente, ce l’hanno già. Intelligente no, ma decente, nobile e attenta si. Io li adoro, li amo quando senza potersi affidare ad un cavaliere, devono comandare loro e non sanno bene da dove iniziare, ma è lì che il carattere viene fuori e loro ti si raccontano. Meglio ancora se tutto questo accade in un campo coperto, o in un capannone, cosicchè io possa scattare a 6400 iso e andare a letto felice la sera.

I see so many differences between all the horses I photograph. Countless breeds, countless situations, countless personalities, countless expressions. I know horses, and most of all, I understand horses much better than people. People make me feel uncomfortable, horses don’t. And they don’t feel uncomfortable either. They don’t care if they do something embarasing while you photograph them, if they could, they would pick they nose with their hoofs. Just like that, without any shyness. There are some who are quite reserved, too. The ones who look at you as if they were saying: “Mind your own buisiness, what I do and think doesn’t concern you.” There are also the horses who truly move me. They are the horss who have an unknown past, who have lived some trauma they don’t know how to tell you. You can se it in their eyes. And then there are the stallions. Stallions are real fools. They aren’t different at all from men. When they have just a little bit of temperature they come to you as if they were saying “Please cuddle me now, ‘cause I’ll be dead tomorrow”. They are the ones who give you the more satisfaction when you free them. You look at them, the world is theirs and they want to kick arses, unless they have a bit of temperature or the tip of their ears hurt. If this is the case, please kick arses for them yourself. Stallions are able to challenge themselves in a mirror, or a door, a broom, a bench, anything. This is useful in photography, because they always have a very proud behaviour and you don’t have to do nearly anything to make them have a good expression, they already have it. Clever or not, good, noble and alert. I adore them, I love it when they can’t rely on a rider and they have to take charge themselves and they don’t really know where to start. But that is when their character comes out and they tell you about themselves. Even better if all of this happens indoors so I can shoot at 6400 iso and be happy when I go to bed in the evening.

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MODERN ROLLEIFLEX CLASSIC TEENAGER a photo essay by 15 y.o.marta sanders

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Fin da piccola mi hanno insegnato a prestare attenzione a ciò che ho intorno, a guardare le persone e come stanno e i posti dove sono. Mi hanno insegnato che devo cercare di capire e trovo il capire qualcosa che può essere ottenuto soltanto con il confronto e la comunicazione. Le immagini sono per me la più forte forma di comunicazione. Si imprimono in me e faticano a lasciarmi. A più o meno dodici anni, mio papà mi ha portato a vedere una mostra di Weegee. Ricordo i gattini in mano al pompiere, il sangue sulla strada, il bambino con le dita nel naso. Mio papà mi ha mostrato delle immagini mille volte più forti delle migliori parole messe nelle bocche migliori. Mi è stato insegnato che con le fotografie bisogna mirare al poco ma buono, e la pellicola medio formato è il modo più efficace di ottenerlo, fa sbagliare e sprecare meno, e le soddisfazioni sono doppie quando hai un metro di negativo, comunicazione fisica della realtà. I was taught from the youngest of ages to pay attention to what is around me, to look at people and at their feelings and at the places where I am. I was taught to try and understand, and understanding to me is something I can achieve only with comparison and communication. I think pictures are the most powerful form of communication. They rub in me and it’s hard for me to let them go. When I was about twelve, my dad took me to a Weegee exhibition. I remember the kittens in the fireman’s hands, the blood running down the street, the boy picking his nose. My dad showed me pictures a thousand times more powerful than the best words said by the best mouthes.I was taught that in photography I should aim for quality, not quantity, and I find medium format film the most effective way to obtain it. It minimizes mistakes and waste, and I am doubly satisfied when I have a meter of negative, physical communication of reality.

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