informal magazine issue7
Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas AD & graphic design Andrea Basile with Alessio Matteucci Cover Photo Andrea Basile Photo Carl Warner Julien Coquentin Alessio Matteucci Noah Kalina Melis Yalvac Marta Sanders Translation Marta Sanders
informal magazine issue7
sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Looking for sunshine/ cercando la luce di Andrea Basile
64 > Fotografia/photography Know how/ conoscenza di Noah Kalina
07 > Fotografia/photography Bodyscapes/ corpi panoramici Carl Warner
86 > Fotografia/photography Fluttering/ danzando sulle punte di Melis Yalvac
34 > Fotografia/photography Early sunday morning/ l’alba di domenica mattina di Julien Coquentin
108 > Fotografia/photography Teenage essay/ di Marta Sanders
54 > Design The sign portrait/ Giorgio Bonaguro di Alessio Matteucci
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photo Andrea Basile
looking for sunshine. Anche questo anno sta volgendo al termine. Secondo i giornali (esistono ancora) il duemilatredici è stato il più complesso dall’inizio della “crisi economica” che ci ha investito qualche tempo fa. Noi che siamo sopravvissuti e siamo qui che chiudiamo la contabilità dell’anno in corso ci stiamo domandando se sia vero. Generalmente si è lavorato tanto di più, per essere pagati tanto di meno e in condizioni di lavoro spesso discutibili, diciamocelo. Rimane il fatto, che generalmente, quando penso ai fotografi italiani sotto ai trentacinque anni, penso ad una generazione di egocentrici affamati che presentano fotografie pretenziose e molto spesso prive di significato, io per primo. Se sapessimo fotografare come presumiamo di saper giudicare saremmo gli eredi naturali di Aldo Ballo e Richard Avedon, ma non è così. Nel corso di questi mesi ho avuto a che fare con diversi fotografi molto giovani nel costruire Grit: gli Italiani (che ho provato ad inserire a più riprese nel bimestrale) sono spesso stati quelli del: -Ti faccio sapere. -Non so se riesco. -Sono molto preso. -Dai, vediamo. -Devo valutare. All’estero è diverso, i ragazzi internazionali sono sempre stati entusiasti, propositivi, generosi. Molto più bravi di noi, sono capaci di fotografare per una campagna di Sagmeister & Walsh e poi parlare con me di Grit e di come impaginare il loro pezzo. Ricordo quando Brian Finke da Tokio, lontano migliaia di miglia dal suo studio, cercava di mandarmi le sue immagini per il suo ultimo pezzo senza avere, tra l’altro, un gran bisogno di ulteriore visibilità ed un italiano, nel frattempo, mi faceva disperare nel suo assenteismo mentre però postava senza tregua, foto di ragazzotte della bassa su facebook. Non è mai un bene generalizzare le cose, ma davvero sento che questa situazione di cui parliamo così male sia un bel po’ colpa nostra; siamo molto impegnati nelle pubbliche relazioni, negli aperitivi, nei “likes” e nelle presentazioni di progetti altrui (da criticare alla morte, ovviamente). Il lato positivo della faccenda è che siamo alla fine del 2013 e nei tradizionali propositi di fine anno possiamo essere sinceri e chiedere a noi stessi di smetterla di essere stufi dell’atteggiamento degli altri, ma di accettare senza riserva il fatto che dobbiamo essere stufi di noi stessi. Andrea Basile
This year is coming to an end too. According to newspapers (they still exist) 2013 was the most difficult one since the beginning of the economical crisis that hit us a while ago. We survived and are here sorting out the accounting of this year, and we’re wondering whether it’s true. Generally we worked much more to be payed much less and in questionable conditions, let’s say it. But at the same time, generally when I think of Italian under-35 photographers I think of a generation made of greedy egocentrics who show pretentious photographs that often don’t have a meaning, and I’m first in line. If we knew how to photograph the same way we think we can judge we would be the natural heirs to Aldo Ballo and Richard Avedon, but this is not the case. During these months I collaborated with various very young photographer creating Grit: the Italian ones, who I repeatedly tried to involve in the project, were often those saying: -I’ll let you know. -I don’t know if I’ll manage -I’m very busy. -Well let’s see. -I have to think about it. It’s different abroad: the people were always enthusiastic, proactive, generous. Much better than us, they are able to photograph a campaign for Sagmeister & Walsh and then talk with me about Grit and about how to lay out their article. I remember when Brian Finke was trying to send me his images from Tokio, miles away from his studio, for his last article, with no need for further visibility, whilst an Italian was driving me crazy because of his absenteeism, when in the meantime he kept posting on Facebook rough photos of girls. It’s never good to generalize, but I really feel like this situation we talk about so badly is mostly our fault; we’re busy with public relations, happy hours, ‘likes’ and presentations of others’ work (to criticize harshly, obviously). The positive side of it all is that we’re at the end of 2013, and in the traditional resolutions for the new year we can be honest and ask ourselves to stop being sick of other people’s attitude, and accept with no excuses that we have to be sick of ourselves.
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bodyscapes photo & interview
by Carl Warner
find more art at carlwarner.com
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interview 1. Hai cominciato a fare questi particolari paesaggi con il progetto ‘Foodscapes’, che è iniziato con un momento preciso di ispirazione a un mercato. C’è stato un momento simile per questo progetto?
perdere il senso di continuità nel paesaggio. A me piace anche il fatto che ogni immagine è fatta con un individuo solo, in quanto offre un aspetto di ritrattistica alternativa e diventa una conessione più intima con il soggetto. Sì, è stato il film ‘Zabriskie Point’, che ha Voglio anche evitare che queste immagini delle scene di corpi nudi che si rotolano sembrino troppo sessuali, e penso che in un paessaggio polveroso e roccioso. mischiando corpi diversi al momento Ero affascinato dalla relazione tra il corpo dello scatto potrebbe portarle in quella e il paesaggio e ho sempre guardato al direzione. Sono più interessato alla forma mio corpo come qualcosa di strutturale e e struttura che danno un senso di spazio scultoreo. al corpo come lo spazio in cui stiamo. 2. Quali sono le particolari sfide nel lavorare con i corpi per fare queste foto?
5. Dove trovi le persone che posino per te? Sono modelli? Amici?
Nessuno, in realtà, a parte il fatto che in confronto ai ‘foodscapes’ il corpo umano è piuttosto limitato nei tipi di paesaggio che posso ottonere e nella quantità di punti di angoli e forme che possono essere create con il corpo.
Entrambi. E visto che il progetto è diventato virale ho avuto molte offerte da persone che volevano posare. Ma mi piacerebbe davvero portare avnti il progetto fotografando persone famose i cui corpi li hanno portati attraverso il loro viaggio personale.
3. Quanta manipolazione è richiesta? Qual è il processo di post-produzione? Alcune immagini sono semplicemente uno scatto di un torso o di una schiena e poi aggiungo soltanto un cielo. Ho delle nuvole che sembrano delle piume e danno un senso di profondità alle scene. Dove ci sono coinvolte diverse parti del corpo la post-produzione è protratta, ma mi piace comporre le immagini in questo modo e le tecniche sono molto simili a quelle che uso nel progetto ‘Foodscape’. 4. Quanti corpi sono coinvolti in un singolo pesaggio? Dalle foto, immaginerei che ci sono diverse persone accalcate e attorcigliate insieme. E’ davvero così? O fai una foto a una persona sola e poi la unisci a un’altra immagine in post-produzione? Ogni immagine in questa serie usa il corpo di una persona sola, scattato da angoli diversi. So che alle persone piacerebbe che fossero fatte con tanti corpi diversi, ma farlo significherebbe avere toni di pelle diversi che farebbero
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6. Pensi che il corpo sia un materiale di partenza particolarmente versatile per fare paesaggi? O usare il cibo dà più opportunità? Come ho detto prima è meno versatile, ma spesso sono i limiti a spingerti più avanti da un punto di vista creativo, e lo rende uno sforzo che ne vale la pena. 7. Da quello che ho letto sul tuo sito, i ‘foodscapes’ richiedono tanto lavoro di preparazione, e molte mani sul set per ottenere il risultato finale. Vale lo stesso per i ‘bodyscapes’? Hai delle persone che ti aiutano nello scatto di queste foto? Li pensi prima di farli? Quanto è lasciato all’improvvisazione? I ritratti sono stati fatti in situazioni abbastanza intime in quanto sono nudi, quindi siamo solo io e il mio assistente. C’è poca preparazione, se non l’assicurarsi che non ci siano segni lasciati da corpi e che la pelle sia ben idratata.
1. You started making these unconventional landscapes with your Foodscapes, with started with a moment of inspiration at a food market. Was there such a moment that made you think to make the body landscapes? Yes, it was the film Zabriskie Point which had scenes of naked bodies rolling around in a dusty, rocky landscape. I was fascinated by the relationship between body and landscape and I have always been looking at my own body in terms of it’s form as something structural and sculptural.
with many different bodies, but doing this will mean having different skin tones which will lose the sense of continuity within the landscape. I also like the fact that it is all made from one individual as it offers an aspect of alternative portraiture and becomes a more intimate connection with the subject. I also want to avoid the images looking too sexual and I think that mixing bodies at the shooting stage may cause the images to lean this way. I am more interested in the form and structure that brings a sense of place to the body as the space in which we dwell.
2. What are the special challenges of working with bodies to make these photos?
5. Where do you find the people to pose for your photos? Are they models? Friends?
None really except for the fact that compared to my foodscapes the human body is fairly limited in terms of the type of landscape I can achieve and the number of angles and shapes that can be created with the body.
Both. And since the work has gone viral I have had many offers from people to pose. But I would really like to move the work forward by photographing well known people whose bodies have carried them through their personal journeys.
3. How much digital manipulation is involved? What’s the post-production process like?
6. Do you find the body an especially versatile raw material with which to make landscapes? Or do you find using food opens more opportunities?
Some of the images are simply one shot of a torso or back and then I merely add in a sky. I have these clouds which look like feathers and they add a sense of scale to the scenes. Where there are multiple body parts involved the post production is more protracted but I love the composing of images in this way and the techniques are very similar to those I employ in my Foodscape work. 4. How many bodies are involved in a single landscape? From the photos, I’d imagine that you’ve got different people huddled and twisted together. Is that what it’s actually like? Or are you able to take a photo of one person and then combine it with another image in postproduction? Each image in the series uses only one person’s body, shot from different angles. I know people would love these to be made
As I said earlier it is less versatile, but it is often the case that having some restriction pushes you harder creatively which makes it all a worthwhile challenge. 7. From what I read on your site, the foodscapes involve lots of preparation work, and lots of hands “on set” to make the final product. Is it this way with the body landscapes? Do you have people helping you to make these photographs? And do you plan them out in advance? How much is left to improvisation? The shoots have been quite intimate affairs due to the nature of shooting nudes, so just me and my assistant. There is very little preparation apart from making sure there are no clothing marks and that the skin is well hydrated and moisturised.
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Cut Throat Valley
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Una selezione di immagini di Carl Warner in cui crea paesaggi a partire dal corpo umano. Un ritratto alternativo di un essere umano il cui corpo diventa un paesaggio del suo corpo e gioca con lo spazio in cui sta. Quindi la vista esterna di noi diventa un riflesso pi첫 astratto e forse pi첫 intimo del nostro io interiore quando viene visto come un paesaggio o quando gli viene dato un senso di spazio.
A selection of images by Carl Warner creating landscapes from the human form. An alternative portrait of a human being whose body becomes a landscape of themselves and plays on the sense of space in which we dwell. The external view of ourselves therefore becomes a more abstract and perhaps more intimate reflection of our inner being when viewed as a landscape or given a sense of place.
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Desert of Backs
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Desert of Sleeping Men
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Elbow Point
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Fingers Cave & Twin Peaks
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before Headless Horizon this page Pectoral Dunes
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Shin Knee Valley
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Shoulder Hill Valley
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The Cave of Abdo-Men
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The Sleeper
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The Valley Of the Reclining Woman
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...meantime, in the early sunday morning a photo essay by Julien Coquentin 34 grit
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Sono nata nel 1976, il mio lavoro nasce durante la creazione di un diario fotografico, composto nelle strade di Montreal, “Early sunday morning”, è stato esposto più volte. Concentrandosi sui temi della deforestazione e dei diritti indigeni, ho prodotto “Green Wall” nel corso del 2012 in Malesia, dove ho trascorso diversi mesi. Ora vivo e lavoro in Francia. I was born in 1976, my work noticed during the creation of a photographic diary, compound sandstone streets of Montreal,”Early sunday morning”, has been exposed several times. Focusing on issues of deforestation and indigenous rights, I made “Green Wall” during the year 2012 in Malaysia where I spent several months. Now I live and work in France.
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the signportrait Giorgio Bonaguro
La famiglia di sgabelli disegnata da Giorgio Bonaguro per l’azienda Icons Furniture vuole offrire un’interpretazione giocosa a questa tipologia di sedute. Alfiere, per esempio, è uno sgabello in legno massello caratterizzato da una forma semplice, interrotta da un grande taglio diagonale che ha funzione di portariviste; accanto a questo, “si muovono” Regina, dalla forma più “aristocratica” e imponente, e Pedone, sgabello dalla forma arrotondata e agile. Questi prodotti sono stati ideati ispirandosi, come suggerisce il nome stesso, al gioco degli scacchi, vogliono riprendere le forme e le caratteristiche tipiche dei pezzi (in particolare le teste) che si utilizzano in questo gioco. Gli sgabelli sono prodotti da Icons in cedro massello profumato con tecniche e lavorazioni semi-artigianali, che ne esaltano il valore e le finiture.
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a Chess Story curated by Alessio Matteucci
This family of stools designed for Icons Furniture want to give a playful interpretation to this kind of furniture. Starting from Alfiere ( the “Bishop” in italian) which is a stool in solid wood: it features a geometric form, interrupted by a large diagonal cut which acts as a magazine rack; next to it is “moving” Regina (the “Queen”), with a more “aristocratic” and imposing shape, and Pedone (the “Pawn”),a rounded and simple stool. These products have been designed taking inspiration by chess, as the name suggests; they want to enphatize shapes and characteristics of the chess pieces (especially the heads) that re used in this game. The stools are produced by Icons in solid scented cedarwood with semi-artisanal techniques and processes, enhancing the value and finishes.
Photo Andrea Basile
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KNOW HOW a photo essay by Noah Kalina
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Parlare di Noah Kalina, per me, è parlare di uno dei motivi per cui ancora oggi mi alzo dal letto e vado in studio a produrre fotografie. Ricordo bene le ore spese sul suo sito a studiare composizioni, luci, soggetti e punti di vista. Ancor prima che per le sue splendide fotografie, stimo Noah per il messaggio che è riuscito a portare nel mondo della fotografia contemporanea. Il suo “everyday” (grande ed imponente progetto fotografico che personalmente ho conosciuto solo dopo gli altri suoi progetti) lo spinge fuori dal coro delle belle immagini di internet, tutte belle e tutte uguali. Pensate a quante volte abbiamo immaginato che usare internet come vetrina fosse inutile, con tutte quelle fotografie che ogni giorno vengono prodotte, alcune davvero di grande qualità; Noah è per me l’incarnazione di quello che un fotografo dovrebbe fare, cioè progettare e immaginare. Quello che lui ha costruito in questi anni è frutto di un pensiero forte, non di un pensiero debole o qualunquista e questo è il motivo per cui si è distinto dalla massa; le sue immagini raccontano il suo pensiero con gusto ed intelligenza sopraffina. La cosa che più mi piace di Noah è la sua continua ricerca, oltre gli schemi fotografici tradizionali, nel non accettare le “regolette” imposte generalmente dalla comunità fotografica: Perchè scattare solamente durante la “golden hour”? Perchè non produrre una fotografia a mezzogiorno? La scelta delle ambientazioni è sempre intelligente, pesata con cura; mi sono sempre detto con convinzione che la bravura di un professionista vive nella sua capacità di sfruttare gli elementi; così Kalina rende magiche le periferie di New York e toglie il tempo alle ambientazioni in esterna che utilizza. La sua luce mista è sublime, profonda, ragionata; ogni volta che guardo una sua fotografia “nel verde” non posso semplicemente scorrerla velocemente, con Noah ti viene voglia di fermarti a guardare tutte le sfumature delle piante, delle composizioni, dei soggetti. Andrea Basile
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Speaking about Noah Kalina to me means to speak about one of the few reasons I still get out of bed and go to the studio to produce photographs. I remember well the hours spent on his website studying compositions, lighting, subjects and points of view. Even more than because of his gorgeous photos, I esteem Noah for the message he managed to bring the world of contemporary photography. His project ‘Everyday’ (a big and impressive one that I personally discovered only after his other ones) makes him stand out of the incredible amount of good images on the internet, all beautiful and all the same. Think about how many times we all thought that using the internet as a showcase was pointless, with all those photos that are produced daily, some of which are really very good; to me Noah is the personification of everything that a photographer should do, which is develop a project and imagine. What he built during these years is the result of a strong way of thinking, not of a weak or apathetic one and this is the reason he stands out of the crowd; his images show his way of thinking with good taste and excellent intelligence. The thing I like the best about Noah is his continuous research, not only in photographic schemes, but also in not accepting the banal rules that the photographic community generally imposes. Why shoot only during the golden hour? Why not take a photo at midday? The choice of the setting is always clever, thought carefully; I always told myself with firm belief that the ability of a professional is to take advantage of the elements; in this way Kalina makes the outskirts of New York become magical and takes time away from the outside settings he uses. His mixed lighting scheme is sublime, intense, reasoned; every time I look at one of his photos surrounded by greenery I can’t just go pasti t quickly, with Noah you would want to look at every shade of the plants, of the composition, of the subjects.
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fluttering a photo essay by Melis Yalvac find more art at melisyalvac.com
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Com’è andata esattamente non ve lo svelerò, più che altro perchè vorrei mantenere una dignità (e spero che la persona che n’è stata testimone si porti il segreto nella tomba). Si parla tanto di attrezzature e tecnica e di quanto siano importanti. Non sono d’accordo. Perchè il contenuto lo puoi creare con qualsiasi cosa, il messaggio passa comunque. Ciò nonostante ho anche sempre pensato che per alcuni settori in fotografia l’attrezzatura fosse fondamentale per creare i contenuti: nella fotografia sportiva, per esempio, o anche in quello che faccio io. Cavalli. Ma questo è una confessione mai fatta, se non a me stessa. Era da tempo che volevo scattare i cavalli con la pellicola. Un po’ per sfida (nei confronti di me stessa eh), un po’ per curiosità, un po’ per il valore che la pellicola ha assunto nel momento in cui ha iniziato a sparire. Mi sono anche scervellata, perchè la Mamiya che ho in casa mi sembrava davvero inadatta. E ora ne ho la certezza. Pensavo più a una Nikon a pellicola, sportiva, chessò... una F4 per esempio... o una medio formato un poì più agile della Mamiya. Ma quella è, e quella è stata. Decisamente scomodo (e sfiancante per me) andare in giro per boschi e maneggio con cavalletto, macchina, dorsi, le polaroid che non sapevo dove mettere a sviluppare (lanciate tutte più o meno in terra per poi raccattarle post lavoro), pellicole, ecc. Questo dal punto di vista logistico. Da quello pratico se possibile è andata anche peggio: viziata dall’autofocus della digitale, unito alla mia cecità che continuo a ignorare, ho avuto qualche difficoltà nella messa a fuoco. Poi si sa, i cavalli mica stan fermi, neanche a chiederglielo, e questo è stato il secondo problema. Si muovono, tanto e son veloci, infatti si scatta a tempi velocissimi (da 1/800 a salire). Peccato che la Mamiya arrivi a 1/400. Attrezzatura sbagliata, situazione sbagliata. Che faccio, mi arrendo? No. Fatti furba, mi son detta, e mi sono fatta aiutare da due ballerine, Silvia e Valeria, bravissime. Di cavalli in libertà non se ne parlava proprio, bisognava trovare un modo per tenerli più o meno fermi. E questo è il risultato. Dal punto di vista mio invece, la soddisfazione è stata tanta, tantissima. Giusto per ricordarmi che per scattare ci vuole testa, cuore e immaginazione. L’attrezzatura, sì, è un aiuto, ma probabilmente meno necessaria di quanto si creda.
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I won’t tell you exactly how it went, mostly because I’d like to keep my dignity (and I hope the person who witnessed it will carry the secret to his grave). People talk a lot about equipment and technique and about how important they are. I don’t agree, because you can tell a story with anything, the idea will be clear anyway. However, I had always thought that in certain genres of photography equipment was central to telling the story: for example in sports photography or in what I do, horses. But it was something I’d never confessed to anyone but myself. I’d wanted to photograph horses on film for a while, to challenge myself, for curiosity, because of the value film gained when it began to disappear. I thought about it a lot, because the Mamiya I have at home seemed really inappropriate. And now I’m sure it is. I was more keen on an analogue sports Nikon, for example an F4, or another medium format camera, easier to use than my Mamiya. But in the end, that was what I had. From a logistic point of view it was definitely hard and tiring to walk around the woods and the stables with a tripod, the camera, polaroids which I didn’t know where to put to develop (I ended up throwing them more or less on the ground and picking them up again at the end), film, etc. From a practical point of view it was even worse, if possible: being spoilt by the autofocus of my digital camera and being short-sighted (which I continue to ignore), I had some trouble with the focus. Then, horses don’t stay still, not even if you them kindly, and this was the second problem. They move a lot and they move fast, in fact you use a shutter speed of at least 1/800 of a second. But my Mamiya only reaches 1/400 of a second. Wrong gear, wrong situation. What do I do, give up? No. Be clever, I told myself, and I got to excellent dancers, Silvia and Valeria, to help me. I couldn’t consider to have the horses be free, I had to find a way to keep them as still as possible. And this is the result. From my point of view, instead, the satisfaction was enormous. It reminded me that photography needs thought, passion and imagination. Equipment surely helps, but probably less than what you think.
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A TEENAGER WITH HER ROLLEIFLEX a photo essay by Marta Sanders
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