Grit Magazine Issue 3

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Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas Art Director Andrea Basile Contributors Simone Angioletti Giorgio Bonaguro Camilla Bovati Brian Finke Alessio Matteucci Andrea Tomas Prato Marta Sanders Dario Sonatore Florent Tanet Melis Yalvac Design Guest Eddie Figueroa Feliciano Graphic Project ABS Translation Marta Sanders

Cover photo Andrea Basile Flexibility Designer Blume designblume.com Cover model Ilaria Pozzi

informal magazine issue3


sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Flessibilità mentale/ mental flexibility di Andrea Basile

48 > Fotografia/photography Composizioni cromatiche/ chromatic composiion di Florent Tanet

102 > Fotografia/photography Quasi da solo/ almost alone di Alessio Matteucci

06 > Fotografia/photography Typography in photography/ tipografia nella fotografia di Andrea Basile

62 > Fotografia/photography Marmellata di carnevale/ the carnival jam di Dario Sonatore

116 > Fotografia/photography Servizio in punta di piedi/ tiptoe shooting di Simone Angioletti

18 > Fotografia/photography Donne fuori dal comune/ uncommon women di Brian Finke

78 > Fotografia/photography Le finestre segrete di Parigi/ Paris secret windows di Andrea Tomas Prato

128 > Fotografia/photography L’angolo del teenager/ tennage corner di Camilla Bovati

32 > Fotografia/photography Più veloce del ghiaccio/ faster than ice di Melis Yalvac

92 > Design Intervista a Eddie Figueroa Feliciano/ Eddie Figueroa Feliciano interview a cura di Giorgio Bonaguro


nonEditoriale


flessibilità mentale

mental flexibility

Ieri ho fotografato una ragazza su una moto, oggi ho fatto un video alle nuvole nel cielo, domani fotograferò delle maniglie ed andrò ad insegnare i rapporti di reciprocità in un liceo scientifico. Nel frattempo ho preparato una ventina di disegni vettoriali per una azienda e interpolato una fotografia (non mia) per un’altra. Un designer mi ha chiesto un ritratto ed alcuni scatti di stil life dei suoi progetti, una fotografa mi ha chiesto di montare un video di backstage di un suo servizio. Il lavoro c’è, in base alla propria flessibilità, si intende. La mia generazione, quella nata insieme agli anni ottanta, si trova nella posizione professionale di mezzo fra il maestro e l’allievo. L’ago della bilancia spinge forte dalla parte della schiera degli allievi, complici le nostre insicurezze ed il retaggio culturale italiano nel quale noi stessi facciamo fatica ad incasellarci, facendoci grandi coi piccoli e piccoli coi grandi. E’ probabilmente utopistico pensare al nostro mestiere come quello che ci accompagnerà per il resto della vita professionale; sicuramente per molti di noi non sarà l’unico. Imparare a declinare le conoscenze acquisite anche in altri settori e di conseguenza acquisire più capacità è di vitale importanza oggi più di ieri, se si vuole ancora parlare di domani.

Yesterday I photographed a girl on a motorbike, today I made a video of clouds in the sky, tomorrow I’m going to photograph some handles and teach high school students technical rules. In the meantime I’ve prepared about twenty vector drawing for a company and interpolated a photo (not mine) for an other. A designer asked me a portrait and some still life photos of his projects, a photographer asked me to put together a backstage video of one of her shootings. There is work, obviously according to one’s flexibility. My generation, the one born with the eighties, is in the professional position between the teacher and the student. Our lack of self-confidence and the Italian cultural heritage we struggle to sort ourselves in, acting big with the small and small with the big, shifts the pointer towards the group of students. It’s probably unrealistic to think at our job as the one that we’ll do for all our professional life; surely for many of us it won’t be the only one. Learning to grade the knowledge gained in other fields, and thereby learn to do new things is of vital importance today, more than yesterday, if you want to keep talking about tomorrow.

Grit è al suo terzo numero ed è per me un bel primo traguardo; abbiamo dato spazio a noi stessi in primis e ci è piaciuto gongolarci un po’ proclamandoci fotografi e scrittori delle nostre cose, autorizzati a pubblicare da noi stessi. Per questo ho deciso di provare a fare il passo successivo: chiedere contributi a professionisti non italiani e già affermati. La risposta è stata splendida come supponevo, tolto il mantello di superiorità di molti italiani, tolto il “quanti followers avete” di altrettanti connazionali, ho trovato risposte splendide nei fotografi che lavorano all’estero e che mi piacciono molto. Nelle prossime pagine di Grit troverete noi e loro, aperti al confronto ed al dialogo, dallo quadrato americano in luce mista del newyorkese Brian Finke e il delicatissimo lavoro compositivo e cromatico di Florent Tanet. Con questo piccolo passo Grit continua la sua giovane missione, quella di presentare a chi ci legge quello che siamo e molte volte quello che ci piacerebbe diventare. Nel suo essere una semplice raccolta di portfolio, Grit è un insieme di fotografi che amano quello che fanno, per questo e solo per questo ci prendiamo la licenza poetica di dedicare questo terzo numero a Gabriele Basilico, maestro di quelle che sono le nostre ambizioni più mature e nascoste: Avere una grande storia da raccontare. Andrea Basile

Grit is at it’s third number and to me it’s a good first goal; we gave space to ourselves first of all, and we enjoyed calling ourselves photographers and writers of our own things, authorized to published by ourselves. This is why I tried to take the next step: ask international and already well-known professionals their contribution. The answer was wonderful as I had assumed; without the arrogance of some Italians who think they’re superior to everyone else, and without the “how many followers do you have” said by the same Italians, I found lovely replies by photographers who work abroad and whom I like very much. In the next pages of Grit you’ll find us and them, open to comparison and dialogue, from New Yorker Brian Finke’s square format with mixed light to, soon, Florent Tent’s delicate, chromatic and composition work. With this small step, Grit continues its young purpose, to show the readers what we are and often who what we would like to become. Simply being a collection of portfolios, Grit is a group of photographers who love what they do. Because of this, and only because of this, we allow ourselves to dedicate this third issue to Gabriele Basilico, teacher of those things that are our most mature and hidden ambitions: to have a great story to tell.

not Editorial


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in photography

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IL MIO TRIBUTO ALLA TIPOGRAFIA D’AUTORE fotografie e testi Andrea Basile

Mi ricordo con incredibile precisione la prima volta che ho incontrato la tipografia. Frequentavo il primo anno di scienze giuridiche a Milano e un giovedì sera alle 22 e 30 ero seduto in una stanza con un macbook da 17 pollici ed x-press aperto. Il mio primo lavoro è stato quello di inserire dei codicidentro a delle griglie. Numeri bianchi su fondo grigio, mi sentivo figo. Erano delle pagine tecniche di un catalogo, la cosa più noiosa che ci possa essere, ma per me era Eldorado. Il problema si è presentato quando, per errore, ho ingrandito la pagina al 400 percento e tutti i testi, diventati macroscopici, si sono presentati in tutte le loro curve e rette: il Frutiger visto da vicino era ancora più bello che visto da lontano. Da quel giorno sono passati una decina d’anni e alla grafica ho accostato anche altre discipline che oggi fanno parte del mio piccolo bagaglio di esperienze. La passione per il lettering (Bodoni in questo caso), la fotografia e la pazienza necessaria per concludere un alfabeto tipografico con dei fili d’erba hanno dato vita al mio progetto “green grass alphabet”. In fase di progetto avevo prima di tutto pensato di eseguire il tutto usando un font “bastoni” così da fare il verso alla tipografia di Grit, ma ripassando i vari font ho trovato più interessante complicarsi la vita e celebrare nel mio piccolo Giovanni Battista Bodoni, tipografo del XXVIII secolo, che ci ha lasciato in eredità (fra le altre cose) il Bodoni con le sue deliziose “grazie”. Ad onor del vero, questo progetto, più che fotografico, è un progetto di calma e pazienza. Grazie a questo lavoro ho placato l’istinto dello scatto compulsivo a raffica, sebbene la tentazione di un “work in progress” fosse sempre in agguato. Mi è piaciuto molto affrontare il concetto di scatto fotografico riportandolo all’istantanea come conseguenza del lungo lavoro di composizione. In realtà so bene che tutto questo sia la norma, la fiera delle ovvietà, ma se posso vestire i panni del buon consigliere per quelli che hanno appena comperato una reflex, ben venga! E mi torna in mente la critica del buon Berengo contro i manifesti che recitavano: “Non pensare, Scatta!”. Come disse lui, sarebbe il caso prima di pensare per un paio d’ore, poi eventualmente... scattare!

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I remember very clearly the first time I met typography. I was in my first year of law at the University of Milan and on Thursday evening and half ten I was sitting in a room with a 17 inches Macbook and x-press. My first job was to insert codes in some grids. White numbers on grey background, I felt cool. They were technical pages of a catalogue, the most boring thing ever, but to me it was Eldorado. The problem appeared when I zoomed the page at 400% by accident and all of the text became huge and showed themselves in all their curve and straight lines: Frutiger seen closely was even more beautiful than seen from a distance. It’s been about ten years since that day, and I’ve put some other branches of knowledge besides graphics that now are part of my small baggage of experiences. My passion for lettering (Bodoni in this case), photography and the patience needed to make a typographic alphabet with blades of grass gave life to my “green grass alphabet” project. While developing the project, I’d thought of doing it with a “sticks” font, to mimic Grit’s typography, but looking at all the fonts, I thought it would be more interesting to complicate my life and celebrate in my own small way Giovanni Battista Bodoni, typographer of the XVIII century who, amongst many other things, passed on the Bodoni with its grace. In reality this project is more about calm and patience than about photography. Thanks to this project I refrained the instinct of shooting compulsively and non-stop, even though I was often tempted to show a “work in progress”. I’ve always liked engaging the concept of a photograph taking it back to an instant as consequence of the long process of composition. In reality I know well that this is normal, the fair of the obviousness, but if I can be the good advisor for those who have just bought a dSLR, this is it! And I remember the criticism of Berengo to the ads that said: “Don’t think, shoot!”. As he said, it’d be better to think for a couple of hours and then maybe shoot!


a green grass Bodoni alphabet grit 9


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special All images _ Courtesy of the artist and ClampArt, New York City

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uncommon women the photo essay by Brian Finke

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INTO THE FINKE’S FLIGHT ATTENDANT SERIES Testo/text Alix Browne Brian Finke spent two years flying around the world — without any real sense of destination — logging what must have amounted to hundreds of thousands of miles, to photograph the lives of international flight attendants both on duty and off. That he was able to do so in a security delay/lost baggage/lack of service/post-9/11-world says as much about his ambitions as a documentarian of contemporary culture as it does about his patience and charm as a human being. A previous body of work found Finke trailing exuberant squads of American cheerleaders and football players — a project for which he no doubt spent a lot of time on busses. In the flight attendants, the photographer has discovered another nomadic tribe, distinguished by its own language, mannerisms, and uniforms. But what struck Finke most were not the differences between these two seemingly disparate groups, but rather the similarities — in their efforts to maintain the front of camaraderie, in their performance of choreographed activities, in their elaborate codes of appearance. The personification of the glamour and promise of a world in which people soar through the air – a gin-andtonic in hand – from point a to point b, flight attendants have long occupied a privileged spot in the minds of both air travelers and the airline industry itself. The very first stewardesses (as they were called well into the 70’s) were registered nurses, hired as an experiment in May of 1930 by Boeing Air Transport under the leadership of Ellen Church who had approached the company with the dream of becoming a pilot. These industry pioneers were uniformed to exude a sense of both caring and competence (hats, capes) and cast as much for their skills as their physiques—the reasoning for which was, apparently, as pragmatic as it was aesthetic. Stewardesses had to be tall enough to reach overhead lockers with ease, yet petite enough to navigate confined cabin quarters and narrow aisles. They also had to be single enough so as not to elicit calls from perturbed husbands wanting to know why dinner was not on the table. In those early days of commercial air travel a flight from San Francisco to Chicago in a 12-seat biplane minimally retrofitted for human transport could reportedly take 20 hours and include as many as 12 stops for 20 grit

refueling of aircraft, crew and human cargo. It is testament to the grasp the dream of travel by air has had on the popular imagination that people didn’t just walk. In its heyday, the job of stewardess (with a mandatory retirement age of 35 upheld through the 60’s it could scarcely be thought of as an actual career) was second only to that of Hollywood starlet in terms of allure. Being a stewardess was a direct route to broader horizons—like a good marriage. (The profession in fact boasts numerous models, actresses and Miss America candidates among its ranks.) Airfares were subject to government regulation until 1978, and as the industry grew, carriers began to recognize the value of their flight crews to help distinguish them from their competition. Uniforms came to reflect fashion trends – miniskirts, hot pants, cat suits – or were commissioned by well-known fashion designers like Bill Blass, Emilio Pucci, or the French couturier Pierre Balmain who was hired to update the look of the Singapore Girl in the early 1970’s. Cheeky ad campaigns like Continental’s “We Really Move Our Tails For You,” hinted at the level of service one could expect to encounter in the oh-so-friendly skies. Women who might have been attracted to the job because of this very image of glamour, freedom and independence, found that it ultimately served to undermine their authority and compromise their ability to perform their duties. The old adage about Ginger Rogers, and how she could do everything Fred Astaire did only backwards and in high heels, is implicit in the flight attendants’ plight. As Kathleen M. Barry, the author of Femininity in Flight: A History of Flight Attendants (Duke University Press), observes, “From the first job interview onward, stewardesses were expected to remain perfectly groomed, maintain a willowy figure, and conjure an unending supply of cheer and concern for passengers.” Fighting for wages commensurate to their skills and to be taken with a level of seriousness on par with their professional responsibilities, flight attendants eventually found themselves at the center of feminist debate. “I don’t think of myself as a sex symbol or a servant,” went the common defense. “I think of myself as somebody who knows how to open the door of a 747 in the dark, upside down, and in the water.” And yet, in one particularly telling image from 1965, TWA stewardesses


Brian Finke

protesting for better pay and shorter hours look like an advertisement for the airline — immaculately uniformed, coiffed, made up — smiling! — picket signs clutched in their gloved hands. In a time of both marked increases in security and decreases in service, modern day travelers are hardly in the position to be picky when it comes to which airline has the prettiest flight attendants or the nicest uniforms. The hope is that you, and perhaps even the bag you checked, arrive at all. Today’s flight attendants remain, by and large, a civilizing force, a literal reminder to fasten your seatbelt and raise your tray table, but also a symbolic one that we intrepid travelers are more than just human cargo – well, at least until the 500-passenger Airbus A380 officially takes to the skies. In that respect, neither their social role — nor their image — has changed all that dramatically. Many of the airlines Finke frequented are from countries that continue to perpetuate the stereotype of the unflappably glamorous flight attendant not to mention that stereotype’s attendant nostalgia for the golden days of air travel. Flight attendants from Cathay Pacific, Air Asia, All Nippon, and Icelandair seem from another era when compared with those Finke encountered on, say, Jet Blue or Hawaiian Airlines. The fact that Cathy Pacific had reinstated its iconic red uniforms in honor of its 60th anniversary might have something to do with this. But Singapore Air still actively promotes the charms of the Singapore Girl, lauded for engendering Asian values and hospitality and whom the airline likes to think of as caring, warm, gentle, elegant and serene. Throughout Finke’s flight attendant series, there are glimpses of what air travel has in fact has become. Take, for example, the democratizing attempts of Southwest Airlines where the class hierarchy has been abolished and every day is casual Friday. Or the ill-conceived (and thankfully short-lived) in-flight entertainment concept, Hooters Air, where the uniform of orange short-shorts and a tight white T-shirt emblazoned with the company logo brings the idea of casting flight attendants to meet certain size requirements to an entirely new level. In Finke’s photograph, the Hooters air-hostess holds the microphone to the public address system as if she is not quite sure what to do with it. (Somewhat reassuringly, the airline also employed “real” safety-trained flight attendants who were

recognizable as such by their more modest attire.) A photo of a young flight attendant for Tiger Airways (a no-frills carrier based in Singapore) practically hurling a plastic container containing a sad looking sandwich will come as an all too familiar sight to today’s budget traveler. Finke’s approach in photographing these women — and the occasional man — is neither nostalgic nor unduly ‘real.’ He neither glamorizes his subjects nor does he portray them in the glaring, unforgiving light that many of us have come to understand as documentary. For the most part, it is the flight attendants themselves who appear to cling to the glamorous promise of their profession (there are few beauty pageant contenders here; though one Southwest flight attendant is a part-time saleswoman for Mary Kay Cosmetics). We catch these women in their choreographed moments, familiar to the point of being generic – demonstrating safety procedures, smiling and waving as if in an advertisement. But Finke reminds us of their individuality, too. A candid photo of a red-uniformed Cathy Pacific flight attendant shopping for a toothbrush in a company store, could be accompanied by a caption ripped from the celebrity tabloids: Flight Attendants — they’re just like Us! If, on occasion, a particular image comes across as slightly surreal – and here the photo of an Icelandair flight attendant in training, perfectly composed and not a platinum blonde hair out of place as she blasts a fire extinguisher at an overhead bin comes to mind – it is perhaps because no matter how commonplace the experience air travel has become, flying is still something that inspires a certain degree of awe. Finke’s photos contain in them the every excruciating minute of the18-hour haul from New York to Hong Kong. And yet, he somehow emerges with his illusions mostly in tact. Even as we stand by and watch as the flight attendants shop for toiletries or grab a meal in the company cafeteria, or return home to the lives many of us cannot even begin to imagine they have, they maintain, in his photos and in our minds, their quintessential flight attendant-ness. It is as if we, and they, only exist in that unnatural vacuum-sealed experience, where even as you find yourself hurtling through the sky 36,000 feet above the earth at 600 miles an hour, time seems to stand perfectly still. grit 21


Brian Finke ha passato due anni viaggiando in aereo per il mondo – senza una vera destinazione – percorrendo quelle che devono essere state centinaia di migliaia di miglia, per fotografare le vite di assistenti di volo internazionali, sia al lavoro che non. Il fatto che sia riuscito a farlo in un mondo di ritardi dovuti ai controlli di sicurezza/ bagagli persi/ carenza di servizi post 11/9 mostra le sue ambizioni di essere un documentarista della cultura contemporanea tanto quanto la sua pazienza e il suo fascino come persona. Un progetto precedente ha visto Finke seguire esuberanti gruppi di cheerleader e giocatori di football americani – un progetto per il quale ha senza dubbio passato molto tempo su pullman. Nel progetto degli assistenti di volo, il fotografo ha scoperto un’altra tribù nomade, contraddistinta per la sua lingua, per le sue abitudini e le sue uniformi. Ma quello che ha colpito di più Finke non sono state le differenze tra questi due gruppi, apparentemente diversi, ma piuttosto le loro somiglianze – nei loro sforzi di mantenere lo spirito di squadra, nelle loro coreografie, nei loro elaborati codici di aspetto. Gli assistenti di volo, la personificazione del glamour e la promessa di un mondo in cui le persone viaggiano nell’aria – un gin-and-tonic in mano – dal punto A al punto B, hanno a lungo occupato un posto privilegiato sia nelle menti dei viaggiatori sia in quelle dell’industria del trasporto aereo stessa. Le primissime hostess erano infermiere, assunte come un esperimento nel Maggio del 1930 da Boeing Air Transport sotto la guida di Ellen Church, che si era messa in contatto con l’azienda con il sogno di diventare pilota. Queste pioniere dell’industria sono state vestite con uniformi per trasmettere sia un senso di cura sia di professionalità (cappelli e mantelle) e per esprimere tanta abilità quanta prestanza fisica – il ragionamento era pragmatico ed estetico. Le hostess dovevano essere abbastanza alte per raggiungere gli scompartimenti sopra i sedili senza difficoltà, ma allo stesso tempo abbastanza minute per muoversi in piccole cabine e stretti corridoi. Dovevano essere anche abbastanza single perché non ricevessero chiamate di mariti preoccupati che chiedessero perché la cena non fosse in tavola. In quei primi tempi, un volo da San Francisco a Chicago su un biplano a 12 posti leggermente modificato per il trasporto umano, a quanto si dice, poteva durare 20 ore e poteva includere 12 fermate per rifornire l’aereo, l’equipaggio e i passeggeri. È la 22 grit

dimostrazione dell’impatto che ha avuto il sogno di viaggiare per vie aeree sull’immaginario popolare che ha creduto che le persone non potessero solo camminare. Nella sua età dell’oro, il lavoro di hostess (con l’obbligo di pensione a 35 anni decretato negli anni ’60 non poteva essere considerato come una vera professione) era secondo solo a quello delle star di Hollywood in quanto ad attrattiva. Essere un’hostess era una via diretta per allargare i propri orizzonti – come un matrimonio vantaggioso. (Il lavoro infatti poteva vantare tra le sue fila numerose modelle, attrici e candidate a Miss America). I prezzi dei voli erano soggetti ai regolamenti del governo fino al 1978, e con il crescere dell’industria, le compagnie aeree iniziarono a riconoscere il valore dei loro equipaggi per distinguersi dalla concorrenza. Le uniformi iniziarono a riflettere le mode – minigonne, pantaloncini corti, tute intere – o ad essere commissionate a famosi stilisti, come Bill Blass, Emilio Pucci, o come il francese Pierre Balmain, che fu assunto per rinnovare l’aspetto della Singapore Girl all’inizio degli anni ’70. Campagne pubblicitarie impudenti come quella della Continental “Davvero scondizoliamo per voi” lasciavano intendere il livello di servizio che ci si poteva aspettare nei cieli oh-così-amichevoli. Donne che erano attratte da questo lavoro proprio per l’immagine di glamour, libertà e indipendenza, scoprirono presto che in realtà quelle stesse caratteristiche indebolivano la loro autorità e ostacolavano lo svolgere i loro compiti. Come osserva Kathleen M. Barry, autrice di ‘Femininity in Flight: A History of Flight Attendants’ (Duke University Press), “Dal primo colloquio di lavoro in poi, ci si aspettava dalle hostess che rimanessero perfettamente curate nell’aspetto, che mantenessero un fisico slanciato e che mostrassero una infinita quantità di allegria e cura per i passeggeri.” Combattendo per salari proporzionati alle loro capacità e alle loro responsabilità professionali, alla fine le hostess si trovarono al centro del dibattito femminista: “Non penso di me stessa come a un sex symbol o una serva” era la difesa ricorrente. “Penso di essere qualcuno che sa aprire la porta di un 747 al buio, a testa in giù e in acqua”. E tuttavia, in un’immagine particolarmente rappresentativa del 1965, le hostess della TWA, che protestano per un salario più alto e un minor carico orario, sembrano una pubblicità della compagnia aerea – impeccabili in uniforme, pettinate, truccate – sorridenti! – con i simboli dello sciopero stretti nelle mani.


In un periodo di notevoli aumenti nella sicurezza e diminuzione nel servizio, i passeggeri dell’epoca moderna non sono nella posizione di scegliere quale compagnia aerea abbia le assistenti di volo o le uniformi più carine. La speranza è di arrivare, possibilmente anche con il bagaglio imbarcato. Gli assistenti di volo di oggi sono, in linea di massima, una forza civilizzatrice, qualcuno che letteralmente ci ricorda di allacciare la cintura e tirare su il tavolino, ma anche una presenza che simbolicamente ci ricorda che noi, audaci viaggiatori, siamo più di un carico umano – beh, almeno fino a quando l’Airbus A380 di 500 passeggeri non prende ufficialmente il volo. Sotto questo aspetto, né il loro ruolo sociale né la loro immagine ha subìto cambiamenti drastici. Molte delle compagnie aeree che ha frequentato Finke sono di paesi che continuano a perpetuare lo stereotipo di hostess imperturbabilmente glamour, per non menzionare la nostalgia dello stereotipo dei tempi d’oro del trasporto aereo. Assistenti di volo della Cathay Pacific, Air Asia, All Nippon e Icelandair sembrano provenire da un’altra epoca, se paragonate a quelle che ha incontrato Finke su Jet Blue o Hawaiian Airlines, per esempio. Il fatto che Cathay Pacific abbia ripristinato le sue emblematiche uniformi rosse in onore del 60° anniversario della compagnia dimostra l’attaccamento a questa immagine. La Singapore Air promuove ancora attivamente il fascino della Singapore Girl, lodata perché generatrice dei valori e dell’ospitalità asiatici e che la compagnia aerea ama pensare come premurosa, cordiale, delicata, elegante e serena. In tutto il progetto delle assistenti di volo di Finke, ci sono scorci di cosa i viaggi aerei siano effettivamente diventati. Si consideri, per esempio, i tentativi di democratizzazione della Southwest Airlines, dove la gerarchia classista è stata abolita e dove ogni giorno si possono indossare abiti informali. O il concetto mal-concepito (e fortunatamente di poca durata) dell’intrattenimento durante il volo di Hooters Air, dove l’uniforme formata da pantaloncini corti arancioni e una maglietta bianca attillata decorata con il logo della compagnia aerea dà l’idea che le assistenti di volo siano assunte per soddisfare alcuni requisiti di taglia fisica, aprendo ad un approccio interamente nuovo. Nella fotografia di Finke, l’hostess della Hooters tiene il microfono dell’altoparlante come se non sapesse bene cosa farsene (è in qualche modo rassicurante che la compagnia aerea avesse assunto anche “vere” hostess

formate in termini di sicurezza che potevano essere riconosciute grazie al loro abbigliamento più modesto). Una foto di una giovane hostess della Tiger Airways (una compagnia senza fronzoli con sede a Singapore) che praticamente scaglia una scatola di plastica contenente un panino dall’aspetto triste sarebbe uno spettacolo familiare per il passeggero economy di oggi. L’approccio di Finke nel fotografare queste donne – e talvolta uomini – non è né nostalgico né eccessivamente veritiero. Non ritrae i suoi soggetti in modo affascinante né nella luce dura e furiosa che molti di noi hanno imparato a conoscere come documentario. Nella maggior parte dei casi sono le assistenti di volo stesse che si aggrappano alla promessa glamour del loro lavoro (qui ci sono alcune concorrenti di concorsi di bellezza; ma in realtà un’hostess della Southwest lavora part-time come venditrice per la Mary Kay Cosmetics). Cogliamo queste donne durante le loro coreografie, tanto familiari da essere generiche – mostrando le procedure di sicurezza, sorridendo e salutando come in una pubblicità. Ma Finke ci ricorda anche la loro individualità. Una foto candida di un’hostess della Cathay Pacific in uniforme rossa che compra uno spazzolino da denti in un negozio aziendale potrebbe essere accompagnata da una didascalia presa dai giornali di gossip: Assistenti di volo – sono proprio come noi! Se per caso un’immagine sembra un po’ surreale – e qui viene in mente la foto di un’hostess dell’Icelandair durante un corso di formazione, perfettamente composta e senza un capello biondo platino fuori posto mentre spegne un incendio in un vano porta-bagagli – probabilmente è perché non importa quanto viaggiare in aereo sia comune, volare è ancora qualcosa che ispira un certo livello di sbalordimento. Le foto di Finke contengono ogni penoso e cruciale minuto del volo di 18 ore da New York a Hong Kong. E tuttavia, in qualche modo lui emerge con le sue illusioni, per lo più intatte. Anche quando restiamo a lato e guardiamo le assistenti di volo comprare spazzolini da denti o un pasto alla mensa aziendale, o tornare a casa alle loro vite, molto di noi non possono neanche immaginare che hanno e mantengono, nelle sue foto e nelle nostre menti, il loro tipico atteggiamento da hostess. È come se noi e loro esistessimo soltanto in quell’esperienza innaturale e sigillata, dove anche se stai sfrecciando nell’aria a 36.000 piedi di altitudine a 600 miglia orarie, il tempo sembra essere perfettamente fermo. grit 23


All images _ Courtesy of the artist and ClampArt, New York City 24 grit


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FASTER THAN ICE

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IL RITRATTO DI UN CAVALLO

fotografie e testi Melis Yalvac

Non solo cavalli… oppure, un sacco di cavalli! Rinchiusi dentro a un motore, per carità, ma pur sempre cavalli sono. E poi c’è la neve, a Madesimo. I due elementi bastano per farmi fare la levataccia alla mattina e sfidare il freddo (che per inciso, ribadisco, ODIO). Ovviamente, sfigata come sono, non sono per nulla fortunata con il meteo.

Not only horses, but horsepower. And there’s snow, in Madesimo. The two things combined are enough for me to wake up early and challenge the cold (which, by the way, I HATE). Obviously, unlucky as I am, I’m not fortunate at all with the weather. It’s a grey day, it’s cold and it’s slightly snowing.

Grigiume, freddo, nevischio.

The event was organized by Patentando, that made cars with studded tyres and Extreme Team’s iced track available to those who wanted to try the thrill of driving a car on the snow that won’t go straight even by mistake. There were also a lot of people with their own cars. The situation was really stimulating, also because, unlike at shootings on tracks, I had access to the hole racetrack without having to fight against commissioners, since there weren’t any. It would be an offence not to do some healthy panning. And then, since I’m not a detail maniac, panning on details. I experimented in my own way for on hour or so, using shorter and longer shutter speeds; in the end, snow sent flying by tyres isn’t something you see every day, or at least I don’t, since I live in Milan and my best ambition is a grandpa going to do the shopping with his economy car even though it’s snowing. In the meantime the cold not only invaded my bones, but had some unpleasant effect on my camera, so I couldn’t change the shutter speed. I was stuck at 1/20s. I wanted to do panning, so panning let it be. Then I decided to risk a little more and stand at a meter from the track and shoot with the 24mm, just before a 90° bend, ready to run away if the ice overcame the driver. I have to admit I was a bit anxious, a bit like when you photograph free horses, you never know whether something very big and heavy is going to crush you on the ground or not. Meanwhile the camera started working properly again and I can keep playing. In the afternoon it started snowing. Joy! Se snow that fell on the track was immediately sent Flying by the cars turning, making the photographer and the camera, who at the end of the event was a bit tired and full of snow, happy. At the end of the day I was frozen, but satisfied with what I’d done and with still being alive. It was a good excuse to step away from the Hairy Ones for once. And I was forgetting a very important detail! Chiavenno pizzoccheri (kindly offered for lunch), are one of the best things I’ve ever eaten. Burb!

L’evento è organizzato da Patentando, che mette a disposizione delle auto con gomme chiodate e la pista ghiacciata dell’Extreme Team alle persone che vogliono provare il brivido di guidare con la macchina mai dritta neanche per sbaglio sulla neve. E poi ci sono parecchi privati con mezzi propri. La situazione è proprio stimolante, anche perché a differenza dei servizi in pista, ho accesso a tutto il circuito senza dover per forza dover fare a cazzotti con i commissari, che a Madesimo non ci sono. Sarebbe un delitto non fare un po’ di sano panning. Poi, dato che sono una maniaca dei dettagli, panning ai dettagli! Eccheccazzo. Per un’oretta mi diletto in esperimenti melissiani, anche salendo con i tempi; alla fine, la neve sparata su dalle gomme non si vede tutti i giorni, per lo meno io, che vivo a Milano, dove al massimo posso ambire al vecchietto con la Punto che va a fare la spesa nonostante la neve, non lo vedo tutti i giorni. Nel frattempo il freddo, oltre ad aver invaso le mie ossa, ha anche avuto qualche effetto antipatico sulla mia macchina fotografica. Tipo che non va più la ghiera per regolare i tempi, tipo. Sono bloccata su 1/20s. Volevo il panning eh? Mò pedalo. Decido di osare di più, mi avvicino a un metro dalla pista per scattare con il 24mm, poco prima di una curva a 90°, pronta a schizzar via in caso il ghiaccio scivoloso dovesse aver la meglio sul pilota, anche perchè alla curva, ci arrivano di traverso. Devo ammettere che ero un po’ in ansia, come quando si scatta con i cavalli in libertà, non sai mai se qualcosa di molto grosso e pesante ti asfalterà sul terreno o meno. Nel frattempo la macchina fotografica riprende a funzionare al 100% e io posso continuare a giocare. Al pomeriggio inizia a nevicare. Gaudio! La neve che si deposita sulla pista ghiacciata viene immediatamente tirata su dalle auto che girano, rendendo felice fotografa e macchina fotografica, che però a fine evento ne esce un po’ provata e piena di neve. Io, invece sono ibernata, ma soddisfatta per quanto portato a casa e soprattutto intera. È stata una buona scusa per staccare dai Pelosi per una volta. Dimenticavo, dettaglio importantissimo! I pizzoccheri chiavennaschi (gentilmente offerti a pranzo) sono una delle cose più buone che io abbia mai mangiato. Burb! 34 grit


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chromatic compositions by Florent Tanet

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“A Colorful Winter” è il nuovo progetto di Florent Tanet. Questa fresca serie di immagini di commune frutta e verdura è organizzato prima in pattern grafici, successivamente in sculture e still-life. Le foto mostrano che anche se non sarebbe accettabile, la cucina è un posto dove giocare per chi cucina o chi mangia. Gioca con il cibo, prima di fare un’insalata o un piatto. Queste foto sono il risultato di gourmet fatto per gioco. Alla fine non vediamo mele, pere o carote, ma sculture, disegni o fantasie, ed è questo aspetto poetico del gioco a renderlo interessante. “A Colorful Winter” is a new series of works by photographer Florent Tanet. This refreshing series of images of common fruits and vegetables is arranged into graphic patterns, successively sculptures and still lives. Photos show that even if this is not acceptable, the kitchen is a playground for the cooker or the eater. He play with food, before making a salad or a dish. These photos are the result of a game time gourmet. In the end, we do not see apples, pears or carrots but sculptures, drawings or patterns, it’s this poetic aspect of the game that is interesting. 50 grit


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ARANCE MESSE IN FREEZER PER FARE MALE fotografie e testi Dario Sonatore Ad Ivrea, nelle prime settimane di febbraio, va in scena tutti gli anni lo Storico Carnevale di Ivrea, una manifestazione che vede scatenarsi centinaia di migliaia di persone, in una vera a e propria battaglia senza esclusione di colpi: “la battaglia delle arance”. Arrivato ad Ivrea, mi accorgo subito che il borgo è molto più carino di quello che mi aspettassi: la Dora Baltea divide il paese e lunghi viali alberati la costeggiano trasportando dolcemente un fiume di berretti frigi. I colori predominanti sono i rosso e il verde: il verde proprio perché la città è immersa nella natura, mentre il rosso a causa dei costumi locali e delle tonnellate di arance stipate nelle casse ai bordi delle strade pronte per essere usate come munizioni letali. Addirittura si mormora che alcune di queste nove fazioni, che si scontrano ogni anno tra loro, lascino le arance a congelare la notte all’aperto per renderle più dolorose! Che sia vero o falso, questo non ci è dato saperlo, ma gli occhi gonfi e i nasi sanguinanti che si vedono aggirarsi per la città alla fine delle battaglie qualche sospetto me lo lasciano. Lo Storico Carnevale d’Ivrea è l’unica manifestazione carnevalesca al mondo che mantiene le sue origini medioevali. Infatti tutte le altre manifestazioni, come quelle di Venezia o di Viareggio, hanno origini molto più recenti. Anche per questo motivo gente da ogni parte del mondo viene per poter vedere questo spettacolo. Questa manifestazione risale al periodo medievale e rievoca, in un misto tra leggenda e realta’, la ribellione del popolo alla tirannia del barone scoppiata in seguito all’opposizione della figlia di un mugnaio allo ius primae noctis: ogni anno il popolo riafferma così la sua indipendenza e autonomia dando vita ad uno spettacolo che culmina con la famosa Battaglia delle Arance.

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Every year, in Ivrea, during the first weeks of February, there is the Historical Carnival of Ivrea, an event in which hundreds of thousands of people have a noholds-barred fight: “the orange fight”. As soon as I got to Ivrea I figured the town was much prettier than what I’d thought: the Dora Baltea divides it and long tree-lined roads run along it, gently carrying a river of Phrygian hats. The dominant colours are red and green: green because the town is deep in the green, and red because of the local costumes and because of the tons of oranges crammed in boxes at the side of the roads, ready to be used as lethal weapons. Rumour has it that some some of these nine groups who fight every year leave the oranges outside to freeze during the night, so that they become more painful! Whether it is true or false I don’t know, ma the swollen eyes and bloody noses that some people around the town have at the end of the fight leave me some suspicion. The Historical Carnival of Ivrea is the only carnival event that has medieval origins. In fact all the others events, for example Venezia’s and Viareggio’s Carnival, have more recent origins. This is an other reason people from all over the world come to see it. This event retraces, in a mix of legend and reality, the rebellion of the community to the baron’s tyranny that started when the daughter of a miller opposed herself at the ius primae noctis: every year the community reaffirms its independence and autonomy, giving life to an event whose climax is the famous Battle of Oranges.


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Paris secret windows

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SPIO NELLA MIA PARIGI

fotografie e testi Andrea Tomas Prato

Sinonimo di finestra è “apertura”; amo questo termine e mi piace rivedermi in questo termine e rivedere il mio percorso attraverso una finestra. Per anni, da bambino, ho vissuto in un condominio posto in faccia ad un altro condominio. Ricordo che affacciarsi alla finestra, significava guardare cosa succedeva di fronte. Amavo guardare attraverso le finestre dei dirimpettai. Quelle aperture offrivano frammentarie scene di vita che chiudendo gli occhi ancora mi sembra di rivivere. Stavo alla finestra e guardavo delle finestre. Un gioco speculare che correlava queste cornici domestiche che assumevano un valore che ben oltre andava l’utilitarismo vitale. Ricordo anche benissimo mia madre chiacchierare alla finestra con altre donne, magari sbrogliando faccende domestiche. Da allora, quasi inconsciamente, mi e’ sempre piaciuto, entrando in una casa affacciarmi alle finestre per vedere quale scenario venisse offerto. Allo stesso modo passeggiando per la città, mi succede di curiosare attraverso queste aperture. Quel poco che esse svelano, danno indizi che lasciano immaginare ciò che più’ è nascosto la dentro racchiuso. Crescendo e appassionandomi in ultimo alla fotografia, ho cominciato a guardare, dall’interno verso l’esterno, la finestra come un mirino fotografico. Ogni finestra e l’angolo di città o di paesaggio rappresentato, diventa un’opera in cornice che sembra distaccarsi dalla realtà acquistando un valore unico. I set che prediligo quando fotografo un soggetto, sono quelli familiari e le finestre diventano assolute protagoniste per le atmosfere mutanti che le luci attraverso di esse creano. Ormai da tempo, sono solito non usare tende; lascio filtrare in tutta la sua grazia le luci e dormo di fronte ad una ampia finestra. La mattina appena sveglio il mio sguardo si volge ad essa ed e’ un gesto che mi da tranquillità. Una finestra di giorno lascia filtrare la luce, quasi vada a ricaricare ciò’ che di notte sprigiona, ravvivando gli scenari serali. La casa diventa quindi un guscio di protezione e la finestra e’ la sua fonte di respiro. Quante volte, pensando, riflettendo sulle cose, mi trovo incantato alla finestra volgendo lo sguardo verso l’esterno assorto nei miei pensieri su quella sulla soglia che rappresenta un punto di passaggio tra l’esterno e l’interno, tra quello che siamo e quello che solo vediamo. In un recente viaggio a Parigi, queste considerazioni sulle finestre sono riaffiorate piacevolmente. Per una sua conformazione strutturale e morfologica Parigi mette ben in mostra le molte finestre e gli scatti proposti sono proprio riferite al “mio” viaggio.

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A synonym of ‘window’ is ‘opening’; I love this word, I like to see myself in it and to look back at my journey through a window. For years, when I was a child, I lived in a condominium that faced an other one. I remember that looking out of the window meant watching what was happening over the road, and I loved to do so. Those openings offered disjointed scenes of lives that I still remember if I close my eyes. I used to stay at my window and watch windows. It was a symmetrical game that linked these domestic frames, that took on much more importance than the one of human needs within a home. I also remember perfectly my mother chatting at the window with other women, maybe sorting out some home matters. Since then, subconsciously, I’ve always liked looking out the window to see what you could see, when walking into a house. At the same way, when I walk around a city, I find myself looking through these openings. What they show, even if it isn’t much, gives clues about what is hidden in there. Growing and getting into photography, I started looking from the inside to the outside, and the window is like a lens. Every window and the corner of city or landscape it represents becomes a framed work that takes distance from reality, taking on a unique quality. The locations I prefer to shoot are familiar ones, and windows become the key players of the changing atmospheres created by the light coming through them. It’s been a while since I stopped using curtains; I let the light come in with all its grace and I sleep in front of a big window. When I wake up in the morning, I look at it, and it’s something that gives me peace. During the day a window lets the light come in, nearly as if it refuelled what it lets out during the night. The house becomes a shell and the window its lungs. How many times, thinking, I find myself staring outside a window, bridge between the inside and the outside, between what we are and what we see. In a recent journey to Paris, these thoughts about windows pleasantly came back to me. Paris’ structure underlines well the many windows and these photographs are referred to “my” journey.


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the signportrait

Eddie Figueroa Feliciano a cura di Giorgio Bonaguro E’ nato a San Juan, Porto Rico nel 1978. Si è laureato in Scultura alla Escuela de Artes Plasticas de Puerto Rico. Ha sviluppato tanti progetti nel campo dell’arte plastica e ha partecipato alle mostre: Juxtaposition Art Show in Porto Rico; Small Format Show alla Raices Gallery di San Juan; Bastart Art Show in San Juan; Muestra Nacional all’Istituto de Cultura di Porto Rico; e nel 2005 ha esposto le sue opere alla Traffic Biennal/EXITART in New York. Nel 2009 ha conseguito il master in industrial design alla Scuola Politecnica di Design a Milano. Ha vissuto alcuni hanni a Milano, anni in cui ha collaborato con il designer e critico Marco Romanelli sviluppando molti progetti per importanti aziende del design italiano. Ha sviluppato progetti personali nel campo del design. Ha partecipato agli eventi collegati all’ICFF al Urbano Studio in New York nel 2005 e nel 2010. Nel 2009 ha partecipato con un suo progetto di illuminazione alla mostra Tropical Design in Santurce, Porto Rico. Ha esposto nel 2011 e nel 2012 al Salone Satellite durante il Salone del Mobile a Milano.

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He was born in San Juan, Puerto Rico in 1978. He graduated in Sculpture at the Escuela de Artes Plasticas de Puerto Rico. He developed many projects in the field of plastic arts and he contributed to many exhibitions: Juxtaposition Art Show in Puerto Rico; Small Format Show at Raices Gallery in San Juan; Bastart Art Show in San Juan; Muestra Nacional at the Istituto de Cultura of Puerto Rico; and in 2005 he exposed his work at the Traffic Biennal/EXITART in New York. In 2009 he got a master in industrial design at the Scuola Politecnica di Design in Milan. He lived for some years in Milan, and in this period he worked with designer and critic Marco Romanelli, developing many projects for important Italian design companies. He developed personal projects in the field of design. He took part in the events that had to do with ICFF at Urbano Studio in New York in 2005 and 2010. In 2009 he took part in the exhibition ‘Tropical Design’ in Santurce, Puerto Rico, with his own lighting project. He exhibited at the Salone Satellite during the Milan Salone del Mobile in 2011 and 2012.

Progetto Vieques Il progetto Vieques è la proposta di un riutilizzo dei bunker abbandonati dalla Marina Militare statunitense nel 2003, presenti nella splendida isola di Vieques (Porto Rico). Fin dal 1940 la US Navy si sistema nell’isola per fare pratiche navali ed esercitazioni militari. La Marina, una volta abbandonato il sito, ha lasciato una quantità considerevole di armi, strutture architettoniche militari e altri elementi contaminanti la splendida natura tropicale del luogo, senza curarsi delle persone residenti nell’isola e dell’ambiente. Lo studente Joel Alvarez, in un progetto curato da Eddie Figueroa, Professore della Facoltà di Disegno Industriale di Porto Rico, ha proposto una riconversione di queste aree abbandonate per creare case low cost per gli abitanti dell’isola. Vieques Project The Vieques project is the attempt to reuse the bunkers on the beautiful island of Vieques (Puerto Rico) that were abandoned by US Navy in 2003. Since 1949 US Navy established itself on the island to do square-bashing and naval practices. Once they left, US Navy left a great amount of weapons, military buildings and other elements that contaminate the beautiful tropical nature of the area, without caring for the inhabitants and for the environment. Student Joel Alvarez, in a projects Eddie Figueroa, professor of the Industrial Design Faculty of Puerto Rico, took care of, tried to reconvert these abandoned areas to create low cost houses for the inhapitants of the island.


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“Eddie Figueroa progetta un oggetto lampada attravers dal contenuto. Il primo, di matrice artigianale, “veste”, di matrice strettamente industriale. L’approccio appare appieno ad una realtà contestuale profondamente dive necessariamente semplificata, viene scorporata da quell Viceversa il designer si occupa di portare nell’universo c su cui, allo stato attuale delle cose può realmente e signi Pur nell’estetica minimalista adottata rimane evidente che a quelle offerte votive scavate nelle zucche o nelle no Ne risulta in definitiva un oggetto concettualmente fort un’atmosfera accogliente e aggiornata.”

Eddie Figueroa designs a light object through a proce the content. The first, of handcraft origin, ‘dresses’ th is of strictly industrial origin. The approach is partic a deeply different context than western reality: the tec from the formal one and acquired as a semi-finished project’s controlled universe that portion of the object of things, the lampshade. Although the aesthetics is m or to votive offerings that were digged in pumpkins o inside. The final product is a conceptually strong ob on creating a welcoming and modern atmosphere. Marco Romanelli


so un’operazione di scomposizione del contenitore , con un’operazione di taglio e cucito, il secondo, particolarmente significativo poiché l’oggetto risponde ersa da quella occidentale: la parte tecnologica, la formale e acquistata come semi-lavorato. controllato del progetto quella porzione dell’oggetto nificativamente incidere, ovvero il paralume. un riferimento alle maschere rituali piuttosto oci di cocco, svuotate e illuminate dall’interno. te, ma che tuttavia non rinuncia a creare

edure of deconstruction of the container from he object, with a tailoring approach, the latter icularly significant as the object truly reacts to chnological part, necessarily simplified, is extracted d product. Viceversa the designer brings in the t he can significantly change in the current state minimalist, there is a clear reference to ritual masks or coconuts, emptied and illuminated from the bject, that at the same time doesn’t give up


Zanco


Zanco


Post-azione


T chair


Foglio


Duo System chair


ALMOST ALONE

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IL MIO RACCONTO DI 450 ANIME ALLEGRE CHE VAGANO fotografie e testi Alessio Matteucci

Racchiusa nella sua forma,espressione del momento storico proprio della sua nascita,Crespi d’Adda, con i suoi 450 abitanti,sembra una scheggia di Lombardia prossima a volatilizzarsi. A salvaguardarne l’immortalità, ai giorni nostri svuotata di significato religioso e metafisico, ha provveduto l’Unesco dichiarandola “patrimonio dell’umanità”. Questa città irreale non l’ho fotografata in un’alba di nebbia, ma in un giorno d’inverno,mentre la luce bagnava le facciate degli edifici che la compongono in una direttrice sviluppata con rigorosa simmetria ,da Pirovano e Brunati,rispettivamente architetto e ingegnere, nel lontano 1878,per volontà di Cristoforo Benigno Crespi. Davanti a queste case cubiche,a queste architetture che potremmo definire “di genere”, vista la temperie culturale della loro nascita che è la rivoluzione industriale inglese, ci si chiede che cosa vi succeda “dentro”. Le si sente come organismi vivi,socialmente sensibili,collocate in uno spazio domestico. Ci si immagina bozzetti di vita ,quiete attività eseguite nel giardino e nell’orto di cui ogni casa è fornito. Questo villaggio operaio invita a travalicare ciò che ha di materico per indagare quanto di criptico esso racchiude. Il trucco dell’arte fotografica sta nel far dimenticare la procedura tecnica dell’immagine,risucchiando l’occhio e mettendolo immediatamente a contatto con le superfici rappresentate. Il colore originale,mantenuto intatto, è valorizzato dalla luce che non è quella sfrontata del Sud,ma dolcemente avvolgente,misurato come la stirpe che vive in queste terre. Lo spazio,poi, scandito dai dadi rosati delle case, è una fuga prospettica ,una spinta verso l’esterno che non è eccessivo intendere come proiezione psicologica della determinazione imprenditoriale,tutta lombarda,per il nuovo. Nell’arte tridimensionale dell’architettura e della fotografia che la celebra,soggetti e osservatore sono nello stesso spazio e non c’è vuoto di esistenza fisica a separarli. 104 grit

Enclosed in its shape, expression of the historical moment its birth belongs to, Crespi d’Adda with its 450 inhabitants looks like a fragment of Lombardy that’s about to vanish. To protect its immortality, that in our days is emptied of religious and ontological meaning, Unesco declared it World Heritage. I didn’t photograph this surreal town in a foggy dawn, but in a winter day, while light showered the façades of the buildings that compose it in a direction developed symmetrically by Pirovano and Brunati, an architect and an engineer, in the far 1878 under commission of Cristoforo Benigno Crespi. In front of these cubical houses, in front of this architecture that could be defined as one of a kind, since the cultural context they were born in is the English industrial revolution, you wander what happens inside them. They feel alive, socially sensitive, within a domestic environment. You imagine every-day life moments, quiet things done in the garden or in the vegetable garden every house has. This 19th century company town to go beyond the material aspect of it to investigate the cryptic aspect it has. The trick of photographic art is make sure the technical procedure is forgotten, the eye is attracted and out in direct contact with the surfaces represented. The value of the original colour, kept intact, is increased by the light, which isn’t the impudent Southern one, but it is wetly enveloping, limited like the inhabitants of this land. The space, then, scanned by the pink patterns of the house, is a vanishing point, an outwards push that can be interpreted without exaggerating like the consequence of the entrepreneurial resolution typical of Lombardy for the new. In the three-dimensional art of architecture and of photography, that celebrates it, what is represented and the observer are in the same place and there isn’t any empty space separating them.


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UNA UNICA SPLENDIDA OCCASIONE NELLA VITA fotografie e testi Simone Angioletti Prima lezione del corso di economia internazionale, il professore entra in aula e dice: “Ragazzi, tre cose dovete imparare da questo corso: che la verità non esiste, che non sapete un cazzo e che la vita è breve e poi si muore”. Ovviamente lo sapevo benissimo che prima o poi sarei dovuto morire, ma fino a quel momento non l’avevo mai CAPITO davvero, ho avuto come una terribile realizzazione. Da quel momento quel pensiero mi è entrato in testa e non sono più riuscito a togliermelo, rimane li, in un angolo. Adesso prova a girarti. Subito dietro di te c’è la morte, la TUA morte, quella che arriverà (già, proprio a te), prima o poi. Puoi provare a far finta di niente, a non pensarci, ma è li. Oppure puoi sforzarti di esserne cosciente e provare a sfruttare questa consapevolezza a tuo favore. Cosa c’entra tutto questo con la fotografia? Lasciamo per un momento in sospeso questa domanda e facciamo un passo indietro chiedendoci: che cos’è una fotografia? Non dobbiamo certo inventare di nuovo la ruota, quindi attingiamo a piene mani dalla semiotica e procediamo subito a definire la fotografia come un indice, ovvero un qualcosa per la cui produzione è necessario che il soggetto rappresentato sia stato, in quel momento e in quel luogo, di fronte all’obiettivo della mia macchina fotografica, e che abbia lasciato un segno, una traccia del suo “essere stato” li. Una fotografia è un ricordo, un attimo di tempo passato congelato. Sempre per citare Barthes, ogni fotografia è un presagio di morte. Penso sia per questo che non mi piace fare ritratti a persone che conosco ma preferisco lavorare sempre con modelle che incontro per la prima volta il giorno stesso in cui dobbiamo lavorare, e che con molta probabilità non rivedrò mai più. In questo modo non mi sto concentrando sulla persona mentre la fotografo, ma soltanto sulla fotografia. C’è sempre un certo senso di dramma durante quei momenti, se ci si fa caso: quante probabilità c’erano che proprio quella modella, quel giorno, avrebbe lavorato con me? Quante cose sarebbero potute andare diversamente? Avrebbe potuto avere un lavoro, e l’agenzia me ne avrebbe mandata un’altra anziché lei. Oppure avrebbe potuto ammalarsi, avrebbe potuto far serata e non svegliarsi la mattina (successo più volte). O ancora, la sua agenzia a Stoccolma decide di mandarla a Parigi anziché a Milano. Ovviamente tutto questo è molto banale, perché questo tipo di ragionamento potrebbe essere fatto per qualsiasi cosa che accade nella vita. 118 grit

Ma è qui che viene il bello, ecco che entra in gioco la fotografia. La giornata di lavoro finisce, e torno a casa a scaricare le foto: è a questo punto che succede la magia. La ragazza che c’è nelle mie foto non è Melinda, lei adesso (sono le 2.30 di notte) starà dormendo nel suo letto in un qualche appartamento a Milano. Quello che cerco nelle mie foto è un ideale di bellezza, non un ricordo, per questo non mi interessa della persona che ho davanti all’obiettivo (almeno, non dal punto di vista di fotografo). Le fotografie che ho davanti non dicono niente di quella che è la vita di Melinda, non mi dicono che studia economia, che ha 22 anni e che è preferisce tirar su col naso anziché chiedermi un fazzoletto (eh si, anche le modelle sono persone, dopo tutto. Magari vanno anche a fare la cacca, anche se questo non l’ho ancora verificato di persona). Queste sono tutte didascalie, eventualmente, ma non sono nella fotografia, pur essendo lei stata in quel momento in quel luogo, esattamente così come la vedete. Per questo la fotografia trascende la morte, oltre ad esserne un presagio. Per il fatto di essere un “messaggio senza codice”, di non fornire spiegazioni oltre a quello che si può immediatamente vedere, si carica di significati nascosti. Detto questo, c’è l’altra faccia della medaglia, molto meno filosofica e molto più pragmatica: ovvero che le foto di una bella ragazza in intimo di solito vendono e vengono sempre molto apprezzate. Quindi senza ulteriori indugi ecco le (banalissime) foto della (bellissima) Melinda.


At my first lesson of International economy, the professor walked in the room and said: “Guys, you have to learn three thing from this course: truth doesn’t exist, you don’t know anything at all, life is short and then you die.” Obviously I already knew I’d have to die sooner or later, but I hadn’t really UNDERSTOOD it up to that day, it was a terrible realization. From that moment on, the thought got into my head and I didn’t manage to get rid of it. It stay there, in a corner. Turn around now. Right behind you there’s death, YOUR death, the one that will happen TO YOU, sooner or later. You can try and pretend it isn’t there, you can try not to think about it, but it’s there. Otherwise you can try and be aware of it and try and use at your advantage this awareness. What has this got to do with photography? Let’s leave a second this question behind and let’s take a step back asking ourselves: what is a photo? We surely don’t have to invent the wheel again, so let’s use semiotics and let’s say photography is an indication, something that to be done necessarily needs someone to be in front of the camera, in that place and in that moment, and it needs someone to leave a mark, a trace of their having been there. A photo is a memory, a frozen moment from the past. To quote Barthes, a photo is always a death prophecy. I think this is why I prefer working with models on the same day I meet them and who I probably won’t ever see again rather than with people I know. This way I can concentrate only on the photo, and not on the person. Those are always quite dramatic moments if you think about it: how many chances were there that you could have worked with that model that day? How many things could have gone differently? She could have had other things to do, and the agency would have sent me an other one. Or maybe she could have been ill, or she could have stayed up late and then didn’t wake up in the morning (it happened many times). Or maybe her agency in Stockholm could have sent her to Paris instead of Milan. Obviously this is all very banal, since you could think the same thing for anything that happens in your life. But this is where it becomes interesting and photography comes into action. The day ends and I go back home and look at the photos: this is when the magic happens.

The girl in the photos isn’t Melinda, Now (it’s 2.30 AM), she’ll be sleeping in her bed in a flat in Milan. What I look for in my photos is an epitome of beauty, not a memory. This is why I don’t care about the person there is in front of the camera (at least from a photographical pint of view). The photos I have in front of me don’t tell anything about Melinda’s life, they don’t tell me she studies economy, that she’s 22 and she prefers sniffing than asking me a tissue (yep, even models are normal people, after all. And maybe they even go to the toilet, but I haven’t had the chance to check it yet). These could all be taglines, but they aren’t in the photo, even though she was there, in that moment, just as you see her. This is why photography goes beyond death, and is a death prophecy too. Because it’s a message without a code, because it doesn’t gives any explanation other than the one you can see straight away, because it’s full of hidden meanings. Once I said this, there’s the other side of the coin, much less philosophic and much more pragmatic: usually photos of a beautiful girl wearing underwear easily sell and are appreciated very much. So without losing any more time, here are the (really banal) photos of the (beautiful) Melinda.

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YOUNG AND SMART


youth corner by 15 y.o. Camilla Bovati


La prima volta che ho scattato una foto con la mia nuova reflex mi sentivo stranissima: ho sentito il vuoto dentro di me e provato una fortissima emozione che poteva significare: felicità, agitazione, confusione… Penso che sia stato questo insieme di sentimenti a dare una maggiore spinta alla mia passione per la fotografia. Ho quindici anni ed è difficile per me credere ad un sogno già così grande, molto difficile da realizzare, ma possibile forse costruendolo giorno per giorno, un mattoncino alla volta come i Lego, sulla base delle tante conoscenze che si acquisiscono provando, sbagliando e riprovando con caparbietà e determinazione. Durante il giorno mi capita spesso di sognare e pensare a nuove fotografie, inquadrature e scatti che potrei realizzare, prendendo a soggetto amici, partenti, attimi di vita comune… Molta parte del tempo che utilizzo al computer la utilizzo per guardare le foto più interessanti e particolari che trovo, cercando di capirne i segreti e farmi ispirare: ritengo infatti la fotografia un’ arte ed è necessario cercare di imparare dai fotografi più bravi, per migliorare sempre di più le proprie capacità. Ritengo l’insoddisfazione che provo quando osservo una delle mie foto, lo stimolo che mi spinge ogni volta a ricercare nuove emozioni in uno scatto. In questo sono molto determinata, una foto scattata che non mi da i “brividi” per me è da buttare, va rifatta, ristudiata, ricercata. Capisco che devo riprovare, ripensare allo scatto con più impegno, intuire dove posso migliorare, per poi cercare il prossimo “attimo fuggente” da immortalare! The first time I took a photo with my new dSLR I felt really weird: I felt empty and an incredibly strong emotion, that could have meant: happiness, excitement, confusion… I think it was these feelings that pushed even more my passion for photography. I am fifteen years old, and it is difficult to believe in a dream which is already so big, and very hard to make come true. But it is possible, building it day by day, step by step, just like with Lego, on the base of the knowledge you gain experimenting, making mistakes and trying again with stubbornness and resolution. During the day I often find myself daydreaming about photos I could take, of friends, family and every-day life. During most of the time I spend on my computer, I look at the most interesting photos I find, trying to understand their secrets and to be inspired: in fact, I think photography is an art and I think you have to try and learn from better photographers than you to constantly improve. I think that the dissatisfaction I feel when looking at one of my photos is the encouragement to look for new feelings in a photo. I am very determined in this: to me, a photo that doesn’t give me thrills, has to be redone, restudied and researched. I understand I have to try again, think harder about the photo, understand where I can improve, so I can then look for the next moment to capture! 130 grit


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