informal magazine issue6
Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas AD & graphic design Andrea Basile with Alessio Matteucci Cover Photo Andrea Basile Photo Dan Comaniciu Alexander Khokhlov Marcel Christ Henry Hargreaves Aneta Ivanova Translation Marta Sanders Special Thanks Simone Autera Liliana Basile Laura Frasnelli
informal magazine issue6
sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Project Yes/ il progetto “si” di Andrea Basile
68 > Fotografia/photography Superlight/ superluce di Marcel Chris
07 > Fotografia/photography Colorama/ Colorama Dan Comaniciu
90 > Fotografia/photography Why we fight/ perchè combattiamo di Henry Hargreaves
24 > Fotografia/photography Wird beauty/ Strana bellezza di Alexander Khokhlov
116 > Fotografia/photography fine art and urban visions/ fine art e visioni urbane di Aneta Ivanova
44 > Design The sign portrait/ Carlo Contin di Giorgio Bonaguro
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photo Andrea Basile
projects yes. La vita di Grit è sempre appesa ad un filo, è normale. E’ un magazine/portfolio libero e di conseguenza è complicato riuscire a mettere insieme i pezzi di questo piccolo puzzle. In studio ci confrontiamo su cosa proporre, guardiamo portfolio, parliamo e scriviamo alle persone e cerchiamo ogni volta di coinvolgerle in questo progetto. Nel modo più banale e scontato che ci sia, noi immaginiamo di costruire una casa, mattone dopo mattone, e di proporvela. Il concetto di “progetto fotografico” oggi è oltremodo legato al concetto di “professione”. Sempre più foto vengono scattate con gli smartphone o con le macchine fotografiche compatte e con risultati spesso esaltanti. Il reportage, lo still life, la fotografia di architettura ed i ritratti sono solo alcune delle specializzazioni che soffrono di questo. Oggi una ragazza si può scattare una foto bellissima con l’autoscatto, provando e riprovando, sino ad ottenere una fotografia bellissima di se stessa, naturale e intima, senza spendere un centesimo. Allo stesso modo l’ufficio marketing di una azienda munito di cavalletto, reflex entry-level, un foglio di carta bianco ed un programma per il fotoritocco si scatta fotografie che per un listino prezzi aziendale interno vanno benissimo. Tutto questo per noi non è il diavolo, ma uno stimolo per arrivare dove loro non possono. Proprio per questo il progetto fotografico è indispensabile: mezz’ora da dedicare a se stessi per farsi una foto sono facili da trovare, una giornata per progettare uno scatto, invece, è più difficile. Ho molti amici fotografi e fotoamatori che mi chiamano e parlano della morte della fotografia ed io, che a 30 anni mi sento ancora un bambino, di risposte da dare loro non ne ho e non potrei averne, fra l’altro. Quello che penso, come dicevo prima, è che la fotografia nel mio piccolo mondo sia davvero fatta di una lunga serie di operazioni che precedono lo scatto fotografico; in questo numero, infatti, abbiamo voluto pagare tributo a chi l’immagine la pensa prima a tavolino, la progetta, la vede nitida prima di andare a procurarsi l’occorrente per produrla. Poi la scatta e se la riguarda, seleziona le fotografie venute meglio, le lavora con amore e dedizione come fosse ancora in camera oscura e poi le condivide con noi. Sono i progetti personali di questi fotografi che ci danno speranza e voglia di fare. Andrea Basile
Grit’s life has always been hanging by a thread, it’s normal. It’s a independent magazine/portfolio and therefore it’s always hard to put together all the pieces of this small puzzle. In our studio we discuss what we want to put forward, we look at portfolio, we talk and we write to the people and we always try to involve them in this project. In the most common and clichéd way, we imagine ourselves building a home, brick by brick, and give it to you. The idea of ‘photographic project’ is extremely connected to the idea of ‘job’. More and more photos are taken with smart-phones or digital compact cameras, and often the result is exciting. Reportage, still life, architecture photography and portraiture are only some of the genres that suffer from this. Today a girl can take a self-portrait, trying again and again until she gets a beautiful, natural and intimate photo, without spending any money. In the same way the marketing office of a company that has a tripod, an entry level dSLR, a white piece of paper and a post-production software can take photos that will be just fine for a private catalogue. All of this isn’t the devil for us, it’s the incentive that pushes us to where they can’t get. This is the exact reason why a photographic project is essential: it’s easy to find half an hour to take a selfportrait, it’s harder to tale a whole day to develop a project. Loads of my friends who are photographers or passionate about photography call me and talk about the death of photography and I don’t have any answers and couldn’t either, being 30 yearsold and still feeling like a child. What I think, as I was saying earlier, is that photography, in my small world, is made of a long series of actions that come before the picture; in this issue, in fact, we want to pay tribute to those who think about the photo first, develop it into a project, see it clearly before getting what they need to take it. Then they take the pictures, looks at them over and over, chooses the best ones and work on them with care and dedication as if they were still in a darkroom, and finally share them with us. It’s the personal projects of these photographers that give us hope and stimulate us to work.
colorama photo Dan Comaniciu - dancomaniciu.com text by Lilliana Basile
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Tango La studi da lontano, indovinando i suoi passi. Ti si accelera il battito e pensi a tutta l’aria che hai respirato, alla differente composizione d’ossigeno, quasi nullo in una metropoli gigante, quasi totale nell’aperta campagna. Pensi a quante cose siano entrate dentro di te - pezzi di storia, di persone, di paesi. A quanto fumo di macchine, di sigarette, di discorsi. A quanta luce. E a quanti, tantissimi, colori. Vai verso di lei. La guardi negli occhi e – finalmente – la inviti. Nessuno parla: questa è una danza che non usa parole, è puro linguaggio del corpo. La tua schiena è dritta, le tue mani la stringono, con quella tensione che sa di prima volta, dove l’eccitazione dell’ignoto si mischia alla paura di lasciarsi andare. La musica riprende, il tuo sguardo è teso e orizzontale, anche se continui a spiarla. Percepisci la vibrazione della sua pelle, il profumo dei suoi capelli vaporosi, il vestito nuovo appena indossato. I suoi colori ti finiscono addosso, le luci rosse mischiate al fumo del locale, il nero dei vestiti eleganti. Attrazione estetica, chimica, psicologica, fisica: i colori sono simbolo di quello che siamo - caldi, freddi, monocromatici, primari o complementari - in cui rovesciamo dentro i nostri rapporti, le nostre piccole o grandi felicità, i nostri dolori. Le storie d’amore sono, in fondo, esperimenti cromatici ben riusciti, colori che parlano e si mischiano. Blu e gialli che – assieme – diventano un verde. Lei balla con gli occhi chiusi, sente la tua mano su una schiena che è quasi seno, muove le gambe assieme alle tue, sfiorandole – affannata, ma silenziosa.
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Tu la dirigi, dimenticandoti i confini e le linee di separazione perdono il valore di limite e diventano grafie colorate, come un groviglio di fili. É tutto lì davanti a te, devi solo continuare a ballare e disegnare questi cerchi infiniti. Piano piano, le leggi dentro – come quei giochi d’illusione in cui devi distogliere lo sguardo per poi ritrovare la figura nascosta. Discerni i fili dei suoi pensieri, li separi uno ad uno, li distendi e li intrecci assieme ai tuoi. Provi a sincronizzare il tuo respiro al suo, continuando a ballare uno addosso all’altro, mantenendo il vostro baricentro in questa danza che ti ricorda che toccare è, nel contempo, essere toccato. L’avvolgi nell’abbraccio più dolce e ti perdi dentro i suoi occhi nerissimi - un nero che racconta le sue origini mediterranee antiche. Colori che si mischiano alla storia di una persona - che raccontano qualcosa del passato e aprono possibilità per un futuro, fino ad ora solo immaginato. In queste fotografie ci sono le luci soffuse di un locale alle tre del mattino. C’e la paura di lasciarsi andare ad un ballo, e a una storia. Ci sono gli intrecci delle gambe e i disegni tracciati. Ci sono forme sinuose e seducenti, linee tonde come i fianchi di una donna. Ci sono gli equilibri di una coppia. E le disarmonie, gli sguardi, la musica. In queste fotografie ci sono due amanti che ballano un tango, e mentre si toccano la schiena, si innamorano per la prima volta.
You study it from a distance, guessing its moves. Your heartbeat accelerates and you think about all the air that you have breathed, about the different combinations of oxygen, nearly none in a huge metropolis, nearly total in open countryside. You think about how many things have gone inside you – pieces of stories, of people, of countries. About how much car smog, cigarette smoke and talks have entered you. About how much light has. And about how many colours have. You go towards her. You look at her in the eye and – finally – you invite her. Nobody says anything: this is the dance that doesn’t use words, it is purely body language. Your back is straight, your hands hold her tight, with the tension which is typical of a first time, when the excitement of something new mixes up with the fear of letting yourself go. The music starts again, your look is tense and horizontal, even if you keep checking on her. You feel her skin vibrating, the smell of her hair, the new dress she’s just put on. Her colours, the red lights mixed with the smoke in the club, the black elegant dresses, hit you. It is aesthetic, chemical, psychological and physical attraction: colours represent who we are – warm, cold, monochromatic, primary or complementary – what we spill our relationships in, our small or big happiness, our pain. In the end love stories are successful experiments with colours, in which they dialogue and mix up. Blu and yellow that – together – become green. She dances with her eyes closed, she feels your hand on her back, near her breast, she moves her legs with yours, brushing against
them – tired, but hushed. You lead her, forgetting limits, and boundaries aren’t limits any more, but coloured lines, tangled strings. It’s all right in front of you, you only have to keep on dancing and draw these continuous circles. Slowly, you read inside her – just like in those games where you have to look away and then find the hidden image. You recognize the strings of her thoughts, you untangle them one by one, you stretch them out and you intertwine them with yours. You try to synchronise your breathing with hers, carrying on to dance one onto the other, keeping your barycentre in this dance that reminds you that touching is, at the same time, being touched. You wrap her in the sweetest of hugs and you lose yourself in her black eyes, that describe her ancient Mediterranean origins. Colours that mix with someone’s story, that tell something about the past and open possibilities for the future that has only been imagined until now. In these photos there are the suffused lights of a club at 3 a.m., there’s the fear of letting yourself go, and a story. There are the binds of legs and the patterns drawn. There are curvy and seductive shapes, round lines similar to women’s hips. There’s the balance between a couple. There also are the disharmony, the looks, the music. In these photos there are two lovers dancing tango, and while they touch each other’s back, they fall in love for the first time.
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Wird Beauty
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a photo essay by Alexander Khokhlov - alexanderkhokhlov.com text by Simone Autera
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La maschera/ The mask C’è sempre qualcuno che se ne accorge per primo: un movimento dietro la tenda, le luci che intermittenti ti allertano. C’è sempre qualcuno che per primo blocca lo sguardo e zittisce il vicino. Poco dopo, lentamente, tutti gli altri. Il cicaleccio dentro la sala si assopisce scomposto, si abbassano le luci, si apre il sipario. Pollice e indice si avvicinano in connubio allo schermo, con un gesto fiabesco quanto preciso si separano aprendo un mondo sospeso, anzi in stand-by: la bambina seduta di fianco a me nel bar sotto casa gioca con le marionette grafiche, di un teatrino virtuale, su un iPad concreto. Hanno uno sguardo possente, le marionette. Facce truccate, maschere tribali che assumono un’espressione diversa secondo i tratti che decide di dare loro la piccola burattinaia: un sorriso smodato, un paio d’occhi tristi, un naso arricciato e perché no, un fiorellino blu sui capelli. Anzi no, niente capelli. Sollevo gli occhi sulla via. E’ rilassante sedersi per strada al bar sotto casa. In attesa di una birra e un amico, rincorro gli sguardi che sfilano per i marciapiedi di questa e dell’altra parte della via. Le 19:30 sono un orario convulso, fatto di rientri, ritardi, ripensamenti e ri-propositi. Lo leggi nelle facce della gente. C’è chi si affretta indaffarata a pensare cosa mettere per l’aperitivo di lì a mezz’ora. Chi inconsapevole fulmina gli occhi che incontra e promette vendetta contro il capo, il giorno dopo. Chi spera la lavanderia sia ancora aperta e sembra chiederlo all’orologio che interroga imperterrito. E ancora chi sorride alla visione della meta, la ragazza che lo attende cento metri più in là, come chi sorvola isterico le teste dei passanti per capire se in fondo arriva il tram. La piccola burattinaia del tavolino di fianco costruisce indisturbata le sue creature. Nel farlo ha le stesse velocità e precisione
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con cui si avvicendano i volti lungo la via. Componendo i suoi personaggi sembra un po’ togliere e un po’ regalare nuovi umori alla strada. Complici i miei occhi, disegna maschere, tratteggia profili, dischiude espressioni e d’incanto sfuma i contorni del mondo che è fuori con quelli del mondo che è dentro, lì dentro a un iPad. Mi accorgo che a un tratto sono rapito dal gioco: ricerco nei volti che passano le storie abbozzate da due dita sullo schermo. Mi fisso sulla gente. Il trucco c’è, ma non si vede. Ritorno a quelle maschere. Identità sepolte, svanite dietro a un touch. E di nuovo sulla via: ci sono volti, ma s’intravedono. Perdo di vista i soggetti che inquadro, i toni dei visi sono invertiti. I bianchi son nero, i neri son bianco. Vado a fondo a spirale lungo la via in negativo ed oscillo tra un aprirsi al mondo smediato e un chiudersi al mondo mediato, figlio di una tecnologia dirompente quanto aggraziata. Emanazione d’un intelletto smodato che non basta a se stesso. Amplificazione dei sensi e del percepito. Mi sento a mia volta inquadrato. Si scompone la folla e si sgrana l’immagine. E’ arrivato il mio amico. OFF. Si chiude il sipario ed arriva la birra.
There’s always someone who notices first: a movement behind the curtain, flashy lights alerting you. There’s always someone who concentrates and tells their friend to be silent first. Not much later, slowly, everyone else follows. The chattering in the theatre slowly fades away, the lights go down, the curtain opens. You thumb and your index move together to screen, and with a fairy-like movement they separate opening a suspended world, or even better a world on stand-by: the girl sitting besides me in the bar near home plays with graphic puppets in a virtual theatre on a tangible iPad. They have a powerful look, the puppets. Make up and tribal masks that change their expression according to the decisions the puppeteer makes: an excessive smile, a pair of sad eyes, a curled up nose, and, why not?, a blue flower in its hair. Oh actually, no hair. I look up to the street. It’s relaxing to sit on the street, at the bar near home. Waiting for a beer and a friend, I chase the looks that parade on this and that side of the pavement. Half seven p.m. is a convulsive timing, made of people coming back home, people being late, afterthoughts and purposes. You can read it on people’s face. Some busy people hurry worrying about what they’re going to wear at the cocktail in half an hour. Others unconsciously give bad looks to who they come across, promising their boss revenge for the next day. Others hope the drycleaner is still open and they seem to ask their watch, who they continue to interrogate. And then someone smiles, seeing their destination, the girl waiting for them 100 metres away, like someone who hysterically looks over everybody else’s head to see if the train is coming.
Creating her characters she takes away and gives new humour to the street. With my eyes as accomplices, she draws masks and profiles, she reveals expressions and she softens the outline between the world outside and the one inside that iPad. Suddenly I realise I’m captivated by the game: I look for the stories sketched with two fingers on the screen in the faces that go by. I concentrate on the people. The make-up’s there, but you can’t see it. I go back to the masks. Buried identities, disappeared behind a touch. And back to the street: there are faces, but you can only catch a glimpse of them. The people I frame disappear, the shades of the faces are inverted: what is black is white and what is white is black. I spiral along the street in negative and I sway between the opening of one world, not mediated, and the closing of a one which is mediated, son of a shattering and graceful technology. Product of an incredible intelligence that isn’t enough for itself. Amplification of the senses. I feel framed myself. The crowd brakes up and the image is made clear. My friend is here. OFF. The curtain closes and I get the beer.
The small puppeteer sitting at the table besides me builds undisturbed her creatures. In doing it she has the same speed and precision of the people walking along the road.
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Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso Luigi Pirandello - Uno, nessuno e centomila
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the signportrait Carlo Contin
Carlo Contin (1967 Limbiate MB), apre il suo studio di design ed architettura di interni nel 1998, dopo avere lavorato per anni come imprenditore nell’azienda di famiglia, specializzata nella realizzazione di mobili su misura. Dal 1999, anno in cui ha esordito come designer presentando i suoi primi lavori al Salone Satellite, collabora con alcune fra le più prestigiose aziende di design del panorama italiano ed internazionale, oltre a partecipare a numerose mostre in Italia ed in tutto il mondo. Nel 2010 la Triennale di Milano le dedica la mostra personale “Interventi nella Sfera Domestica” all’interno del “Triennale Design Museum”. Nel 2013, con la mostra “Avvitamenti”, presso lo spazio Subalterno1, espone una collezione inedita di oggetti frutto di una progetto ricerca sulla lavorazione del legno. Carlo Contin collabora con: Adentro,Coop, Cappellini; I Guzzini, Fambuena, Le Fablier, Legnoart, Meritalia, MoMA New York, Mogg e Sphaus.
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curated by Giorgio Bonaguro
Carlo Contin (1967 Limbiate MB), opened his studio of design and interior architecture in 1998, after working for several years in the family company specialized in craft made wood furniture. He presented his first design at the Salone Satellite in 1999, starting to collaborate with some of most important company in Italy ad all over the world, taken part at many exhibitions. In 2010 the Triennale di Milano dedicated to his work a solo exhibition “Interventi nella Sfera Domestica”. In 2013 he exibited his reserch work in the field of woodworking at the Subalterno1 gallery. He work with many Italian and International companies: Adentro, Coop, Cappellini; I Guzzini, Fambuena, Le Fablier, Legnoart, Meritalia, MoMA New York, Mogg and Sphaus.
Photo Alessio Matteucci
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Un serio Giocare Sin da piccoli siamo abituati a guardare le cose. A prenderle in mano, tentare di capire come funzionano. Provare a smontarle. Indovinarne la struttura celata. Per fare questo ognuno di noi ha incontrato una prima volta e poi tante altre un semplice piccolo elemento che poi, da allora, è diventato nel paesaggio mentale di ognuno uno degli elementi base dell’idea pratica ma anche della rappresentazione mentale del costruire, del congegnare. La vite. Questa conosciuta. Che prima passava dalle maani del ferramenta che, misterioso speziale, ravanava nei meravigliosi casetti alle sue spalle facendoti domande tendenziose “...a testa piatta o incassata?...” o “...autofilettante?...” oppure “...filetto da ferro o da legno? Che passo??...”. E poi ti serviva cartoccini pieni di viti simili a insettini. Ora le trovi in stordenti panoplie, nei centri commerciali o nei brico center. Mille scatolette appese. Intere pareti di prigionieri irriconoscibili a cui ti devi avvicinare con sguardo da entomologo. La vite è, nella memoria e nell’esperienza di tutti l’archetipo del fare concreto. Tutti noi abbiamo iniziato il nostro cammino nella nostra esperienza individuale di faber partendo dall’umile gesto di svitare qualcosa, aprirlo, capirlo, rimontarlo. Ed è proprio la visione originaria di questo artifatto che ha ispirato Carlo Contin: un filo della memoria che parte dal laboratorio artigianale del padre falegname che aveva le viti di serraggio delle morse da banco per bloccare i pezzi in lavorazione autoprodotte con sapienza artigiana in legno. Questo snodo autobiografico diviene anche uno snodo progettuale: filtrato dall’osservazione del lavoro di alcuni grandi maestri (Achille Castiglioni, Vico Magistretti) il tema della vite diviene protagonista. Non più elemento di semplice fissaggio ma importante sistema strutturale che evidenzia un modello ripetibile che origina una molteplicità di oggetti domestici. Da segno tecnico a segno poetico. Senza aggiungere niente che non sia strettamente necessario. Grandi elementi verticali che divengono gambe, sostegni, perni... Un progetto che vive di avvitamenti. Semplici, essenziali, necessari. Stefano Maffei
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A serious play From an early age we are used to looking at things. To pick them up, groped to understand how they work. Trying to take them apart and guessing its hidden structure. In this way, each of us met for the first and so many other times a simple little item that, since then, in the mental landscape of each one, has become one of the basic elements of the idea and the practice of making and creating. The screw. This well known thing. First of all, it was handled by a mysterious apothecary, the ironware, that sought into wonderful drawers behind him making you leading questions like “Do you need a recessed flat head? ...self-tapping ...? ...What about the thread? Is it for iron or wood? What step?”. And then he served you small paper packs full of screws like little bugs. Now these items are available in dizzying outfits, shopping centers or DIY centers: a thousand of cans, whole walls of unrecognizable prisoners to which you have to approach with entomologist’s eyes. In the memory and experience of all of us, the screw is the archetype of true making. All of us have started our journey of ‘faber’ experience with the humble gesture to unscrew something, opening it, understanding it, reassembling it. This is the original vision that inspired Carlo Contin: a thread of memory that starts from his father, a great carpenter and cabinet maker, who had the clamping screws that were locking the self-produced wooden workpiece. This joint through autobiography also becomes a design joint: the theme of the screw becomes the protagonist filtered by the direct observation of the work of Italian design masters (Achille Castiglioni, Vico Magistretti). No more a simple fixing element but a part of a structural system, which show a repeatable pattern that conceive a variety of household items. From technical to poetical sign. Without adding anything that is not absolutely necessary. Large vertical elements that become legs, brackets, pins ... A project that thrives on screwing. Simple, basic, necessary.
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PREMI
Design Plus 2009
MOSTRE
2013 ”Avvitamenti” mostra personale, Subalterno1, Milano 2012 “Fare lume, candele tra arte e design, Museo Poldi Pezzoli, Milano 2012 “Tra incudine e martello”, Triennale di Milano
2010 “Ospiti inaspettati”, Villa Necchi Campiglio, Milano 2009 “New Design Generation”, Houjie, Guanddong; Cina 2008 “Avverati_10 anni di Salone Satellite”, Milano
2011 “Di vaso in fiore – Inventario tra natura e design, Museo Poldi Pezzoli, Milano
2007 “New Italian Design”, alla Triennale di Milano
2010 “Interventi nella sfera domestica” mostra personale, Triennale di Milano
2007 Istituto Italiano di Cultura Madrid (Spagna) Santralistanbul, Istanbul, (Turchia).
2010 “Quali cose siamo”, Triennale di Milano
2006 “WWW Wonderful Water World”, con Guzzini e San Pellegrino, Milano
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2005 ”Design alla Coop”, Milano
2002 Biennale di Saint Etienne, Saint Etienne (F)
2005 Opos:” Made for China”, Milano
2002 “Sistemi di misura dei Designer’s”, Milano
2005 ”Ovologo”, Milano
2001 “Vilt: kunst, mode en design” Badisches Landemuseum Karlsruhe- Karlsrhue (Germania), Deutsches Texilmuseum Krefeld- Krefeld (Germania) e Landesmuseum fur Vorgeschichte DresdenDresden (Germania)
2004 ”Sensidivini”, alla Triennale di Milano 2004 ”Multipli di Cibo” alla Triennale di Milano 2004 Opos 2004: “New Agri Culture”, Milano
2001 “Designers Saturday”, Laghenthal, Svizzera 1999-2003 ”Salone Satellite”, Milano
2003 ”Tipi Italiani”, Milano
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photo by Marty Garfinkel courtesy of Roadside Gallery Text by Donata Basile grit 65
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SUPERLIGHT a photo essay by Marcel Christ - marcelchrist.com text by Lilliana Basile
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ARABESCO DI LUCE Gli scatti di Marcel Christ mi ricordano la ricerca di Lucio Fontana, grande artista italiano che ha costruito la sua poetica a partire da un gesto mentale. Vivendo gli anni della ricostruzione del dopoguerra e del boom economico, ha fatto suoi i mezzi espressivi a disposizione dell’uomo moderno, lontani da pittura e scultura tradizionali, e fatti di neon. Non tutti conoscono due sue opere raffinate ed eleganti, simbolo della ricerca sulla luce e sui gesti nello spazio. Fontana dipinge con la luce di Wood nell’Ambiente spaziale a luce nera: un’unica sala, tappezzata di nero, con sculture appese al soffitto illuminate dalle luci ultraviolette. L’opera è uno spazio da attraversare piuttosto che un quadro da contemplare, che da valore al gesto di chi guarda assieme a quello di chi crea, e dove le luci distorcono la visione della realtà e diventano coprotagoniste dell’opera. La luce, quarta dimensione dell’architettura, è il colore utilizzato da Fontana anche nell’Arabesco di neon, concepito per la Triennale di Milano. Un’opera di pura luce, dove la sostanza luminosa e malleabile simboleggia la vittoria del gesto sulla materia. Fontana percepiva la possibilità di creare un’arte comprensiva di suono, materia, movimento, colore in unità di tempo e spazio, utilizzando la luce come una tavolozza di colori e dando dignità al pensiero dell’uomo – in ultima analisi il protagonista assoluto dell’arte. Marcel Christ spesso fotografa oggetti in movimento, in esplosione e distorsione, che ci ricordano che la vita vera non è mai costruita a tavolino per una seduta di ritratto. La vita è una corsa, un arresto, un’altra corsa ancora. In questa ricerca lavora con la luce: la visualizza come un oggetto puro e la rende protagonista delle sue fotografie – non un mezzo per disegnare le forme e far emergere colori e contrasti, ma una regina di scena che ritrae il gesto dell’artista. Fontana disse che l’‘arte morrà nella materia, ma rimarrà eterna come gesto’. E le fotografie di Marcel Christ sembrano dargli ragione.
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Light Arabesque Marcel Christ’s photos remind me of the research made by Lucio Fontana, a great artist who built his art starting from a mind gesture. Since he lived the years of reconstruction after the war and of the economical boom, he used the expressive means available to the modern man, far from traditional painting and sculpture, and made of neon light. Not everybody knows two refined and elegant pieces of work of his, emblem of the research on light and of gestures in space. Fontana paints with Wood’s light in Ambiente spaziale a luce nera: a whole room, entirely plastered in black with sculptures hanging from the ceiling which are illuminated with ultraviolet lights. The artwork is in a space to cross rather than in a painting to admire, a space that gives importance to the gesture of the audience as well as of the artist, and where the lights bend the vision of reality and become co-stars of the artwork. Light, the fourth dimension in architecture, is the colour used by Fontana in the Arabesco di neon too, conceived for the Triennale in Milan. A piece of art of pure light, where the bright and malleable substance represents the victory of gesture over material. Fontana felt the possibility of creating art that included sound, material, movement, colour, unity of time and space, using light as a palette of colours and giving dignity to man’s thought – the absolute protagonist of art. Marcel Christ often photographs objects in movement, exploding and distorting, that remind us that real life is never built by default for a portrait session. Life is running, stopping and running again. In this project he works with light: he sees it as a pure object and he makes it the main character of his photos – not a means to draw shapes and to make colours and contrasts emerge, but a scene queen that portraits the gesture of the artist. Fontana said that art would die in substance, but will last forever as a gesture. And Marcel Christ’s photos seem to prove it right.
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Why we Fight
a photo essay by Henry Hargreaves styling: Nicole Heffron text: Andrea Basile
find more art at henryhargreaves.com
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Quando Henry mi ha presentato gli ultimi suoi progetti lo ha fatto con il solito entusiasmo, mi ha fatto curiosare nel suo archivio, ma la mia attenzione si è subito fissata su una serie di immagini che mi ha riaperto il famoso “cassetto della memoria”. Sezione: graphic design Autori: Chermayeff & Geismar Cliente: Mobil Nella mia mente il manifesto disegnato, con straordinaria sintesi, dai due maestri di New York anni fa. Un cappello da uomo distinto, messo in mezzo a due elmetti. Between the Wars. Semplice e perfetto, dono di uno degli studi di grafica e comunicazioni più importanti del mondo. Henry mi ricorda sempre che la perfezione sta nella semplicità, soprattutto quando racconta una storia, possibilmente sviluppata più col cervello che con il portafogli. La sua serie “Why we fight” è una nuova/vecchia storia, purtroppo sempre attuale. Nella preparazione di un progetto, solitamente, si tende a complicarsi la vita, erroneamente; Henry invece lavora sul campo semantico, e dal totale inizia a togliere tutti quegli addendi che sono inutili e fuorvianti; lavora prima di spada, poi di bulino e carta vetrata sottile. Arriva alla sintesi e mantiene gli elementi che diano impatto visivo e chiarezza nella comunicazione. Li mette li, nel vuoto del bianco, senza fronzoli inutili. Il petrolio è il soggetto, la morte lo svoglimento, l’epilogo lo scriveranno gli altri.
When Henry showed me his latest projects he did it with his usual enthusiasm, he made me browse through his archive, but my attention was immediately drawn to a series of images that made some memories come back to me. Section: graphic design Artists: Chermayeff & Geismar Client: Mobil In my mind the poster drawn by the two New York masters with extraordinary synthesis years ago. A classy hat between two war helmets. Between the wars. Simple and perfect, gift of one of the most important graphic and communications studios in the world. Henry reminds me that perfection is in simplicity, especially when you tell a story, if possible developed more with a brain rather than a wallet. His series ‘Why we fight’ is a new/old story, which unfortunately is always current. When preparing a project, usually, we tend to make things more complicated than what they are; Henry instead works on the semantic field, and starts clearing the whole of all those useless and misleading accessorizes; he uses a spade first, then with a graver and at last with thin sandpaper. He reaches synthesis and he keeps the elements that give a strong visual impact and clearness to communication. He puts them there, in the emptiness of white, without any useless frills. Oil is the subject, death is the development, and other will write the epilogue.
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From the Chermayeff & Geismar website - cgstudionyc.com
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Aneta Ivanova fine art and urban visions
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Her name is Aneta Ivanova and she is 21-years old photographer born in Varna, Bulgaria. She started doing photography when she was 13 and have never stopped since then. She began by shooting experimental self-portraiture in her home, then discovered Fine art and fashion photography. Si chiama Aneta Ivanova ed è una fotografa di 21 anni nata a Varna in Bulgaria. Ha iniziato a fotografare all'età di 13 anni e da quel momento non ha piu' smesso. Ha cominciato con degli autoritratti sperimentali realizzati a casa per poi approdare al mondo della fine art e della fotografia di moda.
Exhibitions Germanos competition exhibition, Mall Sofia, 2008 Photo salon Varna and Sofia exhibitions, years 2009, 2012, 2013 Dedal group exhibitions, Varna, years 2010, 2011, 2012, 2013 Photo forum exhibition, Sofia, 2010 Month of photography exhibition, Sofia, 2011 “Contrasts” collab exhibition with Samuil Petkov, Varna, 2012 “Strange dreams” solo exhibition, Varna, 2013 EXPOSURE 2013 Exhibition, NYC “The art in us” opening, Varna
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