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Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas Art Director Andrea Basile Contributors Simone Angioletti Donata Basile Giorgio Bonaguro Alessio Matteucci Giorgia Pallaro Marta Sanders Dario Sonatore YoRosco Melis Yalvac Design Guest Lorenzo Damiani Graphic Project ABS Translation Marta Sanders Cover photo Andrea Basile Grit the $
sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Piccole formiche/ Tiny ants di Andrea Basile
46 > Fotografia/photography Essere nei miei panni/ walkin’ in my shoes di Donata Basile
102 > Fotografia/photography Solitudine globale/ global lonelinessl di Simone Angioletti
06 > Fotografia/photography Cosa c’è nel ritratto/ what’s into the portrait di Andrea Basile
60 > Fotografia/photography Nel mezzo del colore/ into the color di YoRosco
114 > Fotografia/photography Persone speciali/ special people di Marta Sanders
18 > Fotografia/photography Su fondo bianco / on a white background di Melis Yalvac
74 > Design Intervista a Lorenzo Damiani/ interview with Lorenzo Damiani di Giorgio Bonaguro
32 > Fotografia/photography Movorama/ movorama di Dario Sonatore
88 > Fotografia/photography Parallele a Voghera/ Voghera in parallel di Alessio Mateucci
photo Andrea Basile
nonEditoriale
piccole formiche
tiny ants
Il mondo non è finito e Grit festeggia il suo secondo numero con una copertina dedicata al dollaro americano. Mi piaceva l’idea di mettere in copertina una banconota di piccolo taglio. Visto che la “rinascita” del nostro mondo è evidentemente concettuale e non pratica, ho pensato fosse una buona idea ripartire un po’ da zero. E’ come quando sogni il cliente che ti fa diventare ricco, quello che con quattro fatture all’anno ti risolve tutto. Studio nuovo, dorso digitale scintillante, tre assistenti e una bella longchair ad aspettarti a casa insieme ad un buon bicchiere di Zacapa. Se di rinascita si tratta, rinasciamo davvero? Sognamo piuttosto piccoli lavori, fatti bene, continui ed interessanti. Piccoli mattoncini che ci formino e ci preparino al futuro. Perchè qui a Grit ci lamentiamo sempre, come gli altri, ma non abbiamo perso la fiducia nel nostro lavoro, ci crediamo insomma, come si suol dire.
The world hasn’t ended and Grit celebrates its second issue with a cover dedicated to the U.S. dollar. I liked the idea of putting on the cover a dollar bill. Since the “rebirth” of our world is obvioulsy conceptual and not practical, I thought it was a good idea to start over from scratch. It’s like when you dream of the client who makes you rich, the one who solves everything with four invoices per year. A new studio, a shiny new digital back, three assistants and a beautiful longchair waiting for you at home with a good glass of Zacapa. If we’re talking about rebirth, let’s really revive. Let’s rather dream of little interesting, constant and done well jobs. Little steps to prepare us for the future. Because here at Grit we always complain, just like everyone else, but we haven’t lost faith in our job, we believe in it.
Sto notando sempre di più che i miei coetanei ed anche i ragazzi più giovani focalizzano il loro portfolio su un solo argomento: la donna e nient’altro. Sfoglio portfolio, guardo siti, centinaia di siti personali, in cui il soggetto è sempre e solo uno: la donna fotografata in versione femme fatal. Credo davvero che la nostra generazione debba fare uno sforzo in più, in primis per se stessi, per produrre immagini che interessino potenziali clienti e non limitarsi a sognare di fare la copertina di Vogue, V, o W magazine. Oltremodo convinto che serva specializzarsi in un settore nella vita professionale, mi domando se sia davvero credibile un fotografo di 30 anni che è sedicente abile fotografo di “vamp”, ma che non abbia nemmeno una lontana idea di come si fotografa un semplice cucchiaio, o un palazzo. Come si può saltare la gavetta, non tanto in senso concettuale, ma sul lato pratico? Come posso risolvere il problema di un cliente che produce candele, se non so come esporre correttamente la cera e la fiamma? Certo non sarò il miglior fotografo del genere, ma devo saper risolvere tecnicamente il problema e poi presentarlo secondo il mio gusto producendo una immagine che assecondi le richieste del cliente. Personalmente credo che in un momento di difficoltà come quello che sta affrontando la nostra generazione insieme alle altre, l’unica mossa che non ci renda uno “scacco matto” sia il non essere pigri. Andrea Basile
I notice more and more that my peers and even younger kids focus their portfolio on only one topic: women and nothing else. I browse portfolios, I look at websites, hundreds of personal websites, with photos of only one subject: femme fatal. I truly believe our generation has to make more effort, first of all for themselves, to produce images that can interest potential clients, and I think they shouldn’t only dream of making the cover of Vogue, V, or W magazine. I am very convinced it is necessary to specialize in a precise field in professional life, I wander if a 30 year old photographer who is supposedly a talented ‘vamp’ photographer but who has no idea how to photograph a spoon or a building is really credible. How can you skip the hard work of rising through the ranks, not from the conceptual point of view but practically? How can I solve the problem of a client who produces candles, if I don’t how to expose correctly the wax and the flames? Of course I’m not the best photographer of the field I work in, but I have to be able to technically solve a problem and then show it according to my taste, producing an image that will satisfy the client. Personally, I believe that in hard times like the one our generation, with the others, are going through now the only move that doesn’t make us a checkmate is not being lazy.
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WHAT’S INTO THE PORTRAIT
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LA FESTA DELLA RECIPROCA INSICUREZZA fotografie e testi Andrea Basile
Non fotografo praticamente mai modelle professioniste quando investo il mio tempo in ricerca. Non che non mi piacciano, semplicemente non ne frequento molte e poi mi è sempre sembrato troppo facile. Una modella la sanno fotografare tutti e tuti la fotografano, infatti. Una brava modella il ritrattino carino se lo fa da sola: sa cosa fare, come mettersi, se ridere, se stare seria. A me piace avere davanti persone comuni.
I hardly ever photograph professional models when I invest my time in research. Not that I don’t like them, it’s just that I don’t see many and it’s always been too easy to photograph them. Everyone could photograph a model and in fact everyone does. A good model could easily take a portrait of herself: she knows what to do, how to sit, whether to laugh or to be serious. I like to have ordinary people in front of me.
Ho una specie di ossessione per i dettagli che per tutti gli altri sono insignificanti, sono così attratto dal dettaglio che per me diventa soggetto, e il soggetto diventa a sua volta dettaglio, ma non in senso fotografico. Per spiegarmi meglio, io sono quel genere di persona che trova l’irresistibile in un naso, in un dettaglio di un vestito, in una silouhette, nello strappo di un jeans, in un taglio di capelli. Poi mi ritrovo davanti alla macchina fotografica soggetti che, per un motivo o per l’altro, non posso fotografare come vorrei. La cosa più complicata per me è staccarmi dal mio lato emozionale e riportare il discorso sul piano oggettivo della faccenda. Per quanto mi riguarda è come quando incontri una persona e decidi di iniziare quel rapporto non sul piano fisico; ci vuole impegno per soffocare il lato pratico, naturale e istintivo, si fa una gran fatica. Soffocata la passione, per me arriva il momento di fare sul serio: devo fare una fotografia che piaccia a me e alla ragazza che sto fotografando e poi deve piacere a chi la guarderà, perchè altre persone comuni mi chiedano un ritratto in cui sono più belle del solito. Inizio a girare intorno alla ragazza e cerco quella che per me è l’unica soluzione possibile, quell’inquadratura che tiri fuori tutto il bello che c’è; combatto con l’insicurezza del soggetto, con la mia insicurezza, mi avvicino troppo alla pelle del mio soggetto, poi indietreggio un po’per allontanarmi dalla mia natura ossessionata e scatto qualche fotografia, ancora troppo a ridosso della ragazza. Faccio ancora qualche scatto, ma mi fermo per bere una tazza di caffè e fumare una sigaretta, parlo con lei e le imputo tutte le mie colpe; poi ricomincio, ma sono ancora troppo lento e ogni volta mi riprometto di essere l’omino delle foto tessere, se non fa bene e in fretta la gente andrà alle macchinette automatiche al supermercato. Finalmente scatto una fotografia che mi piace, ho trovato quello che secondo me è l’equilibrio giusto, poi consegno la fotografia e come ogni volta scopro di aver fatto un ritratto a me stesso, ma nessuno se ne è accorto, per fortuna.
I have a sort of obsession for details that are insignificant for everyone else, I am so attracted by detail that it become my subject, and the subject they are so attracted to the detail that for me becomes the subject, and the subject becomes a detail, but not from a photographic point of view. To make myself clear, I’m the kind of person who finds irresistible a nose, a detail of a dress, a silhouette, a tear in a pair of jeans, a haircut. Then I find in front of the camera subjects who, for one reason or an other, I can’t photograph how I’d want. The most difficult thing for me is to detach myself from the emotional aspect of the matter and come back to the objective one. For me it’s like when you meet a person and you decide to start that relationship not with a physical approach, it takes effort to suppress the pragmatic, natural and instinctive side. Once I’ve suppressed passion, for me it’s time to be serious: I have to take a picture both me and the girl I’m photographing will like, and who’ll look at it will have to like it too, so that other ordinary people will ask me to make a portrait of them in which they’re more beautiful than usual. I begin to go around the girl and I look for what is for me the only possible solution, that framing in which you pull out all the beauty there; I fight with the subject’s lack of self confidence, and with mine, I get too close to the skin of my subject, then I step back slightly to move away from obsessed nature and I take a few pictures, still too close to the girl. I take an other few photos, but then I stop for a cup of coffee and a cigarette, I talk to her and I accuse her of all my fault, and then I start again, but I’m still too slow and every time I plan to be the man of the passport photos, who has to work well and quickly otherwise people will go to the machines in supermarkets. I finally snap a picture that I like, I found what I think is the right balance, I then hand in the picture and as usual I discover I’ve made a portrait of myself, but fortunately no one noticed it.
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IMMAGINA UN CAVALLO NERO SU FONDO BIANCO fotografie e testi Melis Yalvac Una sera di queste, tornando a casa in motorino, ho avuto una crisi esistenziale. Le foche sudano? Perché dopo aver tirato fuori lo scooter dalla teca di ghiaccio, già sedermici sopra mi s’è ghiacciato anche l’intestino, ad andare avevo proprio le stalattiti al naso e mi sono fatta questo viaggio mentale: vorrei essere una foca, di sicuro il freddo non lo soffrirei. E il caldo invece? Mah, probabilmente no, perché alla fine se sono una foca vivrei in posti dove non fa caldo. E se lo fa? Ma suderanno ‘ste povere bestie?
One of these evening, going back home on my bike, I had an existential crisis. Do seals sweat? Because after having pulled the scooter out of the ice shrine, only sitting on it my guts froze, and while moving I had stalactites on my nose and I thought: I want to be a seal. For sure seals don’t have any problems tolerating cold. But what about heat? Well, probably it’s not a problem, because in the end if I were a seal I’d live in a place where it’s never hot. And if it was hot? Do they sweat or not?
Fortunatamente il giorno dopo mi è stato fatto un regalo ed è scesa la neve. è una delle poche cose che apprezzo dell’inverno, assieme alle castagne e agli alberi senza foglie. Benissimo! Si va a fotografare, cavalli naturalmente. Per rendere la sfida un pochino più interessante lo scelgo nero, in una mattinata uggiosa e grigia. Dico la verità, lo avrei preferito bianco o magari grigio pomellato, oppure dal manto isabella (tipo color caffèlatte con gli arti e crini neri), un po’ perché ho una predilezione per quei mantelli, un po’ perché non avrei dovuto litigare con la mia macchina fotografica, con la quale nel frattempo ho fatto pace, anche se dormiamo ancora in letti separati. A momenti è un divorzio.
Fortunately, the next day I was given a present and it snowed. It’s one of the few things of winter I like, along with chestnuts and trees without leaves. Alright! Time to take pictures, of course of horses. To challenge myself a little more I chose a black horse, in a gray and gloomy morning. To tell the truth, I would have preferred it white or gray or buckskin (the colour of coffee and latte with black legs, mane and tail), because I’m fond of these coats and because I would have had to argue with my camera, with which in the meantime I’ve made it up, even if we still sleep in separate beds. It’s nearly a divorce.
Arrivo dopo un’ora abbondante di macchina e lo slalom tra gli automobilisti della domenica, 4 parole con la proprietaria dello splendido stallone frisone e si comincia. Ci sono un paio di problemi. Il primo è che soffro di Parkinson da freddo e ho I ghiaccioli sulle ciglia. Il secondo è che il cavallo è nero, la neve è bianca e piovigina, il che, sommato, fa una bella macchia grigia sul display della macchina fotografica. Ci metto 10 minuti buoni per trovare l’esposizione più o meno corretta, e mi viene in mente Andrea Basile che dice “immaginati un cavallo nero su fondo bianco”. Bianco bianco non è, ma almeno si capisce qualcosa. Poi non posso abbassare troppo i tempi dato che il cavallo necessita di almeno 1/800, se no viene mosso. E pensare che volevo scattare con la Mamiya. Solo ritratti eh, ma sarebbe stato troppo complicato per me. La cosa più divertente di questa situazione è che alla fine al cavallo la neve piace e ci gioca, l’assaggia, è incuriosito, la tira su correndo e scivola cercando di fermarsi. Sembra anche un po’ scemo a dirla tutta, e alla fine non so se ridere o scattare. Dopo 20 minuti il cavallo è esaurito, io congelata, ma posso ritenermi soddisfatta. I miei primi scatti con spirito natalizio invernale. Sto proprio invecchiando. 20 grit
I got at the stables after a good hour’s drive and after a slalom between Sunday car-drivers,I had a little chat with the owner of the beautiful Friesian stallion and off we go. There are a couple of problems. The first one is that I suffer from Parkinson’s caused by could and I have icicles on my eye-lashes. The second is that the horse is black, the snow is white and it slightly rains, which in all makes a big gray spot on the screen of the camera. It takes me a good 10 minutes to find the (more or less) correct exposure, and I think of Andrea Basile saying “Imagine a black horse on a white background.” It’s not really white, but at least you understand something. Then I can’t lower too much exposure times since the horse requires at least 1/800, otherwise the photo’ll be moved. And to think that I wanted to shoot with the Mamiya. Only portraits, but it would have been too complicated for me. The funniest thing about this situation is that at the end of the horse likes the snow and plays with it, he tastes it, he’s intrigued by it, he throws it up running and slips trying to stop. He even seems a little stupid, and in the end I don’t know whether to laugh or to shoot. Twenty minutes later the horse is exhausted and I’m freezing, but I’m satisfied. My first photos with a Christmas spirit. I’m getting old.
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I MILLE VOLTI SEGRETI DELLA DANZA fotografie e testi Dario Sonatore
Ho sempre visto la danza come uno strumento formidabile per esprimere le proprie emozioni. Io non sono mai stato in grado di danzare, ma ogni tanto, quando vedo un bravo ballerino o ballerina danzare davanti a me, provo una certa invidia. Invidio la loro dedizione quasi totale a quello che fanno, io non ne sarei mai capace. Una dedizione sia fisica che mentale, che comporta molta sofferenza e non è detto che porti sempre grandi soddisfazioni. L’eleganza e la sinuosità dei movimenti che eseguono sono qualcosa di straordinario, a volte ai limiti della fisica. Ci sono molte affinità tra la danza e la fotografia, anche se non si direbbe. Del resto quello che provano a fare è un po’ quello che provo a fare anche io ogni giorno, ovvero regalare delle emozioni. Ed è qualcosa di complicatissimo. Ma entrambe sono frutto di diversi elementi che si mescolano tra loro per rendere il risultato finale il più bello possibile. Come nella danza, anche in fotografia la tecnica è fondamentale. Sicuramente è più semplice da imparare e comporta molti meno sacrifici e dolori rispetto alla tecnica che si impara nella danza, ma in ugual modo è fondamentale. Senza basi nella fotografia, ci si può solo lasciar andare a degli automatismi che il mezzo che abbiamo in mano ci dà. Altra affinità che esiste tra i due campi in questione, ma che esiste anche in tutti gli ambiti artistici, è il “sentire”. La fotografia, la danza, la musica e così via discorrendo non sono solamente esercizi tecnici, ma sono emozione, creazione, molte volte vuol dire perdersi dentro e isolarsi da tutto il resto. Quando si arriva a questo livello e si hanno le basi tecniche per poterlo affrontare, allora solo a questo punto e con questo bagaglio, ci si può permettere di non rispettare più delle regole e rivoluzionare i punti di vista. Stravolgere quello che abbiamo sempre conosciuto. Con questo progetto, che ho portato avanti grazie a questa mia cara amica ballerina e attrice, ho voluto rappresentare alcuni momenti che vanno dalla rappresentazione della tranquillità (foto con il fondale bianco) a momenti frenetici (fondale nero). Volevo approfondire e cercare di immortalare momenti che solitamente l’occhio umano non è in grado di captare a causa della velocità dei movimenti. Volevo rappresentare anche le emozioni di una ballerina durante 34 grit
i suoi movimenti, gli occhi, gli sguardi, tutti fattori che normalmente, per chi non è del campo, vengono quasi sottovalutati e non percepiti. Tecnicamente le foto sono state prodotte con una tecnica molto semplice, ma che con l’avvento di computer, macchine digitali e altre innovazioni, è andata, via via col tempo scemando, per la possibilità di creare maschere e sovrapporre immagini in post produzione. Fondamentalmente si tratta di lasciare l’otturatore della macchina fotografica aperto per un determinato numero di secondi, in base al numero di scatti e alla potenza del flash, e ogni qual volta lo si desidera, attivare l’illuminazione ( che può essere di qualsiasi tipo in base alla qualità di luce che si vuole ottenere, e al tipo di effetto che si vuole produrre). In questo modo lo stesso fotogramma verrà impressionato più volte e l’oggetto in movimento, in questo caso la ballerina, risulterà apparire in diversi luoghi contemporaneamente. In base al tipo di illuminazione inoltre si possono avere degli effetti diversi. Ad esempio usando solo la luce flash l’immagine sarà sempre nitida in ogni suo punto, “congelando” perfettamente la persona. Se invece aggiungiamo un’illuminazione secondaria continua allo schema luci, si avranno una serie di strisciate prima dell’effettivo “congelamento” dovuto al flash. Sono elementi, che dal mio punto di vista lasciano molta creatività al fotografo e tengo a precisare che l’uso della post produzione è quasi assente in queste foto, se non per contrastare leggermente l’immagine o eliminare macchie sul sensore (oramai sembra di giocare ad ”unisci i puntini” della settimana enigmistica). In questo modo ho voluto unire un esercizio puramente tecnico (il sistema di scatto) con l’emozione che la ballerina voleva trasmettere, cercando di non interferire con il naturale sviluppo degli eventi. Infatti dopo aver provato a far partire il flash in momenti ben precisi per comporre un’immagine regolare e d’effetto, ho deciso di far scattare le luci senza influenze visive, ma solamente scandito dal passare dei secondi in modo da estraniarmi completamente e far uscire ancor di più l’energia della danza. Il prodotto finale è visibile in queste foto, che sono a parer mio un excursus che racconta come la danza abbinata alla fotografia possa rappresentare tranquillamente momenti di tranquillità come momenti di frenesia, cogliendo attimi nascosti che solitamente non riusciamo a percepire.
I’ve always seen dance as an incredible way to express your own emotions. I’ve never been able to dance, but sometimes, when I see a good dancer performing, I feel a certain jealousy. I envy their almost total dedication to what they do, I could never do it. It’s a physical and mental dedication, which involves a lot of suffering and it isn’t sure it’ll always give great satisfaction. The elegance and the sinuosity of the movements made are extraordinary, sometimes at the border of what is possible. There are many similarities between dance and photography, even if you wouldn’t say so. What they try to do is what I try to de every day: give emotions. And it is something very complicated. But both are the result of different elements that mix together to make the final result as beautiful as possible. As in dance, in photography technique is essential. Surely it is easier to learn and it involves less sacrifices and less pain than the technique that you learn in dance, but is equally important. Without basis in the picture, you can only let yourself be dominated by the automation the means we have in our hand gives us. Another similarity there is between the two fields, that exists in all the artistic fields, is the feeling. Photography, dance, music and so on aren’t simply technical exercises, but emotion, creation, many times it means getting lost in it and isolating yourself from the rest of the world. When you get to this level and you have the basic techniques to approach it, only at this point and with this knowledge you can brake most of the rules and revolution points of view and what we have always known. With this project, that I carried out thanks to a dear friend of mine, who is a dancer and an actress, I wanted to represent a few moments, ranging from the representation of tranquillity (pictures with the white background) to frantic moments (pictures with the black background).
Technically photos were produced with a very simple technique, but with the advent of computers, digital cameras and other innovations, with the possibility of creating masks and of overlaying images in post production, it’s been used always less. Basically you should leave the camera shutter open for a certain number of seconds, depending on the number of shots and on the power of the flash. When you want to, activate the lighting (which can be of any type). In this way the same photo will be impressed multiple times and the moving object, in this case the dancer, will appear in several places simultaneously. Depending on the type of lighting, it can also have different effects. For example, using only the light flash, the image will always be clear on every point, “freezing” perfectly the person. If you add continuous secondary lighting, there will be a series of moved images before the actual “freezing” due to the flash. These elements, which from my point of view leave a lot of creativity to the photographer and I want to clarify that the use of post-production is almost absent in these photos, if not to contrast slightly the image or eliminate stains on the sensor. In this way I wanted to combine a purely technical exercise (the trigger system) with the emotion that the dancer wanted to convey, trying not to interfere with the natural development of events. In fact, after trying to start the flash in very specific moments to compose a regular and impressive image, I decided to use the lights without visual influences, but only following the passing of seconds to abstract myself completely and show even more the energy of dance. The final product is visible in these photos, which are in my opinion an overview that describes how dance and photography can be easily combined with the quiet moments and moments of frenzy, capturing hidden moments we usually can’t perceive.
I wanted to try and capture moments that usually the human eye is not able to pick up due to the speed of movements. I wanted to represent the emotions of a dancer while moving, the eyes, the looks, all of which are usually understated and not perceived. grit 35
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ESSERE NEI MIEI PANNI fotografie e testi Donata Basile
Il mio è un percorso lavorativo fotografico come tanti altri; da vivere step by step:
Mine is a photographic career like many others; to be lived step by step:
step 1 Studiare nei dettagli tutte le sfumature delle differenti realtà e renderle proprie step 2 Spogliarsi della propria personalità e della propria immagine per avvicinarsi il più possibile all’anima delle persone e dei luoghi step 3 Sul luogo velocizzare il disagio che nasce all’impatto e con coscienza affidarsi al destino step 4 Essere curiosi ma sempre con rispetto e tatto
step 1 Study in detail all the nuances of different situations and make them my own step 2 Abandon my personality and image to get as close as possible to the soul of people and places step 3 On site speed up the discomfort that comes at the moment and put myself in the hands of fate with con science. step 4 Be curious but always with respect and tact
Certo non è tutto, ma è su queste basi che da diversi anni affronto in solitaria i miei viaggi lavorativi per coglierne un’essenza tutta mia. E’ così che riesco a stupirmi della bellezza nascosta degli imprevisti e a divertirmi nel coglierne il sapore non scontato. E’ soprattutto in situazioni più ardue che mi riscopro tenace e comunque obbligata ad osservare il mondo da più angolazioni.E’ importante per me sentirmi artefice di interpretazioni immortali della realà; una necessità infinita di dare per avere e restituire per gioire; tanto da non poterne più fare a meno.
Of course not everything, but it is on this basis that for several years I’ve travelled alone to grasp my own essence of my work journeys. It’s mainly in the most difficult situations that I find myself determined and obliged to look at the world from different points of view. It is important for me to feel maker of immortal interpretions of reality; an infinite need to give to have and give back to rejoice, so that I can’t do without it.
Il mio è un reportage ad ampio raggio d’azione perché ho una formazione grafica, uno spirito organizzativo, un gusto molto rock, una passione per la street ma anche un’anima particolarmente emotiva. E’ per questo che in me non si riconosce uno stile ben preciso; oltretutto ogni soggetto ha una sua personalità che non può essere letta e interpretata come nessun altra. Questo mi permette di amare il mio lavoro sia in campo pubblicitario che in quello reportagistico; è essenziale per me arrivare comunque ad una fotografia che comunichi o incuriosisca, se poi riuscisse anche a regalare emozioni…allora la mia soddisfazione sarebbe totalmente appagata. In questa occasione ho pensato di rappresentarmi attraverso alcuni scatti di archivio della mostra “WE BEGIN TO LIVE THE DAY WE LEARN TO SEE” realizzati in Cina che interpretano il concetto di camminare o comunque spostarsi nello spazio; per motivi differenti, in situazioni differenti e con soluzioni differenti. In fin dei conti anch’io “walking in my shoes”. 48 grit
Mine is a broad reportage, because my training was as a graphic, I have an organisational spirit, a very rock taste, a passion for street photography but also a very emotional heart. It’s because of this that I don’t have a very precise style; what’s more is that every subject has a personality that can be read and interpreted like any other. This allows me to love my job both in advertisment and in reportage; it’s essential for me to get to a photograph that communicates something or intrigues, and if it could even give emotions, my satisfaction would be total. On this occasion I decided to represent myself through some archive shots from the exhibition “WE BEGIN TO LIVE THE DAY WE LEARN TO SEE” took in China which interpret the concept of walking and moving in space, for different reasons, in different situations and with different solutions. In the end, I am “walking in my shoes” too.
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IL GUATEMALA, PER CASO
fotografie e testi YoRosco (Giuseppe Tricarico)
In Guatemala ci sono arrivato per caso. Avevo un buco di qualche settimana tra il vecchio lavoro e quello nuovo, un amico si era trasferito temporaneamente ad Antigua ed io volevo mettermi alla prova fotograficamente. Ero in una di quelle fasi in cui ti senti incapace di tutto e allora giochi la carta jolly per rimischiare il mazzo. La carta jolly era la fotografia e il mazzo non è mai più tornato quello di prima. Queste foto sono parte del risultato, un estratto del reportage di 10 giorni nel settembre 2011 la cui serie prende il nome di “facing life”. “facing life” è per me l’equivalente di “prendere la vita di faccia” (forse il termine inglese è un altro … ma così suona veramente figo), in un contesto, come il Guatemala, dove la realtà in cui vivi ti si presenta agli occhi senza mezzi termini. Ecco che, ad esempio, alla classica tenerezza di una bambina ho preferito la sua sfrontatezza, all’accoglienza ho sostituito la sfida di ragazzini che non ti lasciano varcare la soglia, alla natura caraibica un mercato al chiuso e ai giochi d’infanzia un coltello tra le mani di una piccola donna nella polvere evanescente. Come scritto, ero in un periodo di sfida con me stesso, rielaborata in quei giorni attraverso i colori di Antigua, l’attitudine dei soggetti di Tikal, l’energia di Chichicastenango con il solo obiettivo di creare distanza tra l’osservatore e i soggetti, una distanza evidente ed incolmabile. Non sono un fotografo di reportage ma una cosa posso dire con certezza:questa esperienza è stata una palestra fotografica impagabile. Il grado di concentrazione che puoi raggiungere se tutto quello che fai, che vedi, che scopri ha come unico scopo il cacciare una foto che ti renda appagato ha qualcosa di molto simile allo Zen, una sensazione per me nuovissima ed incredibilmente intensa, stancantissima per certi versi. Quello che voglio lasciare a Grit è un consiglio a chi come me dedica si tempo ed energia alla fotografia ma proiettata molto all’assimilazione, all’osservazione e non ha ancora avuto modo di capire cosa sia realmente in grado di fare. Prendetevi tempo! Non ore ma giorni, settimane. Partite soli, il luogo non conta ma lontano abbastanza affinchè il “nuovo” stimoli adrenalina in ogni poro. Pensate 24h su 24 alla fotografia, sognate di fotografare quello che avete visto durante il giorno, analizzate cosa stia cambiando nel vostro modo di passeggiare, di guardare, di parlare con gli sconosciuti, schematizzate l’evoluzione del vostro sguardo, capite come tutto si stia rallentando perché state diventando voi più veloci, godete del fatto di starvi trasformando in animali. Senza mettersi in gioco al 110% la fotografia ti offre purtroppo troppe scuse per non crescere veramente e i soli colpevoli sarete stati voi stessi. In definitiva: Avete una ragazza/ragazzo? Dite di avere bisogno di aria… da soli! Avete figli? Portategli un bel regalo al ritorno! Avete una moglie? Ditele che uscite per andare a comprare le sigarette… funziona generalmente! 62 grit
I went in Guatemala by accident. I had a gap of a few weeks between the old job and the new one, a friend had moved temporarily to Antigua and I wanted to photographically test myself. I was in one of those phases where you feel incapable of anything and and so you play the wild card to shuffle the deck. The wild card was photography and the deck never became what it was before. These photos are part of the result, an extract from the reportage called ‘facing life’ from 10 days in September 2011. “Facing life” in a context, such as Guatemala, where the reality in which you live is presented to the eyes like it is. Here, for example, I preferred a child’s cockiness to her classic tenderness, I replaced welcome with the dare of kids who won’t let you cross the threshold, I replaced the Caribbean nature with an indoor market and childhood games with a knife in tha hands of a small woman in the evanescent dust. As written, I was in a period of challenge with myself, re-elaborated in those days through the colours of Antigua, the attitude of those of Tikal, the energy of Chichicastenango with the only aim of creating distance between the viewer and the subject, a clear and unbridgeable distance. I’m not a reportage photographer, but I can say one thing for sure: this experience was a priceless photographic gym. The degree of concentration that you can reach if everything you do, you see, you discover has the only purpose of hunting a photo that makes you satisfied has something very similar to Zen, a feeling for me very new and incredibly intense, very tiring for certain aspects. What I want to leave Grit is an advice to people like me who dedicate time and energy to photography, but very projected to assimilation, observation and hasn’t been able to understand what they’re really able to do. Take your time! Not hours but days, weeks. Leave alone, the place doesn’t matter, but it has to be far enough for what is new to stimulate adrenaline in every pore. Think 24/7 about photography, dream of photographing what you saw during the day, analyze what is changing in the way you walk, look, talk to strangers, summarize the evolution of your look, you understand how everything is slowing down because you are becoming faster, enjoy the fact that you’re turning into animals. Without putting yourself in it at 110%, photography offers unfortunately too many excuses not to really grow and you will be the only ones to be called guilty. For short: Do you have a girlfriend / boyfriend? Tell them you need fresh air ... alone! Do you have children? Bring them a nice gift when you come back! Do you have a wife? Tell her you’re going out to buy cigarettes… It usually works!
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the signportrait Lorenzo Damiani text Giorgio Bonaguro Photo Andrea Basile
Si dice che la fotografia riesca a cogliere un momento della vita, o del tempo, o dello spazio; se si tratta di una foto di un tuo progetto, tu pensi che questa foto riesca a cogliere il senso del tuo progetto? Certamente. Un bravo fotografo riesce a cogliere ogni minima sfumatura della vita … figuriamoci l’idea che sottende un progetto. Quale momento del tuo iter progettuale fotograferesti per spiegare il tuo essere designer? Il progetto è un percorso “a tappe” … allora direi la partenza: all’inizio, quando nasce l’idea c’è sempre un’emozione particolare. E’ molto di moda in questo periodo l’ autoproduzione, che ne pensi? Credo che l’autoproduzione sia una strada alternativa molto interessante, se non viene intesa come scorciatoia. Adesso è di gran moda e la cosa che non mi piace. In che modo riformuleresti, se pensi che si debba fare, il mestiere del designer? Il design è un processo di negoziazione e il designer ne è l’artefice. Detto questo… ogni designer dovrebbe essere consapevole che anche il più piccolo progetto rappresenta una scelta di campo. Quale progetto tra i tuoi progetti passati non faresti, se c’è, se potessi tornare indietro? E quale riprenderesti ora per svilupparlo? Spesso mi capita di riguardare dei 74 grit
vecchi progetti e pensare che li rifarei ancora oggi. Se penso, ad esempio, alla lampada Packlight del 1995 non cambierei una curva. Immaginiamo che tu possa scegliere un collega tra i grandi designer italiani o stranieri, anche tra quelli che, purtroppo non sono più tra noi, per fare un progetto con lui/lei, chi sceglieresti? Achille Castiglioni. E se dovessi fare un progetto con uno dei giovani designer, italiani o stranieri, che hanno iniziato ora la professione, a chi sceglieresti? Mio nipotino Edoardo: dieci anni. Ogni anno progettiamo insieme il regalo di Natale per sua mamma. Molti anni fa ho progettato una collezione di specchi utilizzando alcuni suoi disegni di dinosauri poi elaborati graficamente… bellissimi (i suoi disegni). Nel design attuale è molto importante il tema della sostenibilità; cos’è per te la sostenibilità? Sono stanco di sentir parlare di design ecologico, sostenibile e tutto il resto perché – nel 2013 – il mondo degli oggetti che ci circonda dovrebbe esserlo a prescindere da tutto: insomma, la sostenibilità dovrebbe essere un aspetto ormai assodato. Per me la sostenibilità è un modo di pensare che deve convivere con tutto il resto del progetto e, più in generale, nel modo di agire: pensieri e azioni vengono
filtrati attraverso “l’imbuto della sostenibilità” per poi svilupparsi. Penso che la sostenibilità sia un filtro che permetta di guardare il mondo con uno sguardo più attento alle logiche che ci circondano; parlo di una sostenibilità che riguarda le cose, le persone e i rapporti con l’ambiente. Cos’è un progetto/prodotto sostenibile per te? Un prodotto, dal mio punto di vista, è sostenibile nel momento in cui viene progettato cercando di rispettare tutti quegli attori che entrano in contatto con l’oggetto stesso e con “attori” intendo gli operai, gli utilizzatori, l’ambiente prima e dopo, ecc. Quale prodotto, che è in un settore completamente diverso da quello in cui tu lavori, ti piacerebbe progettare? Forse un trattore.
inter v I Truciolari: Cosa vuoi comunicare con questo progetto? La collezione “truciolari” rappresenta la volontà di lanciare un messaggio: utilizzare le risorse in modo alternativo. Questa collezione è realizzata utilizzando pannelli di truciolare incollati e modellati al tornio oppure con frese a controllo numerico. L’idea nasce con l’obiettivo di utilizzare un semilavorato che, solitamente, viene considerato come “povero” e viene nobilitato con impiallacciature o vernici: ecco che, invece, in questo caso il truciolare viene nobilitato senza essere nascosto attraverso un processo di trasformazione che lo rende prezioso alla vista e al tatto. Quando inizi un progetto parti dal materiale, dall’utilizzo che si fa del prodotto, dal tipo di lavorazione, o dall’emozione che genera nell’utilizzatore? Inizio da uno o più aspetti che hai citato e che, nella maggior parte dei casi, finiscono per intrecciarsi tra loro generando nuovi “punti di vista”. Nel caso dei Truciolari? Come dicevo prima … dalla volontà di utilizzare in modo alternativo un semilavorato tanto conosciuto ma utilizzato sempre nello stesso modo. Ho voluto utilizzare il truciolare perché
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considerato, nell’industria del mobile, il materiale più povero tra i poveri. La domanda di partenza è stata quella di trovare nuovi modi di utilizzo. La risposta la lascio a voi. E’ questo un esempio di progetto sostenibile per te? Perchè? Il truciolare usato deriva da piantagioni di pioppoculture, ossia delle piante coltivate per essere appositamente tagliate ciclicamente dall’uomo: quindi, non si utilizzano piante derivanti da boschi con conseguente aumento di CO2. L’oggetto generato è completamente riciclabile. Inoltre, la collezione prevede degli oggetti realizzati in legno massello e truciolare che seguono la poetica del paradosso: in questo caso, la striscia di truciolare (che è un materiale povero) con la sua presenza nobilita e arricchisce il legno massello presente in maggior quantità. Dalla differenza si ottiene, a volte, un arricchimento. In che modo un utente dovrebbe utilizzare, dovrebbe “consumare” questi oggetti? Semplicemente capendo che tutto può essere letto in modo diverso. Sono importanti le alternative. Anche questa riflessione porta ad un’idea di sostenibilità. Non dobbiamo soffermarci e fossilizzarci sulle
esperienze acquisite, dobbiamo sperimentare per trovare nuove possibilità. Quale aspetto principale dovrebbe evidenziare una foto che “catturi” i truciolari”? Sicuramente la forza espressiva della tornitura applicata ad un materiale solitamente sezionato, tagliato, forato … credo che il fotografo sia riuscito pienamente nell’intento di trasmettere e restituire lo spirito di questa alternativa. In che modo vorresti continuare uno sviluppo di questo progetto? La collezione “Truciolari” è composta da circa cinquanta elementi …. direi che possano bastare. Del resto il messaggio mi sembra chiaro. L’importanza di questa collezione non è la forma dei singoli oggetti: la scintilla alla base di tutto è l’idea di aver utilizzato un semilavorato tradizionale e conosciuto e lavorato/trasformato con tecnologie altrettanto tradizionali e conosciute. La variabile impazzita di questo discorso sta nell’aver messo in relazione questo materiale e questa lavorazione generando un’alternativa inedita.
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They say photography is able to capture a moment of life, or time, or space; if it is a picture of one of your projects, do you think that this photo will be able to express what your project means? Certainly. A good photographer captures every nuance of life, let alone the idea there is behind a project. Which moment of your planning process would you photograph to explain your being a designer? The project is a path “in stages” ... so I would say the start: at the beginning, when the idea there is always a special feeling. Self production is very frequent in these times, what do you think about it? I think self production is a very interesting alternative route, unless it is understood as a shortcut. Now it is very frequent and I don’t like it. How would you change, if you think it should be done, the job of the designer? Design is a process of negotiation and the designer is the author. Having said this... every designer should be aware that even the smallest project represents a choice of field. If there is one, what project between your past ones you wouldn’t do if you could go back? And what one would you reconsider to develop? I often look again at old projects and I think that I would do them again today. If I think, for example, of the Packlight lamp from 1995, I would not change a curve. Imagine you can choose from the great Italian and foreign designers, even among those who, unfortunately, are no longer with us, a colleague to do a project with him / her, who would you choose? Achille Castiglioni. And if you had to do a project with one of the young designers, both Italian and foreign, who have now started working, who would you choose? My grandson Edoard: ten years old. Every year we design together a Christmas present for his mother. Many years ago I designed a collection of mirrors using some of his drawings of dinosaurs I then processed graphically… beautiful (his drawings). 76 grit
In current design sustainability is very important, what is sustainability for you? I’m tired of hearing about green design, sustainable and everything else because - in 2013 - the world of objects around us should be sustainable no matter what: for short, sustainability should be a well established matter. For me, sustainability is a way of thinking that has to live with the rest of the project and, more generally, in the way of doing things: thoughts and actions are filtered by the “funnel of sustainability” and to be then developed. I think sustainability is a filter that allows you to watch the world with a closer look at the logic that surrounds us; I speak of sustainability that is about things, people, and relationships with the environment. What is a sustainable project or product for you? A product, from my point of view, is sustainable when it is designed trying to respect all those actors who come into contact with the object itself, and with actors I mean workers, consumers, the environment before and after, etc… Which product from a completely different area than where you work you would like to design? Maybe a tractor. Chipboards: What do you want to communicate with this project? The collection “chipboards” represents the will to send a message: use resources in an alternative way. This collection was made using chipboards, that were glued and shaped on a lathe or with numerically controlled milling machines. The idea was born with the aim to make a semi-finished product that is usually considered poor and is made richer with veneer o paints: here, instead, chipboards are embellished without being hidden through a process that makes them precious to the sight and the touch. When beginning a project, do you start by the material, by how the product is used, by the type of processing, or by the emotion that is generated in the consumer? Starting from one or more aspects you mentioned and which, in most cases, end up intertwined, generating new “points of view”.
In the case of the chipboards? As I said before ... the desire to use alternative way as semi-finished, but used in the same way. I wanted to use chipboards because it was considered, in the furniture, the poorest of poor materials. The initial question was to find new ways to use it. I leave the answer to you. Is this an example of sustainable design for you? Why? The chipboard used derives from plantations of poplar, of cultivated plants to be specially cut cyclically by man: therefore, plants arising from woods with consequent increase of CO2 aren’t used. The final product is fully recyclable. In addition, the collection includes objects made of solid wood and chipboard following the poetics of paradox: in this case, the strip of chipboard (which is a poor material) with its presence embellishes and enriches the wood present in highest quantities. Sometimes, you obtain an enrichment from differences. How should a consumer use these objects, should he “consume” them? Simply realizing that everything can be read in different ways. Alternatives are important. Even this consideration leads to the idea of sustainability. We shouldn’t stop and fossilize ourselves on the experiences we made, we should experiment to find new possibilities. What main aspect should a photo of the chipboards highlight? Surely the expressive power of turning applied to a material which is usually dissected, cut, drilled ... I think the photographer has succeeded fully in order to transmit and return to the spirit of this alternative. How would you like to continue the development of this project? The collection “Chipboards” is composed of about fifty pieces .... I would say that they’re enough. The message seems clear to me. The importance of this collection is not the form of the single objects: the spark behind it all is the idea of having used a traditional semi-finished material and having known and worked / turned it with equally traditional and well-known technologies. The wild card of this matter lies in having correlated this material and this process generating a new alternative.
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Truciolari
Truciolari
Panchina
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Post-azione
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Foglio
Omolux
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AREHGOV NI SLELLARAP
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VOGHERA IN PARALLELS
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L’AMPLIAMENTO DEL CIMITERO MAGGIORE DI VOGHERA DI ANTONIO MONESTIROLI fotografie e testi Alessio Matteucci
Non sempre a Voghera c’è nebbia e pioggia ma capitano anche giornate,in pieno inverno,in cui è il sole a prendere il sopravvento sull’umidità e sul grigiore della pianura padana. Approfittando di una giornata così non potevo non andare a visitare il cimitero Maggiore della città e in particolare il suo moderno ampliamento,ad opera di Antonio Monestiroli. Il mio interesse nei suoi confronti nacque quando ne vidi una foto in bianco e nero su una rivista di architettura. Da quel momento ho avuto il desiderio di realizzare una serie di scatti,a colori pero’,che potessero documentare l’opera. La relazione forma e necessità sta a fondamento della struttura,un esempio di monumentalità moderna,ben diversa da quella imperante nell’Ottocento ma non meno suggestiva. Dominante il modulo del quadrato annunciato dal vestibolo,impreziosito da un verde tappeto naturalistico , che introduce ad uno spazio inabitato, lunare. La sensibilità per il ritmo delle superfici fa sì che il roseo mattone a vista venga illuminato dalla presenza di formelle quadrate di pietra bianca che lo rivelano luogo simbolico. La muraglia che cinge la struttura separa il mondo che ha conquistato la pietas da quello destinato alle sfide accanite. Ma negli stretti, e quasi senza fine, interni passaggi, in cui si affacciano i nomi di coloro che vi riposano, il severo mito di Orfeo domina incontrastato rammentando che contro la fatidica soglia solo può uno sguardo all’indietro. Eppure l’atmosfera che permea la struttura contraddice il credo laicista, proprio del nostro tempo, sottintendendo la più ortodossa visione religiosa. Il misterioso logos cristiano avvolge i protagonisti di questa particolare comunità realizzandosi in fasci di luci che, con la loro energia ,li sottraggono alle tenebre conducendoli ad una superiore conoscenza senza annullare ciò che li fece uomini e donne,capaci di amare,operare,vivere in pienezza. 90 grit
There aren’t only fog and rain in Voghera, but sometimes, in the middle of the winter, there are days when the sun takes over humidity and the grayness of the Po valley. Taking advantage of a day like this I had to go and visit the Major cemetery of the city and especially its modern extension, made by Antonio Monestiroli. My interest in him was born when I saw a black and white photo of him on an architectural magazine. From that moment on I had the desire to create a series of colour photographs that could document his work. The link between shape and needs is the basis of the structure, an example of a modern monumental building, very different from what prevailed during the nineteenth century but not less evocative. Dominating the square announced by the vestibule, adorned by a green natural carpet, ushering an uninhabited, lunar space. The sensitivity to the rhythm of the surfaces causes the pinkish brickwork to be illuminated by the presence of square panels of white stone that reveal the symbolic place. The wall that surrounds the structure separates the world that has won the pietas from the one for fierce challenges. But in the narrow and almost endless internal passages, which overlook the names of those who rest in them, the severe myth of Orpheus dominates uncontested recalling that there is only a look backwards before the fateful threshold. Yet the atmosphere that permeates the structure contradicts the secularism of our times, implying the most orthodox religious views. The mysterious Christian logos surrounds the protagonists of this particular community realizing itself in beams of lights, which, with their energy, take away the darkness leading them to a higher knowledge without nullifying what made them men and women able to love, to work, to live in fullness.
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LA SOLITUDINE DEL CITTADINO GLOBALE
fotografie e testi Simone Angioletti
Viaggiare in treno ha da sempre avuto per me un fascino particolare. Diversamente dall’automobile, ad esempio, non richiede un coinvolgimento attivo - accelerare, frenare, controllare dove svoltare -. Sospesi in questo <<non luogo>> si ha tempo per pensare, e per la durata del percorso la sensazione è quella di appartenere ad un mondo a sé, separato dal fluire di ciò che si vede al di fuori del finestrino. Se si viaggia da soli, in particolare, questa sensazione si avverte ancora di più: le altre persone che eventualmente si possono trovare nella nostra stessa carrozza sono in realtà delle <<non persone>>, qualcosa con cui le interazioni vanno ridotte al minimo indispensabile, se possibile evitate del tutto, o nella maggior parte dei casi avvertite come sconvenienti. Questa particolare situazione, ad un’analisi più approfondita, si rivela tipica della realtà di molte persone che vivono nel cosiddetto “mondo civile”. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha coniato una felice espressione per indicare questa condizione, definendola come <<modernità liquida>>: un mondo dominato dall’incertezza, dal continuo e sempre più rapido cambiamento, dalla continuità vista non più come un privilegio ma come un handicap. Nel mondo <<liquido>> in cui viviamo, il potere è di chi si sa muovere velocemente, di chi sa cogliere le occasioni che gli si presentano senza invischiarsi in contratti a lungo termine, di chi viaggia con una 24ore e un computer portatile. In nome della libertà di scelta, la responsabilità del proprio successo (o della propria rovina) viene sempre di più posta sulle spalle dei singoli individui. Il paesaggio fuori dal finestrino non è mai lo stesso, e appare sempre comunque un po’ sfocato a causa della velocità. L’unica certezza è quella che il treno continua il suo viaggio, l’unico punto fermo è lo schermo dove scrivo queste parole. In nome della libertà di scelta, la responsabilità del proprio successo (o della propria rovina) viene sempre di più posta sulle spalle dei singoli individui. La sensazione che si prova è di una costante insicurezza, quasi mai palese ma sempre presente come una musica di sottofondo percepita a tratti, un senso di aspettativa che passa alternativamente dall’ansia all’eccitazione, all’apatia. L’unico momento di pace è nel viaggio, appunto, ma è una pace puramente illusoria, momentanea, sospesa. Il paesaggio fuori dal finestrino non è mai lo stesso, e appare sempre comunque un po’ sfocato a causa della velocità. L’unica certezza è quella che il treno continua il suo viaggio, l’unico punto fermo è lo schermo dove scrivo queste parole. 104 grit
Travelling by train has always been very fascinating to me. Unlike the car, for example, it doesn’t require the active involvement - accelerate,brake, check where to turn -. Suspended in this area <<no place>> you have time to think, and during the journey you have the feeling of belonging to a different world, separated from the flow of what you see outside the window. If you’re travelling alone, the feeling is stronger: the other people that are in the carriage in reality are <<not people>>, someone with which interactions should be kept to a minimum, of not avoided altogether, or in most cases perceived as inappropriate. This particular situation, at a more detailed analysis, reveals itself typical of the reality of many people who lived in the so-called “civilized world”. The Polish sociologist Zygmunt Bauman cleverly called it <<liquid modernity>>: a world dominated by uncertainty, by the constant and increasingly rapid change, by continuity which is no longer seen as a privilege but as a handicap. In the <<liquid>> world in which we live, the power is of who knows how to move quickly, of who knows how to seize the opportunities that come onto his way without getting stuck in longterm contracts, of who travels with a business bag and a laptop. In name of freedom of choice, the responsibility for your own success (or your own failure) is increasingly being placed on the shoulders of individual persons. The scenery outside the window is never the same, and it’s always a bit blurred because of the speed. The only certainty is that the train continues its journey, the only fixed point is the screen where I write these words. The feeling you have is of constant uncertainty, it’s hardly ever obvious, but always there as a music on the background you hear only sometimes, the feeling you have is of expectation or anxiety, or excitement or apathy. The only moment of peace is during the journey, but it is purely illusory, temporary, suspended. The scenery outside the window is never the same, and is always still a bit ‘blurred because of speed. The only certainty is that the train continues its journey, the only fixed point is the screen where I write these words.
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SPECIAL PEOPLE by 15 y.o. Marta Sanders
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L’adolescenza è l’età della ricerca di identità personale. A quanto pare non è così facile trovarla. E se non lo è per me non posso immaginare come sia per loro. Giacomo e Davide sono i miei fratelli e sono gemelli omozigoti, ovvero hanno lo stesso DNA. Nelle foto di quando erano piccoli faticano a riconoscere se stessi, la maggior parte delle persone li chiama ‘i gemelli’ oppure ‘Giacomodavide’. Per la maggior parte delle persone uno vale l’altro. Alejandro e Angelo sono stati adottati quando erano ancora piccoli. Ale è ecuadoregno e Angelo è italiano. Con i loro genitori si comportano come mi comporto io coi miei, ma dubitano mai che da dove vengono non sia dall’amore dei loro genitori adottivi ma dai loro genitori biologici? Rossana è molto più simpatica a casa che a scuola. E’ amata a casa, ma a scuola non è sempre stato così e sente ancora molto quel periodo. Sempre meno, ma non si dimentica in fretta. Non ho idea di chi sia io così, non voglio immaginare se fossi loro. Teenage years are the years of research of personal identity. Apparently finding it isn’t so easy. And if it isn’t for me, I can’t imagine what it’s like for them. Giacomo and Davide are my brothers and they are identical twins, so they have the same DNA. They even struggle to recognize themselves in the photos from when they were little, most people call them ‘the twins’ or ‘Giacomodavide’. For most people one is worth an other. Alejandro and Angelo were adopted when they were very young. Ale is from Ecuador and Angelo is Italian. With their parents they behave in the same way I behave with mine, but do they ever doubt that where they come from isn’t the love of their parents, but their biological parents? Rossana is much nicer at home than at school. At home she is loved, but it’s not always been like this at school and she is still influenced by that period. She’s always better, but she can’t forget easily. I have no idea who I am, I can’t imagine what it would be like if I were them.
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