Locomotive a vapore - Gribaudo 2010

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«Quando una macchina aveva i cassetti di distribuzione come i suoi, di una regolazione perfetta, dividendo miracolosamente il vapore, era lecito tollerare tutte le imperfezioni, come si farebbe per una donna di casa capricciosa, ma saggia ed economa. Certo, consumava troppo lubrificante. E allora? Bisognava ingrassarla, tutto qui. E proprio in quel momento, esasperato, Jacques ripeteva: ”Non ce la farà mai a salire, se non la si ingrassa“. Prese la latta per oliarla durante la marcia, cosa che non aveva fatto nemmeno tre volte in vita sua. Scavalcando la rampa, salì sulla stretta pedana seguendo per tutta la lunghezza la caldaia. Era una delle manovre più pericolose: scivolava sulla piattaforma di ferro bagnata dalla neve, mentre il vento furioso, oltre che accecarlo, minacciava di spazzarlo via come un fuscello. La Lison, con quell’uomo accovacciato al suo fianco, continuava la corsa affannosa nel buio tra l’immensa coltre bianca, aprendosi un profondo solco. Lo scuoteva, lo sbatacchiava. Giunto sulla traversa anteriore, Jacques si aggrappò alla scatola di lubrificazione del cilindro di destra e, per riempirla, dovette penare duramente, tenendosi afferrato con una mano alla barra. Poi dovette rigirarsi, come un insetto rampante, per andare a ingrassare il cilindro di sinistra. E quando, estenuato, ritornò al suo posto, era pallidissimo, aveva sentito la morte passargli vicino. ”Sporca carogna“ mormorò.» Émile Zola, La bête humaine, 1890


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Storia della locomotiva a vapore in europa Testi: Stefano Garzaro Foto: Archivio Stefano Garzaro, Archivio Giancarlo Ganzerla Redazione Edizioni Gribaudo Via Garofoli, 262 - San Giovanni Lupatoto (VR) tel. 045 6152479 - fax 045 6152440 e-mail: redazione@gribaudo.it Responsabile editoriale: Franco Busti Responsabile di redazione: Laura Rapelli Redazione: Paola Morelli Responsabile grafico: Monica Priante Progetto grafico e impaginazione: Guillermo Vincenti Fotolito e prestampa: Federico Cavallon, Fabio Compri Segreteria di redazione: Daniela Albertini Stampa: Grafiche Busti - Colognola ai Colli (VR) © Edizioni GRIBAUDO srl Via Natale Battaglia, 12 – Milano e-mail: info@gribaudo.it www.edizionigribaudo.it Prima edizione: 2010 [6(C)] 978-88-7906-972-4 Tutti i diritti sono riservati, in Italia e all’estero, per tutti i Paesi. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma (fotomeccanica, fotocopia, elettronica, chimica, su disco o altro, compresi cinema, radio, televisione) senza autorizzazione scritta da parte dell’Editore. In ogni caso di riproduzione abusiva si procederà d’ufficio a norma di legge.

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Sommario Introduzione Un bello e orribile mostro Alla conquista del mondo Il duello Le grandi imprese La bufera Locomotive record in Inghilterra, Germania e Francia Due invenzioni geniali Tiro al bersaglio sulla locomotiva Il vapore non regge i trasporti di massa Tre immagini per chiudere una storia Bibliografia

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egli anni Sessanta e Settanta del Novecento, con la disponibilità di nuovi mezzi di trasporto alimentati dai derivati del petrolio, nelle ferrovie europee si scatenò la caccia alla locomotiva a vapore. Le cannonate più secche vennero proprio dalle società ferroviarie, che volevano disfarsi di macchine non più competitive. Quelle compagnie, inoltre, impegnate in una durissima battaglia contro il nuovo trasporto automobilistico di massa, avevano assoldato le agenzie pubblicitarie per farsi cucire addosso un’immagine di futuro ultratecnologico, e perciò non tolleravano macchie di fumo nero. La vaporiera divenne sgraditissima anche ai viaggiatori: grazie alle automotrici a gasolio nessuno correva più il rischio di ritrovarsi colletto e polsini neri di fuliggine a fine viaggio. La locomotiva era sopportata peggio ancora dai ferrovieri, che preferivano lavorare – e quanto mai giustamente – in ambienti più puliti e meno esposti a vento e tempeste. Il vapore era davvero un fantasma di cui vergognarsi. Nessuna riconoscenza per chi, per quasi due secoli, aveva alleggerito la fatica di uomini e cavalli come nessun altro. La locomotiva aveva trasportato massicci lingotti dalle industrie metallurgiche della Ruhr ai porti olandesi, pecore e capre dalle colline irlandesi ai mercati del Connemara, vetri colorati dalle fornaci veneziane agli empori parigini. Aveva partecipato – pur senza che le fosse chiesto un parere – a costruire nuovi imperi non più fondati sull’albero genealogico ma sui capitali, e a testa bassa aveva condotto al massacro i soldati che dovevano difendere quegli imperi. La storia della locomotiva si è chiusa a fine millennio, proprio quando le maggiori reti ferroviarie festeggiavano il loro secolo e mezzo di vita. Soltanto allora il vecchio fantasma smise di far paura: con la giusta dose di ipocrisia, la vaporiera venne innalzata su quei piedistalli – sparsi tra parchi e musei – dove già riposavano vecchi eroi arrugginiti con spade levate e libri socchiusi. I primi esperimenti con la macchina a vapore avevano ottenuto grande successo di critica e di pubblico già all’inizio dell’Ottocento. Poi, lungo tutto il secolo, vennero sviluppati i meccanismi fondamentali riguardanti il motore, la caldaia, la distribuzione, gli economizzatori di energia. La locomotiva entrò nel Novecento pienamente matura e

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INTRODUZIONE

nella prima metà del secolo fu perfezionata fino all’estremo da tecnici di vero genio. La ricostruzione che seguì la Seconda guerra mondiale riguardò ogni campo della tecnica, ma non quello del vapore. La locomotiva infatti si impantanò in una crisi senza ritorno e subì una decadenza rovinosa causata dalle ben più efficienti locomotive elettriche e diesel, e soprattutto dal trasporto automobilistico. La storia del vapore in Europa, raccolta in questo libro, rivela a ogni passo cronache di persone, dal tecnico minerario abile a cogliere d’istinto le reazioni del metallo al calore, all’ingegnere appassionato di calcoli che giunse per via teorica a progettare caldaie dal rendimento portentoso. Se apprezzeremo le vicende di quelle persone, con i loro successi e le loro sfortune, il fantasma della locomotiva potrà riposarsene in pace, senza dover correre senza sosta nelle notti di vento con il suo rumore di ferraglia. Stefano Garzaro

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Un bello e orribile mostro LE ORIGINI 1815 - 1874


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«Che cosa può esserci di più palesemente assurdo di una locomotiva che viaggi a una velocità doppia di quella di una diligenza?». “The Quarterly Review” marzo 1825

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latone, Leonardo da Vinci, Hegel e Napoleone andavano a cavallo. Dopo di loro, l’umanità iniziò a muoversi in treno. Gli storici a cui piace spezzare il tempo in blocchi, come se vivessimo dentro a un film a puntate, fanno iniziare l’età contemporanea dal 1815, da quel Congresso di Vienna che sancì la restaurazione dopo le turbolenze napoleoniche. Ma la vera rivoluzione rispetto all’epoca precedente è segnata dalla macchina a vapore. Con questa inizia l’era della borghesia, in cui cadono le gerarchie istituzionalizzate – il titolo ormai fantasma di Imperatore del Sacro Romano Impero, antico di mille anni è cancellato anche formalmente – mentre vengono riconosciute gerarchie nuove, quelle dipendenti dal denaro. Gerarchie molto aperte, che non chiedono conto dell’albero genealogico, ma che accolgono chiunque abbia capitali o sappia moltiplicarli, e non importa con quali mezzi se li sia procurati.

Il pensiero si stacca dalle certezze rassicuranti della religione per volgersi alle foreste oscure della scienza, della politica, dell’economia. La macchina a vapore, applicata alle fabbriche, alle miniere, ai trasporti, è un fenomeno talmente nuovo da disorientare gli esseri umani, e non stupisce che da molte parti, ancora alla fine dell’Ottocento, la locomotiva sia considerata un essere demoniaco: il Papa non vuole che Roma sia collegata al resto del mondo con la ferrovia, perché questa potrebbe trasformarsi in un corridoio d’ingresso delle idee liberali; all’opposto, Giosué Carducci compone un provocatorio inno A Satana (1863), dove il moderno demonio apportatore di progresso non è altri che la nera locomotiva a vapore, «un bello e orribile mostro». La letteratura e la scienza positivista non possono

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LE ORIGINI | 1815 - 1874

trovare simbolo migliore. I pittori impressionisti francesi non dipingono battaglie e scene mitologiche, ma si piazzano con il cavalletto lungo i ponti delle ferrovie e sotto le tettoie delle stazioni per dipingere i treni e il loro fumo. Claude Monet, una mattina del 1874, si veste dell’abito più bello e si presenta al capostazione di Gare St Lazare, a Parigi, con una richiesta sorprendente: «Voglio dipingere la vostra stazione». I macchinisti allora spostano i treni nelle banchine meglio illuminate, e le locomotive vengono caricate di carbone in modo che il fumo vorticando crei inquadrature migliori. Il mondo è travolto da quella invenzione, che porta un cambiamento paragonabile soltanto a quello prodotto alla fine del Novecento dalla diffusione del computer e di internet. Gli uomini dell’Ottocento scoprono che la velocità non è più un concetto pietrificato, ma che la macchina a vapore permette di correre due volte, tre volte e chissà quanto ancora più rapidamente del cavallo. È un salto nell’ignoto. Esploderanno i polmoni? La circolazione del sangue si bloccherà? L’organismo sarà in grado di sopportare un movimento così rapido? Ma quando ci si accorge che si aprono vertigini mai immaginate (già nel 1851 la locomotiva inglese Lord of the Isles supererà i 100 km/h), tutto è ritenuto possibile e la velocità senza sforzo fisico diventa l’asse portante del progresso scientifico. L’uomo fa concorrenza a Dio. La velocità è una categoria dell’ingegno umano lanciato a superare il limite, che assume nuove forme mano a mano che vengono sviluppati strumenti più potenti. Sfogliando articoli di metà del Novecento dedicati a ciò che sarebbero stati i trasporti del Duemila, sorridiamo davanti a illustrazioni fantatecniche di futuri treni razzo o di macchine volanti, che sciamano come insetti nelle metropoli dalle torri di cristallo; oggi abbiamo sì i grattacieli, e abbiamo anche invidiabili supertreni, ma la moltiplicazione della velocità è avvenuta in un altro modo, cioè con le trasmissioni telematiche. Non sappiamo, oggi, come in futuro la velocità moltiplicherà se stessa e le sue forme, ma possiamo analizzare qual è stato il suo seme.

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Torniamo così di nuovo alla macchina a vapore, agli uomini illuminati della Cornovaglia che presero il giocattolone a vapore di James Watt, lo montarono su ruote e dimostrarono che questo pentolone infernale poteva trasportare – con un fumo grasso e puzzolente, ma senza sudore – carichi di carbone da far impallidire interi branchi di cavalli. Gli impresari minerari più scaltri compresero che ciò significava la moltiplicazione dei profitti, e che la ferrovia avrebbe ottenuto il denaro necessario a scalare rapidamente la via gerarchica della nuova nobiltà, quella borghese. L’ingegnere minerario inglese Richard Trevithick registrò il 24 marzo 1800 il primo brevetto di un apparato motore che gli permise, nel 1804, di mettere su rotaie una locomotiva a caldaia a sezione tonda ad alta pressione, il cui vapore alimentava un motore monocilindrico. Non tutti lo presero sul serio, giudicando la macchina più adatta a un divertimento da circo che non a un’applicazione pratica. Intanto cresceva una generazione di tecnici e di ingegneri che sperimentavano ogni via possibile per togliere i cavalli dalle rotaie delle miniere e sostituirli con una macchina: John Blenkinshop nel 1812 costruì una cremagliera (cioè ruote a ingranaggi collegate a rotaie dentate) per ottenere un’aderenza assoluta della macchina alle rotaie; William Hedley l’anno successivo dimostrò come fosse possibile il contrario, e cioè che ruote non dentate, ma dotate di un bordino, potevano trascinare alcuni carri senza pattinare; George Stephenson introdusse gli assi motori accoppiati mediante catene e la trasmissione del moto alternativo dalle bielle dei cilindri direttamente alle ruote. E fu proprio Stephenson, il 27 settembre 1825 –

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LE ORIGINI | 1815 - 1874

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ecco la data giusta per gli annali, quella da incidere nei monumenti – in Scozia, a inaugurare la prima ferrovia al mondo rivolta a un servizio pubblico, la Stockton-Darlington. L’evento non avvenne in forma privata, ma con una cerimonia festosa: la macchina, preceduta da un cavaliere con tanto di tromba e bandiera, trainò per trentaquattro chilometri un treno di una settantina di tonnellate composto da carrozze in cui sedevano i consiglieri della miniera proprietaria della strada ferrata e il pubblico più vario, oltre a carri carichi di sacchi di carbone e di farina. La velocità raggiunta fu di 24 km/h. La targa imbullonata alla macchina recava scritto “Locomotion” ed è da quei caratteri metallici che la vaporiera ha tratto il proprio nome. Poiché la storia ha bisogno di icone, George Stephenson fu ritenuto universalmente l’inventore della ferrovia, con poca giustizia per tutti gli altri che prima e dopo di lui contribuirono all’evoluzione della tecnica ferroviaria. L’immagine di Stephenson fu moltiplicata all’infinito, dalle stampe popolari alle ceramiche istoriate, dalle raccolte delle figurine di scienziati e inventori fino ai busti di marmo che ancora oggi raccolgono polveri acide negli atri delle stazioni monumentali. I consiglieri della società Stockton & Darlington Railway, di cui Stephenson era il tecnico di punta, smisero presto di dibattere se nel traino dei carri di carbone fossero superiori i cavalli o la locomotiva: entro quello stesso 1825 il costo del trasporto del carbone grazie alla locomotiva scese del 30 per cento; il tracciato ferroviario dovette essere irrobustito con binari più consistenti e raddoppiato in tutta fretta per consentire il passaggio di treni più numerosi e più pesanti. Edward Pease, il maggior finanziatore della Stockton-Darlington, che aveva sempre creduto in Stephenson e nella sua macchina, aveva ipotizzato un reddito netto del cinque per cento sul capitale investito; non soltanto la sua previsione si realizzò entro un anno, ma i dividendi continuarono a salire fino a toccare il 14 per cento nel 1830.

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La fama della nuova invenzione non rimase naturalmente confinata entro le isole britanniche e varcò la Manica. In Francia, il 1° ottobre 1828 una locomotiva costruita da Robert Stephenson, figlio di George, collegò per diciassette chilometri le ricche miniere di carbone di St Étienne alla città di Andrézieux, sulla Loira. Da allora lo sviluppo delle ferrovie in Europa fu continuo, dapprima con locomotive costruite in Inghilterra dalle officine degli Stephenson, poi direttamente dalle nuove industrie locali che avevano fiutato l’affare. La rivoluzione industriale era iniziata con l’installazione del telaio meccanico negli opifici. La macchina a vapore, alimentata dallo stesso carbone che trasportava, compì una nuova trasformazione dell’Europa: le miniere giravano a pieno regime per produrre carbone da destinare alle fabbriche, e queste a loro volta esigevano nuove ferrovie. I profitti salivano per gli azionisti delle miniere, delle industrie tessili e siderurgiche e delle società ferroviarie, che moltiplicavano sempre più se stesse in una crescita senza limite. Nel frattempo, una antica classe sociale, quella degli artigiani, veniva ingoiata dalle fabbriche che trasformavano conciatori, falegnami e calderai in operai, in proletari. Di lì a qualche anno Karl Marx avrebbe preso carta e penna per commentare la situazione e proporre alcune modifiche. Avrebbe riempito migliaia di pagine.

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