Sovversivi del gusto VIAGGIO FOTOGRAFICO NEL MONDO D E L L’ E N O G A S T R O N O M I A C H E R E S I S T E
Michele Marziani Marco Salzotto
note enologiche di
Franco Ziliani prefazione di
Adriano Liloni
Progetto grafico e realizzazione: Guillermo Vincenti
© 2008 NDA Press Via Bagnacavallo 1/A 47900 – Rimini tel. +39 0541 682186 fax +39 0541 683556 ndapress@libero.it www.ndanet.it Stampa: Arti Grafiche Dial – Mondovì (CN) Prima edizione: Novembre 2008 ISBN: 978-88-89035-25-2
Sommario PREFAZIONE
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PROLOGO
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PIEMONTE LIGURIA LOMBARDIA TRENTINO ALTO ADIGE VENETO FRIULI VENEZIA GIULIA EMILIA ROMAGNA TOSCANA LAZIO ABRUZZO MOLISE PUGLIA BASILICATA CALABRIA
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INDICE
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P R E FA Z I O N E A D R I A N O L I L O N I PREFAZIONE
Ecco, potrei usare il titolo di un film bellissimo, “L’attimo fuggente”, per descrivere le sensazioni che ho provato, quando ho visto Michele Marziani, di cui conoscevo il modo di scrivere, accettare di collaborare alla stesura di questo viaggio tra i Sovversivi del gusto, ma la vera alchimia quasi onirica è stato il vedere la compenetrazione fra i colori delle foto di Marco Salzotto e i testi di Michele. E che dire degli scritti sui vini di Franco Ziliani... Se non fosse per l’età lo definirei il giamburrasca dei giornalisti Ais, quelli con il calice sempre in mano! Mi rendo conto che pur essendo davvero un pazzo visionario, come in molti mi definiscono, ho avuto nel mio piccolo una percezione che andava aldilà dei sogni. I Sovversivi del gusto sono artigiani, vignaioli e agricoltori che ancora oggi continuano a salvaguardare sapori, profumi, lavorazioni che rischiano di scomparire ed essere dimenticati. Questo volume è una realtà concreta, la sotterranea voglia di farsi conoscere di tanti “artigiani” e di chi li segue, usando i loro prodotti. Sto parlando dei “cuochi sovversivi”, novità importante dell’evoluzione di questo cammino intrapreso anni fa. Una serie di cuochi e locali che hanno creduto nei “Sovversivi del gusto”. Questo allora è un testo che nasce dalla fratellanza, dalla stima, dalla conoscenza degli attori stessi del libro. Nessuna concessione a cedimenti per le pure stimate associazioni nazionali di stampo enogastronomico. Un percorso apparentemente senza filo, invece l’Arianna c’è, eccome! La passione, la voglia di fare le cose in maniera trasparente, con una forza, una testardaggine non mediata da interessi o compiacimenti... Un’estrapolazione incredibile del proprio intimo essere. Mai avrei pensato di concretizzare in maniera così collimante il mio pensare e credere nella nuova piccola Italia di tanti produttori che vivono in prima persona anche le difficoltà di farsi conoscere, di presentarsi. Il cammino verso una visione e comprensione di tante realtà piccole (ma grandi dentro) di un’Italia vera, spesso sommersa da altri clamori mediatici. In silenzio con perseveranza, un esempio anche per le giovani generazioni che hanno perso l’orientamento, per un ritorno felice ad una visione più autentica, più vera, della vita. È solo l’inizio di questo cammino alternativo. ADRIANO LILONI, OSTE IN GAVARDO E FONDATORE DEI SOVVERSIVI
DEL
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PROLOGO MICHELE MARZIANI PROLOGO
Ho scritto a lungo di cibo e di vino, ma, onestamente, di entrambi non mi importa nulla. Viceversa mi interessa degli uomini, delle donne, della terra, della vita e dell’arte. Ecco allora che i buoni sapori, i vini, gli oli, i prodotti dei campi e del lavoro acquistano un valore universale quando sono fatti con sapienza, in un legame profondo con la terra, con la realtà, con i territori. Quando rappresentano la storia di persone che puoi guardare negli occhi. I sovversivi del gusto sono questo: donne, uomini, giovani anche, legati al proprio lavoro, spesso tornati ai campi, radicati in una vita più vera dove il frutto della fatica, il denaro, serve alla vita e non la vita al denaro. Non abbiamo scelto noi le persone che io racconto e che Marco Salzotto fotografa in questo libro, si sono scelte da sole, le ha selezionate, magari seguendo anche qualche nostro suggerimento, Adriano Liloni, oste in quel di Gavardo, Brescia. È lui che un giorno ha deciso di scendere in campo, in senso letterale, sul terreno, di riunire alcuni protagonisti di questa Italia golosa ed autentica, chiamandoli, appunto, Sovversivi del gusto. Personalmente ho solo raccolto la sfida di andarli a trovare, di passare del tempo con loro, di capire il perché di scelte che, oggi, sono sovversive davvero, rappresentando un ritorno al futuro, l’orgoglio della contadinità, la passione per il lavoro, non ultimo quello duro e ghiotto di cucinare per la felicità di chi frequenta un ristorante. Il legame tra i tutti i protagonisti di questo libro sta nelle persone, nelle loro scelte, nelle loro vite. È un movimento giovane quello dei Sovversivi del gusto, sparso a macchia di leopardo per il Paese. Anche di questo abbiamo avuto rispetto: delle assenze. Qui non c’è tutto il buono e il bello dell’Italia contadina e gastronomica. Ce n’è un assaggio, un piccolo ma ottimo assaggio. Condito dalle fotografie di Marco Salzotto: scatti che scavano nell’anima, nel bambino che ognuno di noi è stato. È nelle foto di Marco l’essenza di questo viaggio di casa in casa, di paese in paese. Come nelle bottiglie raccontate da Franco Ziliani, la penna più onesta dell’enologia italiana, sta l’essenza dei vini buoni, schietti, sinceri e curiosi che si trovano tra queste righe. MICHELE MARZIANI
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PIEMONTE
Favole e prosciutto per i Sette Nani Via Fratelli Rosselli a Borgo San Dalmazzo è un po’ una metafora del mondo: a seconda di dove si posa lo sguardo si vedono, a destra della strada, i capannoni moderni, austeri e poco invitanti della zona artigianale, a sinistra invece l’occhio abbraccia i campi e dietro al granturco il cancello e l’insegna dell’Osteria dei Sette Nani, sottotitolo “Favole e prosciutto”. Circolo enogastronomico affiliato all’Arci, gestito dai giovani Daniela Marchisio che divide la vita tra la cucina e il violino (è alla fine degli studi al conservatorio) e Paolo Cerati e Marco Bertorello, che invece vengono da altre vite e qui si sono costruiti, tentano di costruire, un mondo a parte, più bello, un mondo di “favole e prosciutto”, come nell’insegna. Siamo in Piemonte al confine del comune di Cuneo, sullo sfondo la cima bifida del monte Besimauda, la Bisalta come si chiama qui. Basta varcare la soglia di questa casa dalla struttura contadina per respirare l’attenzione al cibo, all’ambiente, al sud del mondo, ai soci clienti che sono soprattutto amici. Ci sono parole che spesso sono abusate, ma passione, in questo caso è proprio ben spesa, quando senti i racconti dei viaggi col furgone sul Col di Nava per raggiungere Imperia e lì scegliere le acciughe migliori. Meravigliose servite col tradizionale bagnetto verde. Materie prime soprattutto locali, possibilmente biologiche, rapporti autentici con i produttori, attenzione al mercato equo e solidale, all’olio, alla pasta, al vino delle terre confiscate alla mafia. “Buono, pulito e giusto”, il libro di Carlo Petrini, è alla base di tante scelte. Che nel piatto si traducono poi in una mano felice, dove la musicista prevale sulla cuoca, dove i sapori sono piccole note pizzicate e non ripetizioni di mestiere. Si avverte il tocco leggero nei piatti piemontesissimi come il flan di peperoni con bagna cauda potente e tradizionale o la torta di porri e seirass, come nella freschezza di sapori nuovi, di altri mondi che ti avvolgono alla prima forchettata dell’insalata di grani di insolita e squisita quinoa (pianta sudamericana, coltivata a 4.000 metri d’altitudine sulle Ande, e proposta nel circuito dei prodotti equi e solidali), con rucola e noci. Volano le chiacchiere tra i sorrisi dei due osti, si stappano bottiglie che non sono scelte mai a caso, acquistate direttamente in cantina, caricate a braccia, stringendo la mano ai vignaioli. Si parla della carta geografica disegnata sulla proiezione di Arno Peters, dove i continenti meridionali hanno il giusto spazio rispetto all’Europa della carta di Mercatore, quella dei planisferi delle scuole, e intanto si gode del risotto alle pere e Castelmagno o del goloso arrosto di vitello ai funghi porcini. Poi dolci, grappe dal Piemonte e rhum dal resto del pianeta. E l’acqua, buona, del rubinetto.
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I salumi della Provincia Granda Forse per tutto è così, ma per capire il segreto dei salumi di Beppe Dho, bisogna conoscere l’uomo. Vederlo in quella gentilezza d’altri tempi, quasi imbarazzata, in quel chiedere sempre permesso e per piacere, per poi ritrovarlo assieme alla moglie Bruna, con la matita sull’orecchio, dietro al banco della sua bottega nella piazza di Centallo, provincia di Cuneo, campagna piemontese, aria di Pianura padana d’occidente. E infine incontrarlo ancora nella casetta rossa dove c’è il laboratorio da norcino, dove tutto viene fatto rigorosamente a mano, dove le carni arrivano selezionate da allevatori della zona. Mogli e buoi dei paesi tuoi. In questo caso maiali. È una società che rispetta ancora regole antiche quella che circonda Beppe Dho e la sua salumeria. Dove si lavora sodo, ma la domenica si chiude, rigorosamente. Ecco, i salami, i prosciutti, gli zamponi di Beppe sono come lui, semplici, diretti, concreti, sorridenti, pronti alla battuta. I suoi salami si chiamano D’la Granda, della Granda, intesa come la “Provincia Granda”, Cuneo, appunto. E profumano di un altro tempo. Di carni buone, di lavorazioni di tradizione. Ovviamente in cima a tutti c’è il salame di Cuneo, salame crudo, da fare a fette, stagionato a dovere, aromatizzato con un filo d’aglio, appena appena che a cercarlo non lo trovi, carni di tagli nobili (lombo, filetto, coppa, spalla, coscia, pancetta...), sale di Trapani, pepe, un pizzico di salnitro. Bagnato infine nel vin brulé e legato a mano. Sapori di Piemonte. Ancora più marcati nel salame cotto che è quello della “merenda sinoira”, la merenda che vale per la cena, giocando a carte o a bocce nelle trattorie che stanno scomparendo o sotto un pergolato, in un vecchio ciabòt, un ricovero di campagna dove sfuggire alla calura estiva. Territoriale, profonda, è anche la galantina di maiale, definita da una guida del mangiar bene “la migliore del Piemonte”, realizzata con le parti tipiche della testa del maiale, della spalla, della coscia e della lingua. Poi il lardo, dolcissimo, la muletta, il cotechino e lo zampone con ricetta locale, meno grasso e più carne, ma aromi da vendere. C’è però un salume nel quale Beppe Dho supera se stesso, sfidando una delle peggiori iatture del supermercato: il prosciutto cotto. Beh, il suo è un altro mondo, “Alta qualità” riconosciuta per legge, quindi pochissima umidità, niente glutine, lattosio, né proteine del latte. Salatura minima, manuale, tradizionale in vena, in modo che il sale possa irradiarsi nelle carni. Alla fine è una nuvola di profumi intorno a una carne morbida e saporita. Un ricordo lontano, perduto nel tempo.
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L’Artesin, i sapori delle nuvole Se ci fosse un premio per il coraggio di rimanere ancorati alla propria terra, alle proprie radici, alla propria storia, noi lo daremmo a Lorenza Bruna Rosso, 31 anni, che resta tutto l’anno a vivere nella sua Elva, esplosione di fiori e natura d’estate, ma durezza e silenzio d’inverno. Neve e ghiaccio e strade dove piovono sassi e scivolano le ruote sui tornanti e fanno temere l’orrido. Neppure un negozio. Qui sale solo il postino nella brutta stagione. C’è la bandiera Occitana, della nazione non nazione che ancora parla la lingua d’oc, che sventola su Elva, angolo isolato di montagna piemontese, Val Maira, passaggio per la Val Varaita. Lorenza del nostro premio però non se ne farebbe nulla, perché poi, spenti i riflettori, la vita continua, dura, durissima, estrema. Ricca di cose che stanno solo nell’anima. Se non sei nato lì non puoi immaginare. Il pensare moderno, forse il buonsenso, farebbe fuggire tutti da qui per metà dell’anno. Invece un pugno di persone resistono. E salvano la montagna italiana, in questo caso quella cuneese a un passo dalla Francia. Ecco, allora invece di dare un premio inutile a Lorenza, facciamole visita, risaliamo la strada selvaggia del Vallone dell’Elva per andare a mangiare a L’Artesin, nome locale del rododendro e dell’agriturismo voluto e gestito con i fratelli Walter, Corrado e Paolo e con le mogli degli ultimi due, Manuela e Mariangela. Una storia di famiglia, nata da papà Emilio e mamma Clementina, piccolissimi allevatori in questo paese che è famoso per i suoi “cavié”, raccoglitori e commercianti di capelli per le parrucche di tutto il mondo. Borgata Clari, 1562 metri di quota. I Bruna Rossa fanno formaggio, la toma di Elva, e vitelli da carne. Sessanta vacche, campanacci rumorosi, muggiti e odori di animali d’altri tempi. Il formaggio lo portano via tutto i clienti dell’agriturismo, chi sale quassù per passare qualche giorno (è possibile anche in inverno) o semplicemente a pranzo e a cena (solo da aprile, maggio, a novembre, ma varia a seconda della neve e della stagione). Ad assaggiare queste tome che nascono solo d’estate si sentono il latte, la ricchezza dei pascoli, il tempo scandito dal nulla. Ci si può commuovere di fronte a un formaggio così, fatto da un legame antichissimo tra uomo e natura. E nient’altro. Estremo e dolcissimo. Bandiera di una cucina che è semplice e per questo invitante, realizzata con quello che si trova qui, in montagna. In tavola arrivano i prodotti dell’orto, le squisite patate rosse, i fagiolini, i cavoli, le zucchine, la polenta di grano saraceno, gli gnocchi con la zucca, o quelli occitani impastati col formaggio e conditi col burro che si chiamano ravioles, lo spezzatino alle erbe di montagna o l’arrosto dei manzi di casa, tutti di razza Piemontese, la panna cotta che qui è tutta un’altra cosa rispetto a quella che si conosce. Da un latte incredibile, il sapore delle nuvole.
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Il miele d’alta quota La Val Maira, Piemonte, Cuneo, due passi dalla Francia, è una delle undici valli occitane italiane, dove si parla la lingua d’oc, dove c’è una cultura transnazionale che appartiene ostinatamente a una nazione non nazione: l’Occitania. Un mondo sospeso tra mondi, difficile da scalfire, facile da guardare con occhi ammirati e perduti. Come è possibile mantenere lingua e tradizione? A quale costo? A quale altitudine? Sì, anche l’altitudine conta, perché Elva, scrigno alpino guardato dal Monviso e abbracciato dal Pelvo e dal Chersogno, conserva gelosa, ad alta quota, sapori intoccabili, una lingua antica, una sola bambina residente, un grande formaggio, il Nostrale di Elva, una lapide lunghissima a ricordare i morti strappati a queste montagne nella prima guerra mondiale (e una più corta per la seconda, impressionanti, comunque, per un paese con un pugno di abitanti), una chiesetta di montagna battuta dai venti e affrescata da un pittore fiammingo, Hans Clemer. Qui, fuori del paese, c’è la baita San Giovanni, profumata di legna che arde anche nei mesi più caldi, con l’energia elettrica prodotta, solo quando serve, da un generatore. È il rifugio laboratorio di Floriano Turco, apicultore biologico d’altura, il più alto d’Italia, a 2150 metri, con mieli che solo a vedere dove nascono potrebbero strappare una lacrima prima ancora che un applauso. Anche perché Floriano Turco è giovane, esperto, preparato, appassionato. Non è il passato, ma il futuro della montagna. E ha alveari che conduce in apicoltura nomade, portando le sue api, rigorosamente di un ecotipo locale, in un arco di duecento chilometri: oltre a Elva, le vallate piemontesi del Gesso e del Pesio, la Val Casotto, fino alle colline della Val Rilate dell’alto Monferrato e a quelle intorno a Chiusa Pesio e Beinette dove le api svernano. Ma anche l’apicoltura nomade è da superare, dice, vorrei riuscire a tenere le api stanziali nelle varie zone, seguendo i principi della biodinamica. Guarda lontano Floriano, lo fa con gli occhi chiari e le idee pulite di chi ama questo lavoro, di chi se ne è innamorato da ragazzo, di chi ha lasciato altre vite per venire quassù a far chiudere gli occhi per ammaliare nasi e palati con la ricchezza aromatica della melata d’abete, la favola del raro miele d’ailanto, la dolcezza morbida dell’acacia cristallizzata, cremosa grazie agli inverni nella baita gelata, l’amaro potente del castagno, l’aroma medicinale del tiglio, la carezza dei millefiori di montagna, lo sguardo di padre innamorato che ha creato il Bouchét Sofia, miele di acacia con petali di rosa canina selvatica dedicato alla figlia. Lo guardi da lontano quest’uomo che ha venduto l’anima al miele: sembra il piccolo principe, quello di Saint-Exupéry. Sovversione d’altura.
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Le carni piemontesi de La Granda È incontenibile, inarrestabile, gesticolante Sergio Capaldo, il veterinario, quando parla de La Granda, la sua creatura, il suo sogno realizzato assieme ad alcuni allevatori di bovini di razza Piemontese, assieme a quelli che negli anni Ottanta li prendevano in giro perché non capivano che il futuro, secondo gli altri, stava nelle razze che vengono su bene a mangimi. Quelli che al bar del paese ci andavano con la Ritmo scassata, mai con la Golf nuova per far fare un giro alle ragazze. Quelli della Golf avevano sostituito le Piemontesi con le Frisone. Oggi le cose stanno cambiando, i ragazzi di allora, e anche i loro figli, sono orgogliosi dei loro animali, fieri del lavoro che fanno, ripagati della fatica. Insomma, molta gente comincia a capire che la carne più buona merita qualche soldo in più e l’attenzione e la fatica che si fa in stalla e nei campi ad allevare animali che hanno poco grasso e molto sapore. Il meglio dei bovini italiani. Oggi Capaldo è a capo de La Granda Trasformazioni, a Genola, tra Fossano e Savigliano, pianura cuneese, patria dei bovini di razza Piemontese. È l’ultimo anello di un atto d’amore, verso una terra e un modo di allevare le bestie che richiedeva e richiede l’ascolto della natura, la rotazione dei cereali e dei seminativi per il foraggio, il fieno che cresce senza concimi chimici, solo col letame. Il meglio del passato per una razza di bovini indomiti capace nel piatto di fare mille differenze. Sembra ieri che questa storia è nata da una banda di matti, oggi fin troppo famosi, ma matti sinceri: Sergio Capaldo che non aveva voglia di andare in giro a siringare animali facendo non il veterinario ma il terminale dell’industria farmaceutica, Carlìn Petrini che ha deciso con Slow Food di appoggiare gli allevatori a condizione che facessero molto sul serio tracciando in etichetta tutta la storia di ogni animale, pezzo per pezzo, Franco Cazzamali e poi il figlio Danilo, macellai in Romanengo, Bassa cremonese, non proprio dietro l’angolo che hanno imparato e insegnato a maneggiare la Piemontese con la stessa passione e perizia di un maestro di sushi. Prima vengono gli animali, nutriti a fieno, mais, orzo, crusca, fave, favino, piselli, barbabietole, tutti figli delle vacche delle stalle associate. Poi vengono i sapori perché con la Piemontese fai cose che tuonano nel piatto, il biancostato alla piastra, l’hamburger che si chiama Giotto ed è buonissimo, la battuta al coltello da mangiare cruda, i bolliti che lasciano nel brodo i profumi del fieno... Infine la nuova scommessa, i preparati per wine bar ed enoteche: dall’inatteso arrosto freddo marinato agli agrumi, al musu in cassetta a base di testina, lingua, piedino, coda, insomma il quinto quarto per farcire i panini, passando per le polpette, la terrina di campagna, il salame crudo di bovino... La Granda che diventa grande. E rimane buona.
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Caseificio San Martino Eccoli i 3.841 metri del Monviso che sembrano benedire la capitale dell’antico Marchesato di Saluzzo e la valle del Po dove il Grande Fiume è poco più che un rigagnolo, a volte quasi in secca, che si fa strada tra le campagne del Cuneese, nel cuore agricolo del Piemonte, dove è ancora facile vedere le vacche al pascolo. Da questi animali, soprattutto di razza Piemontese, arriva il latte del caseificio San Martino di Saluzzo, conduzione familiare: quattro generazioni, stesso cognome Melano, a partire da Andrea che ha cominciato nel 1908. Poi Francesco che si ritrova in mano il caseificio alla fine della guerra e Germano che respira l’aria della ricostruzione, il carico delle forme, i contratti con la stretta di mano, il profumo del latte e dopo la laurea in economia decide di mettere le mani in pasta e invece della cravatta da commercialista indossa il grembiule da casaro. Con una passione che riesce a trasmettere ai figli Marta e Giacomo, oggi impegnati anche loro tra i formaggi. È storia di tradizione piemontese e di modernità, raccontata in punta di battuta, con la voglia di far capire che il segreto è nelle scelte: latte solo locale, buono, acquistato da fornitori conosciuti, da allevatori che nutrono le vacche ad erba e fieno seguendo le stagioni, caglio di vitello lattante, selezione dei fermenti fatta in casa, anzi nel caseificio che è un po’ casa. Lavorazione manuale, di braccia, di sapienza, di gesti ripetuti da cent’anni (e ogni giorno diversi, perché basta che vari la temperatura dell’aria o l’alimentazione delle vacche e le cose da fare cambiano) stagionatura lunga, senza fretta. Qui il Bra è il formaggio di casa. Quello tenero dal sentore delle erbe dei pascoli, ma soprattutto il Bra duro, quello che stagiona almeno un anno e in bocca è sapido, ricco, potente e carezzevole insieme, con la crosta colore del cuoio. Il Bra lo fanno dal 1908, è il caseificio di famiglia più antico della zona per un formaggio che si produce da sempre in gran parte della Provincia Granda, ma ha preso il nome dalla cittadina che era lo snodo commerciale e ferroviario: da Bra le forme prendevano la strada del resto del Piemonte, della Liguria, della Lombardia anche. Sono una serie golosa e infinita i formaggi che escono dal caseificio: dal Nostrano dalla crosta color miele, al Raschera dalla forma squadrata per essere trasportato a dorso di mulo, dalla cremosa Paglierina di capra, alla Toma piemontese, anche affinata nel fieno o nella vinaccia di Nebbiolo, alla Sola tradizionale, alle Robiole... Ci si perde in una serie di profumi intensi che riportano sempre alla materia prima, al latte. Poi si assaggia il Blu, vaccino a due paste, potente, prepotente quasi al palato, un formaggio che ha un gusto lungo, che conduce lontano, coi pensieri e nel tempo. E ci accompagna nel viaggio.
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Come baciare il vento Questo è viaggio tra cocciuti dalle maniche rimboccate e dal sorriso aperto. Quando entriamo nella piccola cascina è tutta al femminile l’azienda agricola Tavijn di Scurzolengo, soffio di collina a due passi da Asti. Sovversive, donne, altro che Sovversivi del gusto. Nadia Verrua, vignaiola trentenne è nella corte, nel cortile, curiosamente alle prese con le nocciole: primo raccolto di tre ettari di noccioleto acquistato da poco. Basso Monferrato, Piemonte, terra da vino, tra boschetti da tartufo. La madre, Maria Teresa Rossi, scuote la testa. Le sorelle di Nadia, Luigina e Daniela, danno una mano. Ottavio, Ottavino, Tavjin, il padre col nome del bisnonno da cui è nato quello dell’azienda, è andato alla centodiciassettesima fiera bovina, a Pontecomaro. Lo incontriamo più tardi: niente di buono, solo due buoi meritavano. Ma poi si accende di una passione inattesa per il suo Grignolino: “fa bene anche ai malati, a bottiglie l’abbiamo dato ai vitelli, è l’unico vino che berresti quando hai l’influenza...”. Nadia Verrua è quarta generazione di vignaioli, ma prima a imbottigliare, convinta della scelta naturale, uve biologiche in conversione. Cento anni compie la piccola cantina, la stessa età delle botti grandi. Non volevano i genitori di Nadia che lei, finalmente accompagnata agli studi come le altre sorelle, entrasse nel vino, finisse nella terra. Vengono dal mondo contadino di Fenoglio i Verrua, dall’infanzia a fare i lavori in campo, mica roba da signori. Eppure Nadia li ha fatti un po’ signori, ha ridato al mestiere della terra la dignità di voler fare vini buoni, naturali, autentici, con tanto di etichetta, di storia. Ha reso i vini consapevoli. “Vorrei avessero una personalità”, dice. Ce l’hanno eccome: Barbera, Ruché, vitigno autoctono riscoperto a Castagnole Monferrato, Zanel, che è altro vitigno dimenticato e che nessuno vuole prendersi la briga di riportare in vita e soprattutto il Grignolino, quello buono, coi profumi che portano alle sere nebbiose, alle sorsate lunghe, a baciare il vento, come scrive con grande efficacia la scrittrice piemontese Enza Cavallero. Se non si viene qui in questa comunità d’intenti, in questo luogo d’orgoglio per il vino buono, riuscito, non si può capire quanto possa essere potente, buono, intenso, un vino dimenticato come il Grignolino. Strappa il sorriso. È vino da amici. Da gente perbene. Giriamo l’occhio indietro nel tempo, per cercare di capire cosa fosse questa terra, Scurzolengo, da cui la gente è scappata per diventare rinomati macellai a Torino, per dare braccia alla Fiat, per diventare ferrovieri. Oggi le maniche si rimboccano su nuove braccia. E tornano. Come baciare il vento.
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Cascina Tavijn Nadia Verrua Grignolino d’Asti 2006 Colore rubino di media intensità, brillantissimo, luminoso, pieno d’energia, sprigiona allegramente un naso caratteristico, con sfumature di pepe bianco, spezie e frutta selvatica e un annuncio tannico già nei profumi che sanno d’autunno e si aprono su una ciliegia essenziale e quasi timida e su note geraniose e di rosa. Bocca caratteristica, asciutta, quasi severa, con una componente tannica pronunciata, ma poi questo vino vero si apre largo e ben strutturato, con grande ricchezza di sapore e una piacevole, maschia astringenza sul finale. Dategli una trippa o un salame cotto e vedrete che libidine!
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Eccola, la trattoria sovversiva! Qui è nato tutto. A due passi dal lago di Garda, a Soprazocco di Gavardo, Brescia, porta della Valle Sabbia. Senza la Trattoria Pegaso, senza Adriano Liloni, non sarebbero mai esistiti i “Sovversivi del gusto”. Non si sarebbero mai incontrati. L’uomo è un vulcano in eruzione permanente, in fiumana di parole e ognuna delle tante definizioni che gli sono state appioppate non riesce neppure a rendere l’idea di chi sia Adriano Liloni perché lui è sì l’hobbit dei sapori, il troglodita, il lancillotto dal mestolo d’oro e anche quello che quando parla in dialetto bresciano si mangia le parole, ma alla fine è una sola cosa: autentico. Senza se e senza ma. Se non capisce niente non capisce davvero, quando guarda lontano lo sta facendo col cuore. Nessuna mediazione, nessuno specchio. Quel che si incontra è l’uomo. Da conoscere. Magari per evitarlo di tanto in tanto. Per questo ancor più stupisce la dimensione golosa e garbata della cucina della sua trattoria. In un ambiente che se ti giri da una parte sembra una di quelle baite da gita ai rifugi alpini e dall’altra una galleria di arte celtica, un covo di elfi, ma anche l’osteria fuoriporta dei castelli romani... Insomma, in un posto così ti aspetti come minimo i petardi nel piatto. La polverina per starnutire nel vino. Invece no. All’ora di pranzo e di cena Adriano Liloni trova la misura, la taglia giusta: quella dell’oste. Lui è oste per antonomasia. Trova il freno, lo spunto, la carambola di genio, scherza, lazza, prende in giro, cincischia, usa il sesso, la battuta grassa, non greve, come chiave di volta per strappare la risata, a volte un finto imbarazzo. E si fa voler bene. Una maitresse di un casino del gusto, gli piacerebbe sentirsi definire per compiacersi, invece è il croupier di un casinò dei sapori. Sapori confezionati in cucina da altri, Franco e Nadia, ma pensati al mercato da lui e proposti al tavolo a voce perché il menù cambia ogni giorno. Materia prima di gran classe e mano di cucina che non tentenna. Un posto dove potresti mangiare tutti i giorni, dove gli spaghetti alla “polipante” (fa la rima: polipo, porcini e cappesante) sono proprio come vorresti cucinarli tu, se solo fossi capace. Dove se non hai spazio per i buoni dolci arriva comunque in tavola un gelato con le bacche di vaniglia o un pezzetto autentico di Bagoss d’alpeggio. Basta scegliere il percorso, tra i pesci di mare e le carni bresciane, poi la strada è segnata costellata di risotti esemplari, di robuste fiorentine di Bruna Alpina con patatine di montagna al forno con tanto di buccia croccante, di squisita pescatrice alla catalana... Sui tavoli l’olio, ogni tavolo una bottiglia diversa, di un luogo differente, vera carta geografica di questa passione terrena che Adriano Liloni incarna davvero e propone ogni giorno nella sua trattoria.
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La fucina dei sapori a due passi dal Garda A Prevalle, Brescia, paesino nei dintorni del Garda, si passa lungo la strada e si incontra la Fucina dei sapori, là dove vi sareste immaginati un qualunque negozio di alimentari. Basta aprire la porta per ritrovarsi nel paese di Bengodi, nell’antro della Cuccagna... Dove si posa l’occhio si incontra una leccornia, un formaggio di gran pregio (sopra tutti i bresciani introvabili, il vero Bagoss, il Fatulì della Valcamonica, ma anche un Bitto di trentotto mesi e un Gorgonzola al cucchiaio degno di descrizioni da Mille e una notte...), un buon libro, un sigaro, uno Champagne, un vino introvabile (ci sono alcuni piccoli produttori che solo il conoscerne il nome ti commuove), un olio raro, un cioccolato imponente, la miglior pasta di grano duro a essiccazione lenta, sottoli meravigliosi, salumi inarrivabili, prosciutti stagionati ben oltre i due anni... Dove si gira lo sguardo c’è qualcosa di interessante, se non incredibile. Poi, pian piano, vengono fuori, da ogni angolo di questa bottega da rigattiere del gusto, pezzi di storia, angoli di passato, vecchie targhe, insegne colorate, libretti di canzoni patriottiche, foto in bianco e nero, frammenti di un negozio di alimentari che sa di antico... Così si scopre, un tassello alla volta, la storia di quello che avevamo immaginato all’inizio: un vetusto negozietto con oltre mezzo secolo sulle spalle che ha seguito la scia del benessere ed è diventato un minimarket e infine non ha voluto piegarsi all’industria. Anzi, ha deciso di resistere, in modo estremo, passionale. Daniele Segala ha detto basta, ha tagliato chirurgicamente ogni legame con un mondo che non gli piaceva e ha costruito il suo, questo. La fucina dei sapori è un microcosmo, il paese dei balocchi di un uomo che ha voluto e saputo rimanere bambino. Che seleziona e vende solo quello che assaggia, riassaggia, mangia a tavola, gli piace, conosce e ama. Dietro al banco è impeccabile, di un’eleganza oltre il limite dello snobismo. “Lo ammetto – dice – sono uno snob”. E un amante del bello. Forgiato a misura della sua fucina, aggiungiamo, fedele alle proprie scelte, nervi d’acciaio sulla linea dei buoni sapori. Estremista del gusto. Daniele Segala racconta di sé, delle sue passioni, dei suoi produttori, dei luoghi geografici, dei preti, i primi a cui chiedere consigli sulle leccornie di un territorio, di questo mondo incredibile che lo circonda, tutto in un negozio, un negozio bellissimo. Ecco allora che apprezzi gli sforzi, che ti ammaliano le competenze, che riconosci il genio. Un fiume di parole ti avvolge: è difficile acquistare una fetta di salame, un cioccolatino, un grande vino, senza averne sentito la storia, la provenienza, i motivi per cui Daniele l’ha scelto. Ci vuole tanto tempo per fare la spesa, ma alla fine è una spesa sublime. È un viaggio.
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La Basia e il chiaretto goloso Il chiaretto dell’azienda agricola La Basia si chiama “La moglie ubriaca” ed è vino color rosato e chiama l’estate con prepotenza, davanti alle onde del lago di Garda che con il vento si infrangono sulle spiagge di ciottoli di fronte a Salò. È vino del tempo che fugge, da bere prima che arrivi l’autunno, da annusare con la freschezza degli anni. Poche bottiglie sanno dare un senso così forte a una stagione. E ad un territorio che è questo insieme di colline moreniche sulla sponda bresciana del Benaco, angolo di Lombardia chiamato Valtenesi. Tutto quello che si pensa guardando il bicchiere è vero, ma per capirne la storia, il senso, occorre risalire dal golfo di Salò verso le colline che sono boschi di querce e filari di uve. Così si arriva a Puegnago del Garda, nei venti ettari di Elena Parona, la “milanese” come la chiamano qui: alberi, verde, cavalli e vigne attraversati da un pista ciclabile. L’occhio può vedere il lago, anzi lo guarda, ma ancora di più si perde in uno scendere e salire di alberi, boschi, uno stagno, uve, il rumore soffuso delle passeggiate a cavallo e terreni che cambiano ad ogni dosso: lì sabbia, qui sasso, laggiù argilla... Pochissimo olio, un po’ di miele e vini che sono famosi soprattutto per il chiaretto ma meriterebbero notorietà anche per i rossi. Chi se li fila i rossi del Garda?, viene da pensare. Neppure noi, ci si sussurra nell’intimo. Ma i vini di Elena Parona sono come lei: un sorriso convinto. Così si assaggiano i rossi e si apre un mondo. L’autoctono Groppello è quello delle spezie al naso, si sa, ma nel caso della Basia si chiama “La botte piena”, non solo per far da contraltare al chiaretto “La moglie ubriaca”, ma perché è vino che berresti ad arrivare al fondo. Sì, ci si dice, è il Groppello, rosso da beva che piace. Ma poi sono i rossi importanti, quelli affinati in legno, che vien quasi da ridere a prenderli sul serio. Ma loro sono come questa valle di alberi, colori, querce, erbe aromatiche: neppure te li aspetti a due passi dal lago, dalle vie dei turisti, dai residence per stranieri. Eppure il Predefitte, ovvero il “fitto di pietre”, come il vigneto dal quale nasce, è un prodigio d’equilibrio con le sue uve Marzemino, Barbera e Rebo. L’inatteso è però il Martì, rosso, sapido, elegante e meravigliosamente magro, da uve Groppello, Barbera, Marzemino e Sangiovese. Un rosso che potrebbe essere fatto... E la fantasia gira tra la Borgogna e le colline del Piemonte orientale, ma gira a vuoto e alla fine torna qui, sul Garda che guarda verso i monti del Trentino. Tra le querce c’è uno stagno dove pescavano i bambini del paese. Qui nascono vini rossi fino a ieri sconosciuti.
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Ca Lojera, il Lugana con vista sul lago Quando il dito indica Gardaland l’occhio si distrae e guarda il lago e le vigne e l’argilla bianca della terra di Lugana. Eppure laggiù è un serpente di auto che si snoda in processione continua verso uno dei maggiori parchi di divertimento d’Italia. Ecco, sotto al monte, oltre all’azzurro del Garda, ci sono le montagne russe o comunque qualche marchingegno analogo. Ma dal tetto della cantina Ca Lojera, a Rovizza di Sirmione, parte meridionale e bresciana del lago, appoggiati alle tegole chiare, portando al naso un bicchiere di bianco e fresco Lugana, basta chiudere gli occhi per sentire lo sciabordio di un altro tempo. Passano da qui i profumi agrumati che parlano della dolcezza del clima, della fatica di una terra dura e polverosa che sembra ingrata, maledetta e invece è generosa con chi la ama e la coltiva. Si sentono scivolare, come echi lontani nel tempo, portati dal vino, le barche dei briganti, dei mercanti, dei contrabbandieri che arrivavano in questo luogo, alla fossa dei lupi, alla casa dei lupi. Ca’ Lojera, appunto. Perché a queste cascine si arrivava dal lago, attraverso il rio Sermana e la rete di laghetti e canali della bonifica benedettina dei monaci di San Benedetto di Lugana. Benedetta la terra, divino il vino. Rifugio di briganti perché residenza estiva del vescovo di Verona, possedimento della chiesa, con diritto d’asilo. Lago di confine, tra Brescia e Verona, tra antico e moderno. Non si può fermare il progresso, dice e sorride Ambra, moglie di Franco Tiraboschi, insieme vignaioli di Lugana tra i più travolgenti, per umanità, per piacevolezza dell’uva, di questo vitigno che oggi si chiama Trebbiano di Lugana ma che finalmente prenderà il nome, autoctono, di qui, alla faccia di chi l’ha persino denominato nel tempo Trebbiano di Soave. L’uva si chiamerà Turbiana, finalmente. Lo racconta con orgoglio Ambra, lo sussurra nella cantina che è un capolavoro di ristrutturazione manuale, un ambiente dal clima perfetto, naturale. Qui il lavoro ha un valore speciale. Le relazioni tra le persone anche. A cucinare nell’agriturismo aperto nei fine settimana sono le stesse donne che aiutano in vigna. Come una famiglia agricola. Come sono stati loro, Ambra e Franco, coppia di inossidabile piacevolezza, dal tempo che hanno deciso di vivere della terra. Prima con gli orti, poi col vino. Dei vini, sopra tutti, c’è il Lugana che piace, riceve apprezzamenti, premi, riconoscimenti, viene venduto da Ca’ Lojera in tutto il mondo, ovunque. Uso Internet, dice compiaciuta, con uno scintillio da ragazzina, Ambra che ragazzina non lo è più. Anzi è nonna. E donna del vino, come dice uno dei riconoscimenti che si trovano sparsi in cantina. Donna del vino, lei, ma Franco, suo marito, del vino è signore. Ecco, una grande signorilità contadina, chiude, in bocca, l’ultimo sorso di un Lugana indimenticabile.
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Cà Lojera Lugana 2007 Colore paglierino oro traslucido di notevole luminosità e brillantezza con riflessi metallici vivaci, naso molto diretto, secco e incisivo, con fiori bianchi e note di frutta bianca molto precise, nitide e succose di notevole eleganza. Molto coerente in bocca, riprende il carattere ben secco dei profumi e si propone sapido, nervoso, di grande essenzialità, aprendosi bene sul palato con continuità, vivacità e dinamismo e un carattere ben secco spiccato che dà personalità e carattere al vino. Il finale è su una piacevole nota di mandorla, molto pulito, con retrogusto leggermente speziato e bella articolazione.
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32 Via dei birrai Fabbricare birra artigianale nella terra del prosecco potrebbe già essere da solo motivo di sovversione suprema. E invece no, il birrificio “32 Via dei birrai” si inserisce in un solco storico e geografico antico e ben tracciato. Qui, a Onigo di Pederobba, Veneto, provincia di Treviso sul confine con quella di Belluno, porta delle Dolomiti, la storia della birra è antica. Come lo è in tutta Italia dove, alla fine dell’Ottocento, c’erano 140 fabbriche di birra. In particolare pilser a bassa fermentazione (cioè con lieviti che cominciano a fermentare al freddo, sul fondo delle vasche), birre chiare di stampo tedesco. Poi arriva l’industria e la tradizione finisce in mano alle multinazionali: sapori standardizzati e birrette pastorizzate. Ma la passione per la birra non muore, così cominciano a spuntare i microbirrifici. È una piccola e strisciante rivoluzione del gusto. Che si esprime anche in nuove scelte: alta fermentazione (cioè con lieviti che fermentano a temperature più alte e salgono a galla nei fermentatori), in particolare di stile belga e inglese, le ale, per intenderci. È su questa scia che si incontrano Alessandro Zilli, ingegnere con la passione per la birra, Loreno Michelin, che si occupa di spiegare, vendere, raccontare, etichettare le bottiglie e Fabiano Toffoli, mastro birraio di origine belga, vero alchimista di precisione, sorta di dottor Faust che imprime alle birre una firma indelebile: il luppolo. E si sente. E piace. Tutte le birre sono artigianali, naturali, a doppia fermentazione (la seconda avviene in bottiglia), non pastorizzate, non filtrate, protette da tre tappi: la capsula esterna, la classica corona e un tappo in materiale plastico colorato da estrarre con il cavaturaccioli, come per le bottiglie di vino. Aprirle è un lavoro, ma è anche la garanzia totale che l’ossigeno non ne abbia cambiato l’umore. E allora vedi le schiume che salgono rigogliose nel boccale per poi dissolversi e lasciare il posto alla birra, ognuna con una identità precisa, profumi incredibili, sapori lunghi o freschi o profondi, lieviti che portano lontano, boccate dissetanti. Alla base di ogni birra c’è pulizia del gusto, passione, prodotti scelti con attenzione maniacale: il luppolo viene da Poperinge in Belgio dove Fabiano va di persona ad acquistarlo, il malto arriva dalle migliori malterie d’Europa. L’acqua da due fonti purissime di questo angolo di Veneto. I lieviti sono preparati nella birreria. Così la Oppale è una poesia di luppolo, amara e ricchissima, mentre l’Audace è un canto di spezie, col pepe che accompagna al naso campi di fiori ed erbe fresche. Poi la Curmi, birra bianca, rinfrescante. E ancora la Admiral ambrata, prodotta solo tra l’autunno e l’inverno, o la rarissima Nectar al miele di castagno del Monte Grappa e infine, solo in inverno, la Atra, bruna da meditazione.
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La tradizione del Balsamico Basta mettere il naso nel sottotetto dell’Acetaia San Giacomo, perdersi in questa Bengodi dell’olfatto seguendo profumi che avvolgono file di botti di dimensione decrescente, le “batterie”, per avere all’improvviso una grande certezza: dell’aceto non si sa nulla. Del Balsamico Tradizionale ancora meno. Dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia, poi, davvero in pochi ne hanno sentito parlare. Non c’entra niente con quella roba scura che si vende nei supermercati, non è l’aceto balsamico senza la parola “tradizionale”. Dimenticatelo, stiamo parlando d’altro, di grandi sapori, non di acetucci che sanno di caramello. Tra i tradizionali il più noto è l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, ma quello di Reggio Emilia, proprio per la minor notorietà e per una vena acida che lo fa volare all’infinito è, a volte, molto più interessante, lontano dalle lotte del mercato, nascosto nei solai, nei sottotetto delle case di campagna nella pianura tra il Po e Reggio Emilia. L’intera produzione annua di Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia di tutti i produttori esistenti si aggira intorno alle 27.000 bottiglie da 10 centilitri, 2.700 litri. Non basterebbero a metterne nemmeno una in ogni supermercato. E poi qui siamo in un campo più vicino alla magia, alla meraviglia, allo stupore... Un’acetaia spesso ha una storia antica, più antica di chi la conduce, come nel caso di Andrea Bezzecchi che custodisce a Novellara aceti nati ben prima di lui. L’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia dev’essere invecchiato almeno dodici anni per essere classificato, se è buono, se raggiunge il punteggio previsto dai severissimi assaggiatori, “Aragosta”. Più vecchio e con maggiore punteggio diventa “Argento”, se sommo ed extravecchio, con almeno 25 anni, viene classificato “Oro”. Basta aprirne una boccetta, sentirne il profumo da pozione magica per innamorarsi: si lascia sniffare senza pudore... Ecco, è sufficiente una goccia su un cucchiaino, sul dito, per ritrovarsi a succhiarlo con stupore e avidità e scoprire un sapore arcaico, quasi rinascimentale, inebriante... Dietro a questo nettare c’è una storia millenaria, ci sono tre quintali di uve Trebbiano o Lambrusco, trasformati in mosto cotto per più di dodici ore, che dopo una lunga lavorazione, passando attraverso sette botti di dimensioni e di legni diversi, almeno quattro nell’Acetaia San Giacomo, scelti tra rovere, casagno, ginepro, ciliegio, frassino, acacia e gelso, diventeranno, nel tempo, circa 12 litri di tradizionale. Si può rimanere per ore ad ascoltare Andrea Bezzecchi che racconta i suoi aceti... L’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia è incredibilmente buono, vecchio, intenso, denso, dolcissimo, affascinante, commovente, irripetibile... Un pezzo di storia dell’Emilia Romagna. E d’Italia.
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Parmigiano Reggiano oltre la via Emilia Il confine è sulla via Emilia. Come in una vecchia canzone di Guccini, Alessandro Bezzi, produttore di un Parmigiano Reggiano tra i più buoni che possa capitare di assaggiare, non ha dubbi: il miglior formaggio si produce a monte della via Emilia. Si mostra dispiaciuto per i “parenti” a valle dell’antica strada romana ma lo spartiacque del gusto non ammette deroghe. Il Parmigiano Reggiano è un grande formaggio, ma verso le colline lo è ancora di più. Il motivo? Il clima, l’aria, l’acqua. Che c’entra l’acqua? Viene dai pozzi, non dal Po, non dal fiume e serve a irrigare i campi, quelli dove si taglia l’erba per fare il fieno. Tutto in casa, niente arriva da fuori: terreni, letame (niente concime, per carità), fieno e vacche, duecentocinquanta frisone, sono tutte di proprietà dell’azienda agricola La Rubina, mandata avanti dai fratelli Bezzi, assieme ad Alessandro, ci sono Patrizio e Maurizio. Gli ultimi della generazione del boom economico, nessuno raggiunge i quarant’anni. Tutti eredi dell’azienda di famiglia, di una famiglia che papà Isaia ha tirato su con dieci vacche. Eccolo qui il miracolo emiliano, in questa azienda che si trova sotto le colline di Reggio Emilia, a ridosso di Quattro Castella. Il latte delle duecentocinquanta frisone segue la via della Latteria Sociale di Rubbianino, di fianco a San Bartolomeo. Ci si perde lungo queste strade che sono campi e stalle e cascinali e latterie e ovunque il simbolo del Parmigiano Reggiano. Alessandro del caseificio sociale è anche il presidente e mostra con orgoglio tutte le fasi di lavorazione, la stagionatura e i caldari, tutti di rame vecchio. Sono i migliori giura il casaro, il vero re del caseificio, quello che ha sempre l’ultima parola. Perché? Inforca gli occhiali e spiega Massimo Busato, parla di rame battuto, di conduzione diversa rispetto a quello moderno, pressato. Sono cambiate tante cose nel mondo del Parmigiano Reggiano, ma la tradizione è radicata. Purtroppo cambiano i gusti, dicono scuotendo la testa e il Parmigiano vecchio, quello molto stagionato non lo chiedono più. Si fanno il 12 mesi, il superbo 24 mesi e poi qualcosina a 36 mesi, ma pochissimo, per chi lo chiede e nessuno lo chiede più. Insomma, si obbedisce al mercato perché un po’ si è agricoltori e un po’ imprenditori. E del siero di lavorazione del grande formaggio emiliano che cosa si fa? Si ingrassano i maiali. I migliori del mondo, dice ancora Alessandro, perché è l’alimentazione il segreto dei prosciutti locali. E allora La Rubina fa anche un prosciutto di Parma, stagionato a Langhirano, di almeno 22 mesi, meglio 24, e 11 o 12 chili di peso, da maiali pesanti, nutriti a siero di parmigiano.
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Il Cavolo Nero, ristorante diladdarno San Frediano, oltre l’Arno, oltre i ponti che conducono al centro di Firenze, diladdarno come dicono i fiorentini in un vernacolo che a volte sa di turistico ma che qui sembra ancora incredibilmente autentico. Basta oltrepassare il fiume sul ponte della Carraia, gettare lo sguardo verso la meraviglia di Ponte Vecchio, inoltrarsi per le prime vie del quartiere e si perde la patina di una delle città più visitate d’Italia senza perderne il sapore, la bellezza, le suggestioni. Anzi, Firenze vista dall’Oltrarno sa di antico, di viuzze, di botteghe... Questo è ancora, almeno in parte, il quartiere de “Le ragazze di San Frediano” di Vasco Pratolini. Saranno il piglio e la parlata toscana, ma ci viene in mente Bob, il protagonista rubacuori del romanzo, quando guardiamo Arturo Dori nel suo ristorante Il Cavolo Nero in via dell’Ardiglione, nel cuore del cuore di San Frediano. Locale che si apre in una via dove ti aspetteresti una trattoria rustica, tutta lampredotto e ribollita. Ma i tempi cambiano e la cucina pure. Così ci troviamo in un luogo accogliente, semplicemente raffinato, moderno, con radici ben ramificate in Toscana (sia Arturo, sia la moglie Michela, che lo segue in questa avventura, sono fiorentini), ma con una gran voglia di spaziare, bene, tra le cucine regionali italiani, tra i sapori del mondo anche, tra gli ottimi prodotti delle campagne, del vicino Tirreno, della cultura gastronomica nazionale. Il tutto con la semplicità di un luogo dove stare bene. Un ristorante che non è né il solito posto modaiolo (a Firenze non ne mancano), né la trattoria falso tipica di cui c’è già grande abbondanza. Un luogo di cucina moderna e concreta, dove proporre in tavola il meglio di un percorso di ricerca e di passione, farlo con estro, giocando alle mescolanze e ai sapori garbati, mantenendo l’impronta fiorentina, perché qui siamo, a Firenze. Ecco allora che verrebbe da immaginare Arturo alla corte dei Medici mentre prepara un suadente caprino caldo in crosta con salsa di olive e miele o reinventa la fresca panzanella con il cous cous, o, ancora, propone il coniglio sott’olio con pomodorini secchi e olive nere. Si sbocconcella con gli ottimi pani di casa, con l’incredibile, ottimo, quasi sciamanico pane al nero di seppia. Via alle danze e alle scoperte allora, attraverso i paccheri alla Norma o gli spaghetti con sarde e finocchietto. È buona cucina che sa muoversi tra la parmigiana di melanzane, le costolette alla griglia, il coniglio... Tra la torta di mele con gelato e i biscotti di Prato, quelli del biscottificio Antonio Mattei, inzuppati nel Vin Santo, lo sguardo corre sulle pareti, segue le splendide immagini di cavoli, cavoletti, cavolfiori, verze... Ecco, concretezza ed ironia, desiderio di essere un buon ristorante, voglia di un grande sorriso: guardano verso l’obiettivo Arturo e Michela. Clic. Fuori l’atmosfera di San Frediano. Firenze. Dilladdarno.
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I compagni di merende Basta guardarli Paolo e Ciccio. Sono loro i Compagni di Merende, da cui prende il nome l’omonimo club enogastronomico in quel di Vicopisano, provincia di Pisa, Toscana, propaggini del Monte Pisano, torre benedicente del Brunelleschi. Quando arrivi, munito di tessera Arci perché questo è un circolo, ti guardano un po’ così, quasi sornioni, quasi a prenderti garbatamente in giro, Paolo Ricci, maestro di griglia e Franco Polidori, in arte Ciccio, re della cucina (viceré Maurizio Ronchetti, approdato qui dopo vent’anni tra i fornelli delle navi da crociera). Poi però quando cominciano a parlare di cibo, di piatti toscani, d’olio bono e, soprattutto di bistecca, di fiorentina, diventano maledettamente seri. E preparati perché loro prima di venire a divertirsi ai fornelli e a far divertire i loro ospiti si sono girati il mondo, almeno quello del cibo. E hanno assaggiato di tutto, bevuto di tutto. E si vede, sia a guardarne i corpaccioni da osti toscani, sia ad assaggiarne la ricca cucina. I Compagni di Merende si può definire senza timore locale di tradizione, di riscoperta del territorio. D’altra parte Paolo e Ciccio qui ci sono arrivati perché volevano tornare a casa, stufi del loro lavoro in ambito pubblicitario, forti dell’aver cucinato da sempre, per gli amici. E anche questo è un posto da amici. “Un locale come avremmo voluto trovarne in giro per l’Italia e per la Toscana”, dicono. Ma più di loro dice la bistecca, la fiorentina che sta di fianco al focone, alla giusta temperatura per essere tagliata e finire sulla griglia. Perché, dice Paolo, la carne è come un bambino, va trattata con cura, va fatta frollare il tempo giusto, va scelta bene. Al macello, tra le razze migliori, Chianina, Mucco pisano allevato nella pineta di Migliarino, Romagnola, Marchigiana, ma anche di razza slava, succosa e squisita, oggi tra le migliori, secondo Paolo. Io sostengo le cose buone, dice, e la carne slava è buona, ottima se ben allevata. Punto. S’infiamma Paolo e con lui la griglia a sentire parlare di regole, di tempi di cottura: macché sette minuti! La verità è che quando è cotta è cotta e ogni bistecca ha la sua storia! L’importante è che arrivi a temperatura ambiente sulla griglia, che non sia appena uscita dal frigo. E la griglia diventa aggeggio infernale, braciere magico che sforna bistecche da sogno, ma anche saporiti piccioni. Ma non di sole carni vive l’uomo ed ecco che dalla cucina arrivano i classici crostini con le rigaglie, i tagliolini con le anguille del fiume Serchio, la golosa pappa col pomodoro, quella di Giamburrasca, la trippa bianca dai profumi celestiali, l’entrecote ai funghi chiodini, i fritti di pollo e coniglio, i fegatelli... Passo dopo passo, in una grande merenda che si conclude con cantuccini e vin Santo e crostata con la crema. In cantina tanto del meglio della Toscana.
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Vini di terra e di anima È dolcissima e caparbia, al limite della testardaggine, forse anche oltre il limite, Cristiana Galasso, viticoltore al femminile, cappellaccio e occhi chiari, di San Valentino in Abruzzo Citeriore, provincia di Chieti, pendici del massiccio della Majella. Una cantina minuscola a 470 metri sul livello del mare dove ad arrivare senti tutta l’asprezza del territorio, i boschi selvaggi, il vento. Lei pare un folletto spaesato tra filari di uve Montepulciano che sembrano essere usciti da un paesaggio ruvido e malinconico, guardato a vista dalla meraviglia della montagna. Sono vini scorbutici quelli di Cristiana, che non si lasciano imbrigliare, che non vogliono manomissioni in cantina o in vigna. Sono rossi e bianchi e pure un cerasuolo, un Montepulciano color ciliegia, Lusignolo si chiama, che hanno l’impronta di un vivere contadino, quasi selvatico. Di queste zone dove arrivi e ci sono meli, noci, fichi e un trattore, un Fiat 312 a quattro cilindri che sbuffa e stantuffa nel vigneto, ma obbedisce, si piega alla mano di Cristiana. Proprio come le uve che pendono dalla pergola abruzzese, che sembrano parlare un’altra lingua e poi si plasmano seguendo gli ordini impartiti dalla natura e dall’uomo. Anzi dalla donna, perché la mano femminile si sente, anche su vini maschi come gli abruzzesi. E pensare che Cristiana ha cominciato travolta dal desiderio di tornare alla terra, alla montagna, con umiltà, mettendo da parte gli studi di grafica e infilando i pantalonacci da contadina. Il vino capisce chi lo ama ed è per questo che il suo primo Montepulciano, il Rudero, le riesce buonissimo, come a dire che sì, da questa viticoltura estrema, antica e agricola si possono fare meraviglie. Un po’ con le uve di San Valentino, delle pendici della Majella, un po’ col Trebbiano d’Abruzzo, bianco, che il Feudo d’Ugni, così si chiama l’azienda agricola, coltiva sulle colline vicino a Lanciano. Ne nasce il Lama Bianca, bianco di magnificente personalità. Sorridente e scostante. Feudo d’Ugni è il nome di un pezzo di montagna, terra di ognuno, d’ugni, ovvero di tutti, di tutti quelli che la coltivavano. D’Ugni è il rosso Montepulciano domato col legno. Fante è invece la stessa uva lasciata libera, sregolata, potente al naso, sugosa in bocca, nera all’occhio, inarrestabile, come certe bevute in colline, quelle della “Confraternita dell’uva”, romanzo incantevole dello scrittore americano John Fante a cui il vino è dedicato. Fante è scrittore sregolato e vanesio, profondo, potente, figlio di immigrati abruzzesi. Sembra il ritratto del vino. Perché tutto torna, alla fine di un giro, Cristiana Galasso alla terra, il suo vino alla memoria. Parla dei monti d’Abruzzo e, perché no?, di una vita più vera.
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Feudo D’Ugni Montepulciano Cerasuolo 2007 Credo che questo Montepulciano Cerasuolo sia uno dei migliori Cerasuolo abruzzesi, per il colore, da sogno, rilucente di sfumature e mezzetinte, ma soprattutto per la perfetta corrispondenza, roba da produttori con i controfiocchi e di grande sensibilità, naso-bocca. Naso che parte compatto, fitto, ma elegante e soave, profumato di piccoli frutti rossi, lampone, mirtillo, accenno di fragola di bosco, per poi aprirsi aereo e fragrante sciorinando sfumature di rosa, accenni di geranio e di pepe, una spruzzatina di mazzetto odoroso, un ricordo di ratafià, a comporre un insieme carnoso e intenso. E poi la bocca, ricca, piena, succosa, rotonda, avvolgente, all’insegna di una delicata ed elegante decisione, di un’espansività e larghezza d’espressione, di una polpa succosa, eppure fresca, tenera, carezzevole, con quell’acidità spiccata e quel nerbo sapido che equilibrano mirabilmente una materia ricca e un alcol (intorno ai 14 gradi) da vino d’impegno. Un Cerasuolo che dal Montepulciano tira fuori il carattere, il calore, la carne, quella rotonda godibilità del frutto, ma a tutto vantaggio di una fragranza, di un equilibrio, di una misura, direi quasi di un pudore e di una discrezione che rendono il vino un piccolo gioiello. 199
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Tartufaio gentiluomo Il tartufo racchiude in sé la magia di due grandi passioni: quella per i cani e la natura e quella per la tavola. La ricerca del tartufo è mestiere, ma è mestiere fatto d’amore per i boschi, i monti, i calanchi... Sul risultato c’è poco da dire: basta chiudere gli occhi e seguire l’aroma. Il tartufo è appena più che un profumo, un’essenza, un incantesimo: quasi impalpabile, ma capace di impreziosire tantissimi piatti. In tavola lo si può odiare per la sua intensità, o amare al punto di spendere per lui cifre da capogiro. I tartufi non sono tuberi, come spesso si pensa, ma funghi, funghi ipogei, ovvero che crescono sottoterra e si possono mangiare quasi tutto l’anno. Una specie diversa per ogni stagione. Così in autunno il re della tavola non può essere che il bianco pregiato, il Tuber Magnatum dall’aroma intenso e inconfondibile. Mentre in inverno è il momento del nero pregiato, il Tuber Melanosporum, il tartufo del Perigord, quello per il quale impazziscono i cuochi francesi. Poi è il momento dell’umile bianchetto, il Tuber Albidum dal sapore agliato. Infine, con la bella stagione, comincia l’epoca dello scorzone, del Tuber Aestivum, nero, anche di grandi proporzioni, non pregiato, ma buonissimo. Sono poche le zone d’Italia dove durante l’anno si trovano tutti i tartufi. Una di queste è il piccolo Molise, regione semisconosciuta dove nelle colline tra querce, carpini e roverelle abbondano i neri scorzoni, mentre sulle montagne crescono i bianchi pregiati che spesso prendono la via di mercati importanti come quelli di Alba in Piemonte e di Acqualagna nelle Marche. Mestiere strano il cercatore di tartufi, il tartufaio, specie in una zona dove la cultura di queste pepite del sottosuolo ha cominciato a farsi strada di recente. Lorenzo Gammieri di Larino, paese sospeso tra le colline molisane spazzate dai venti, passa la vita con i suoi cani tra valloni e calanchi, in mezzo alla natura fuori stagione, con i colori dell’autunno, le brume dell’inverno. Su e giù per il Molise, aiutato dal padre Giuseppe e da pochi altri amici. Lo vedi che mentre parla dei suoi tartufi s’accende. Poi lo guardi e gli chiedi dell’olio tartufato. Non lo faccio, dice, è solo aromi, roba chimica. Ma anche i preparati al tartufo hanno bisogno del rinforzo degli aromi. Sì, ammette sconsolato, ma poi si fa forza dei suoi prodotti marchiati Perle del Molise: non tutti gli aromi sono uguali. Anzi. Poi racconta del suo sogno, del laboratorio che sta aprendo, nuovo di zecca, dove persegue la quadratura del cerchio: sapori tartufati senza aromi aggiunti, solo i tartufi, quelli che lui, Lorenzo Gammieri, raccoglie ogni santo giorno, all’alba. Quelli che spedisce anche freschi in tutto il mondo. Lorenzo, tartufaio gentiluomo che rispetta i boschi, il tempo e le stagioni.
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PUGLIA
L’angolo è di vino, i gestori divini Ruvo di Puglia, se lo raggiungi dall’autostrada, dall’Adriatica, ti sembra solo un paesone non lontano da Bari, ma se arrivi da Matera, dalla Basilicata, passando da Altamura, dalla città del pane pugliese per antonomasia, allora incontri la Puglia delle Murge, comprendi come ci siano cittadine che sono cerniere di territori, parlano di campagne e pianure, senza dimenticare che lì, a due passi, c’è l’aspra montagna lucana. Insomma la geografia è spesso un punto di vista: il nostro attraversa una pianura di ulivi, terra arsa, masserie di una bellezza desueta, dimenticata, muri a secco, l’incespicare di qualche gregge di pecore... L’umanità non è però un punto di vista, è una coordinata dell’anima. E l’umanità di Giulio Cantatore fa il paio con il sorriso aperto di Caterina De Palo, lui vulcanico maitre à penser dell’Angolo Divino di Ruvo di Puglia, lei cuoca golosamente territoriale nello stesso locale: enoteca con cucina al centro del paese. Una vita passata insieme: prima una salumeria, poi una rosticceria, infine la folgorazione per il vino e per i buoni prodotti italiani, oltre che regionali. È Giulio a fare la spesa e Caterina a dare un tocco “di casa” a piatti e sapori che viene da canticchiare De Gregori: “a raccontarlo oggi non sembra neanche vero...”. E invece è tutto qui, in un’unica sala, calda e accogliente, impreziosita da grandi bottiglie di vino, scatole in legno, cassette dalle etichette preziose ma non necessariamente di moda. Anzi. Chi si siede a tavola segue il menu del giorno: piccole prelibatezze che servono a valorizzare il vino. Comprese alcune bottiglie regionali, quasi sconosciute altrove, di grande impatto come l’immenso, esagerato, quasi spudorato, Es, un autentico vino da Baccanti, con i suoi tanti gradi che sostengono profumi da fine dell’Impero romano: Primitivo di Manduria di una magnificenza ridondante, strabordante, inenarrabile. E imperdibile. Vini che avvolgono le ghiotte preparazioni di Caterina e gli stupendi prodotti selezionati da Giulio: le piccole friselle al pomodoro, le olive fritte, le focacce pugliesi, i fiori di zucca fritti ripieni di ricotta, la ricotta di mucca con il purè di lenticchie (che freschezza!), la superlativa parmigiana di melanzane con cacioricotta della confinante Basilicata, gli gnocchi di zucca con il tartufo scorzone del vicino Molise, il caprino a latte crudo, sempre della Basilicata, il capocollo di maiale con le patate al forno... In questo turbinio di sapori e di vini ci si perde e i dolci sono carezze, chiusura di un cerchio magico di sapori. I cuochi sono quasi tutti uomini e si chiamano chef, le donne sono poche e cuoche, come racconta la scrittrice Roberta Corradin nel suo libro “Le cuoche che volevo diventare”. Tra quelle poche, e cuoche, Caterina brilla di sapienza casalinga. E pugliese.
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B A S I L I C ATA
La Basilicata, tutta in un formaggio A volte un formaggio racconta come un libro, se ne sfogliano i sapori, gli afrori, le sensazioni profonde e si giunge alle radici delle cose. A quella storia minore che è la storia materiale che in certi angoli d’Italia, in certe regioni come la Basilicata, si intreccia con una fatica contadina che è, in parte, ancora quella di “Cristo si è fermato a Eboli”, il potente e dimenticato romanzo di Carlo Levi: “Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte”. Oggi non è più così, non del tutto almeno, ma ci sono mestieri al limite dell’impossibile. Come il pastore di vacche podoliche, animali selvatici, rustici, impossibili da inquadrare, da imbrigliare, da tenere in stalla, libere e fiere, sgroppanti per le montagna lucana. Solo capirne fino in fondo il valore può restituire dignità alla fatica di salvare dall’estinzione questi animali che hanno attraversato le steppe, si sono adattati a pascoli impossibili, a climi estremi e rischiano di non sopravvivere alla modernità. Solo col latte di maggio e di giugno si riesce a fare il caciocavallo podolico, il formaggio filosofale che Mario Laurino ci porge, erede di una tradizione importante, quella della Latteria Salvia, nata all’inizio degli anni Sessanta a Tito, 650 metri d’altitudine non lontano da Potenza, fondata dalla madre, Maria Salvia, che ancora, a settantasei anni, mostra la lavorazione della pasta filata con la sapienza della ragazza che ha saputo trasformare il latte avaro delle podoliche in formaggi unici al mondo. Oggi il caseificio è moderno, ma mantiene tutto quello che la tradizione consente: dal latte crudo che arriva da allevatori conosciuti, da dietro l’angolo, dalla montagna accanto, al legno per la caseificazione, dove possibile, per la stagionatura. I provoloni e i caciocavallo, ottimo anche quello Silano, riescono a stagionare bene solo appesi ai pali di castagno. Anche il caglio di capretto, in alcuni periodi dell’anno, dopo Pasqua, si riesce a fare in casa, dando vita a un provolone tradizionale da mille e una notte. Tutti i formaggi della latteria sono a pasta filata, lavorata a mano, a temperature a volte incredibili, con una manualità che stupisce, nel tirarla, nell’intrecciare, nel lanciare nelle vasche dove si raffredda, le stesse dalle quali Maria Salvia tira fuori due trecce di mozzarella e te le offre: non si può andare via senza averla assaggiata. Fresca di latte, sapida di sale, avvolgente, quotidiana, perché qui si alzano tutti i giorni alle quattro del mattino per lavorare il latte del giorno. E perché al bancone dei formaggi, i clienti, tanti, tantissimi, non ne vogliono proprio sapere della mozzarella del giorno prima. Altro che data di scadenza, qui siamo oltre i confini del buono.
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Indice PREFAZIONE
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PROLOGO
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PIEMONTE Favole e prosciutto per i Sette Nani – Borgo San Dalmazzo (CN) In Piemonte, alla Trattoria Roma – Castelletto Stura (CN) I salumi della Provincia Granda – Centallo (CN) L’incredibile nocciola d’alta Langa – Cravanzana (CN) L’Artesin, i sapori delle nuvole – Elva (CN) Il miele d’alta quota – Elva (CN) L’orto del Pian Bosco – Fossano (CN) Le carni piemontesi de La Granda – Genola (CN) Caseificio San Martino – Saluzzo (CN) La Barbera di Guido Berta – San Marzano Oliveto (AT) Come baciare il vento – Scurzolengo (AT)
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LIGURIA L’osteria di Vergassola – La Spezia L’Antica trattoria dei Mosto – Ne (GE)
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LOMBARDIA Lo storione della Valcamonica – Borno (BS) Tra i risi antichi di Lomellina – Candia Lomellina (PV) Capoborgo, osteria passionale – Gavardo (BS) Eccola, la trattoria sovversiva! – Gavardo (BS) Viticoltori raccomandati da Dio – Gavardo (BS) Flavio Calabria, salumi d’autore – Muscoline (BS) Le Cantine Pietta e il Riesling del lago – Muscoline (BS) La fucina dei sapori a due passi dal Garda – Prevalle (BS) La Basia e il chiaretto goloso – Puegnago (BS) Sergio Delai e i vini della Valtenesi – Puegnago (BS) Ca Lojera, il Lugana con vista sul lago – Sirmione (BS) Nicola Cavallaro, sovversivo nel piatto – Milano
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TRENTINO-ALTO ADIGE Zeni, orgoglio trentino – San Michele all’Adige (TN)
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INDICE
VENETO La regina del Bardolino – Cavaion Veronese (VR) Peccati di gola a Vicenza e dintorni – Dueville (VI) 32 Via dei birrai – Pederobba (TV)
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FRIULI VENEZIA GIULIA Cencig, viticoltori friulani – Manzano (UD)
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EMILIA ROMAGNA Antica Trattoria Cattivelli – Isola Serafini di Monticelli d’Ongina (PC) La tradizione del Balsamico – Novellara (RE) Il Parmigiano Reggiano oltre la via Emilia – Reggio Emilia Le meraviglie del Povero Diavolo – Torriana (RN)
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TOSCANA Il Cavolo Nero, ristorante diladdarno – Firenze Claudio Pistocchi e la torta di cioccolato – Firenze Il Chianti della memoria – Gaiole in Chianti (SI) I compagni di merende – Vicopisano (PI) L’olio buono di Vicopisano – Vicopisano (PI)
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LAZIO I piaceri del Quinto Quarto – Roma
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ABRUZZO Vini di terra e di anima – San Valentino in Abruzzo Citeriore (CH)
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MOLISE Bobo, l’ambasciatore del Molise – Guglionesi (CB) Tartufaio gentiluomo – Larino (CB)
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PUGLIA L’angolo è di vino, i gestori divini – Ruvo di Puglia (BA)
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BASILICATA La Basilicata, tutta in un formaggio – Tito (PZ)
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CALABRIA Timpa dei Lupi, una terra in un filo d’olio – Corigliano Calabro (CS)
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Indirizzario I SETTE NANI via F.lli Rosselli 10 12011 Borgo S. Dalmazzo (CN) Tel: 0171 69450 marco.bertorello@yahoo.it
AZ. VINICOLA CASCINA TAVIJN Frazione Monterovere 10 14030 Scurzolengo (AT) Tel: 0141 203187 www.cascinatavijn.it info@cascinatavijn.it
TRATTORIA ROMA via Roma 3 12040 Castelletto Stura (CN) Tel: 0171 791007 www.trattoriaroma.it info@trattoriaroma.it
OSTERIA FONTANI via Gioberti 26 19124 La Spezia Tel: 0187 732342 www.osteriafontani.com
DHO GIUSEPPE SALUMERIA p.zza Vittorio Veneto 21 12044 Centallo (CN) Tel: 0171 214043 www.salumeriadho.it info@salumeriadho.it
TRATTORIA DEI MOSTO P.zza dei Mosto 15/1 16040 Conscenti di Ne (GE) Tel: 0185 337502 www.trattoriamosto.it info@trattoriamosto.it
AZ. AGR. NOCCIOLE D’ELITE via San Pietro 3 12050 Cravanzana (CN) Tel: 0173 855129 nocciole.elite@libero.it
AZ. AGROITTICA SANFIORINO via Milano 46 25042 Loc. S. Fiorino Borno (BS) Tel: 0364 312123 www.sanfiorino.it info@sanfiorino.it
AGRITURISMO L’ARTESIN Via Clari 5 Borgata Clari 12025 Elva (CN) Tel: 0171 997995 agriturismoartesin@libero.it TURCO FLORIANO APICOLTURA Baita San Giovanni 12020 Elva (CN) Tel: 338 2030388 L’ORTO DEL PIAN BOSCO Frazione Loreto 24/A 12045 Fossano (CN) Tel: 0172 62591 www.ortodelpianbosco.it info@ortodelpianbosco.it LA GRANDA TRASFORMAZIONE via Cuneo 41/C 12038 Savigliano (CN) Tel: 0172 726178 www.lagranda.it sergio.capaldo@eataly.it CASEIFICIO SAN MARTINO C.so L. Einaudi 9 12037 Saluzzo (CN) Tel: 0175 47443 info@caseficiosanmarino.it AZ. VITIVINICOLA GUIDO BERTA Regione Saline 52 14050 S. Marzano Oliveto (AT) Tel: 0141 856193 cascinaguidoberta@libero.it
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TERRE DI LOMELLINA Rosalia Caimo Duc via Roma 72 27031 Candia Lomellina (PV) Tel: 0384 74035 rolias@virgilio.it OSTERIA CAPOBORGO via Capoborgo 11 25085 Gavardo (BS) Tel: 0365 331737 www.osteriacapoborgo.it info@osteriacapoborgo.it TRATTORIA PEGASO via Tormini 72 Fraz. Soprazocco Di Gavardo 25085 Gavardo (BS) Tel: 0365 372719 trattoriapegaso@libero.it AZ. AGR. FRATELLI TREVISANI via Galuzzo 2 Fraz. Soprazocco Di Gavardo 25085 Gavardo (BS) Tel: 0365 373154 www.trevisanionline.it info@trevisanionline.it FLAVIO CALABRIA Az. Agricola Gue.Cal. Via Burago 6 25080 Muscoline (BS) Tel: 0365 373668
CANTINE PIETTA via Belvedere 55 25080 Castezzone di Muscoline (BS) Tel: 0365 32143 LA FUCINA DEI SAPORI via Fucine 15 25080 Prevalle (BS) Tel: 030 6801251 LA BASIA via Predefitte 31 25080 Puegnago sul Garda (BS) Tel: 0365 555958 www.labasia.it info@labasia.it AZ. AGR. DELAI via Aldo Moro 1 25080 Puegnago sul Garda (BS) Tel: 0365 555527 www.delaisergio.it info@delaisergio.it AZ. AGR. CA’ LOJERA Via Bella Italia 30 37010 San Benedetto di Lugana – Peschiera (VR) Tel: 045 7551901 www.calojera.com info@calojera.com
32 VIA DEI BIRRAI via Cal Lusent 41 31040 Onigo di Pederobba (TV) Tel: 0423 681983 www.32viadeibirrai.com loreno@32viadeibirrai.com
COMPAGNI DI MERENDE Via della Verruca 14 56010 Vicopisano (PI) Tel: 050 799758 www.compagnidimerende.it info@compagnidimerende.it
AZ. AGR. CENGIG via Sottomonte 171 33044 Manzano (UD) Tel: 0432 740789 www.cencig.com info@cencig.com
IL FRANTOIO DI VICOPISANO Loc. Palazzetto 3 56010 Vicopisano (PI) Tel: 050 796005 www.vicopisanolio.it nicolabovoli@vicopisanolio.it
TRATTORIA CATTIVELLI via Chiesa di Isola Serafini 2 29010 Monticelli D’ongina (PC) Tel: 0523 829418 www.trattoriacattivelli.it info@trattoriacattivelli.it
OSTERIA IL QUINTO QUARTO via della Farnesina 13 00134 ROMA Tel: 06 3338768 www.ilquintoquarto.it info@ilquintoquarto.it
ACETAIA SAN GIACOMO Strada Pennella 1 42017 Novellara (RE) Tel: 0522 651197 www.acetaiasangiacomo.com info@acetaiasangiacomo.com
FEUDO D’UGNI Cristiana Galasso Contrada San Pietro 67050 Ortona dei Marsi (AQ) Tel: 349 1479800 www.dugni.simplicissimus.it feudo.dugni@gmail.com
AZ. AGR. LA RUBINA via Gastione 7 42100 Reggio Emilia Tel: 0522 371492
NICOLA CAVALLARO Ristorante Al San Cristoforo Via Lodovico il Moro 11 20143 Milano Tel: 02 89126060 www.nicolacavallaro.it info@nicolacavallaro.it
POVERO DIAVOLO Ristorante e locanda Via Roma 30 47825 Torriana (RN) TEL: 0541 675060 www.ristorantepoverodiavolo.com info@ristorantepoverodiavolo.com
AZ. AGR. R. ZENI via Stretta 2 32010 Grumo San Michele All’adige (TN) Tel: 0461 650456 www.zeni.tin.it robezen@tin.it
RISTORANTE CAVOLO NERO via dell’Ardiglione 22 50124 Firenze Tel: 055 294744 www.cavolonero.it info@cavolonero.it
AZ. AGR. LE FRAGHE Loc. Colombare 3 37010 Cavaion Veronese (VR) Tel: 0457 236832 www.fraghe.it info@fraghe.it PECCATI DI GOLA P.zza Pigafetta 7 36031 Dueville (VI) Tel: 0444 591474 www.peccatidigola.eu info@peccatidigola.eu
TORTA PISTOCCHI Via Ponte di Mezzo 20 50127 Firenze Tel: 055 0516939 www.tortapistocchi.it info@tortapistocchi.it PODERE ERBOLO Filippo Cintolesi Loc. Erbolo 53013 Gaiole In Chianti (SI) Tel: 339 5454452 www.erbolo.com podere@erbolo.com
RIBO Contrada Malecoste 7 86034 Guglionesi (CB) Tel: 0875 680655 www.ribomolise.it info@ribomolise.it PERLE DEL MOLISE Via Santa Chiara 11 86035 Larino (CB) Tel: 348 2537628 www.perledelmolise.it info@perledelmolise.it ENOTECA L’ANGOLO DIVINO corso Jatta 11 70037 Ruvo di Puglia (BA) Tel: 080 3628544 angolodivino@virgilio.it LATTERIA SALVIA MARIA contrada Serra 2/d 85050 Tito (PZ) Tel: 0971 485771 www.latteriasalvia.it info@latteriasalvia.it AZ. AGR. TIMPA DEI LUPI Pietro G. Cristiano Contrada Cucuzzone 87064 Corigliano Calabro (CS) Tel: 0983 886258 www.timpadeilupi.it timpadeilupi@tiscali.it