Sovversivi del gusto 2

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Sovversivi del gusto SECONDO VIAGGIO FOTOGRAFICO NEL MONDO D E L L’ E N O G A S T R O N O M I A C H E R E S I S T E

Michele Marziani Marco Salzotto

prefazione di

Adriano Liloni


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Progetto grafico e realizzazione: Guillermo Vincenti

© 2009 NDA Press Via Pascoli, 32 47853 – Cerasolo Ausa di Coriano (RN) tel. +39 0541 682 186 fax +39 0541 683 556 info@ndanet.it www.ndanet.it Stampa: Arti Grafiche Dial – Mondovì (CN) Prima edizione: Novembre 2009 ISBN: 978–88–89035–36–8

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Sommario PREFAZIONE

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PROLOGO

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PIEMONTE LIGURIA LOMBARDIA TRENTINO ALTO ADIGE VENETO FRIULI VENEZIA GIULIA EMILIA ROMAGNA UMBRIA MARCHE LAZIO CAMPANIA SICILIA SARDEGNA

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INDIRIZZI SOVVERSIVI

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INDICE

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P R E FA Z I O N E A D R I A N O L I L O N I

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PREFAZIONE

In un periodo in cui in mondo sembra sgretolarsi e la società pare tendere a un lassismo e a un appiattimento di idee senza fine, dove le nuove generazioni sono costrette a navigare nel mare dell’indifferenza quotidiana, del vivere alla giornata, credo ci sia bisogno di un piccolo faro di positività che sia contaminante del tessuto sociale. Fosse pure solo un piccolo gruppo di produttori, vignaioli, viticoltori, artigiani, osti e ristoratori, ma che hanno un minimo comune denominatore: la passione e la tenacia di continuare il proprio lavoro, la visione positiva, quasi utopistica, di un futuro che può essere modificato, come punto di riferimento di un ritorno alle cose “quotidianamente semplici” ma che danno un senso di appagamento, direi quasi di felicità, nel realizzarle. Un paio di giovani nella periferia anonima di Napoli che aprono un ristorante e con determinazione portano la speranza che qualcosa ancora si può realizzare aldilà delle brutture circostanti. Una cantina siciliana che con coraggio non solo coltiva i terreni confiscati alla mafia, ma con ancor più coraggio coltiva la legalità, a partire dai contributi per i dipendenti, cosa che laggiù in quell’angolo di Sicilia non si era mai vista. E che dire di quel signore abbarbicato con l’intera famiglia sopra il lago Maggiore che tramanda la cultura dei formaggi d’alpeggio... Questi sono i Sovversivi del gusto. Esempi ce ne sono decine in questo volume, per me quasi un romanzo fotografico. Basta lasciarsi prendere per mano dalle sensazioni nel leggerlo con la mente e con gli occhi, per capire che l’Italia è ancora desta e non, come si potrebbe pensare, addormentata da mancanza di ideali. Credo che il volume trasmetta le intenzioni degli attori e pure quelle degli autori che come sempre hanno aperto il cuore, consumato scarpe e anima, su questo libro. Alla prossima avventura in questa bellissima terra che è l’Italia, troppe volte maltrattata. ADRIANO LILONI, OSTE IN GAVARDO

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E FONDATORE DEI SOVVERSIVI DEL

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PROLOGO MICHELE MARZIANI

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PROLOGO

Chi sono i Sovversivi del gusto? Non certo dei carbonari, degli anarchici, dei rivoluzionari come potrebbe evocare il nome. Sono un gruppo di persone che si occupano di cibo e di vino, producono golosità eccellenti, sono sparsi in tutta Italia e sono nati da un’idea di un vulcanico oste: Adriano Liloni. Per raccontarli, assieme al fotografo Marco Salzotto abbiamo percorso migliaia di chilometri su e giù per lo Stivale. Siamo partiti con il sole dell’estate e l’incoscienza di chi sa che viaggiare è il mestiere del vento, ma non per questo è mestiere meno difficile: i chilometri si moltiplicano, percorsi in auto, treno, aereo, traghetto, taxi e motorino, i volti raccontano luoghi precisi, i territori parlano, abbagliano, le montagne ti guardano, il mare accarezza, la collina ti culla, le stagioni si susseguono. Ma noi siamo andati avanti perché volevamo raccontare queste storie, questi protagonisti, di un’Italia rurale, agricola, contadina, resistente, sovversiva, che non si piega al mercato, che si ostina, per fortuna, a non capire la globalizzazione. Così è nato, nel 2008, il primo libro dei Sovversivi del gusto. Era necessario questo secondo volume? Sì, secondo noi era necessario, soprattutto per dare una pennellata, un’idea, un profumo di diversi luoghi che nel primo libro non c’erano: le Marche, l’Umbria, la Campania, la Sicilia, la Sardegna. I Sovversivi del gusto parlano attraverso le immagini. Le parole solo un accompagnamento, un vestito, un dire nomi e cognomi di persone e di posti in modo che li si possa ritrovare e rincontrare. Non sono i migliori produttori, osti, vignaioli, artigiani, olivicoltori d’Italia. A noi non interessano le classifiche. Su e giù per lo Stivale ci sono altri come loro, alcuni magari anche più bravi, ma questi, i Sovversivi, sono uniti da un filo, da un passaparola, da una certificazione di legame, umana. Ognuno mette la propria faccia per dire: lui merita, lui è in gamba. Così come mette la faccia, le mani, il cuore, nel presentare i propri cibi, i propri vini, le proprie idee. Perché questo intendeva il grande Luigi Veronelli, alludeva agli uomini e alle donne con le mani nella terra, quando diceva: “Il peggior vino contadino è meglio del miglior vino industriale”. Quindi i Sovversivi non sono i migliori e neppure gli unici: hanno storie da raccontare e luoghi, splendidi, da mostrare. Sono una famiglia, verrebbe da dire una “comune”, di persone anche molto diverse tra loro che hanno deciso di realizzare un libro insieme per farsi conoscere, per far conoscere i luoghi dove nascono il buono e la passione. A noi, alla fine di questo viaggio, rimane l’impressione di aver toccato un Paese più autentico, un germoglio di mondo migliore. MICHELE MARZIANI

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PIEMONTE

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La frutta golosa della Val Varaita Floriano Luciano stacca una mela dall’albero e me la porge. Assaggia, dice, è tutto merito del Monviso. Lì a pochi chilometri, con i suoi 3.841 metri, la montagna governa il clima, fa che le notti siano fredde anche quando le giornate sono calde. E le mele diventano come quelle dei disegni, dei libri illustrati per bambini, e liberano i profumi nell’aria. Facciamo lotta integrata, aggiunge Floriano, puoi mangiarla com’è. La addento. Di fianco scorre il fiume, il torrente Varaita, che dà il nome alla valle. Qui, a Piasco, Piemonte occidentale, provincia di Cuneo, c’è la Cascina Verdesole: Floriano Luciano, la moglie Rosanna Dalmasso, un trattore, un furgone con le cassette per la frutta e una cesta per i giocattoli. Ci sono anche loro in campagna: Francesco e Lorenzo, 7 e 5 anni. Mele, dicevamo, dalle Gala croccanti fino alla Renetta grigia, l’autoctona Ravé. Poi pesche, ramassin (che sono una golosa varietà di susine) e albicocche, tra cui spicca la Tonda di Costigliole, piccola e succulenta che qui cresce in minuscoli frutteti montani, ad oltre 600 metri d’altitudine, su alberi in pendenza dove bisogna salire con la scala per raccoglierla. Sembrano un altro mondo questi frutteti in frazione Tardivo di Rossana. Attorno agli alberi, trattati con sistemi naturali e antichi per proteggere il tronco c’è un mondo di piante e frutti selvatici, uva, more, fichi, castagni che si staccano dal bosco ricco di funghi, rosa selvatica e sambuco. Tra le mele irrigate a goccia, tra gli intrichi di canali irrigui, c’è il granoturco, l’antica varietà Pignulet, sopravvissuta ai moderni mais americani. Questo mondo passionale e contadino in parte prende le vie dei mercati, dei paradossi dell’economia globale: alcune delle mele bellissime finiscono negli Usa, le albicocche in Inghilterra, le pesche in Scandinavia. La fortuna è abitare nei dintorni e acquistare nel punto vendita della cascina. Ma fortuna ancor più grande è la mano felice di Rosanna che con tecniche semplici ed antiche realizza preparazioni di ogni genere. Così le pesche sciroppate, pelate a mano, a coltello, una per una, sono a dir poco commoventi. Le mele diventano succo limpido e, soprattutto, splendida Cugnà della Valle Varaita, ovvero composta a base di mele cotte a lungo e pere, condimento arcaico, potente antidoto alla malinconia, a cucchiaiate, o in compagnia di formaggi erborinati. Il “Vin coit” di Sambuco, un cucchiaio al giorno, dice il farmacista che lo vende, tiene sotto controllo la pressione. Le confetture, di albicocche, di ciliegie, di mirtilli selvatici raccolti nel Vallone di Gilba a 1300 metri, tengono alta la felicità. Poi ci sono i barattoli di ortaggi, i succhi di frutta naturali, il croccante antipasto piemontese, la salsa di pomodoro, la golosa composta di pesche, amaretti e cacao. Un cucchiaino incontra l’altro, il dolce, il salato, i sapori si mescolano, i pensieri pure. Assaggiare per credere.

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Sempione 42, indirizzo goloso Dove sta la sovversione a Milano? Nell’essere milanesi del “fare” in una città che alla faccia della propria storia è diventata il centro dell’apparire, dove gli arredi di design valgono in un ristorante più della buona accoglienza, dove il pettegolezzo mediatico conta più dei sapori e dei saperi virtuosi. A Gianni Brera, indimenticato scrittore di cose sportive e golose, piaceva ricordare che la Milano moderna è nata attorno all’anno Mille dall’editto di Ariberto d’Intimiano, vescovo conte, che prometteva la libertà, lo stato di uomo libero, a chi emigrasse in città e sapesse lavorare. Una rivoluzione per i tempi che ha creato la città moderna, quella in cui è nato e cresciuto il giovane Andrea Alfieri, ai fornelli del suo Sempione 42. Nome e indirizzo sono tutt’uno per questo ristorante di corso Sempione che è una scoperta davvero travolgente. Ventisei coperti coccolati in sala da Samantha Serafini, prima compagna di scuola all’alberghiero di Andrea, poi compagna nella vita. A mezzogiorno c’è la possibilità di mangiare, a Milano, bene, con 15 euro, un miracolo, di salute e di piacevolezza. La sera Andrea entra nel suo sogno, dà fuoco alle polveri delle sue padelle, ritorna il bambino a cui luccicavano gli occhi davanti alle cucine di alberghi e ristoranti dove gli capitava di andare col padre... Dietro al vetro della cucina Andrea comincia a giocare con la materia prima, freschissima, straordinaria, come Milano sa offrire, ovviamente a caro prezzo. Ma voi non pagherete care le meraviglie del Sempione 42 perché la scelta è di essere leggeri, pochi, bravissimi: Andrea e la giovanissima Roberta Zulian in cucina, Samantha in sala. Il rapporto tra qualità e prezzo è, per Milano e per il valore del cuoco, davvero ottimo. In tavola i piatti hanno la forza, il coraggio, dell’autenticità, non la solita fuffa di certi creativi. Parla da sola già l’entrata di benvenuto: cannolo croccante di lingua con patate al rafano e zuppetta di fichi con balsamico che lascia in bocca il ricordo indelebile dei fichi. Poi avvolge il palato il fegato grasso d’oca con i gamberi crudi e la gelatina di uva spina... E non avete visto ancora nulla perché il baccalà mantecato con le sue trippette stufate è un monumento alla milanesità dimenticata. Segue il mare, ghiottissimo, degli spaghetti Latini Senatore Cappelli con vongole, calamaretti, gamberi rossi e bottarga di muggine. Ancora: gnocchetti di polenta con ragù di lumache e finferli e gelato al blu del Monviso; morbido maialino da latte alla birra con purea di castagne... All’inizio pensi che gli otto anni passati ai fornelli dello Yar, il ristorante russo di Milano, non abbiano lasciato il segno nella cucina di Andrea Alfieri. Invece no, alla fine comprendi che è passata l’anima da grande nord che si respira tra questi piatti che sanno cavalcare la fantasia senza dimenticare la concretezza.

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I formaggi di una montagna migliore Ad Armio Veddasca non ci arrivi per caso. E di questi posti non si può scrivere a caso. Prima c’è da risalire l’Italia, poi la montagna e incunearsi quasi in Svizzera. Sulla cartina è semplice: lago Maggiore, sponda lombarda, provincia di Varese, Luino, Maccagno, poi si gira a destra e si comincia ad inerpicarsi. Tornante dopo tornante si capisce che non si sta andando a cento chilometri da Milano, ma ad anni luce dalla modernità. Perché la montagna, in Italia, almeno da mezzo secolo, è quanto di più lontano e dimenticato. È la vittima di uno spopolamento grande, quasi una deportazione volontaria in nome del progresso, silenziosa, continua, la devastazione di un mondo rurale avvenuta nell’indifferenza. In montagna non c’è industria e non c’è consumo, non su certi alpeggi scostanti, di frontiera e di confine. Non qui, in Val Veddasca. Eppure quando sei quassù e guardi sotto verso il lago Maggiore senti il respiro il mondo. Di un altro mondo. Poi ti giri e guardi loro, Desiderio Carraro e Isabella Bianchi, l’azienda Pian du Lares, che qui ci sono arrivati negli anni Settanta quando soffiava il vento delle comuni, quando la gente del posto ti guardava scuotendo la testa pensando «questi non combineranno nulla di buono...». Invece loro venivano qui per poter avere una vita diversa, migliore, niente industria, niente consumo. E oggi di cose buone ne hanno combinate non poche e sono, assieme ad altri arrivati attraverso strade simili, l’anima del territorio, il baluardo contro lo spopolamento, a mille metri di quota, tutto l’anno, ad allevare capre reintroducendo, assieme ai pastori svizzeri del vicino Canton Ticino, la capre di razza nera di Verzasca, libere al pascolo, assieme alle Camosciate alpine. Poi le vacche rustiche di razza Rendena, mai un giorno di stalla, animali da carne e da latte. E i maiali che mangiano il siero di latte e i cereali buoni. E i cavalli allo stato brado... Ne nascono prodotti che hanno dentro l’anima delle Alpi, il sorriso di Desiderio e il puntiglio di Isabella, la fatica di costruire qui un mondo altro, duro, ma possibile. Di averci fatto crescere i figli, di aver mantenuto forte lo spirito del tempo, la voglia di avere gente intorno, di pensare, perché fare formaggi senza cultura non vale la durezza di stare quassù. Quello che si mangia è tutto biologico, a latte crudo. Il Varesott è formaggio di capra e mucca, in stile svizzero, un vento di piacere per il palato, la Formaggella del Luinese è il primo formaggio di capra che ha ottenuto la Dop. Poi ci sono i caprini anche aromatizzati, le tome, la ricotta... E ancora, i salami di capra e i salumi di maiale, tra i quali spiccano la mortadella di fegato, la pancetta lardata, il salame prealpino... Per assaggiare (e capire) bisogna salire quassù, nell'accogliete agriturismo.

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Vini di pietra, vento dal mare Verrebbe da dire vini di pietra, di pietra del Carso, se non fosse che in bocca sono una carezza. Carezza sferzante di mare, di sale, di Adriatico, erbe selvatiche battute dalla Bora triestina, sentori minerali, balsamici, vini di un altro mondo. Al primo sorso di Vitovska di Benjamin Zidarich ne segue un altro ancor più goloso, poi uno lungo, meditato. È allora che pensi: questo è il mio vino, il vino fatto per me, non berrò mai più nient’altro... Poi sai che non è vero, perché di vignaioli buoni ce ne sono tanti in Italia e nel mondo, ma rimani lì, impalato, a bocca aperta, sospeso di fronte a un bianco che insieme è antico vitigno dalle radici slovene, autoctono del Carso, di questo angolo di Friuli, e frutto di un lavoro senza compromessi da parte di Benjamin Zidarich, sulle alture di Prepotto, comune di Duino Aurisina, anfiteatro sul mare, vista sul castello di Duino. Vento, sole, salsedine, terra rossa rubata alla pietra e una cantina che si addentra nelle viscere della terra, vero vanto del lavoro dell’uomo, incisione e rispetto per la materia, scultura vivente, che respira nel sottosuolo. Mai vista una cantina così: rimbalza da un piano all’altro verso il centro della terra e nelle botti in penombra ti sembra di riscoprire le meraviglie dei nani di Tolkien. Cantina dal respiro secolare finita di scavare appena adesso, sintesi perfetta di tradizione e visione. Lavorazione totale per caduta, temperatura controllata solo dalla natura. Stregoneria! verrebbe da pensare se Benjamin Zidarich e sua moglie Nevenka Racman non fossero l’esatto contrario di maghi e streghe: sorriso, tenacia, gentilezza, accoglienza. I vini sono tutti da sorso lungo, infinito: grandiosa la Malvasia; profumatissimo e salino il Prulke, uvaggio bianco di Sauvignon, Vitovska e Malvasia; mirtillo e acciaio, scontroso e avvolgente, meraviglia per intenditori il Terrano, rosso profondo e spesso incompreso, sferzata di freschezza, sempre sull’onda della terra rossa battuta dai venti di mare. Friuli di confine, a pochi metri la Slovenia, dove Zidarich ha anche un vigneto, due lingue, e qualche antica e intelligente tradizione dell’impero, quello asburgico: tre volte l’anno la cantina apre per l’Osmizza, la possibilità di assaggiare e acquistare, bere vini accompagnati dai salumi di casa. Di casa perché fatti coi maiali che per obbligo il viticoltore deve allevare se vuole aprire al pubblico: un maiale ogni tanti ettolitri di vino, antico e sapiente metodo per garantire il territorio, evitare le monocolture. Così a fianco del vigneto naturale e imponente, giardino selvaggio, incredibile del Prulke, ci sono i boschi, le querce e tra gli alberi i maiali. Le stradine di polvere e sasso, i muretti a secco, pietra su pietra, accompagnano un territorio dalla storia difficile, dalla vita a volte dura e dal vino unico. Zidarich ne è l’interpretazione estrema: tutta in un bicchiere. Che non vorresti vuoto mai.

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La cucina dell’Arcangelo Ci si perde a passeggio tra il Tevere e la maestosità di Castel Sant’Angelo a ripensare alla cucina di Arcangelo Dandini, alla filosofia del suo ristorante L’Arcangelo, nel cuore della Capitale, in via Giuseppe Gioacchino Belli, al numero 59. Non si sta nei posti a caso, a volte. Ed è proprio il Belli, il poeta in romanesco, a venirci incontro con l’introduzione ai suoi sonetti: «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio». La materia, la forma, la cucina romana e romanesca, popolare, popolana e colta, imperiale, papale, principesca, ebraica, cosmopolita e al tempo stesso con radici profondissime nei castelli, nell’agro, nelle occasioni golose fuori porta. Arcangelo è alla quarta generazione di ristoratori, te lo racconta parlando dell’infanzia a Rocca Priora, di quando papà Stefano e mamma Anna, mettevano a sedere 1500 persone felici in una trattoria vicino al lago Regillo. Altri tempi, solco nella memoria di un’infanzia personale e collettiva. Anabasi, viaggio verso l’interno, verso se stessi è il nome, diremmo il titolo, di un piatto che parla della cucina di Arcangelo Dandini e arriva in tavola sotto forma di biscottini Plasmon, torcione di fegato grasso e granella di caramella all’orzo, una fila di fichi golosi. Per chi è nato negli anni Sessanta è un tuffo nel passato, memoria olfattiva, meraviglia di profumi. È cucina prima per il naso, poi per il palato, quella che Arcangelo propone in questo ristorante accogliente e di sobria eleganza. I suoi piatti sono viaggi, sono la strada che conduce a Rocca Priora d’estate: panzanella con cipollotto, splendido baccalà crudo, burro e acciughe. Spettacolari sono gli spaghetti con aglio rosso, parmigiano stravecchio e mosto cotto, primo ad effetto, secondo solo ai rigatoni alla matriciana (senza la a, come si dice a Roma) con pecorino affumicato. Ecco, l’olfatto viene prima anche quando il coperchio si solleva, a tavola, e libera il fumo di rosmarino che accompagna la quaglia con la pizza bianca. Materia prima d’eccezione, accostamenti da paura, netti, limpidi, sul filo della vertigine e dell’olio extravergine. E mentre noi temiamo il tonfo, la caduta, lui ci ammalia e ci tiene sospesi, vicini al cielo, con il cioccolato bianco liquido, capperi (sì, capperi), zenzero e superbo olio extravergine. In sala la moglie Stefania, in cucina il cuoco Ajit Kumar Ghosh, indiano, e lui, Arcangelo Dandini, una sorta di Willy Wonka romano, tra provocazione e palato, tra infanzia e memoria, a dirigere questa fabbrica dei sapori così pirotecnica da ricordare, mentre si scrive, le meraviglie de La fabbrica di cioccolato il romanzo di Roald Dahl, l’affascinante film di Tim Burton. Arcangelo Dandini è molto più rassicurante di Johnny Depp, ma questa è Roma e questa è la materia.

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Il Sud che a noi piace Quarto, Campania, provincia di Napoli. Difficilmente si trova un posto più brutto e degradato dove tra smog, immondizia, cavalcavia e cattiva urbanistica ti viene da morire soffocato. E allora che fai? Parti e vai altrove? No, rilanci e con una cocciutaggine davvero unica crei un polmone, un respiro, un angolo. Non roba da eroi: normalità. Di quei locali che magari a Milano o a New York, così belli ma non così buoni, ce n’è uno per isolato e qui invece ce n’è uno e basta. Sud, si chiama il ristorante, oasi di resistenza in fondo a una viuzza che non t’aspetti, col nome scritto piccolo che neppure lo trovi. Ma quando arrivi a destinazione già capisci che non hai sbagliato, perché ad accoglierti ci sono il sorriso di Marianna Vitale e la stretta di mano del marito Pino Esposito. È lui che è nato qui, nel cuore brutto dei Campi Flegrei che pure sono meraviglia di natura e di storia, con balcone unico al mondo sul Golfo di Pozzuoli, di fronte Procida, Ischia e la piccola Nisida. È Pino che ha convinto Marianna, napoletana di città, appassionata di cucina sin dall’infanzia, laureata in letteratura spagnola, a venire qui ad aprire il suo ristorante, dopo una vita (si fa per dire, è giovanissima) tra i fornelli della nonna o tra i tavoli della Buca di Sorrento, poi un anno di esperienza in cucina al Palazzo Petrucci di Napoli. Rubando il titolo e lo spirito al bel libro della scrittrice Roberta Corradin, Marianna è “la cuoca che volevo diventare”. Tutta l’energia del suo Sud, laborioso, resistente, intelligente, si riversa nell’ambiente, semplice e curatissimo, nella scelta di soli 24 coperti perché le persone a tavola devono stare bene. Ma soprattutto ritrovi la forza nei piatti che sono partenopei, meridionali e leggiadri come una nuvola di profumi, un pensiero da addentare perché ti porti lontano, con la freschezza mediterranea della stratificazione di fresella, con la meravigliosa burrosità della zuppa di pomodoro con le calamarelle (i calamaretti) ripiene di ricotta o la zuppetta piccante con mozzarella, cozze, melanzane e una mazzancolla cruda. Il pesce viene dalla pescheria dove Marianna va a far la spesa (e ogni giorno è una sorpresa, magari grandiosa come la nostra aguglia imperiale con riduzione di Piedirosso, scarola e ricotta), le verdure dalla bottega del fruttivendolo, la carne arriva da Mario Carrabs, macellaio gourmet di Gesualdo sui monti dell’Irpina. La porta proprio lui che ne approfitta per fermarsi a cena, mentre i vini li sceglie, bene, un altro amico, Fabrizio Erbaggio. Ecco, a Sud sanno circondarsi delle persone che vedono il mondo allo stesso modo. Che pensano che la vera riscossa parta da qui, dal restare a casa, dal rimboccarsi le maniche per cercare il bello, proporlo col sorriso. Ci piace pensare che un Sud possa tirare l’altro e rimettere in moto la parte buona, in questo caso golosa, di un territorio bellissimo, seppure soffocato tra mille problemi.

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L’olio buono di Tonda Iblea Parliamo spesso con Lorenzo Piccione di Pianogrillo, ulivi da incanto, alberi secolari, piante di Tonda Iblea a Chiaramonte Gulfi, provincia di Ragusa, Sicilia orientale. Parliamo del suo olio. Lo facciamo in luoghi diversi, davanti al frantoio, tra gli ulivi secolari che qui chiamano Saraceni, tra le geometrie dei muretti a secco, tra i fichi d’india, i capperi, l’origano o i grandi carrubi, come tra i resti dell’agorà della città greca Kamarina, guardando il mare da un punto della Sicilia a sud di Tunisi. O ancora sfogliando Ibleide, volume fotografico che racconta proprio di uomini e olio sull’altopiano ibleo, una sorta di epica dell’ulivo, con scritti di Lorenzo Piccione a corredo delle immagini del bravissimo Davide Dutto. Chiacchieriamo di olio e parliamo di Salvatore Quasimodo, discutiamo di olive e rigiriamo tra le mani gli oggetti di design creati per Alessi. Sentiamo la fragranza di questa oliva prorompente al naso di foglie di pomodoro, di pomodoro acerbo, di carciofo isolano, di erbe campestri, profonde, impossibile da trovare altrove, mentre ascoltiamo Lorenzo che suona il piano. Ecco, Lorenzo Piccione è poliedrico e malato di sana modestia. È un uomo affascinato da tante cose, per le quali spende il tempo e la vita e che minimizza sempre, come fossero inezie. Spesso lo senti dire che il suo olio è normale. Ma è di quest’idea di normalità che oggi il mondo dell’agricoltura e del buono avrebbero bisogno. Ti mostra l’oliva Tonda Iblea, cultivar baciato dagli dei, e ti dice che il segreto sta lì, nella qualità del frutto, nello scegliere il tempo giusto di raccolta, nello spremere appena le olive giungono al frantoio. Nel lasciare tempo e respiro alla terra, anche perché Lorenzo ai suoi ulivi non fa nulla, lascia alla natura il compito di governare le annate. L’olio è pure certificato biologico ma lui in etichetta non lo scrive: voglio, dice, che la gente si fidi di me, non di quello che c’è scritto. Poi se a qualcuno servono le scartoffie gli mando tranquillamente la certificazione. Eccolo, sempre in bilico tra l’insofferenza per la burocrazia e l’amore per l’olio, la terra e la campagna trasformati in mestiere, trasformati in ritorno. Perché i Piccione questa Sicilia avara l’avevano lasciata per il Nord, per il susseguirsi di generazioni di medici e professori di gran nome. È stato Lorenzo a credere possibile un ritorno capace di diventare un’impresa, di dare da vivere. Oggi il suo Pianogrillo è forse l’olio di Sicilia che ha saputo conquistare più di altri l’alta ristorazione. Lorenzo però continua ad inseguire il sogno di farne sì un olio da signori, ma non per signori. Olio per tutti, da vendere in lattine. Perché la grande qualità, la piacevolezza, la meraviglia, la setosità di un olio splendido che sa di Sicilia e pomodoro acerbo, diventi la quotidianità di un mondo più buono. Non l’eccezione. Dalla vecchia aia di Pianogrillo l’occhio vaga tra gli ulivi. Avvolto dai pensieri.

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