Francesco Ratti
Una giornata insieme sul Breithorn Occidentale. Un uomo silenzioso, un alpinista vero. Uno che va in montagna perché ama farlo.
PreAlpi Tour
Una disciplina dell’anima e della mente. Un’esperienza, spesso solitaria, basata sul connubio tra hiking, parapendio, e il mondo naturale.
Puppi & Aymonod
Tre settimane di allenamento in quota alla ricerca di solitudine, di uno scorrere del tempo più lento, un’evasione dalla routine e una ricerca di stimoli.
€7
Tu con chi corri?
Noi corriamo con le comunità locali e con una storia condivisa. Con i nostri mentori, le generazioni a venire e le prospettive future.
Una comunità si costruisce dalle ambizioni condivise, da un terreno comune, dal desiderio di affrontare le questioni difficili e cambiare il modo di fare le cose. Corriamo con altre persone per finire quello che abbiamo iniziato e per goderci il panorama insieme.
Foto: Brendan Davis © 2023 Patagonia, Inc.
Ha piovuto, ne avevamo un immenso bisogno. Ha piovuto “bene”, una pioggia leggera, che penetra nel terreno senza eroderlo, una pioggia che bagna. Purtroppo, in altre zone, le cose non sono andate così.
Mentre scrivo queste parole ho ancora addosso quel fremito di nervosismo che mi lasciano alcune dichiarazioni sul “ritorno del freddo” in questo inizio agosto, come se fosse anomalo o preoccupante il fatto che possano esserci temperature inferiori ai 25°C. Non è
EDITO
BY DAVIDE FIORASO PHOTO ERIC SCAGGIANTE
solo una questione personale. Le temperature e le evoluzioni del clima stanno mettendo letteralmente in gioco il nostro mondo, il modo in cui viviamo, l’esistenza di molte specie. Troppa gente sembra non rendersene conto, o non volerlo fare. Non scomparirà la Terra, ovviamente, ma da sempre i cambiamenti del clima hanno avuto pesanti ripercussioni sugli esseri viventi che la abitano.
Nei mesi scorsi sono bastate poche precipitazioni, spesso mal distribui-
te, per far sì che i negazionisti già se ne uscissero con battute ironiche. E a negare non è solo l’abitante delle città, che vive in un palazzo al sesto piano combattendo il clima con aria condizionata e riscaldamento centralizzato, vi è spesso anche chi abita in zone rurali, persino montane. Ad approfondire questo tema è un bell’articolo sul blog “Di terre, pietre, erbe, bestie e persone”. C’è chi nega che sia in corso un cambiamento climatico attaccandosi a generiche testimonianze del “è sempre
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Dal fondovalle fino in vetta: leggerezza, velocità e precisione in una calzatura low-cut ramponabile e impermeabile. Rullata fluida e grip senza precedenti su ogni tipo di terreno grazie al tallone a doppio tassello Double Heel™ SPEED TO PEAK.
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NADIR MAGUET - 1h43’12” Solda-Ortler (Hintergrat) FKT
successo”. C’è chi riconosce la crisi in atto, ma rifiuta di sentirsene in qualche modo responsabile. C’è chi grida al complotto e tira in causa forze “oscure”, senza nemmeno provare a ragionare su dati scientifici. C’è infine chi non vuole preoccuparsi e vive più che mai alla giornata, prendendo ciò che viene, nel bene e nel male. Se le cose andranno “peggio”, ci sarà qualcuno più in alto che dovrà pensarci, perché il problema “…è di tutti, non soltanto mio”.
BY DAVIDE FIORASO PHOTO ERIC SCAGGIANTE
Viviamo in una sorta di strategia difensiva; me compreso, e a volte mi affliggo per questo. Il problema è talmente immenso, talmente impattante sulla nostra vita, che si cerca di ignorarlo il più a lungo possibile. Restiamo lì, legati alle tradizioni, al “si è sempre fatto così”, alla convinzione che il nostro influsso sia infinitesimo rispetto ad altre realtà. Nell’impossibilità di pensare che si possano gestire diversamente le cose. E invece di argomentare con ragionamenti fondati si nega,
si guarda altrove, nascondendo la testa sotto la sabbia.
Soluzioni? Prendere coscienza del problema, indipendentemente dalle sue origini è già un primo passo. L’altro? Iniziare a ragionare dal basso su come potersi adattare, per quanto possibile, ai cambiamenti. C’è qualcosa che possiamo fare noi, senza aspettare decisioni, suggerimenti e aiuti dall’alto?
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EDITO
PRODUCTION
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EDITOR IN CHIEF
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EDITORIAL COORDINATOR
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DIGITAL COORDINATOR
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ART DIRECTION
George Boutall | Evergreen Design House Niccolò Galeotti, Francesca Pagliaro
THEPILLOUTDOOR.COM
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PHOTOGRAPHERS & FILMERS
Matteo Pavana, Thomas Monsorno, Camilla Pizzini, Chiara Guglielmina, Silvia Galliani, Francesco Pierini, Elisa Bessega, Andrea Schilirò, Denis Piccolo, Achille Mauri, Simone Mondino, Alice Russolo, Patrick De Lorenzi, Giulia Bertolazzi, Tito Capovilla, Luigi Chiurchi, Isacco Emiliani, Pierre Lucianaz
COLLABORATORS
Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Marta Manzoni, Sofia Parisi, Fabrizio Bertone, Eva Toschi, Luca Albrisi, Luca Schiera, Giulia Boccola, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel, Chiara Beretta, Davide Fioraso
SHOP & SUBSCRIPTIONS
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COVER
Illustration Federico Epis X Aku
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L'artistica Savigliano, Savigliano - Cuneo - Italy, lartisavi.it
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The Pill rivista bimestrale registrata al tribunale di Milano il 29/02/2016 al numero 73
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THE CREW
PHOTO JACK GORHAM
THE ECO EXPLORER.
Scarpa da trekking confortevole e affidabile, pensata per coloro che vogliono vivere la natura e fare scelte consapevoli. Il 45% della tomaia è composto da filato riciclato, la membrana Gore-Tex Bluesign contiene tessuti riciclati al 98% e il battistrada Vibram Ecostep Evo utilizza fino al 30% di gomma riciclata.
MESCALITO TRK PLANET
GTX
SCARPA.COM
ISSUE 62
THE DAILY PILL
BEST MADE
KILLER COLLABS
ECO SEVEN
COBER SUSTAINABILITY
GARMIN EPIX PRO
SAUCONY TRIUMPH 21
DEUTER GUIDE 30
FERRINO X-DRY
PATAGONIA REPAIR PORTAL
MARTINA CUMERLATO X ASICS
PICTURE'S CIRCULAR PROGRAM
GREGORY'S STORY
THE PILL BASE CAMP
MOUNTAIN AND WAITING
LEAP FACTORY ON ADVENTURE PEAK 3
SCARPA X HERVÈ
ARC'TERYX ALPINE ACADEMY
JAKOB SCHUBERT
HILLARY GERARDI
VALLE STURA MTB
NADIR X LA SPORTIVA
PREALPI HIKE & FLY
LAVAREDO ULTRA TRAIL
FRANCESO RATTI
TIMOTHY OLSON
PRIMADONNA - ELI EGGER
DIADORA ON THE TRAIL
HIGH LIFE
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PHOTO SOPHIE ODELBERG
Imagine
Our horizon is vertical. Set goals. Dream big. Fuel each other’s curiosity. If you fail, fail with a smile and try again. The best partners are always there to pick you back up. This trust extends to your gear. Designed for freedom of movement, durability, safety and sustainability, our climbing collection will inspire you to re-imagine what we can achieve together.
THE DAILY PILL
BY SILVIA GALLIANI
“BOSCO DEI FAGGI SPEEDCROSSING” E NIKE ULTRAFLY TRAIL
L’annuale edizione del “Bosco dei Faggi Speedcrossing”, evento ideato dall’atleta Nike Francesco Puppi nel 2019, è stata scelta come scenario per la presentazione e test della tanto attesa Nike Ultrafly Trail. La corsa, non competitiva ed aperta a tutti, è stata un’occasione di grande condivisione con atleti di spicco internazionale che ha permesso di capire le potenzialità della nuova scarpa veloce per terreni tecnici ascoltando anche opinioni e racconti di chi le indossa fin dai primi prototipi.
ASICS SPONSOR UFFICIALE DEL WORLD ATHLETICS ATHLETE REFUGEE TEAM
La partnership, entrata in vigore a giugno 2023, durerà fino al 2026 e offrirà allenamenti, kit da gara e calzature alle squadre élite e U20 di rifugiati. Inoltre, sarà possibile accedere per la prima volta alle strutture di allenamento ASICS in tutto il mondo. La squadra è stata fondata nel 2016 per offrire ad atleti fuggiti da violenze, conflitti e ingiustizie nei rispettivi paesi di origine la possibilità di allenarsi e di gareggiare ed i membri del team hanno fatto la loro prima apparizione agonistica ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro 2016.
THE NORTH FACE NAMING SPONSOR DELLA RINOMATA TRANSGRANCANARIA
La collaborazione con il brand è fissata per i prossimi tre anni, dopo una storia che li lega dal 2010. La competizione spagnola, che mira a diventare uno degli eventi sportivi di riferimento nel panorama internazionale, sarà nel 2024, alla sua venticinquesima edizione. Migliorare la performance outdoor e supportare le proprie community sono due obiettivi centrali per entrambe le realtà, e così la collaborazione The North Face X Transgrancanaria non può che risultare naturale.
SIMON MESSNER E MARTIN SIEBERER SULL’INVIOLATO YERNAMANDU KANGRI
Con i suoi 7.180 metri, lo Yernamandu Kangri è una delle montagne più alte e inesplorate al mondo, situata nel Karakorum meridionale, in Pakistan. Il 15 luglio 2023, l’atleta Salewa Simon Messner e Martin Sieberer hanno compiuto la prima scalata in stile alpino puro, senza l’uso di corde fisse, campi intermedi, assistenza esterna o bombole di ossigeno, segnando un importante traguardo nell’alpinismo.
DYANFIT SPEED FACTORY: IL NUOVO HUB
DELL’OUTDOOR ALLE PORTE DELLE ALPI
Nella cittadina bavarese di Kiefersfelden, nelle Alpi settentrionali, il marchio Dynafit sta realizzando un’ambiziosa impresa: la costruzione della Dynafit Speed Factory, la sua futuristica sede che vedrà la luce entro dicembre 2023. Questo eclettico edificio in acciaio e vetro non sarà solo il cuore pulsante di Dynafit, ospitando oltre un centinaio di dipendenti, ma si aprirà anche ai visitatori, immergendoli in nuovi mondi attraverso le sue innovative aree pubbliche. L’attesa è grande, e finalmente il 15 marzo 2024 si spalancheranno le porte di questa straordinaria realtà.
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UP FOR ANYTHING
DURABLE RELIABLE ADAPTABLE INTENSE SHOES
BY SILVIA GALLIANI
THE DAILY PILL IDA-SOPHIE HEGEMANN STABILISCE UN NUOVO FKT FEMMINILE
Lo scorso 27 giugno, l’atleta del team The North Face Ida-Sophie Hegemann è diventata la prima donna a percorrere l’intera distanza del Karwendel Höhenweg in Austria in un solo push, stabilendo un nuovo record femminile FKT con un tempo di 10 ore e 42 minuti. Ida si afferma come la donna più veloce a completare i 65,5 chilometri con oltre 5000 metri di dislivello dell’’High-Altitude Trail, entrando nella storia. Il Karwendel Höhenweg è un percorso alpino molto esposto e tecnicamente impegnativo tra la Germania e l’Austria, che normalmente viene completato in 3-4 giorni da escursionisti esperti.
KRISTIN HARILA: È RECORD ASSOLUTO CON LE 14 VETTE PIÙ ALTE DEL MONDO IN 3 MESI
Ricomincia in aprile 2023 dopo un primo tentativo fermato dalla burocrazia, la sfida dell’ambassador Osprey Kristin Harila per battere il record scalando le quattordici vette più alte del mondo in meno di quattro mesi. Il 27 luglio 2023, Kristin e Tenjin Lama, sherpa con cui ha condiviso l’intera avventura da record, hanno raggiunto l’ultima delle quattordici vette da oltre 8000 metri, il K2 in Pakistan. Kristin ha così ottenuto l’incredibile risultato di scalare le quattordici vette più alte del mondo in soli tre mesi e un giorno, per un totale di 92 giorni.
ANDRZEJ BARGIEL CON GLI SCI SU GASHERBRUM I E II
È cominciata nel migliore dei modi la collaborazione fra Ferrino e il suo nuovo ambassador Andrzej Bargiel, scalatore e sciatore estremo, erede della grande tradizione dell’alpinismo polacco. Con il suo ambizioso progetto "Hic Sunt Leones", Bargiel ha l’obiettivo di portare a termine la salita senza uso di ossigeno supplementare e la discesa con gli sci delle 14 cime più alte del pianeta. Lo scorso 19 luglio è stata la volta del Gasherbrum II (8035m), dieci giorni dopo invece Bargiel ha affrontato il Gasherbrum I (8080m) raggiungendone la cima il 26 luglio.
VIBRAM OFFICIAL SOLE SUPPLIER DEL DACIA UTMB MONT-BLANC 2023
La partnership tra Vibram e UTMB World Series raggiunge il suo culmine in occasione dell’attesissima settimana di eventi dell’Ultra Trail Du Mont-Blanc. Dal 28 agosto al 3 settembre, a Chamonix, saranno diverse le iniziative sportive e gli incontri di sensibilizzazione rivolti a pubblico e atleti, tra cui il talk con alcuni degli atleti del Trailrunning Team Vibram. Ritorna anche il Vibram Innovation Mobile Lab, il truck itinerante che dà la possibilità a curiosi ed appassionati di testare in prima persona le migliori mescole e tecnologie firmate Vibram.
A SETTEMBRE ARRIVANO I MAMMUT MOUNTAIN DAYS
Una tre giorni in cui scambiarsi aneddoti, storie e competenze, il tutto nell'iconica cornice di Zermatt, in Svizzera. Sono i Mammut Mountain Days, che dall'1 al 3 settembre ospiteranno talk, workshop e tour guidati da guide alpine e atleti professionisti. Adatti sia a principianti che esperti, i vari tour porteranno alla scoperta delle migliori falesie di arrampicata e dei percorsi escursionistici della zona. Di ritorno al campo base buona compagnia, cibo locale, musica dal vivo e la proiezione di film dedicati alla montagna prima di addormentarsi sotto le stelle.
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CURIOUS BY NATURE
We venture out into nature to reconnect with ourselves and change our perspective to look at things differently than before.
Contemporary outdoor since 1870
1.PATAGONIA WOMEN'S R1
CROSSSTRATA HOODY
Strato intermedio pensato per affrontare i repentini cambi di meteo. Morbido e caldo tessuto elasticizzato caratterizzato da una speciale texture a zig zag ed una superficie esterna dotata di trattamento DWR privo di PFC. Cappuccio compatibile con il casco, tasca di sicurezza con zip verticale e cuciture Fair Trade Certified.
4.JACK WOLFSKIN
M OROBBIA BAR ROLL
Borsa da 15L realizzata in robusto materiale impermeabile certificato bluesign. Grazie all’innovativa chiusura magnetica Fidlock Winch si rimuove rapidamente dal suo supporto. Le cinghie in TPU fissano saldamente la borsa a qualsiasi manubrio, mentre i 5 distanziali in dotazione consentono di ottenere un posizionamento perfetto
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO
2.COBER
M OSS
Bastoni da trekking regolabili in alluminio, realizzati in Italia. Innovativo sistema di regolazione con leva CamLock la cui costruzione bi-materica dona maggior aderenza al tubo. Manopola ergonomica con inclinazione di 7 gradi per la massima ergonomia. La coda sul retro della manopola facilita l'impugnatura nelle situazioni più complesse.
5.GARMIN
I NREACH MESSENGER
Piccolo ma robusto comunicatore satellitare per rimanere in contatto con familiari e amici anche quando non c'è copertura di rete, grazie a funzioni di messaggistica globale. Avvisi SOS interattivi, batteria in grado di garantire fino a 28 giorni di autonomia, classificazione di impermeabilità IPX7.
3. GREGORY
M IKO 20 BACKPACK
Progettato per eccellere nelle escursioni giornaliere, su qualsiasi terreno. Offre diverse funzioni di settaggio per regolare al meglio la vestibilità, pur assicurando una ventilazione eccellente grazie al sistema di sospensione BioSync. Il pannello posteriore in schiuma 3D riduce il contatto con la schiena e favorisce i flussi d'aria.
6.LA SPORTIVA
AEQUILIBRIUM SPEED GTX
Novità La Sportiva per gli alpinisti più esigenti che necessitano di un prodotto ramponabile, impermeabile e performante. Leggerezza senza compromessi, per essere veloci anche sui terreni più impegnativi, e tanti contenuti tecnici ricercati. Ghetta esterna idrorepellente in tessuto elasticizzato.
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DISTANCE VEST
Engineered for long distance races and fast-paced adventures.
8.DEUTER
G RAVITY EXPEDITION 45+
Zaino che nasce dalla lunga esperienza e dalle esigenze di professionisti della montagna del calibro di Gerlinde
Kaltenbrunner, Dominik Müller e Kazuya Hiraide. Modello minimalista, leggero e confortevole, realizzato con materiali certificati bluesign. Il sistema Light Back consente di trasportare comodamente carichi pesanti.
10.SALEWA SARNER UNDYED WOOL HOODED JACKET
L’interpretazione innovativa del classico Sarner. Realizzata in lana naturale (non tinta) abbinata ad una fodera in maglia di viscosa. La sua lavorazione a trama fitta, e l'alto contenuto di lanolina, garantiscono un calore morbido e termoregolante. Dotata di cappuccio, due tasche con cerniera e chiusura con bottoni a pressione.
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO
8.SYLVANSPORT
GO CAMPER
Dalle Blue Ridge Mountains il rimorchio multifunzione che National Geographic ha definito come "Coolest. Camper. Ever.” Pensato e realizzato per regalarti anni di divertimento e avventura, questo “camper pop-up” si adatta facilmente al trasporto di biciclette o kayak. Le molteplici configurazioni consentono di ospitare fino a 4 persone adulte.
11.MAMMUT 9.5 CRAG WE
CARE CLASSIC ROPE
Corda singola per l'arrampicata sportiva e classica, ideale sia per chi è alle prime armi e non ha molta dimestichezza con l'assicuratore, ma anche per chi di esperienza ne ha già un po' e vuole una corda duratura. La particolare colorazione della calza è dovuto al riciclo del filo residuo avanzato da altre corde.
9.BLACK DIAMOND
DISTANCE 1500 HEADLAMP
L'apice nella tecnologia delle lampade frontali. Il sistema PowerTap aumenta l’intensità fino ad un massimo di 1500 lumen, la lente multisfaccettata garantisce un fascio luminoso uniforme che mantiene la percezione della profondità. Il pacco batteria ha una capacità di 8 ore a 300 lumen e si sostituisce facilmente con una sola mano.
12.AKU
FLYROCK GTX
Calzatura da escursionismo veloce adatta ad attività dinamiche. La suola Vibram Traction Lugs con tecnologia Megagrip e la zeppa in High Rebound EVA offrono aderenza e ammortizzazione sorprendenti. Adotta la tecnologia Dynamic Fit per adattare la tensione del tallone al proprio passo. Il sistema Elica favorisce l’efficienza biodinamica.
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1.MAHARISHI X HEIMPLANET
CAVE TENT
L’iconica tenda a cupola geodetica di Heimplanet si propone in questa edizione limitata che combina l'influenza estetica di Maharishi. Per la collaborazione, il marchio streetwear londinese ha scelto uno speciale DPM chiamato Golden Tigerstripe Camouflage, un raro motivo vietnamita riprodotto sul telo interno.
4.KITH X COLUMBIA
PFG HIP PACK
Kith e Columbia Sportswear riprendono la loro partnership con un ampio assortimento di capi e accessori outdoor che uniscono funzionalità e stile. La Transit Bag in nylon testurizzato è dotata di una tracolla regolabile, tasca di sicurezza sul retro, due tasche frontali rifinite con toppe in silicone.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
2.FEDERICO EPIS X MILLET
WALTER BONATTI CERVINO 1965 T-SHIRT
Millet presenta la sua collezione di t-shirt realizzata in collaborazione con l’illustratore Federico Epis. Progettate per ottimizzare il comfort in condizioni climatiche calde, presentano motivi grafici che illustrano alcune ascensioni che hanno segnato la storia dell’alpinismo, come l’impresa di Bonatti sulla nord del Cervino.
5.ADIDAS X MARIMEKKO
FUTURE ICONS 3-STRIPES SWEATSHIRT
Ispirata all'archivio dei modelli Marimekko, la casa di moda finlandese famosa per i suoi motivi espressivi, questa felpa sportiva bilancia magnificamente influenze retrò e moderne. Le 3 strisce avvolgono le maniche voluminose e si fanno strada attraverso la stampa ondulata a contrasto. Vestibilità ampia e cotone da produzioni sostenibili.
3.BLACK DIAMOND X CHALLENGE
SAILCLOTH BETA LIGHT 30 PACK
Nato dalla collaborazione con Challenge Sailcloth, azienda produttrice del tessuto Ultra 200, Beta Light è la combinazione definitiva di durata, leggerezza e comfort, costruito per muoversi velocemente e coprire lunghe distanze. Le cuciture nastrate e la chiusura roll-top lo rendono impermeabile e in grado di resistere a qualsiasi uso.
6.QUOC X RESTRAP
SANDAL
Dall’incontro tra due marchi britannici con oltre vent’anni di esperienza nel bikepacking, nascono questi slip on “post-pedalata” che combinano comfort, stile e funzionalità. Plantare dal design anatomico, battistrada antiscivolo e spesse cinghie per un fissaggio rapido e comodo sulla borsa sotto sella.
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DEUTER IS FOR STAYING FOCUSED
30 deuter.com
GUIDE
#deuterforever
7.NOMAD X PEAK DESIGN RUGGED CASE
Una soluzione robusta e affidabile per proteggere il telefono durante le avventure. Progettata per iPhone 14 Pro/Pro Max, si tratta di una resistente struttura in policarbonato con angoli rinforzati in TPU. L'innovativa tecnologia SlimLink consente di collegare un'ampia gamma di supporti.
10.RED PADDLE X CLARKS
ATL COAST
Una scarpa ad alte prestazioni creata per l'esplorazione. ATL Coast Red combina l’artigianato autentico di Clarks con l’esperienza di Red nel paddle boarding. Progettata per ambienti anfibi, adotta tecnologie innovative per migliorare il grip sulle superfici bagnate. La soluzione perfetta per le tue giornate in SUP.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
8.BEAMS X ARC’TERYX
ATOM LT JACKET
Atom è una delle esclusive rivisitazioni scelte da Beams per la Boro Collection, ennesimo incontro tra Arc’teryx e l’influente retailer giapponese. Ancora una volta ampi patchwork a farla da padrona, ora ispirati alla tradizionale tintura aizome (blu indaco). La giacca è accompagnata da zaino e marsupio Mantis.
11.CASCADA X DIRTYDROPBARS
TRAIL LIGHTWEIGHT LONG SLEEVE T-SHIRT
Maglia tecnica dalle massime prestazioni realizzata con un morbido tessuto 100% riciclato a rapida asciugatura che mantiene freschi nelle calde giornate estive, offrendo un'ulteriore protezione sulle braccia. Edizione speciale per DirtyDropBars, collettivo nato per ispirare, incoraggiare e supportare la comunità gravel.
9.BOREAL X ZARA ATHLETICZ CLIMBING SHOES
I n esclusiva per la nuova collezione Zara Athleticz questa scarpetta da arrampicata derivata dal modello Alpha di Boreal. La comoda tomaia in microfibra ed il sistema di chiusura rapido a doppio velcro la rendono adatta ai beginner, sia per l'uso indoor che per la falesia. Suola Zenith con uno spessore compreso tra i 4 e i 4,5mm.
12.GRAMICCI
X KINTO
WATER BOTTLE 500 ML
Un design elegante, capostipite dei cloni che vediamo oggi. Un accessorio semplice quanto attraente. La classica Water Bottle di Kinto, azienda di drinkware fondata a Shiga nel 1972, proposta da Gramicci in una propria versione esclusiva. Coperchio Easy Open che può essere aperto con una sola rotazione.
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ECO SEVEN
BY DAVIDE FIORASO & SILVIA GALLIANI
S CARPA CAMBIA STATUS G IURIDICO IN SOCIETÀ BENEFIT
SCARPA ha assunto la forma giuridica di Società Benefit, formalizzando l’unione degli obiettivi economici con la creazione di beneficio comune. In questo modo l’azienda rende esplicito l’impegno a esercitare le proprie attività operando secondo un modello di sviluppo responsabile, sostenibile e trasparente. L’adozione dello status, avvenuto tramite modifica statutaria e raggiunto con il supporto di Nativa, è il frutto di un lungo percorso dedicato alla sostenibilità che mette al centro la persona e il suo rapporto, rispettoso e autentico, con la natura e l’ambiente montano
O BERALP: CIRCOLARITÀ, BEST IN CLASS E NEUTRALITÀ CLIMATICA ENTRO IL 2030
Nel recente report di sostenibilità "Contribute", il Gruppo Oberalp ha presentato la nuova strategia di sostenibilità fissando obiettivi ambiziosi per il futuro. I marchi del gruppo (Dynafit, Salewa, Wild Country, LaMunt, Pomoca ed Evolv) hanno illustrato il loro approccio per raggiungere tali obiettivi: circolarità, neutralità climatica e fabbriche “best in class”, sia dal punto di vista sociale che ambientale, sono le tre vette che si vogliono raggiungere. Fissare lo status quo sarà il primo passo, completando le valutazioni sul ciclo di vita e determinando l'impatto dei propri prodotti.
N ASCE LA PELLE BIO-CIRCOLARE ECOTAN
Sviluppata da Silvateam, insieme ad alcune delle migliori concerie al mondo, Ecotan è una pelle bio-circolare che utilizza tannini a base vegetale, raggiungendo i medesimi livelli prestazionali di quelle ottenute con la concia al cromo e glutaraldeide. Il risultato è un sistema sicuro, ecologico e pulito. La caratteristica più rilevante delle formulazioni Ecotan è che sono bio-circolari: sia esse, sia la pelle con cui sono state combinate, sono progettate per una seconda vita come fertilizzante nell’agricoltura biologica e quindi restituite alla natura.
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ECO SEVEN
BY DAVIDE FIORASO
PATAGONIA LANCIA UNA CAMPAGNA GLOBALE PER VIETARE LA PESCA A STRASCICO
In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani 2023, Patagonia ha lanciato una campagna globale incentrata sulla protezione e il ripristino degli oceani. Attraverso una serie di cortometraggi, un sito web dedicato, una petizione ed eventi in tutta Europa, Patagonia mobiliterà le persone e chiederà ai governi di porre fine alla pesca a strascico, imponendo un divieto immediato nelle aree marine protette e nelle zone costiere. La campagna promuoverà inoltre alternative rigenerative a questa pratica distruttiva, come la coltivazione di alghe oceaniche in 3D e il ripristino delle posidonie. pratico copri zaino.
A KU PRESENTA IMPACTO, I L MANUALE PER LA STIMA DELL’IMPATTO AMBIENTALE
La riduzione delle emissioni di CO2 rappresenta un obbligo al quale siamo chiamati a rispondere. Un impegno fondamentale da portare avanti in forma congiunta, fra industria e distribuzione. Per questo motivo AKU ha progettato Impacto, il primo ed unico manuale per la stima dell’impronta di CO2 della calzatura outdoor. Uno strumento unico ed innovativo, che rappresenta l’impegno dell’azienda in favore di tutta la comunità outdoor. Un progetto di grande portata ispirato al principio cardine della condivisione.
O RTOVOX INSIEME A GLAC-UP PER L A VALORIZZAZIONE DEI GHIACCIAI
Ortovox ha annunciato il proprio sostegno a Glac-Up, la prima startup dedicata alla valorizzazione e salvaguardia dei ghiacciai alpini, mettendo nuovamente in luce il suo impegno attivo verso iniziative che mirano a preservare l’ambiente. Il progetto consisterà in un tour attraverso i principali ghiacciai italiani allo scopo di individuare e mettere in luce problemi e difficoltà del territorio. Due al momento le tappe che si avvalgono del supporto di Ortovox come sponsor tecnico: la prima a beneficio del Ghiacciaio della Vedretta Piana, la seconda sul Ghiacciaio del Presena.
M ATERIAL FACTS: LA SOLUZIONE A LLE DOMANDE COMPLICATE
Equip Outdoor Technologies, proprietaria dei marchi Rab e Lowe Alpine, ha lanciato un nuovo sistema di etichette digitali che consentirà ai consumatori di trovare informazioni dettagliate e comprensibili sul contenuto di materiale riciclato, sullo stato dei fluorocarburi e sul luogo di produzione. A partire da settembre 2023 lo strumento Material Facts sarà disponibile su tutti i capi di abbigliamento e i sacchi a pelo Rab, accessibile attraverso la scansione di un codice QR sull'etichetta del prodotto.
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Equipe Sestriere XT. Grounded on nature.
Designed to guarantee maximum comfort during trail running sessions, Equipe Sestriere XT is provided with X-Terrain technology, able to offer maximum protection on four different surfaces: grass, gravel, mud and wet rocks.
GRASS MUD GRAVEL WET ROCKS
Inspired by the V shape of the ibex’s hoof, the sole is made of hard rubber in its lateral parts to ensure stability and adherence and high grip soft rubber in the central part.
Cober’s sustainability path
La fabbrica di Cober è a Opera, un comune alle porte di Milano. Intorno, la pianura del Parco Sud Agricolo che con i suoi 47mila ettari è il più grande parco di cintura d'Europa. Le montagne sono lontane all'orizzonte, si vedono solo nelle giornate più limpide, ma è a quelle montagne che ha sempre guardato questa azienda, nata nel 1953 per produrre bastoncini ma che nel tempo ha prodotto anche attacchi da sci, legando per sempre il proprio nome all'epopea della valanga azzurra. Abbiamo incontrato Alice Covini, sales manager Cober, per capire quale sia l'approccio alla sostenibilità dell'azienda leader in Italia per volumi di produzione.
Come avete affrontato il tema della sostenibilità in Cober? L'approccio strategico di Cober alla sostenibilità è coerente con la nostra etica del lavoro, quindi estremamente pragmatico. Come leader italiano nel settore di bastoncini sentiamo la responsabilità di agire concretamente e mantenere la comunicazione su un tema così importante nell'ambito della sobrietà e dell’onestà intellettuale, tenendoci lontani dalla zona grigia del greenwashing. Il primo punto di sostenibilità per Cober è legato alla durata nel tempo dei prodotti: un bastoncino che dura nel tempo evita la produzione di uno nuovo per sostituirlo, riducendo l'emissione di gas serra. Il bastoncino più sostenibile è quello che non devi comprare. La progettazione, la scelta dei materiali, la riparabilità, sono tutti elementi che contribuiscono alla durata nel tempo. Ad esempio, noi abbiamo a magazzino tutti i pezzi necessari per riparare i bastoncini, dalla manopola al gommino per il puntale.
PAOLO MAZZOLENI
In che materiale vengono prodotti i vostri bastoncini e per quale motivo? L'alluminio è un po' la specialità della casa, sia per la sua affidabilità rispetto al carbonio, sia perché l'alluminio è un metallo infinitamente riciclabile, basta pensare che il 75% dell'alluminio prodotto a livello mondiale negli ultimi 200 anni è ancora in uso. Il suo utilizzo da parte di Cober è legato a tre diversi temi di sostenibilità. Il primo punto è che un bastoncino che dura nel tempo è per definizione più sostenibile, per questo utilizziamo solo le due leghe di alluminio più pregiate e resistenti, la 5083 e la 7075, nota anche alluminio aeronautico. Inoltre, il nostro alluminio ha una logistica corta perché viene prodotto e temprato in Italia. Infine, queste leghe contengono un’alta percentuale di alluminio riciclato, dal 53 all'85%.
Utilizzate altri materiali riciclati?
Prevenire il più possibile la produzione di rifiuti è sempre stato un valore condiviso all'interno dell'azienda fin della sua fondazione, per questo nell'ultimo decennio abbiamo sviluppato un percorso di circolarità della produzione, trasformando gli scarti in prodotti finiti, come le manopole di alcuni model-
li e le clip ferma bastone. Gli scarti di produzione in materiale plastico infatti vengono recuperati, selezionati e lavati prima di essere trasformati in granuli per lo stampaggio come plastica seconda vita. Questo processo è stato reso possibile attraverso una revisione della progettazione e ingegnerizzazione del prodotto e lo sviluppo di formule plastiche specifiche affinché le componenti così realizzate avessero le stesse caratteristiche di resistenza di quelle prodotte da plastica vergine.
Avete messo a punto altre soluzioni di sostenibilità relativamente alla produzione? La filiera di produzione ha un contributo importante verso le emissioni di gas serra ma spesso rimane completamente occulto. Nel caso di Cober, tutte le lavorazioni avvengono all'interno di un solo sito di produzione, con l'eccezione delle materie prime e della cucitura dei passamano. I nostri bastoncini quindi non solo sono made in Italy, ma hanno anche una filiera estremamente corta. Inoltre, la nostra fabbrica funziona a energia elettrica e ormai da qualche anno ci siamo convertiti a un consumo di energia che proviene al 100% solo ed esclusivamente da fonti rinnovabili.
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BY
THE PILL BRANDS
MAKE TIME WITH THE NEW www.gregory.com
Hit the open road, breathe in the fresh air, and explore the unexplored. With the ventilated, dynamic FreeFloat suspension, the Zulu and Jade have your back for every mile, so you can focus on taking in the open air.
BY SILVIA GALLIANI
Tutte le novità di epix Pro
Il Monte Bianco, Simone Moro e Garmin epix Pro
Non poteva esserci cornice migliore di quella del massiccio del Monte Bianco per una giornata all’insegna di avventure fuori dall’ordinario e tecnologie innovative. Cicerone del giorno è Simone Moro, alpinista che certamente non ha bisogno di presentazioni e che ci scorta da Courmayeur fino ai e ai 3446 metri di Punta Helbronner. Grazie alla funivia di Skyway Monte Bianco arriviamo al confine tra Francia e Italia, accompagnati dai racconti incredibili di Moro, insieme ai rappresentanti Garmin, azienda statunitense con cui collabora da ben 15 anni e che l’ha supportato in tutte le sue più grandi recenti sfide.
Simone Moro, considerato uno dei più forti alpinisti in circolazione, dopo essere cresciuto sulle pareti delle Alpi, si è misurato con successo sulle più importanti vette himalayane e non solo.
Sua è infatti la prima salita in invernale al Nanga Parbat, Pakistan, 8126m, considerata insieme all’Annapurna, una delle montagne più pericolose al mondo.
“È una montagna gigantesca: il Monte Bianco ci starebbe dentro quaranta volte, l’Everest un paio, ma soprattutto i suoi campi base sono distantissimi dalla vetta,” racconta Moro. “Il giorno della vetta c’erano -34 gradi ma con vento a 45 all’ora, che in termini di wind chill, cioè di temperatura percepita, fanno – 58.”
È il 2016 e Moro, al suo quarto tentativo, raggiunge la vetta alle 15.34.
Oggi Moro è qualcosa di più di un alpinista, un vero e proprio testimonial della montagna in tutte le sue declinazioni: dall’alpinismo classico su roccia, ghiaccio e misto sino all’arrampicata sportiva, passando per le gare di skyrunning e di scialpinismo. Da tanti anni a fianco di Garmin, ha toccato con mano la nascita e la genesi dei due nuovi prodotti che il brand, nell’esclusiva cornice del Monte Bianco, si accinge a presentare, contribuendo in un certo senso anche al loro sviluppo. Stiamo parlando dei nuovi smartwatch multisport fenix 7 Pro ed epix Pro, gli ultimi arrivati in casa Garmin.
Le serie Pro sono dotate di funzioni dedicate all’allenamento e alla gara, una navigazione ancora più chiara e un monitoraggio approfondito e continuo dello stato di forma fisica. Quotidianamente, viene mostrata la predisposizione all'esercizio fisico tenendo in considerazione diversi parametri fisiche il carico di lavoro della settimana, mentre metriche di allenamento come Endurance Score e Hill Score, VO2 max e Training Status permettono di valutare le prestazioni complessive. La funzione PacePro fornisce indicazioni sull'andatura da mantenere sulle diverse fasi del percorso, mentre ClimbPro visualizza informazioni in tempo reale su ascese e discese complessive per arrivare al traguardo.
In particolare, epix Pro combina un design votato allo sport e alla resistenza con materiali esclusivi come zaffiro e titanio, a protezione di un display Amoled dall'incredibile luminosità. Un touchscreen ad alta sensibilità, affiancato alla classica interfaccia a pulsanti, consente un rapido accesso a mappe, parametri e statistiche fitness e altro ancora. La modalità Red Shift modifica i colori del display per aiutare la vista ad adattarsi alle condizioni di oscurità e ridurre i disturbi del ciclo del sonno. La torcia a LED garantisce un allenamento in sicurezza durante le uscite notturne. Infine, un set completo di funzioni dedicate alla navigazione permette di muoversi consapevolmente in qualsiasi ambiente, con mappe dettagliate, sistema di ricezione satellitare di precisione e funzioni in grado di limitare il consumo energetico della batteria. Il nuovo modello è inoltre dotato di analisi della saturazione di ossigeno, Pulse Ox, monitoraggio dell'energia Body Battery, rilevazione della qualità del sonno, variabilità della frequenza cardiaca e altro ancora.
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THE PILL PRODUCTS
EVERY TRIUMPH TAKES COURAGE NEXT-LEVEL COMFORT saucony.com
Saucony Triumph 21
The next level comfort
Saucony presenta Triumph 21, la nuova versione dell’iconica scarpa da running, oggi ancora più ammortizzata, comoda e sostenibile grazie all’esclusiva versione RFG – Run For Good.
Triumph di Saucony non ha bisogno di presentazioni, il modello è infatti un caposaldo tra le neutre del brand, una scarpa leggera e morbida che, grazie all’ammortizzazione PWRRUN+, dona la giusta dose di supporto per una sensazione leggera e confortevole sotto i piedi, ideale qualunque siano la velocità e gli obiettivi della corsa.
Triumph 21 presenta una nuova tomaia a maglia piatta che utilizza un sistema di allacciatura ridisegnato per garantire un fit perfetto e tutta la sicurezza di cui si ha bisogno durante le sessioni di corsa. Il fit confortevole è ulteriormente assicurato dal morbido colletto del tallone e dalla linguetta imbottita. Intersuola e soletta interna sono realizzate in PWRRUN+, l’avanguardia tra i sistemi ammortizzanti Saucony che assicura il massimo ritorno di energia, assorbimento dell’impatto, reattività, riduzione della pressione, durata e peso. Con un drop di 10mm (tacco 37mm / avampiede 27mm) Saucony Triumph pesa solo 279g nella versione maschile e 250g in quella femminile.
Un’ulteriore novità è rappresentata dalla versione RFG – Run For Good. Il modello esclusivo garantisce le stesse performance della versione classica di Triumph 21 ma con un’at-
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BY SILVIA GALLIANI
tenzione maggiore verso l’ambiente. Da molte stagioni, infatti, tutti i modelli della collezione Saucony utilizzano materiali in parte riciclati, un vero e proprio cammino verso una crescente attenzione alle tematiche ambientali che porterà il brand, passo dopo passo (proprio come si fa quando ci si approccia alla corsa), a diventare sempre più sostenibile pur mantenendo invariate le caratteristiche qualitative e di alte prestazioni per cui l’azienda è conosciuta e rinomata. Inoltre Triumph RFG, per limitare la dipendenza dalla plastica, utilizzerà PWRRUN BIO+ contenente il 55% di schiuma a base di mais unito a una tomaia parzialmente composta da filati riciclati e coloranti a base vegetale e a una suola in gomma naturale all'80%.
Triumph RFG – Run For Good è in arrivo in autunno ma, da questa stagione, Saucony ha messo l’acceleratore nel suo impegno verso il pianeta e molti modelli verranno quindi realizzati in versione RFG.
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NATURAL STRIDE SYSTEM
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BY LISA MISCONEL PHOTOS PIERRE LUCIANAZ
Giornate in parete e tutto ciò che serve nei 880 grammi di deuter Guide 30
Si dice spesso che ci sono cose che non è possibile migliorare, perché si andrebbe a riparare ciò che già funziona benissimo: parliamo di zaini, parliamo di deuter. Un brand tedesco che è un’icona nel mondo backpack e che ha accompagnato milioni di viaggiatori, escursionisti ed alpinisti nelle più selvagge avventure per decenni. Eppure continua a lavorare, continua a migliorare. Abbiamo avuto l’oc-
casione di conoscere più da vicino il nuovo gioiellino della collezione SS23, il più leggero, funzionale e nuovissimo Guide 30. Anche il più sottile fra i miglioramenti messi in atto rende questo zaino una scoperta interessante in campo alpinistico ancora di più dei precedenti Guide e Guide Lite; ma cosa lo rende così innovativo?
Il litraggio perfetto per avventure di
un giorno, in grado di contenere attrezzatura e abbigliamento d’emergenza. La resistenza data dalla sua struttura a trama fitta e dal telaio a U Delrin che garantisce inoltre stabilità e comoda distribuzione del carico. Nel coperchio è integrato un portacasco in rete staccabile che può anche essere spostato nella parte anteriore dello zaino, per una configurazione più stabile e specifica per il terreno
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AMPLIFY YOUR PASSION
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226 SALATHÉ TREK GTX RR
e lo stile di percorso. Gli zaini Guide sono compatibili con una sacca idrica fino a 3 litri. Il comfort, si sa, è fondamentale nelle lunghe giornate in parete, ed è qui che entra in gioco in sistema dorsale deuter Alpine: morbide imbottiture posteriori aderiscono alla schiena accompagnandola in ogni movimento mentre la distribuzione del carico vicino al baricentro ne garantisce controllo e stabilità. Già da uno primo sguardo si può percepire
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BY LISA MISCONEL PHOTOS PIERRE LUCIANAZ
l’essenzialità di questo modello che nasconde però tutte le caratteristiche necessarie a trasportare attrezzatura da alta montagna. Ad uno zaino che ha vinto il premio ISPO e che non fa che ricevere riconoscimenti e buoni feedback sembra non serva aggiungere nient’altro. Invece l’ultima ma fondamentale caratteristica che lo rende così degno di nota, è la sua anima sostenibile: completamente neutrale dal punto di vista climatico e privo
di PFA. Ci troviamo sempre in difficoltà quando arriviamo al bivio in cui scegliere fra leggerezza e funzionalità, soprattutto quando si tratta di arrampicata dove ogni grammo vale esattamente quanto la rapidità di accesso al materiale. Dopo una lunga giornata passata in parete, il rientro è reso piacevole dalle energie rimaste anche grazie alla salita in leggerezza.
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www.cober.it
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BY LISA MISCONEL
Ferrino X-Dry 15+3 Fast &... smart!
Sempre di più ogni amante della corsa su sentieri va in cerca di itinerari lunghi ed inesplorati. Celebri itinerari di più giorni vengono percorsi un passo (rapido) avanti all’altro con qualsiasi condizione atmosferica. Certo in questi casi, e soprattutto in caso di pernotti, è difficile decidere fra leggerezza e efficienza. Mille sono le incognite in questo tipo di attività, ed una puntura di insetto così come una sbagliata integrazione possono rovinare l’intero progetto. Per questo è importante avere con sé tutto il necessario: bastoncini, integrazione alimentare, acqua, protezione antipioggia, kit di primo soccorso, un cambio, una frontale, dei calzini di ricambio. Tutto questo deve essere inoltre protetto dall’ umidità del sudore o della pioggia.
Sembra proprio che siano stati questi i pensieri alla base del nuovo zaino dello storico brand italiano, che si propone come alternativa rivolta alla funzionalità per il mondo trail delle lunghe distanze o di più giorni, in cui impermeabilità e capienza sono cruciali. X-Dry 15+3 sarà disponibile dalla
stagione SS24, e sarà in grado di soddisfare tutto ciò di cui abbiamo parlato finora, nel modo più smart possibile. L’impermeabilità completa dello zaino a 10000mm di colonna d’acqua è garantita dal processo di laminazione della membrana HDry, incollata direttamente al resistentissimo 100D Robic
nylon ripstop, sigillando così tessuto e cuciture in un solo step. Il pannello posteriore regolabile in altezza e gli spallacci regolabili fanno sì che lo zaino X-Dry 15 si adatti a qualsiasi schiena, mentre la rete 3D consente un’asciugatura ultrarapida. Le tasche, altro fattore fondamentale in uno zaino, sono
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posizionate frontalmente e posteriormente in modo da coprire ogni esigenza: due anteriori, 2 sugli spallacci per i flask, una posteriore a doppio accesso, una sul dorso. Sono inoltre presenti tutti i dettagli tecnici necessari, come un set di elastici porta bastoncini, un doppio cinturino pettorale, la compa-
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tibilità con sistema di idratazione H2 Bag, un passante posteriore per la luce di sicurezza, dettagli rinfrangenti. Noi lo abbiamo provato correndo, ma la cosa interessante di uno zaino di questo tipo è che copre anche quelle attività di fast hiking dove hai bisogno di portare con te l’essenziale ma vuoi
farlo senza ingombro per poterci muovere più liberamente. Insomma, che corriate per chilometri e chilometri o vi muoviate veloci su sentieri dai dislivelli severi, il nuovo X-Dry 15+3 è lo zaino multifunzione che vi accompagnerà fedelmente e terrà i vostri essential al riparo!
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Da sempre attivo nell'impegno verso la realizzazione di prodotti di altissima qualità e nell'attivismo ambientalista, il brand, fondato da Yvon Chouinard nel 1973, oggi aggiunge un tassello in più nell’ambito delle riparazioni, rendendo più facile che mai per i clienti recuperare i propri capi danneggiati.
Negli ultimi 12 anni, Patagonia ha portato avanti un percorso di sensibilizzazione dei propri clienti sul perché e sul come prolungare la vita dei vestiti attraverso il programma Worn Wear e messaggi quali “Don’t Buy This Jacket”.
“Non comprare questa giacca” è infatti stato il titolo che ha occupato una pagina del New York Times nel 2011 nei giorni del Black Friday. Ad accompagnare la frase provocatoria, l’immagine della giacca e una sorta di decalogo dei costi ambientali per la produzione di quel capo. La campagna, che ha lanciato un messaggio chiaro, di distanza del brand rispetto all’eccesso di consumi e al fast fashion, insieme al programma Worn Wear ha mostrato in modo chiaro quale è la presa di posizione del marchio. Worn Wear è infatti l’iniziativa che invita i consumatori a considerare in maniera attenta le 4 R: Ripara, Riutilizza, Ricicla, “Reimmagina”. “If it’s broke, fix it” è il motto che accompagna l’iniziativa, diventato ne -
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gli anni non un semplice slogan ma un vero e proprio laboratorio, anche itinerante, che si è spesso impegnato a riparare capi anche di altri brand che non fossero quelli Patagonia. Dal 2017 l’azienda ha messo in circolazione un proprio furgoncino che con i suoi tecnici partecipa ad eventi in Europa e ripara articoli che altrimenti non avrebbero una seconda vita. A sostegno di questa campagna Patagonia supporta i suoi clienti con dei tutorial per imparare a riparare da sé i propri capi. L’importanza del riparare è evidente. Mantenere un prodotto in uso per nove mesi in
più consente di ridurre dal 20 al 30% l’impronta in termini di emissioni di carbonio, rifiuti e acqua rispetto all’acquisto di un capo nuovo.
Oggi Patagonia fa un passo in avanti, rendendo più facile che mai per i clienti recuperare i propri capi danneggiati. Un nuovo portale online consentirà di richiedere autonomamente una riparazione in qualsiasi momento per poi seguirne il processo. Inoltre, il marchio sta espandendo la sua rete di esperti, portando nei propri negozi europei un maggior numero di strumenti e servizi con l’obiettivo di quadruplicare le ripara-
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If you want to go fast, go alone, if you want to go far, go together.
zioni, fino a 100.000 all’anno nell’arco dei prossimi cinque anni. Con il sostegno dell’Amsterdam Economic Board, l’anno scorso il brand statunitense ha collaborato con Makers Unite per lanciare lo United Repair Centre (URC), un nuovo fornitore di riparazioni creato per servire diversi marchi di abbigliamento, formando e offrendo lavoro garantito a lavoratori specializzati dell’industria che hanno difficoltà a trovare un impiego, come i nuovi arrivati nei Paesi Bassi con lo status di rifugiati.
Dopo il momento del lancio, l’URC si è trasferito in una struttura più ampia
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ad Amsterdam per gestire l’aumento della domanda e ha firmato contratti di riparazione con altri marchi partner, tra i quali Decathlon.
“Se vogliamo avere qualche possibilità di ripulire il settore dell’abbigliamento abbiamo bisogno di un nuovo modello rigenerativo e di un cambiamento strutturale,” afferma Willem Swager, Director of Finance and Operations di Patagonia EMEA.
“Ecco perché Patagonia chiede ai marchi di abbandonare l’idea di vendere solo capi nuovi e di stimolare il riutilizzo e l’uso prolungato attraverso la riparazione. Noi di Patagonia
sappiamo che offrire questo servizio gratuitamente ci porta molti vantaggi e rappresenta un momento unico per coinvolgere i nostri clienti. Per aumentare il nostro impatto positivo, stiamo cercando aziende che si uniscano a noi nel movimento della riparazione. È risaputo che ‘If you want to go fast, go alone, if you want to go far, go together’.”
Al momento, l’iniziativa prevede l’apertura di una seconda sede nel Regno Unito nel 2023, mentre l’aggiunta di altre località europee è in programma per il prossimo anno.
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Martina Cumerlato, la testa da ingegnera e la forza delle gambe
La promessa del trail running Martina Cumerlato ha i numeri, ma anche l’equipaggiamento mentale per diventare una grande atleta. I risultati già lo dimostrano, ma lei vuole di più.
Martina è una che si pone molte domande: il suo approccio al trail running, come a tutte le altre cose della vita, è molto analitico, anche se ogni tanto è l’istinto ad avere la meglio. Questa giovanissima atleta ha stoffa da vendere, ma soprattutto l’equipaggiamento necessario per affrontare grandi sfide, come i mondiali di skyrunning dove lo scorso anno si è aggiudicata il bronzo, o la mitica race di Zegama, che l’ha vista classificarsi tra i primi dieci. Per lei contano quattro cose: stare in montagna, fare fatica, migliorarsi, ma soprattutto trovare un senso profondo in quello che si fa.
«Ho giocato a calcio per 13 anni, da quando ne avevo 7 fino a quando ne avevo 20 ed era la mia più grande passione, come lo è adesso la corsa, ero convinta che avrei giocato per tutta la vita. Poi è successo qualcosa durante l’ultimo anno: ho perso gli stimoli, non trovavo più il senso e la gioia di fare quello che stavo facendo. Mettici poi
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BY ILARIA CHIAVACCI
che c’è stato il trasferimento per studiare, insomma, il sacrificio non era più qualcosa che facevo con il sorriso, era diventato un peso vero e proprio. È stato in quel momento che mi sono avvicinata ancora di più alla montagna, che è un ambiente che ho sempre frequentato grazie a mio padre, che ha sempre un po’ bazzicato il terreno dell’alpinismo.»
Quand’è che hai capito che il trail running poteva essere la tua storia? È iniziato tutto dall’andare in montagna sempre più spesso, dal camminare forte e dal correre forte: ma ero una neofita, non sapevo niente, neanche che ci fossero delle gare. Quando poi ne ho appreso l’esistenza ho provato a partecipare e sono arrivata seconda: nessuno se lo aspettava, tantomeno io. Per i due anni successivi ho continuato a fare gare allenandomi da autodidatta, salendo sulle cime che mi ispiravano e dove avevo voglia di andare. Le gare andavano comunque benone: quando poi ho deciso di fare seriamente ho conosciuto il mio attuale allenatore, adesso sono due anni e mezzo che mi alleno con criterio e, nel frattempo, sono ini-
ziati ad arrivare gli sponsor: adesso ad esempio sono entrata nel team ASICS. Veniamo a Zegama, com’è stato classificarsi tra i primi dieci? Le sensazioni che ho provato a fine gara le porterò con me per tutta la vita, è stato incredibile. Però sento anche la necessità di contestualizzare la gara: a Zegama il livello è sempre altissimo e, chiaramente, lo era anche quest’anno, ma le condizioni metereologiche (pioggia e fango) hanno fatto sì che diventasse improvvisamente una gara molto tecnica e così ho battuto molta gente che a cose normali non batterei. Il mio punto forte è proprio il tecnico: sono riuscita ad ottenere un risultato che altrimenti non so se sarebbe arrivato perché, normalmente Zegama è una gara dove bisogna correre forte e io su questo devo ancora migliorare molto. Infatti alla maratona du Mont Blanc l’ho visto proprio: le parti pianeggianti sono il mio punto debole. Sto cercando di rimediare, ma quando arriva gente dall’atletica è chiaro che io faccio molta più fatica. Per questo ho spostato il mio focus dalle Running World Series dello
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scorso anno, a un mix tra quelle e i Golden Trail, però è davvero impegnativo.
Piani per il prossimo futuro? Il prossimo anno vedrò se concentrarmi di più solo sullo skyrunning, che mi si addice di più e lasciare le Golden Series a quando il mio livello sarà migliore, adesso non mi sento al livello di quelle forti e alla maratona du Mont Blanc ho visto la differenza. Lì non basta essere bravi nel tecnico, bisogna andare: l’anno prossimo sarà un’altra valutazione ancora da fare.
Mi sembra di capire che dislivello e verticalità siano il tuo pane… A me piace quando ci sono le catene, quando c’è da soffrire. Il mio terreno è il ravanage, oppure mi diverto a volare in discesa. Sarà anche per dove vivo: mi è più congeniale esercitarmi in salita e in discesa perché qui dove vivo, in Val Gardena, praticamente non esiste la pianura: devo prendere la macchina e andare giù verso Bolzano, dove il massimo che trovo è una pista ciclabile. Quindi sì, mi sento più a mio agio con la pendenza che col piano. Però mi piace moltissimo
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BY ILARIA CHIAVACCI
tempo faccio lavori stagionali.
anche spingere sulla corsa: voglio migliorare da quel lato lì e mi piace vedere i miglioramenti di anno in anno. Non voglio essere limitata al ravanage, ecco. Limitata mi sembra un parolone, considerando che comunque, al netto dell’amore per l’outdoor, sei anche ingegnera… Sono laureata in ingegneria meccanica industriale con indirizzo energetico però poi, quando ho iniziato a lavorare, non ho trovato ciò che mi soddisfacesse da tutti i punti di vista. Ho capito che la vita dell’ingegnere non faceva per me anche perché mi sarei dovuta trasferire a Bolzano, o a Bressanone, allontanandomi dalla montagna. Sicuramente ho rinunciato a un buonissimo stipendio, ma poi quando mi sarei potuta dedicare alle mie passioni? Solo il fine settimana? Non è sufficiente per me. In questo momento della vita voglio puntare sullo sport, la carriera passa un po’ in secondo piano. Però chiaramente devo garantirmi un futuro, per questo oltre alla corsa ho iniziato a frequentare un corso serale per diventare web developer, e nel frat-
Beh, l'approccio analitico sicuramente non ti manca Penso fin troppo, il mio fidanzato dice sempre che passo tutta la mia giornata a pensare e ad analizzare. Forse è esagerato, però ecco, non lascio molto al caso o, per dirla in altri termini, non lascio molto spazio all’incertezza: il “proviamo e vediamo” non mi appartiene. Solo su certe cose riesco ad essere più istintiva. Ad esempio in gara? In gara entro un po’ nel mio mondo: lì non penso molto perché altrimenti perdo il focus su quello che sto facendo e, conseguentemente, tempo. Se mi soffermo troppo su chi mi sta davanti, o se inizio a pensare a dove sarà il prossimo ristoro, rallento inconsapevolmente perché sono concentrata su altro. Di contro però devo cercare di essere più analitica rispetto all’equipaggiamento, soprattutto per quanto riguarda la prova del percorso e del materiale, che sono fattori che poi vanno ad influenzare la performance, così come l’alimentazione durante la gara: soprattutto nelle maratone se non bevi e mangi in modo corretto non vai da nessuna parte. Sono cose a cui presto meno attenzione perché non fino a poco tempo fa non ero cosciente su come e quanto potessero influenzare l’andamento della gara.
Qual è l’aspetto che ti intriga di più? È interessante vedere come un atleta si sia evoluto negli anni, quindi è un po’ un aspetto duplice: portare me stessa al limite e allo stesso tempo constatare quanto mi manca per raggiungere gli altri. Ma la domanda principale a cui sono felice di rispondere ogni volta è: "Ho dato tutto in questa gara?" Poi in un secondo momento arrivano le valutazioni: "Ok, quanto mi manca per essere come l’atleta che ha vinto?" E comunque, quando poi finirò di fare le gare, la montagna resterà sempre per me il posto dove sono più felice in assoluto.
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Dall'outerwear riciclato, allo streetwear biologico fino ai gusci di origine naturale, Picture è da sempre noto per il suo impegno e la sua politica di innovazione verso i prodotti sostenibili. Ma c'è di più: altri processi come upcycling, campagne di prevenzione dei rifiuti, eliminazione graduale di PFC o il servizio di noleggio e la garanzia di riparazione a vita sono tra le altre iniziative che guidano il marchio verso la circolarità.
Per la SS23, tutti i capi tecnici di Picture faranno parte del Circular Program, ovvero verranno realizzati con tessuti che utilizzano scarti già esistenti nell'industria tessile. Il Circular Program si inserisce perfettamente nell'impegno di Picture come brand: diventare meno inquinante e più sostenibile. Ci sono diversi punti di miglioramento, ma 3 sono i temi che spiccano chiaramente:
1. Produrre e consumare meno
2. Transizione dall'elettricità da carbone e gas per le fasi di filatura, tessitura e tintura
3. Allontanarsi dai materiali a base di petrolio
A proposito del petrolio, dobbiamo innanzitutto ricordarci che per mante-
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nere la temperatura sotto i +1,5°C dovremmo lasciare nel sottosuolo quasi il 60% delle riserve di petrolio (che sono in quantità finita). A produzione costante e secondo le riserve note, rimarrebbero ancora circa 50 anni di petrolio. Più petrolio estraiamo, più dipendiamo da esso e maggiori saranno le conseguenze.
Il poliestere è di gran lunga il materiale più lavorato nell'industria tessile, con il 55% del volume totale di produzione, seguito dal cotone (25%) e poi da altre fibre sintetiche o cellulosiche (poliammide, acrilico, lana, ecc.). La produzione globale di poliestere è raddoppiata tra il 2000 e il 2020, il che solleva molte domande. Nella sua versione convenzionale, infatti, il poliestere deriva direttamente dal petrolio. Fortunatamente ci sono altri modi per produrlo, come riciclare le bottiglie di plastica PET o utilizzare il bio-po -
liestere parzialmente derivato dallo zucchero, dopo la raffinazione e la fermentazione. Picture utilizza quest’ultimo metodo da alcuni anni per i suoi capi tecnici, ma ora lo sta sostituendo con un'alternativa che sembra più soddisfacente: il poliestere “circolare”, in parte derivato da indumenti usati. Perché questo cambiamento?
Il bio-poliestere è una soluzione interessante ma ha troppi limiti per continuare ad essere utilizzato: lo zucchero usato è un "prodotto di scarto", un sottoprodotto della produzione della canna da zucchero. È ovvio che questa fornitura diventerà insufficiente se tutti i brand, un giorno, decideranno di iniziare ad utilizzarla. Inoltre potrebbe comportare il rischio di conflitto di uso del suolo e quello di deforestazione. Inoltre, la dipendenza diretta dal petrolio è ancora piuttosto forte dato che solo il 30% della formula
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Nothing is lost, nothing is created, everything is transformed Picture’s Circular Program
chimica del bio-poliestere deriva dallo zucchero. Ciò significa che c'è solo il glicole monoetilenico che Picture è riuscito a ricavare da fonti biologiche. I calcoli, effettuati con Quantis, dell'intensità di carbonio per 1kg di pellet di poliestere hanno mostrato una piccola differenza tra poliestere convenzionale e poliestere di origine biologica. Ultimo ma non meno importante, il prezzo di questa fibra era ed è tuttora alto. Per tutti questi motivi, Picture ha smesso di utilizzare il poliestere a base biologica e ha deciso di passare al poliestere “circolare".
Per realizzarlo è necessario raccogliere e riciclare indumenti usati, provenienti da diversi brand, realizzati al 100% in poliestere. Anche gli scarti di tessuto che si verificano durante il processo di fabbricazione vengono mobilitati per creare uno stock significativo. La composizione media
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di una fibra circolare è quindi: 60% ritagli di tessuto / 40% indumenti usati. Queste due fonti si trovano in Cina, dove è operativa la tecnologia di riciclaggio dell'azienda Jiaren. Il poliestere viene depolimerizzato per tornare a livello molecolare, senza quindi alcuna impurità. Ciò consente una separazione della fibra: glicole monoetilenico da una parte e acido tereftalico dall'altra. Questi sono i 2 componenti originali del poliestere. Successivamente avviene la ripolimerizzazione per ottenere granuli di poliestere. Dopo queste fasi subentra la filiera Picture (filatura, tessitura, tintoria, assemblaggio) con i suoi partner abituali.
Alla fine, la qualità è la stessa del poliestere convenzionale: i granuli di poliestere, siano essi convenzionali, riciclati o circolari, sono infatti chimicamente identici. Dal punto di vista
della qualità e della durata, tutto dipende dai seguenti passaggi: filatura, tessitura, tintura, assemblaggio, scelta del trattamento idrorepellente, membrana, ecc. Per quanto riguarda Picture, i suoi standard qualitativi sono gli stessi di prima. Lo stesso vale per l'aspetto riparabilità.
Questo programma è totalmente legato alla nuova collezione MTB di Picture, poiché i materiali utilizzati sono ricavati dagli scarti dell'industria tessile, che è il cuore del Circular Program. La Linea Bikewear è una collezione di abbigliamento tecnico dedicata alla mountain bike. Realizzata per gli avventurieri responsabili che vogliono tracciare le proprie linee mentre si muovono in montagna. Una nuova offerta adatta alla comunità di appassionati che porta avanti il motto "Ride, Protect & Share" tutto l'anno.
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Gregory Mountain Products: ovunque tu vada
Gregory nasce nel 1977 dalla fortissima passione del suo fondatore: Wayne Gregory desiderava infatti creare zaini sui quali poter fare totale affidamento e che gli permettessero di avventurarsi nei suoi viaggi più audaci. Spinto dall’idea che aveva in testa di “creare un suo telaio interno per zaini” e da sua moglie Suszy, che lo minacciava di non mettere più uno zaino in spalla se lui non avesse fatto qualcosa per eliminare i lividi che le derivavano dai prodotti in circolazione, Wayne Gregory fondò l'azienda di zaini che ancora oggi porta il suo nome: Gregory Mountain Products.
Gregory è infatti stato pioniere nel brevettare un sistema di sospensioni che lavorano insieme al corpo invece di ostacolarlo, con un’attenzione particolare alla vestibilità sia femminile che maschile, inventando anche nuovi materiali e tecniche di costruzione che permettono allo zaino di diventare un’estensione del corpo e, al tempo stesso, si sposano perfettamente con un design semplice e funzionale. Comodi ed affidabili, gli zaini del brand ancora oggi seguono questo approccio unico nel suo genere e che ha dato a Wayne quella sicurezza che gli ha permesso di offrire la sua famosa ga-
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ranzia a vita, che ancora oggi il brand assicura a tutti i propri clienti.
Negli ultimi quarant'anni la passione di Wayne per l’innovazione, le prestazioni elevate ed il comfort hanno guidato l’evoluzione del marchio, ormai leader mondiale nella produzione di zaini, riconosciuto in oltre 45 paesi.
Ma c’è molto di più, il costante miglioramento delle prestazioni e la continua ricerca della qualità ha portato ad una ulteriore evoluzione del brand, oggi consapevole che le migliori prestazioni e l’alta qualità dei propri prodotti non è più abbastanza, ciò che conta è
anche crearli nel modo più responsabile possibile. Si tratta di un viaggio, quello verso la sostenibilità, non tanto diverso da quello che si intraprende quando si decide di creare un nuovo prodotto. Richiede infatti nuove idee e concetti, che andranno poi testati e valutati, ripetendo il processo fino a quando non si raggiungono risultati di cui essere fieri. Si tratta di un percorso lungo e difficile ma che Gregory ha già intrapreso in modo trasparente e propositivo in numerosi aspetti della sua catena produttiva quali la logistica e il packaging (dove sono state riviste le dimensioni di cartoni e scatole, mi-
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gliorando l’efficienza delle sezioni e riducendo i packaging più impattanti per l’ambiente) o estendendo la durata dei propri prodotti grazie a riparazioni e sostituzioni. L’ambizione di Gregory è quella di ridurre l’utilizzo di carbonio grazie ad una strategia globale improntata a diminuire le emissioni di gas ad effetto serra, il consumo di energia e gli sprechi. Inoltre il brand lavora per assicurarsi che la propria supply chain rifletta appieno i valori come compagnia e che a tutti i lavoratori coinvolti siano assicurate le giuste condizioni di lavoro, sicurezza, salute e benessere.
Miko & Maya
I preferiti da chi pratica fast hiking, gli zaini Miko (da uomo) e Maya (da donna), entrambi disponibili nelle misure da 15, 20, 25 e 30 litri, sono ideali per avventure attive, escursioni brevi oppure lunghe giornate su qualsiasi terreno. Sono caratterizzati da una innovativa sospensione regolabile, da un design snello e avvolgente, da nuove funzioni e da tessuti aggiornati. Progettati per dare il meglio in escursioni dove comfort e versatilità sono im-
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BY SILVIA GALLIANI
Miko e Maya utilizzano prodotti riciclati post-consumo: questo significa che l’impronta di carbonio di quest’ultima generazione di zaini è ridotta quasi di un terzo.
Zulu & Jade
portanti, presentano una sospensione BioSync con cinture in vita e spallacci elasticizzati che si allungano e si flettono insieme a spalle e anche in base ai movimenti naturali del corpo, fornendo un comfort discreto. Il pannello posteriore in schiuma 3D riduce il contatto con la schiena e favorisce i flussi d'aria. Il sistema a rete sul pannello posteriore, sull’imbracatura delle spalle e sulla cintura in vita, è ideale per eliminare l'umidità del sudore. La cintura preformata avvolgente si adatta alla forma dei fianchi, offrendo maggior stabilità. Una piccola tasca interna in rete con cerniera e clip per chiavi mantiene gli oggetti di valore al sicuro. Le tasche frontali e laterali in rete elasticizzata consentono un rapido accesso a una bottiglia d'acqua, ad una giacca antipioggia o ad altri attrezzi. La tasca frontale con cerniera è invece perfetta per riporre piccoli oggetti essenziali grazie alla sua morbida fodera imbottita. I modelli presentano anelli di fissaggio a scomparsa per i bastoncini da trekking, cinghie di compressione per la regolazione del carico e un fischietto di sicurezza sulla cinghia dello sterno.
Modelli ideali per le escursioni di uno o più giorni. Zulu e Jade sono stati riprogettati per l’estate 2023. Il risultato? Ancora più confort di movimento, migliore ventilazione, nuove funzioni, ma anche un maggiore riguardo alla sostenibilità: l’utilizzo dei materiali riciclati post consumo e delle analisi elaborate e connesse ai cicli di vita degli zaini hanno consentito ai tecnici e ai designer di Gregory Mountain Products di ridurre di 1/4 l’impronta di carbonio. Entrambi i modelli assecondano il movimento del corpo grazie al sistema di sospensione FreeFloat che riduce lo sforzo, aumenta l’energia e lascia fluire l’aria per un’esperienza ottimale sul sentiero. Progettata per imitare il movimento naturale del corpo di chi la indossa, la cintura flessibile imbottita 3D, si adatta all'anatomia delle singole persone offrendo un supporto affidabile per il trasporto del carico. Allo stesso tempo il sistema di sospensione è stabile e distribuisce in modo efficace il peso sui fianchi. Tutto ciò si traduce in minor lavoro e più energia per lunghe e spensierate giornate. Per ottenere una ventilazione ottimale, gli ingegneri e i progettisti di Gregory, hanno dotato il telaio perimetrale dello zaino di un pannello posteriore in rete sospesa, resistente, traspirante e completamente regolabile che, quindi, consente di personalizzare e conformare la vestibilità. Sul sentiero, l’accesso risulta facile e sicuro, grazie alle tasche extra large della cintura in vita e all’apertura con cerniera a U, che consentono di tenere a portata di mano gli oggetti necessari. Infine, gli spallacci rotanti, imbottiti individualmente, sono traforati per migliorare ulteriormente il flusso d’aria donando ancora più comfort.
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THE PILL BRANDS
BY SILVIA GALLIANI
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THE PILL BASE CAMP COURMAYEUR
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS CAMILLA PIZZINI
The Pill Base Camp: la quarta edizione a Courmayeur è stata più ricca che mai
Da un lato i brand, dall’altro i commercianti: due facce della stessa, meravigliosa, medaglia dell’outdoor. Una community che sicuramente se si è raccolta a Courmayeur durante la quarta edizione del The Pill Base Camp è per fare business, ma principalmente perché è animata da una passione e un ardore incrollabili per tutto quello che è rappresentato dalla vita e dall’attività all’aria aperta. L’edizione estiva è tutta trail running, climbing e hiking e si articola attraverso queste tre anime, oltre a quella puramente di scambio B2B: c’è il lato delle experience, dall’arrampicata indoor alla corsa in montagna fino al momento serale con musica dal vivo e dj set, quello dei talk con grandi protagonisti sportivi o con spoke
person delle aziende espositrici e infine una grande quantità di workshop ideati con l’obiettivo di avvicinare i negozianti ai prodotti o ai processi produttivi. Tutto questo si è tradotto nella presenza di 84 brand, 256 negozi, 411 buyer e 1056 addetti al settore (media, agenti, agenzie, manager) dell’outdoor business unite dalla passione e dalla voglia di contribuire a portare progresso e innovazione nel settore che amano. La location dove questa nutrita community si è riunita il 12 e il 13 giugno 2023 è quella dello Sport Center di Courmayeur: 25.000 metri quadrati che sono stati divisi nella zona degli stand e del main stage, la palestra di arrampicata, il The Pill Bar e il The Pill Restaurant.
Il focus della kermesse è stato principalmente il confronto sul prodotto, testato dai rivenditori e poi approfondito con i rappresentanti dei marchi, ma anche con noi della redazione, che abbiamo partecipato a tutte le experience, come le run organizzate da New Balance, Hoka, Craft, ASICS o Altra. Confrontarsi su questo o quel materiale, sulla tale o sulla talaltra suola è il motore di quello che poi porta al progresso di un intero settore. Il knowhow delle aziende si sta spostando sempre più verso di più sulla sostenibilità, sia in termini di ricerca per quanto riguarda i materiali, che per i processi produttivi: che si tratti di upcycling o di una nuova mescola sono tante le novità presentate al The Pill Base Camp
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in vista del 2024. Come ogni stagione, tutto questo preziosissimo confronto andrà a costituire i mattoncini di quello che è uno dei prodotti cardine della nostra rivista, l’Outdoor Guide: 400 e più pagine piene zeppe di recensioni di prodotto che prendono in considerazione diversi parametri, dalla performance all’aspetto estetico. Come organizzatori, l’aspetto che ci rende più orgogliosi è però il fattore comunità: il Camp non è una mera occasione per testare dei prodotti, ma il pretesto per confrontarsi con colleghi, magari con dei competitor, e avviare una discussione proficua sugli aspetti che funzionano di più o di meno, quelli che appassionano i clienti e quelli che invece tutto sommato per loro sono poco rilevanti e sono più sofismi da addetti ai lavori. Uno sforzo collettivo che è foriero di stimoli e creatività sempre nuovi e che ci vede, come redazione, impegnati a tessere una
trama che tiene insieme diverse anime: da quella più romantica a quella più pratica, dalla più esplosiva, anche dal punto di vista dello sforzo fisico, a quella più intimista del confronto con il grande atleta, dalla proiezione del documentario sulla leggenda del trail running Kilian Jornet e del suo impegno nei confronti della sostenibilità, fino al confronto live con Matteo Della Bordella, alpinista che sta contribuendo e scrivere la storia dell’alpinismo italiano.
Workshop
Lo spazio di fronte al bar è quello deputato al confronto tecnologico, con i workshop di Barter, Tecnica, HDry: ore di discussioni e slide su quello che rende i nuovi output di prodotto delle migliorie importanti in termini di performance e attenzione per l’ambiente. Una membrana più durevole, più versatile e isolante è anche un alleato migliore per l’ambiente:
allungare la vita e le occasioni d’uso dei prodotti è oggi uno dei mantra fondamentali per le aziende, soprattutto per quelle che operano nel settore outdoor che, per sua natura, è quello più sintonizzato sulle esigenze di tutela e salvaguardia del pianeta. Orientati in questa direzione anche i workshop di Ferrino e Impact Studio x Arc’teryx dove un guscio rotto sul cappuccio viene trasformato in borsa con il semplice utilizzo della macchina da cucire o un cappuccio di una vecchia giacca può diventare un porta magnesite. Da Ferrino invece delle vecchie tende vengono riconvertite in copri zaino, porta canne da pesca, pochette da viaggio o addirittura in un impermeabile per il cane.
Experience
Per tutta la due giorni è stato un continuo viavai di runner impegnati nei test delle scarpe presentate: New Balance, Craft, Hoka, ASICS in testa.
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BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS CAMILLA PIZZINI
New Balance e Hoka, in particolare, hanno organizzato due run di grande impatto, la prima ha coinvolto giornalisti venuti in giornata per l’occasione e li ha visti testare le nuove Fresh Foam X More Trail di New Balance su uno scenografico percorso in Val Veny, con tanto di passaggio dal Lac Vert e dallo chalet Fior di Roccia per una degustazione di prodotti tipici. La seconda ha invece buttato giù dal letto all’alba una schiera di negozianti temerari che hanno sfidato il maltempo per la corsa all’alba di Hoka che li ha portati fino al rifugio Bertone. Anche i climber hanno trovato pane per i loro denti con il test di scarpette La Sportiva insieme ai Brocchi sui Blocchi, community di climber attivisti che ha fatto dell’ironia la propria cifra sovversiva, e con il climb test con Giovanni Placci organizzato da Rab, Petzl e SCARPA. Ortovox ha guidato un workshop sulla sicurezza in falesia, la posizione strategica dello sport center permette di raggiungere diverse situazioni outdoor adatte a testare con mano i prodotti delle aziende per la stagione a venire. Il sipario sulle experience proposte durante il Base Camp è calato con la spettacolare salita con la funivia Skyway Monte Bianco, che conduce fino a punta Punta
Helbronner a 3466 metri d’altitudine. All’imponente e architettonicamente spettacolare stazione intermedia, il Pavillon, c’è stata poi la première del “Alpine Life” di Simon Messner supportata da Salewa.
Proiezioni e talk
Lo sport non è stato solo vissuto al The Pill Base Camp: lunedì mattina Matteo della Bordella, durante un talk organizzato da Ferrino, ha raccontato alcune delle sue imprese più epiche nella terra che più ama, la Patagonia. Terra in cui, in particolare, lo scorso gennaio è riuscito a portare a termine un sogno che aveva da tempo: l’apertura in stile alpino della nuova via "Brothers in arms" in cordata con Matteo De Zaiacomo e David Bacci. Gli atleti come Matteo non solo stanno scrivendo la storia dell’alpinismo italiano, ma contribuiscono anche in prima persona all’avanzamento tecnologico dei brand, che si affidano a loro per aggiungere ai propri prodotti. Nel caso di Matteo, legato a Ferrino da meno di un anno, la sua expertise è stata messa al servizio dell’implementazione delle tende per l’alta montagna. In anteprima assoluta è stato poi proiettato "Sketching the future" documentario che vede protagonista
la leggenda del trail running Kilian Jornet e l’incredibile stagione che è stata per lui il 2022 con gare epiche come Zegama, Hardrock 100, Sierre Zinal e UTMB dove ha riportato tre vittorie e stracciato record. I ragazzi del negozio di Milano Runaway hanno poi presentato insieme a Diadora il docufilm “The Mirage Runaway”: 8 minuti intensi diretti da Achille Mauri dove la polvere e le strade dei deserti della California hanno fatto da sfondo all’epica corsa della crew del negozio di Runaway di Milano, che hanno partecipato alla decima edizione di Speed Project, una run super selvaggia il cui punto di partenza è stato Los Angeles e quello d’arrivo Las Vegas. Come ci hanno raccontato Stefano e Luca, due dei protagonisti presenti all’evento nel talk che ha seguito la proiezione, questa run non ha infatti nulla di convenzionale.
Unconventional, come siamo noi, questo evento b2b definisce in maniera più romantica anche i contorni di quello che comunemente si può definire business. Siamo partiti due anni fa con l’edizione di Pila, che vedeva la presenza di 74 brand e 103 negozianti, in questi giorni a Courmayeur eravamo più del doppio. Ci vediamo presto alla quinta edizione a Sestriere il 22 e 23 Gennaio 2024, edizione invernale che sarà replicata anche a Folgaria il 29/30 Gennaio 2024, poi sarà la volta della sesta edizione estiva il 16/17 Giugno 2024 a Courmayeur, il quinto e sesto capitolo di un evento comunitario che ogni volta ci appassiona. See you there.
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BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS CAMILLA PIZZINI
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Il tempo e l’attesa con Simon Gietl in Dolomiti a parlare di India
BY LISA MISCONEL PHOTOS FEDERICO MODICA
È giugno e siamo in Dolomiti, ma potrebbe essere novembre e potremmo trovarci a Singapore. Infatti, quel “Six to Nine” di cui parla Salewa nel suo concept creativo di una delle collezioni SS23 e che abbiamo sentito e letto ma raramente indagato, racchiude una chiave di lettura delle nostre giornate che è cruciale. Sono i cinque minuti più duri, quelli in cui devi raccogliere le energie ed alzarti dal letto e quelli in cui dopo il lavoro devi preferire le scarpe alle ciabatte. Lo devi fare per te e indipendentemente dal lavoro o dagli impegni: sono le ore in cui la luce è fioca e la temperatura scende, dove il rumore svanisce e la mente si prende una pausa. Sono momenti che non ti regala nessuno se non te li prendi con volontà e decisione, ma che possono fare la differenza fra una giornata vissuta ed una che hai osservato da spettatore.
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Questa mattina camminiamo fra i deboli raggi che penetrano nel bosco e, mentre osservo la rugiada pendere dai fili d’erba, capisco cosa intendeva Simon Gietl, parte del team Salewa People, quando diceva che quelle ore non te le dà indietro nessuno, al di là che un ufficio ti aspetti alle 8 o meno. Lui, ad esempio, non ha nessuna scrivania alla quale sedere per otto ore eppure la mattina parte alle sei. Perché dormire se alle nove puoi avere già volato e colorato la tua giornata? Possiamo essere ovunque e fare qualsiasi cosa in un tempo che è per tutti e che non è regolato da niente.
Saliamo sul monte Elmo, la cima panoramica piu bella delle Dolomiti di Sesto... E anche uno dei punti di decollo più immediati per chi vola. È vestito di nero Simon, e la sua vela color ghiaccio ne lascia trasparire la leggerezza. Come accade per i neonati a strisciare, a gattonare, poi pian piano si levano in piedi e per i corridori che dai 5km pian piano arrivano alle mezze, alle maratone e magari anche alle ultra... La naturale evoluzionedi un alpinista è quella di arrivare prima o poi anche al volo. Così la vede Simon, la storia del parapendio. E su in aria sorvolando le sue Dolomiti, ha ancora nei pensieri l’India, il Meru e Goldfish, e così ci ritroviamo in Dolomiti, a pensare ai 6660 metri di neve e ghiaccio indiani.
È un momento cruciale per Gietl, quello in cui i due alpinisti Roger Schaeli e Mathieu Maynadier lo hanno scelto e contattato per fare parte di questo secondo tentativo sul Meru dopo la spedizione del 2019 conclusasi con un ritiro forzato. Essere scelti per entrare in un team è per Simon il momento più importante dell’intera spedizione, più della vetta o del tiro chiave. Forse perché ti fa rendere conto del valore che ti viene riconosciuto a livello tecnico e umano. Poi c’è il meteo e l’attesa che esso porta con sé, quando si parte per una
spedizione, dopo mesi di pianificazione e preparazione, giorni di viaggio e notti insonni, tutto quello che si vorrebbe fare è partire per il proprio obiettivo e portarlo a casa con grinta nel minor tempo possibile. Se però le condizioni non lo permettono, è lì che l’attesa ti consuma. Quanto dovrò attendere per proseguire? E se non migliora? Le ore passano e sei lì, immobile, impotente. Due settimane infinite sono trascorse prima che la finestra ideale arrivasse: abbastanza neve per salire alla base con gli sci ai piedi e i nervi saldi per un forte pericolo di valanghe.
È così che l’11 maggio 2023 è iniziata la storia di Goldfish (M6+, A1), la nuova via in stile alpino sulla parete sud del Meru, 6660m, aperta dal trio di alpinisti in India. Problemi fisici e giornate infinite hanno preceduto il raggiungimento di quella notte accampati su un fungo spettacolare appena prima dell’ultimo passaggio chiave e di quel blocco terminale che chissà se sarebbe riuscito a superare. Le poche ore di sonno sono bastate alla mente per gioire una volta scoperto il tunnel sommitale che portava alla fine della via: 15 metri nel ghiaccio per venti minuti di tiro, per Simon uno dei più incredibili mai scalato. I suoi occhi si illuminano quando scorre fra le foto della galleria, immergendosi ancora una volta in quei posti, in venti minuti. Per lui - mi racconta - più che la vetta o il raggiungimento dell’obiettivo, un momento e un luogo del Meru rimarranno parte di lui. “Non puoi davvero descriverlo a parole, devi provarlo” dice del tunnel glaciale che ti separa dalla vetta, dove oltre a meravigliarti ti rendi veramente conto di avercela fatta. Lì è dove Mathieu si è preso un momento per dedicare la cordata ed il traguardo proprio a Simon“perché se lo merita”. L’apprezzamento di un compagno, di un alpinista vale più di qualsiasi traguardo raggiunto. I momenti, i pensieri, le emozioni.
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Essere scelti per entrare in un team è per Simon il momento più importante dell’intera spedizione, più della vetta o del tiro chiave. Forse perché ti fa rendere conto del valore che ti viene riconosciuto a livello tecnico e umano.
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Leap Factory
BY CHIARA BERETTA
Abitare la natura in punta di piedi Dalla prima metà del Novecento a oggi gli indumenti e le attrezzature che usiamo in montagna sono cambiati radicalmente: nei materiali, nella lavorazione, nella tecnologia che c’è dietro e che garantisce prestazioni sempre più elevate. Il modo di costruire in alta quota, invece, non ha vissuto lo stesso rinnovamento. Almeno fino a quando due architetti con la passione per l’outdoor, Stefano Testa e Luca Gentilcore, hanno dato vita al nuovo bivacco Gervasutti sul Monte Bianco. Da questa esperienza è nata Leap Factory e, con essa, un nuovo modo di abitare l’ambiente alpino. E non solo. Ridefinire il concetto di bivacco alpino Sono passati più di dieci anni da quando il bivacco Gervasutti in legno e lamiera del 1948 è stato sostituito con l’edificio affusolato ormai diventato iconico. Commissionata dal CAI di Torino e fortemente voluta dalla Scuola e dalla Sottosezione SUCAI, la nuova capanna ancora oggi svetta a 2835 metri di altitudine sul ghiacciaio del Freboudze, sotto la parete est delle Grandes Jorasses nel
Monte Bianco. È un progetto di cui si è scritto molto e che ha vinto diversi premi, tra cui la medaglia d’oro all’architettura italiana della Triennale di Milano, ma ha senso ripercorrere ancora una volta l’inizio della storia per capire le radici di Leap factory. “Nell'architettura si dice che quando un committente illuminato incontra un bravo architetto, avvengono dei passaggi di scala sulla qualità dei risultati” racconta Stefano. Gianmaria Grassi (oggi direttore della scuola centrale di scialpinismo del CAI, all’epoca direttore della scuola di scialpinismo SUCAI di Torino, ndr) ci propose una sfida con un brief di alto livello. La maggior parte dei bivacchi storici sulle Alpi fanno ancora riferimento all'ultimo sforzo progettuale e sistemico, che risale ai primi anni Sessanta; tant'è che l'esemplare-tipo di questo genere di bivacchi è conservato al Museo della Montagna di Torino.”
Quando Luca e Stefano iniziano a ragionare sul progetto di un nuovo bivacco, l’obiettivo è “dare delle risposte alla sfida che l'ambiente richiedeva” aggiunge Luca. “Un ambiente
naturale estremamente sensibile e delicato, dove è difficilissimo fare un cantiere tradizionale, che tra l’altro ha un impatto ambientale estremamente significativo. Il primo intento è stato quindi quello di annullare il cantiere.” Il nuovo Gervasutti nasce dunque come un edificio in moduli assemblabili. Progettati per essere leggeri in ogni singola componente, a partire da viti e rondelle, i quattro moduli sono stati allestiti a valle e poi trasportati in quota con degli elicotteri standard. In un giorno, e senza necessità di cantiere, il bivacco era pronto. Luca, Stefano e il loro team di lavoro non ambivano a essere leggeri solo fisicamente, perché il trasporto del materiale in elicottero è ovviamente oneroso, ma soprattutto sull’ambiente. Il Gervasutti è dotato di sistemi per produrre energia pulita, è completamente reversibile e quasi non occupa nemmeno il suolo: si rapporta al territorio soltanto con sei “zampe” metalliche. È l’inizio di quel “abitare la natura in punta di piedi” che più di dieci anni dopo guida ancora i progetti di Leap.
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In equilibrio tra tradizione e modernità Come qualunque novità, il nuovo Gervasutti ha suscitato un certo dibattito. Intervistato dal Corriere della Sera, lo scrittore e alpinista Mauro Corona aveva dichiarato: “Vanno bene i materiali ecosostenibili, ma con quelli fateci una casetta, non un affare di concezione lunare.” Alcuni, pur senza essere apertamente critici, sono inizialmente disorientati dal nuovo approccio. Ad esempio, dal fatto che il bivacco ha una vetrata panoramica. “Dove si dorme l’ambiente è protetto, come fosse l’interno di un sommergibile. Ma perché la parte giorno deve essere chiusa? In un posto in cui la natura grida, si può avere un punto di osservazione privilegiato” commenta Stefano. “Fummo orgogliosi di riuscire a realizzare con successo qualcosa di veramente diverso dalla consuetudine.”
Non si deve fare l’errore di credere che essere contemporanei nelle possibilità, come ha fatto il nuovo Gervasutti, equivalga a perdere la tradizione.
“Quando abbiamo presentato il progetto alcuni anziani, tra cui c’erano anche coloro che avevano ideato il primo bivacco Gervasutti, avevano capito la linea di continuità con il loro operare” dice Luca. Anche all’epoca il bivacco era infatti stato progettato in maniera modulare e leggera: non avevano l’elicottero, ma dovevano trasportare tutto negli zaini. L’approccio è rimasto lo stesso, quindi, solo che sono cambiati materiali, tecnologie e strumenti. “La tradizione è l’innovazione che ha avuto successo” prosegue Stefano. “In quest’ottica, è più tradizionale il Gervasutti: riprende l’innovazione del costruire a secco che tradizionalmente ha avuto successo in montagna.”
Il progetto del Gervasutti è uno spartiacque, in due sensi. Il primo: cambia il concetto di bivacco alpino. Da strumento per conquistare la vetta diventa “un punto privilegiato di appartenenza alla natura e osservazione di essa, al di fuori della quotidianità” proseguono Stefano e Luca. Il secon-
do: il tema dell’abitare minimo in condizioni estreme, intorno al quale fino a una quindicina di anni fa non c’erano grandi ragionamenti, diventa un argomento attuale tra gli addetti ai lavori. Eppure, secondo i due architetti di Leap, senza dare ancora risultati significativi: “Tutti i bivacchi progettati e soprattutto realizzati in questi dodici anni non hanno niente dello sforzo di innovazione tecnologica e di riduzione dell'impronta ambientale che noi avevamo cercato e proposto con il Gervasutti. È stata scimmiottata l’estetica, ma a livello tecnologico è tutto tornato, per così dire, all'età della pietra.”
Abitare sostenibile: dal Caucaso all’Artico, e ritorno Per Stefano e Luca, invece, il Gervasutti “è stato il condensato di tanti pensieri sulla sostenibilità e sull’abitare” spiegano. “Lì ci sono stati i semi delle ricerche che poi abbiamo portato avanti.” Se dovesse capitarvi di salire il monte Elbrus, la vetta più alta del Caucaso, ad esempio, a 4000 metri di altitudine, nel mezzo di uno sterminato ghiacciaio, trovereste un complesso di edifici in tutto e per tutto simile al Gervasutti. Realizzato da Leap Factory nel 2013, è un eco-hotel aperto tutto l’anno che ospita 50 persone ed è dotato di autonomia energetica totale, ristorante con cucina, servizi igienici (con un depuratore di reflui adattato a quei climi), acqua calda, eccetera. Sull’isola di Disko in Groenlandia, invece, c’è LeapHome Frame, una casetta realizzata in collaborazione con Ariston (The Ariston Comfort Challenge) e inserita da Fondazione Symbola e Fassa Bortolo nel rapporto “100 Italian Green Building Stories” dello scorso anno. Anche questa volta si tratta di una casa modulare, autosufficiente, priva di fondamenta invasive, assemblabile senza cantiere tradizionale e completamente reversibile. L’avamposto, che si trova evidentemente in una ambiente estremo, ospita un gruppo di ricercatori sui cambiamenti climatici.
L’alta quota, una palestra preziosa Edifici concepiti in moduli, l’azzeramento del cantiere, la riduzione dell’impatto ambientale, la leggerezza dell’edificio che può fondarsi su qualunque tipo di terreno “in punta di piedi”: tutte queste caratteristiche, maturate ad alta quota e negli ambienti estremi, tornano in tutti i progetti, anche in ambito residenziale. Il core business di Leap oggi, infatti, è la produzione di kit per realizzare edifici, dal bivacco all’abitazione multipiano, con un’ingegnerizzazione del processo tale da permette la costruzione in autonomia e in ogni parte del mondo, ma sempre mantenendo l’elevata qualità di base. “La filosofia fondativa del bivacco è diventata il filo rosso che collega tutte le ricerche successive e a un certo punto ci ha portati a decidere di riversare in un possibile sistema di costruzione per gli edifici normali tutto quello che avevamo imparato in quella palestra straordinaria che è stata per noi l’alta quota” spiega Stefano. “Nel Gervasutti il cantiere non era possibile, ma industrializzando l’edilizia possiamo toglierlo anche dove in genere si può fare. Così eliminiamo uno dei fattori maggiormente impattanti su clima ed ecosistemi.”
Sono passati più di dieci anni da quando il bivacco Gervasutti in legno e lamiera del 1948 è stato sostituito con l’edificio affusolato ormai diventato iconico. È un progetto di cui si è scritto molto e che ha vinto diversi premi, tra cui la medaglia d’oro all’architettura italiana della Triennale di Milano, ma ha senso ripercorrere ancora una volta l’inizio della storia per capire le radici di Leap Factory.
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On
Cloudventure
Peak 3
BY LISA MISCONEL PHOTOS PIERRE LUCIANAZ
Fin dall’inizio, la chiave di lettura di queste scarpe è stata la semplicità e la naturalezza del movimento mettendo quindi l’esperienza e le sensazioni personali dei corridori davanti a teorie, regole e soluzioni complicate.
Non ci aspettavamo quindi una scarpa con tanti fronzoli, quando abbiamo pensato a Cloudventure Peak 3 per la prima volta. Completamente rivista rispetto alla sua versione precedente, è una scarpa veloce, tecnica, aggressiva e composta in grande percentuale da materiale riciclato. Il fit è preciso su tutta la lunghezza del piede, utilizzando una tomaia in single mesh super resistente rinforzata da alcune applicazioni in poliuretano che conferiscono struttura alla scarpa senza appesantirla. La calzata interna è quindi capace di bloccare i piedi evitando totalmente punti di sfregamento. Troviamo nell’intersuola alcuni dei dettagli
tecnici più significativi: la piastra Speedboard realizzata al 30% in carbonio e TPU, riesce ad ottenere l’equilibrio perfetto tra agilità e stabilità su terreni irregolari. La suola è realizzata con la mescola Missiongrip di On, con una tassellatura ripensata rispetto ai modelli precedenti mentre il drop è di 4mm. La protezione della punta in gomma si estende intorno alla metà inferiore della tomaia per ridurre le possibilità che l’acqua entri nella scarpa.
Noi ci abbiamo corso una sera d’estate sui sentieri sommitali del Col Croce sopra La Thuile fra rocce e terreno sconnesso. Massima sensibilità e stabilità, è ideale per runner leggeri e dal livello avanzato, che amano la corsa senza fronzoli ed essere in simbiosi col terreno che calpestano. È perfetta per muoversi agili su terreni impervi e dà il meglio di sè, su distanze medio brevi.
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On è un brand svizzero nato nel 2010 dall’unione delle idee di tre amici fra cui Olivier Bernhard, tre volte campione del mondo di duathlon e plurivincitore di Ironman. In tempo record si è conquistato il rispetto del mondo della corsa vincendo l’ISPO Brandnew Award e viaggiando attraverso 60 paesi per arrivare sugli scaffali di 8100 negozi.
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SCARPA Ribelle Genesi di un’icona
Nel mettere insieme una storia come questa ho deciso di procedere per gradi, fissare dei riferimenti temporali ben precisi. E allora partiamo dall’inizio, da una data, quella che ha definitivamente segnato il “nuovo passo verso il futuro” delle calzature da montagna: il 5 febbraio 2017. Quel giorno, tra i padiglioni della fiera di Monaco, con la vittoria del prestigioso ISPO Awards come «Product of the Year», si ufficializzava l’ingresso di Ribelle Tech OD, lo scarpone che avrebbe rivoluzionato per sempre il mondo dell’alpinismo. Un matrimonio tecnologico e innovativo fra una scarpa da trail running ed uno scarpone da montagna, un concetto in grado di regalare agli appassionati un nuovo standard in fatto di comfort e prestazioni. Per la prima volta, con la stessa scarpa, si poteva partire da valle e raggiungere la vetta; un cambio totale di prospettiva per qualsiasi alpinista. Ma per arrivare a questo si è dovuto rimettere in gioco la tradizione, guardare il progetto da un punto di vista completamente nuovo. Escludere qualsiasi altro termine di paragone.
Per conoscere la storia di Ribelle, e comprendere l’evoluzione che ha portato a Ribelle Tech 3 HD, abbiamo interpellato una delle persone chiave del suo sviluppo. Uno dei protagonisti, uno che, quel giorno del 2015, sedeva al tavolo di Viale Enrico Fermi: Hervé Barmasse. Con lui anche Francesco Favilli, brand manager di SCARPA.
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ITW TO HERVÉ BARMASSE BY DAVIDE FIORASO PHOTOS DENIS PICCOLO
Un matrimonio tecnologico e innovativo fra una scarpa da trail running ed uno scarpone da montagna, un concetto in grado di regalare agli appassionati un nuovo standard in fatto di comfort e prestazioni.
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Ribelle. Quand’è che questa parola ha iniziato a circolare in SCARPA e nel mondo dell’alpinismo?
Hervé: «Sono passati ormai diversi anni. Era il 2015. Io ed Ueli Steck volevamo creare uno scarpone in grado di soddisfare le nostre esigenze, quello di un alpinismo veloce, un alpinismo “comodo”. Questo prodotto doveva coniugare la calzata di una scarpa da trail running ed al tempo stesso garantire le caratteristiche di uno scarpone da montagna: doveva essere caldo, impermeabile, ramponabile. Ci siamo seduti attorno ad un tavolo, ad Asolo, ed abbiamo iniziato a portare le nostre idee. Le prime reazioni sembravano voler dire “ma questo non è più uno scarpone da montagna”. Ricordo di aver guardato il Responsabile Modelleria e di avergli detto: “Eh ma noi dobbiamo creare uno scarpone ribelle, uno scarpone che porti ad un nuovo modo di andare in montagna, che sia tecnico ma al tempo stesso garantisca performance, leggerezza e velocità”. Fu da quel momento che iniziammo a lavorare ai primi prototipi, un lavoro che si concluse con la presentazione del primo Ribelle a ISPO 2017.»
«Da quel momento in poi, Ribelle non rappresentò solo uno scarpone in sé, ma un nuovo stile, un nuovo modo di affrontare la montagna.» Hervé: «il suggello del nostro lavoro arrivò pochi mesi dopo, quando lo scarpone era già uscito. Per il test finale feci ricoprire il Ribelle Tech OD con una ghetta in piuma e lo utilizzai allo Shisha Pangma. Salii un 8000 con uno scarpone pensato prevalentemente per un alpinismo estivo, per le vie classiche delle nostre Alpi. Quello fu l’ultimo, vero, banco di prova*. Quel giorno capii che Ribelle avrebbe aperto la strada a nuovi modelli, che quello sarebbe stato solo il punto di inizio da cui trarre spunto per sviluppare una vera e propria serie. Dovevamo dare ulteriore seguito a quell’idea, nata da una semplice riunione, in quell’ufficio di Asolo.»
«Ribelle non è solo uno scarpone. Ribelle è un concetto. Avevamo chiesto di sviluppare uno scarpone che seguisse questo nuovo modo di andare in montagna, veloce, dinamico, di cui Ueli era stato sicuramente un grande protagonista.» Innovare significa esplorare il delicato confine che esiste tra performance e versatilità, approfittando di tecnologie e materiali all'avanguardia, dell’esperienza degli ambassador e del lavoro continuo ed appassionato di chi progetta e costruisce. Nel concepire Ribelle, SCARPA aveva bene in mente dove stava andando: non si trattava di evoluzione, ma di rivoluzione. “Lo abbiamo chiamato Ribelle perché per noi era una rivoluzione; volevamo cambiare le regole del gioco su come muoversi in montagna”. Nel 2020 Ribelle compie un ulteriore passo avanti, provando a migliorarsi ancora. Nasce Ribelle Tech 2.0.
Hervé: «All’inizio, devo essere sincero, qualcuno ci guardava dicendo “sì ma sarà uno scarpone che non utilizzerà nessuno”. Quando è uscito Ribelle Tech OD, dovunque ti girassi spuntavano calzature arancioni. Si capiva che in qualche modo avevamo rivoluzionato il mercato, il modo di andare in montagna. Ma Ribelle, ripeto, è un concetto, il concetto di vivere la montagna in modo differente, in un modo che non si era mai visto. E questo ha aperto una nuova strada anche alle altre aziende. Quello che successivamente abbiamo fatto, non è stato altro che rinnovarci. Con Ribelle Tech 2.0 abbiamo migliorato l’allacciatura, grazie un innovativo sistema overlapping integrato con la tomaia per una sensazione di totale avvolgimento. La membrana impermeabile OutDry è stata sostituita dalla versione HDry. La fodera interna è stata divisa in due parti, con isolamento differenziato per porre maggiore attenzione sulla parte di scarpone che tende più facilmente a raffreddarsi, come avampiede».
E infine, dopo altri 3 anni, si arriva all’ultimo nato: Ribelle Tech 3 HD. Francesco: «In un mondo in continua evoluzione, così veloce e dinamico, non si può stare fermi. Così abbiamo sempre lavorato, così continueremo a muoverci nello sviluppo prodotto, così è stato per Ribelle Tech. Ci siamo chiesti se si poteva fare ancora qualcosa rispetto alle precedenti versioni, se un prodotto del genere poteva essere ulteriormente migliorato. Ribelle Tech 3 HD è nato sotto questa ottica: scardinare ancora una volta i preconcetti dell’alpinismo e cercare di ampliare gli orizzonti di chi vive la montagna a 360°. Oggi, il nuovo Ribelle, con maggiore tecnicità ed efficienza, rappresenta un’ulteriore evoluzione dello scarpone da montagna all-round. Abbiamo mantenuto la tomaia a calza, realizzata con tecnologia knit. L’abbiamo leggermente modificata per avere un maggiore avvolgimento nella zona del polpaccio ed evitare che detriti o neve possano entrare all’interno della ghetta. Abbiamo rivisto i volumi della punta per aumentare la precisione in fase di scalata. Abbiamo introdotto un’allacciatura doppia: una prima parte in grado di customizzare il fit sull’avampiede, con una tecnologia speed lacing derivata dal mondo del trail running, a cui si aggiunge un sistema a strap in velcro sul collo della caviglia per regolarne la mobilità a seconda della fase. Una caratteristica su tutte da sottolineare la troviamo sul nuovo sistema suola che vede per la prima volta l’introduzione di un drop 6 su uno scarpone ramponabile da alpinismo (differenziale tacco-punta che solitamente si attesta sui 10-12 mm). Siamo riusciti a farlo arretrando l’inserto rampone e andando ad affogare il tallone nell’intersuola. Questo consente di avere una camminata più naturale ed efficiente, riducendo l’affaticamento del polpaccio. Ultima provocazione l’abbiamo riservata alla mescola del battistrada, con l’utilizzo, per la prima volta nel mondo dell’alpinismo ramponabile, di una mescola
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Megagrip by Vibram, solitamente impiegata nell’approach o nel trail running. Gomma morbida che si adatta perfettamente ad uno scarpone fast & light come questo.»
Hervé: «non bisogna dimenticare che alle grandi prestazioni bisogna abbinare il concetto di comodità. Dovete pensare che quando si va in montagna c’è una prima parte di avvicinamento, e con Tech 3 questa può essere affrontata con molto più comfort, se paragonata ad altri modelli sul mercato. Questo consente di sprecare meno energia e restituirla alla scalata. Sulla parte tecnica ovviamente non tradisce e sposa perfettamente le esigenze che si possono avere su manto nevoso, roccia, creste. In tutto quello che è alpinismo classico, Ribelle Tech 3 soddisfa le esigenze di chiunque».
Le novità tecniche che ci possono essere su Ribelle, vengono trasmesse di riflesso su calzature differenti, come per esempio quelle dedicate al trail running o al trekking? Hervè: «si deve pensare che quando si sviluppa un prodotto si deve passare attraverso una fase di prototipazione. Prototipi che sono raffinati e di alta qualità, di uno standard che a volte non può neanche essere proposto al consumatore finale. Nel primo Ribelle, ad esempio, il prototipo pesava 100 g in meno perché i ramponi erano avvitati direttamente alla tomaia; chiaro che questo è improponibile al mercato. Quello che facciamo è estremizzare tutti i concetti, arrivare all’apice della piramide, e a cascata scendere per proporre le soluzioni migliori, adatte anche a segmenti come il trekking o l’approach. Quello che sicuramente rimane nel modo di affrontare lo sviluppo di un prodotto nuovo è che non si scende mai a compromessi, nella qualità delle membrane, della gomma, delle tomaie. SCARPA cerca sempre il massimo, anche nella volontà di arrivare ad un prodotto finale che soddisfi le esigenze di tutti».
Francesco: «c’è una cosa di Hervé che
mi fa sorridere. È il ricordo di quando partivamo per l’avvicinamento al Cerro Piergiorgio, in Patagonia. In casa aveva un suo bilancino, con il quale pesava ogni cosa. Se c’è un aspetto che ha sempre spinto, in ogni sviluppo prodotto, è proprio quello, trovare il giusto compromesso tra leggerezza e durabilità. Ridurre il peso il più possibile per fare meno fatica in scalata e in avvicinamento».
Hervé: «a tutti piace fare fatica per raggiungere il proprio obiettivo. È ciò che ci motiva. Ma i prodotti devono essere innovativi, devono dare la possibilità a tutti di migliorare. È ovvio che se si riesce ad avere uno scarpone più leggero, con le medesime caratteristiche di uno più pesante, questo contribuirà a migliorare la performance. Ecco perché si gioca molto sul peso. Non c’è uno studio vero e proprio, ma se noi abbiamo 100 g in più sui piedi, è come se avessimo 1 kg in più nello zaino; questo per dare un termine di paragone. Su questo ho sempre cercato di spingere il più possibile. Ovvio che a volte si va ad estremizzare un concetto per poi tornare indietro fino a trovare un equilibrio. L’alpinista professionista è abituato a farlo; si porta sempre al limite, a volte quel limite cerca di sorpassarlo, altre volte è costretto a fare un passo indietro. L’equilibrio tra performance, comodità, termicità e impermeabilità porta poi al prodotto migliore».
Francesco: «e sono pochi gli atleti visionari che spingono le aziende a migliorarsi costantemente. Ueli ed Hervé sono tra questi, personaggi che hanno ispirato intere generazioni e portato l’alpinismo ad un altro livello. A volte le richieste degli atleti possono sembrare provocazioni; ma senza queste, non si arriverebbe mai ai prodotti che vediamo oggi».
Dove arriverà Ribelle? Hervé: «dobbiamo pensare che l’alpinismo sta cambiando, come evoluzione di una mentalità e di un approccio differente alla montagna. Basti pensare che una volta il Cervino o il Monte Bianco, si
affrontavano in più giorni di scalata; oggi sono tutte salite che si fanno in una giornata sola. Questo cosa significa? Che il nostro approccio è diverso, ma sta cambiando anche qualcos’altro. Purtroppo c’è una crisi climatica in atto, le estati sono sempre più secche e calde, e dunque SCARPA ha già in mente quale potrebbe essere il Ribelle del futuro, un Ribelle 4.0. Quello che sicuramente cercheremo di fare è essere sempre un passo avanti su quella che sarà la nuova concezione di calzature da montagna».
«Per voler andare in montagna in modo diverso, innovativo, con un concetto nuovo, bisogna in qualche modo essere ribelli. Ma ribelli possiamo esserlo tutti. Non c’è bisogno di Ueli Steck, Herve Barmasse o di un alpinista professionista. Quello che noi sostanzialmente studiamo, attraverso dei prototipi, è l’idea di migliorare la prestazione di qualsiasi persona. Questo è l’obietto di SCARPA e rimane il concetto di Ribelle come Rivoluzione».
*NDR: 21 maggio 2017, Hervè Barmasse e David Goettler hanno salito la Parete Sud dello Shisha Pangma, la 14ª montagna più alta del mondo, in sole 13 ore, sulla scia di un nuovo modo di intendere l'alpinismo.
In un mondo in continua evoluzione, così veloce e dinamico, non si può stare fermi. Così abbiamo sempre lavorato, così continueremo a muoverci nello sviluppo prodotto, così è stato per Ribelle Tech. Ci siamo chiesti se si poteva fare ancora qualcosa rispetto alle precedenti versioni, se un prodotto del genere poteva essere ulteriormente migliorato.
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Arc’teryx Alpine Academy
Mountain living, community feeling
BY LISA MISCONEL PHOTOS JACK GORHAM, CARLOS BLANCHARD, ALEX WEBB
AAA in breve
È stata la prima volta per me a questo evento oramai alla sua dodicesima edizione, dove appassionati di tutta Europa e non solo hanno potuto vivere quattro giorni di formazione, ispirazione e connessione in una community con la stessa passione: la montagna. Il format è semplice: nelle quattro giornate sono distribuite 43 clinic a cui poter partecipare con diversa durata, difficoltà, tipo di attività. C’è un village dove chiunque passi può testare attrezzatura ed abbigliamento in maniera totalmente gratuita, assistere a première mondiali di film di montagna, ascoltare le parole migliori atleti ed alpinisti al mondo facenti parte del team di Arc’teryx. Ci sono serate musicali e laboratori ad accesso libero. 120 le guide alpine giunte da ogni parte della Francia per condurre le variegate clinic dall’alpinismo all’arrampicata, all’hiking, al trail running e molto altro.
Da Varsavia e dall’Oregon
Mi piace raccontare cos’è l’Alpine Academy tracciando i contorni di chi queste giornate le ha cercate, attese e vissute anche trovandosi a migliaia di kilometri di distanza. Due ragazzi polacchi con cui ho calpestato la neve del ghiacciaio della Vallée Blanche, e Lauren che dall’Oregon ha sfruttato la scusa dell’A-
AA per passare qualche settimana nelle Alpi. A Varsavia non ci sono sentieri né ghiacciai e spostarsi per trovarne non è mai facile, dopo qualche corso di avvicinamento all’alpinismo hanno scoperto che la montagna è proprio un bel posto dove stare e dove muoversi e così, ogni anno tornano a Chamonix per tre giorni di clinic concentrate dove apprendere le basi e vivere la montagna in compagnia di persone da tutto il mondo in una location d’eccezione. Il loro zaino è pieno di tutto ciò che anno dopo anno si è aggiunto alla lista degli essential, e ciò che non possiedono lo hanno in prestito dall’Arc’teryx Gear Library dove sono disponibili anche attrezzatura di CAMP e SCARPA. Le giornate sono riempite come nuovi bagagli da riportarsi a casa, pieni di momenti e nuove nozioni, le serate rallegrate dalle immagini dei film proiettati all’Alpine Village o dalla musica del concerto open air. Lo fanno ogni anno, come tappa obbligatoria per iniziare veramente l’estate. Lauren invece corre, scia e arrampica nel Pacific North West, sicuramente lì non le mancano i playground per tutte le attività, ma c’è qualcosa qui che non trovi altrove, e così ecco che con un volo intercontinentale si ritrova a correre in compagnia dellaArc’teryx trail runner Johanna Åström nel bosco che porta da L’Argentière fino in centro a Chamonix per una clinic di Trail Running & Spa.
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Ci sono luoghi che più che fisici sono emozionali. E per quanto possa sembrare o anzi, sia una vera e propria frase fatta, è esattamente ciò che accade a cittadine come Chamonix. Mi piace dipingerla nei miei pensieri come la baita in montagna dove sai che partirai per le tue avventure. Se a quella baita poi associamo un momento dell’anno in cui sai che potrai vivere le giornate più belle dell’estate, otteniamo l’Arc’teryx Alpine Academy.
Mondi diversi che si incrociano sotto, in mezzo e sulle stesse montagne
Le quarantatré clinic distribuite sulle tre giornate coinvolgono molto atleti Arc’teryx ed hanno titoli emozionanti a tratti incredibili: notte in portaledge con Nina Caprez, trail running sui sentieri del Tour du Mont Blanc con Stian Hagen, glaciologia e permafrost, soccorso da crepaccio, sessione di climbing con Jonathan Siegriest, alpinismo per principianti fino a vere e proprie scalate multipitch, fotografia d’alta quota. Ma non solo: per i creativi amanti di upcycling e design, dagli States c’era anche Nicole Mclaughlin che con la sua arte ha seguito i laboratori di “Circular by Design”. Questo mix è presente anche nel team degli atleti Arc’teryx, dove freerider hanno mosso i loro primi passi su roccia e dove trail runner hanno provato l’ebrezza di muoversi, per una volta, a passi lenti su un ghiacciaio. Scesi ognuno dal proprio sentiero, via o blocco, ci si ritrova tutti al village, dove oltre ai laboratori
dedicati all’upcycling, ci sono sfide di boulder per tutti i gusti e poi ancora talk e possibilità di scambiare idee e pensieri anche con personaggi di spicco con i quali, in quei giorni, non ci sono barriere e con cui puoi, se vuoi, sederti a parlare condividendo le avventure della giornata aspettando i film in proiezione la sera. Poi, brindando a quei momenti con la stessa birra fredda, ci si siede sul prato all’open air concert dell’Arc’teryx The Scene.
Il primo weekend di luglio
Lingue si fondono, competenze si arricchiscono e storie si intrecciano. Lontano da competizioni, preconcetti e barriere, l’Alpine Academy di Chamonix è quel momento dell’estate che aspetti quando sei piccolo e che quando finisce ti senti un po’ perso. La cosa bella però, e il sapere che l’anno prossimo potrai ritornarci e nulla sarà cambiato: stesso weekend (il primo di luglio), stesso posto, stessa voglia di scoprire, nuovi incontri e persone.
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Inesauribile Jakob Schubert
Grinta, motivazione e divertimento sono la ricetta per arrampicare (e vincere) anche dopo 20 anni
BY LISA MISCONEL
PHOTOS MICHAEL PICCOLRUAZ, HANNES MAIR, SOPHIE ODELBERG
Il campionato mondiale 2023 di arrampicata sportiva si è svolto a Berna, Svizzera le prime settimane di agosto. Un appuntamento importante, ed il suo ruolo nelle prime qualificazioni per le Olimpiadi ha elevato ulteriormente il suo valore per atleti di tutto il mondo. Jakob Schubert, che qualche settimana fa mi raccontava dell’importanza che aveva per lui questo mondiale, è riuscito, ancora una volta, a salire sul gradino più alto del podio in lead e combined guadagnandosi un one way ticket per Parigi 2024. Scrivere di lui, riportandone riflessioni e racconti proprio ora che sta accadendo ciò che aspettava da mesi, rende il contenuto di questo testo un po’ più speciale.
Per ogni disciplina sportiva, ci sono sempre dei nomi noti a chiunque, anche a chi di questa disciplina non ne sa nulla. Nomi che ritornano così spesso e da così tanto tempo da associarli immediatamente alla loro specialità: Adam Ondra, Stefano Ghisolfi, Alexander Megos... e Jakob Schubert. Atleta Mammut, austriaco nato e cresciuto ad Innsbruck, una delle città Mecca degli sport outdoor dell’arco alpino, Jakob domina lo scenario del climbing da ormai 20 anni. Al suo esordio in Youth World Cup nel 2004 si è classificato 32esimo. Da lì ha scalato blocchi e classifiche fino a vincere titoli mondiali. Il 2011 è stato il suo anno da record: sette vittorie in coppa del mondo consecutive hanno scritto il suo nome nella storia dell’arrampicata. Poco più di dieci anni dopo lo rivediamo sul podio a Villars 2023, mostrando il suo oro insieme ai compagni di sempre Adam Ondra e Alexander Megos; sembra che il tempo si sia
fermato ed in un certo senso su quel podio è così. Ma la verità è che di magnesio sulle mani ne è stato messo, di blocchi montati e smontati, di atleti cresciuti e spariti. È uno sport che è diventato olimpico per la prima volta in modo più o meno valido e apprezzato e che ora, per la seconda volta, inizia il suo percorso verso un’olimpiade nuova e migliore dove speed e lead sono, per loro caratteristica, due sport diversi e separati. Due discipline per le quali uno come Jakob punta a guadagnarsi il posto già in occasione di Berna 2023.
Sono passati dieci anni da quel 2011 da record, e sei ancora sul podio. Ma come fai? Ovviamente sono abbastanza fiero di riuscire ad essere competitivo ancora oggi dopo così tanti anni. L’esperienza sicuramente aiuta e specialmente in lead credo proprio di essere uno degli atleti più vecchi, cosa che però credo sia un vantaggio perché negli anni ho ve -
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ramente avuto l’occasione di imparare tanto. La cosa per me più importante però è che mi diverto esattamente allo stesso modo di quando ho iniziato, magari con amici che nel tempo sono cambiati ma posso sicuramente vedermi arrampicare ancora per molto. Sono un ragazzo molto estroverso, amo la compagnia e l’arrampicata è uno sport sociale perfetto per come intendo io l’agonismo. Ho un crew intorno a me ad Innsbruck che è fantastica ed il fatto che il livello sia sempre più alto mi stimola a spingermi sempre più in là, e finché continuerò a divertirmi così, mi vedrete sui blocchi!
Come hai preso questa stagione di gare e che aspettative avevi? Rispetto al passato in cui partecipavo ad ogni singolo appuntamento per tutta la durata della stagione, adesso preferisco concentrarmi su pochi eventi importanti ed a quelli ad essi preparatori. Mi piace passare il resto del tempo a prepararmi e provare progetti su roccia. Quest’anno il mondiale di Berna vale tutto per me e l’ho veramente preso sul serio: ci sono tre posti per le Olimpiadi da poter occupare facendo top 3 in combined durante questo evento e il mio obiettivo è riservarne uno. Ho avuto la sensazione di essere in forma sin dall’inizio della stagione. Il livello non è mai stato così alto: se negli anni passati vivevo le qualifiche col pensiero che mi bastasse non fare gravi errori, adesso devo veramente dare il massimo per rimanere in gara. In arrampicata un errore ti può sempre rovinare l’intera gara, quindi non puoi mai avere aspettative di vittoria.
Parliamo di roccia. Che progetti hai? Dopo l’inverno ho passato molto tempo su Elphane, un boulder 9a in Svizzera che non sono ancora riuscito a chiudere. A settembre, dopo i mondiali, passerò tre settimane a Flatanger su Project Big - un progetto di Adam Ondra che assieme a lui ho provato nel dicembre scorso ma che non abbiamo ancora completato. Adam ci è ritornato da solo un po’ di volte senza successo e sconsolato mi ha confessato che non sarebbe tornato insieme a me. Almeno fino a quando non gli ho detto che avrei trascorso lì tre settimane: so che non resisterà! In più è “unfinished business” e a me non piace lasciare i progetti incompleti.
Palestra, gare, roccia ma anche deep water
solo! È appena uscito il tuo ultimo video “Alasha”... Dopo le olimpiadi era qualcosa che veramente volevo provare. Alcuni amici erano stati a Mallorca e mi raccontavano di giornate passate a scalare sull’acqua e di quanto fosse fico! Il feeling è quello di una vacanza, cosa che in qualsiasi altro progetto su roccia non accade: sei quasi sempre al freddo per avere la massima tenuta. Dopo essere stato sull’isola in perlustrazione durante una vacanza, sono ritornato appunto dopo le olimpiadi dopo una stagione molto stancante sia mentalmente che fisicamente. Lì era perfetto per riposare rimanendo attivi grazie ad una nuova sfida, e mi piace sempre l’idea di condividere i progetti che ritengo interessanti per il pubblico, così è nato Alasha.
Oggi sei un’ispirazione per tanti arrampicatori giovani e meno giovani. Chi invece ispira te? Non direi che ho una persona in particolare, ma nella mia vita ho avuto molti esempi e ne ho tuttora; non devono necessariamente essere più adulti di me, al momento i giovani climber mi ispirano moltissimo! Se vuoi essere il migliore devi continuamente osservare gli altri e provare ad imparare dal loro stile e dalle cose in cui sono migliori di te. Ovviamente anche Adam è stato da sempre un riferimento, ma allo stesso tempo ho avuto la fortuna di entrare nel mondo dell’arrampicata ad Innsbruck, dove ero circondato da fortissimi atleti. Il mio partner è sempre stato David Lama, un incredibile scalatore così come Kilian Fischhuber, Jorg Verhoeven, Anna Stöhr, Angela Eiter. Ognuno di loro ha avuto un ruolo nella mia carriera e vita.
Sei con Mammut dal 2014, com’è fare parte del team? Faccio parte del team da molto tempo, quasi dagli inizi. Più recentemente, anche Adam e Alberto Ginés López, vincitore alle olimpiadi sono entrati a far parte della squadra. Io ed Adam potremmo parlare di arrampicata per ore, giorni mesi! Non esauriamo mai gli argomenti e le idee. Fare parte dello stesso team rende ogni idea più facile e realizzabile ed è molto interessante il fatto che gli atleti sono tutti provenienti da diverse discipline.
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I cambiamenti climatici impattano anche il trail running, parola di Hillary Gerardi
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS SÉBASTIEN MONTAZ-ROSSET
Per battere il FKT del Monte Bianco
Hillary Gerardi ha dovuto progettare una strada alternativa alla “classica” ma ha anche dovuto cambiare la sua routine di allenamento per la Skyrunner World Series.
Raggiungo Hillary Gerardi su Google Meet nella giornata forse più calda di luglio, è a casa, a Chamonix, ma sta per ripartire per la Schlegeis 3000 Skyrace, ottava tappa della Skyrunner World Series, il circuito di gare di trail running più tecnico al mondo. Il tema delle temperature e dei cambiamenti climatici ricorrerà spesso in questa intervista perché, a ben vedere, è molto impattante sulla vita degli atleti, soprattutto quelli che hanno a che fare con gli ambienti naturali e con condizioni che possono essere estreme. È questo il caso di Hillary Gerardi, atleta Black Diamond che quest’anno ha battuto il record di velocità sul Monte Bianco ma che, per farlo, ha dovuto scegliere una via alternativa alla via classica, quella su cui Emelie Forsberg aveva stabilito il precedente record femminile nel 2018. Il FKT (Fastest Known Time) stabilito
da Hillary è di 7 ore e 25 minuti: l’atleta ha percorso la cresta nord, che è molto più ripida rispetto alla via classica, ma meno pericolosa dal punto di vista del distacco dei seracchi: il cambiamento climatico è anche questo, impone agli atleti di riformulare le loro imprese e prendere delle precauzioni in più. Gerardi è riuscita poi a passare alla via normale attraverso la cresta delle Bosses, dove negli ultimi anni si è formato un crepaccio: “Sono molto contenta, perché ho dimostrato che questo percorso alternativo, che richiede più attrezzatura e sembra essere più lungo, non sacrifica le prestazioni. Uno degli obiettivi della missione era proprio quello di porre l’accento sull’impatto dei cambiamenti climatici sulle nostre montagne.” Battere un record e farlo su un massiccio come quello del Monte Bianco, che è una montagna iconica per due paesi, Italia e Francia, e per Gerardi è anche la montagna di casa, è ancora più significativo. “Era un progetto che avevo in mente da molti anni, ma negli ultimi due non c’erano mai state le condizioni proprio per via della situazione della neve, che non mi avrebbe permesso di farlo in sicurezza: è stato un progetto che
ha richiesto molta preparazione, sia in termini di equipaggiamento, ma soprattutto mentale. È stato il primo vero progetto da solista per me, non una gara, non il record che ho battuto insieme a qualcun’altra come è successo con la traversata con gli sci tra Chamonix e Zermatt, in cui abbiamo battuto il record femminile. Prima di farlo non ero così convinta che sarei riuscita a battere il record, ma sono contenta di averci creduto. Ho anche avuto un’extra motivation da parte di mio marito, che fa la guida alpina e che quel giorno era con dei clienti proprio sulla cresta Bosses, così ho potuto incontrarlo sia quando sono salita che quando sono scesa e ricevere un bacio di incoraggiamento da lui. Mi sento molto fortunata perché molti dei traguardi che volevo raggiungere li ho già raggiunti, forse è tempo di andare in pensione!”
“Diciamo che tutto quello che verrà quest’anno lo prendo come un bonus. Adoro prendere parte alla Skyrunner World Series, perché mi diverte, ma al momento non c’è una gara della quale penso: ok, questo è il mio sogno, come lo era stato partecipare al trofeo Kima. Parteciparvi e riuscire a battere il record è stato un pallino per me per tanti anni, finalmente ci sono riuscita lo scorso anno.
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In generale cerco di scegliere col cuore le mie imprese e, al momento, non ho ancora trovato quella che me lo fa battere all’impazzata. Concluderò la serie di gare con la Matterhorn Ultraks e la Grigne Skymarathon, poi forse qualche garetta più piccola qua e là, ma cerco di non farne più di una al mese: ultimamente prendo il riposo molto seriamente. Dopo una gara, non importa se di 7 ore o di 4, mi prendo qualche giorno per non fare praticamente niente, se non al massimo delle camminate: nel 2018 facevo quasi una gara alla settimana e poi mi sono resa conto che l’anno dopo ero molto stanca, sia fisicamente che mentalmente, e non riuscivo a performare bene. Prendersi degli stop è importante, sia tra una gara e l’altra che alla fine della stagione. A novembre ad esempio mi fermo completamente, neanche mi alleno, mangio molto e mi godo le vacanze prima di iniziare ad allenarmi di nuovo.”
Come dicevo il tema del caldo estremo e dei cambiamenti climatici è stato centrale in questa intervista perché, in questi giorni di luglio, è impossibile non parlarne, è qualcosa di talmente invadente nelle nostre vite che il cervello ci torna continuamente. Quindi mi è venuto spontaneo chiedere ad Hillary qualcosa a cui non mi era mai capitato di pensare negli scorsi anni, e cioè come i cambiamenti climatici stiano impattando la sua disciplina e la sua routine di allenamento. “I cambiamenti climatici stanno definitivamente avendo un impatto importante sul nostro sport in questi giorni di luglio sono state toccate temperature record in molte parti d’Europa, in Italia soprattutto, allenarsi è molto difficile in queste condizioni. Con il caldo non si scherza, anche persone in ottima salute potrebbero subire gravi conseguenze per i colpi di calore. Fortunatamente io vivo a 800 metri sopra il livello del mare e sono circondata dalle montagne, ma certamente ho dovuto cambiare la mia routine di allenamento perché, anche qui, durante il giorno sono state raggiunte temperature di 35 o 36 gradi. In giornate come queste vado molto presto la mattina o tardi il pomeriggio oppure, avendo la fortuna di stare a Chamonix, prendo l’impianto e vado ad allenarmi a 3000 me-
tri, lì però c’è un altro problema: lo scioglimento del permafrost causa spesso la caduta di rocce e l’instabilità in generale del terreno, quindi il mio processo decisionale è a tutti gli effetti molto impattato. Non solo: a me piace perlopiù correre in ambienti alpini, ma ci sono alcune gare che si svolgono in climi molto caldi: la prima gara della Skyrunner World Series, ad esempio, la Calamorro Skyrace, si corre in Spagna e la partenza è di solito alle tre del pomeriggio. Gli organizzatori in questo momento storico devono tenere in considerazione le temperature più di altri eventi atmosferici, che dominavano le preoccupazioni del passato, come ad esempio la pioggia.” Non viene impattata però solo la routine di allenamento o l’organizzazione delle gare, anche l’attrezzatura deve essere scelta in base all’aumento delle temperature. “Soprattutto per noi donne questo caldo è un incubo, perché abbiamo troppi strati addosso: la trail running vest, il bra, che generalmente ha due strati, la t-shirt. Per noi è molto complicato trovare il giusto equipaggiamento, quello che sia sufficientemente leggero e traspirante e che non ci faccia surriscaldare troppo. Ad esempio si può indossare una cintura al posto della vest, ma con quella non si può portare con sé molta acqua, quindi bisogna calcolare un sacco di cose: quanto durerà la gara, quante stazioni di rifornimento ci saranno e così via. Ma ci sono tantissime altre cose da calcolare, come ad esempio i colori da indossare: bandito il nero che attira il sole ad esempio, per quello che riguarda me cerco di avere completi il più possibile chiari.”
Gli atleti che hanno a che fare con la natura sono quelli che, prima degli altri, sono sensibili alle sue istanze e ricettivi nei confronti di quelli che sono i cambiamenti in corso, ma non solo: il loro è un rapporto privilegiato con gli elementi. “La cosa che mi ha sempre affascinato del trail running è che è qualcosa che ha a che fare con gli ambienti estremi. Ora pensiamo al caldo, perché è così presente nelle nostre vite in questi giorni che non riusciamo a pensare ad altro, ma in montagna ci sono sempre dei criteri extra da considerare, come l’esposizione al sole a
certe altitudini ad esempio: non corro mai senza crema solare, cappello e qualcosa che mi ripari il collo. Per la maggior parte dell’anno, invece, i problemi sono dati dal vento e dal freddo. Fare trail running, a differenza della corsa su strada, impone di riflettere a fondo su quelle che sono le condizioni ambientali del posto dove si sceglie di correre: ci sarà neve? Sarà scivoloso? Come sarà il terreno e che tipo di scarpe sarà meglio che indossi per avere più grip? È tutto molto più complicato, ma anche più intenso e per me è questa la parte che rende il correre in montagna così interessante: non devo solo pensare ai fattori interni, ma anche a quelli esterni. Sicuramente questo connette all’ambiente molto di più: se si programma di stare nella natura per molte ore bisogna prepararsi prima, ma anche osservare quello che accade intorno a noi, per essere preparati nelle volte a venire. Soprattutto in montagna, dove i cambiamenti meteorologici sono repentini, bisogna essere in grado di adattare i programmi molto velocemente. Discipline come il trail running portano costantemente a spingersi oltre i propri limiti, ma a me piace anche prendermi dei momenti per rallentare un attimo e osservare quello che c’è intorno a me, godere della natura ed esservi più connessa, credo che questo faccia di me anche un’atleta migliore.
Non so se anche in italiano si dice ma, in inglese, c’è un'espressione che spesso è usata dai trail runner: le montagne sono il nostro parco giochi, ecco io l’ho
Playground
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dà l’idea di qualcosa che sia lì per noi, per il nostro divertimento, ma non è così: le montagne gentilmente ci ospitano e quello che mi piace dello stare in montagna è proprio che il fatto che mi sento così piccola e insignificante di fronte alla loro maestosità.
sempre trovata inappropriata. Playground dà l’idea di qualcosa che sia lì per noi, per il nostro divertimento, ma non è così: le montagne gentilmente ci ospitano e quello che mi piace dello stare in montagna è proprio che il fatto che mi sento così piccola e insignificante di fronte alla loro maestosità.”
Hillary in montagna in realtà ci è finita per amore di un uomo prima ancora che per lo sport: si è trasferita a Chamonix tredici anni fa per seguire il suo fidanzato dell’epoca, ora marito, e credeva di trascorrere lì soltanto un inverno per poi tornare negli States. Le cose poi sono andate diversamente e adesso lei e il marito stanno facendo le carte per prendere la cittadinanza: “È stata una scelta ponderata, che abbiamo rinnovato di anno in anno ogni volta che ci trovavamo a dover raccogliere tutti i documenti per rinnovare il nostro visto. “Vogliamo veramente continuare a vivere qui?” E ogni volta la risposta era
“sì”. Se non ci accettano la cittadinanza proverò con l’Italia: i miei nonni paterni erano entrambi italiani, ma sono immigrati con la famiglia quando erano molto piccoli, mio padre non sa una parola di italiano, ma le radici ci sono.” Personalmente ho sempre guardato agli Stati Uniti come alla patria del trail running, con le sue ultramaratone che attraversano deserti, boschi e canyon, ma Hillary mi smentisce: “Il fatto è che vivere qui ti dà molto in termini di tecnica, correre negli Stati Uniti è un’altra cosa, lo stile è completamente diverso, molto meno tecnico. I trail lì sono più larghi e regolari, con meno pendenza e quindi anche più veloci, ma non tecnici, cosa che invece mi piace molto. Credo sia per questo che oggi ci siano sempre più runner che dagli States sognano di trasferirsi in Europa.”
Il fatto è che vivere qui ti dà molto in termini di tecnica, correre negli Stati Uniti è un’altra cosa, lo stile è completamente diverso, molto meno tecnico. I trail lì sono più larghi e regolari, con meno pendenza e quindi anche più veloci, ma non tecnici, cosa che invece mi piace molto. Credo sia per questo che oggi ci siano sempre più runner che dagli States sognano di trasferirsi in Europa.
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3,877m
ACCESS HERE TO THE TRACK OF THE HILARY PATH ON FATMAP BY STRAVA
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DISTANCE
ELEVATION
3,000M 4,000M 2,000M 0KM 5KM 10KM 15KM 20KM 25KM 30KM
Per scoprire un territorio bastano due ruote
Valle Stura Piemonte in MTB
BY LISA MISCONEL PHOTOS DANIELE BOFFELLI
Muoversi nella natura è possibile in infiniti modi e con sempre più strumenti. Una tematica che al giorno d’oggi ha grande rilevanza è quella della sostenibilità del vivere la montagna e gli spazi aperti, evitando strutture dal forte impatto ambientale e sostituendole con realtà alternative. Alcuni territori più di altri presentano le caratteristiche favorevoli a questo tipo di evoluzione: dove gli impianti sono meno diffusi ed il turismo di massa non ha ancora fatto il suo avvento, dove può esistere la convivenza fra diversi tipi di frequentatori della montagna e dove, come sempre, c’è la passione e la volontà di vedere le cose sotto un’altra ottica. In Valle Stura di Demonte in Provincia di Cuneo già da anni qualcosa si è mosso, e lo ha fatto con il solo utilizzo di cartelli, GPS e... le due ruote! Cultura, territorio e sentieri incontaminati si ritrovano nei 60km di questa valle incastonata fra le alpi
Marittime e le Cozie ai confini con la terra francese a meridione e con le verdi vallate di Maira e Grana a settentrione. Qui sport come la MTB trovano terreno favorevole già da decenni dai tempi della celebre Promenado Bike Marathon. È proprio qui che dal 2015 sono nati diversi progetti per pedalare in completa autonomia e con il minimo impatto ambientale come “MTB Valle Stura” all’interno del quale si trova il “Bike Park Tajarè”. La condivisione del territorio e lo sfruttamento della fitta rete di sentieri locali sono i fondamenti sui quali si sviluppano queste realtà. Infatti, l’affluenza non eccessiva di escursionisti permette la fruibilità dei sentieri anche alla categoria dei ciclisti e così anche le strade militari di alta quota. Non vi è necessità di grandi interventi artificiali per rendere accessibili i sentieri che riescono ad automantenersi anche solo grazie al continuo passaggio.
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Ovunque ma su due ruote
Dal sentiero di valle passando per forti medievali e boschi fino ai 2600 metri di altitudine. Mulattiere e strade militari di alta quota costruite fra il 1700 e la II guerra mondiale danno la possibilità ai ciclisti di pedalare in salita e divertirsi in discesa assaporando paesaggi e avvicinandosi alla cultura territoriale. Lo studio dei percorsi è talmente ricercato che l’80% dei tour funzionano solo nel senso di marcia suggerito e pensato appositamente per la fruibilità in salita ed il massimo divertimento in discesa. MTB Valle Stura conta 41 itinerari con 1000km costantemente monitorati per condizioni e percorribilità. Sette percorsi nello specifico sono quelli legati al Bike Park Tajarè che attraverso cartelli posti ad ogni incrocio guidano gli appassionati alla scoperta della fittissima rete di percorsi in maniera facile ed efficace. Il passaggio di bici sui sentieri nel bosco permette agli stessi di automantenersi senza rovinarsi e l’aumento della frequentazione di questi luoghi ne aumenta anche la sicurezza. Per chi invece è assetato di adrenalina, il Vinadio Enduro Bike ha ciò che fa per voi: discese
ripide su terreni tecnici dove sarete solo voi, il fango e le due ruote.
MTB made simple
Spesso la difficoltà nel muoversi in un posto nuovo sta nel trovare il giusto itinerario e seguirlo dall’inizio alla fine senza intoppi. Conoscerne le condizioni e la percorribilità per apprezzarne ogni metro. Per ovviare a questa variabile spesso si finisce per frequentare le località più trafficate e dove il senso di autenticità e quel profumo selvaggio di sentieri e paesaggi spesso si perde fra il brusio del traffico. In una valle ancora pura nella sua essenza, strumenti come tracce GPS, cartelli fisici lungo il percorso, continui aggiornamenti online che ma anche accompagnatori cicloturistici sono messi a disposizione per cicloturisti ed amatori, cicloalpinisti ed amanti dell’enduro per vivere un territorio in modo autentico e sostenibile e trovare quel senso di dispersione nella natura che tutti cercano.
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Nadir Maguet The record man
Chronology of an undertaking on Grandes Jorasses
BY DAVIDE FIORASO PHOTOS EVI GARBOLINO
Ha lasciato nuovamente tutti di stucco, il “Mago”, e questa volta lo ha fatto con una grande impresa sulla via normale delle Grandes Jorasses, l’iconico gruppo di cime granitiche sulla linea di frontiera tra Italia e Francia, nella parte settentrionale del massiccio del Monte Bianco. Tre ore e 19 minuti. Questo il tempo impiegato dall’atleta valdostano per effettuare l’up & down di Punta Walker, la più alta, segnando un nuovo Fastest Known Time che migliora di quasi un’ora il primato di Alfredo Mammoliti.
Nadir torna a far parlar di sé ad appena 8 giorni dallo strepitoso successo alla Skymarathon Sentiero 4 Luglio, in cui ha infranto lo storico record di Mario Poletti che durava da 20 anni.
Ciao Nadir. Con questa premessa possiamo davvero dire che arrivi da un periodo di grazia. «Ho concluso la stagione scialpinistica a fine aprile, con il Trofeo Mezzalama, e da qui ho iniziato a gestire il passaggio a quella estiva, che non è mai così banale; ti porti dietro le stanchezze dell’inverno e devi riprendere il gesto tecnico. Come tutti gli anni ho iniziato in maniera graduale, introducendo molta bicicletta, così da evitare il rischio di infiammazioni, per poi, man mano, aumentare con la corsa. Prendo la stagione estiva con più flessibilità, vado molto ad intuizione, di pancia, contrariamente a quella invernale, dove gareggi per la Nazionale, ci sono date di Coppa del Mondo da rispettare, ci sono le grandi classiche (Pierramenta, Tour du Rutor ecc.). Tra maggio e giugno ho partecipando a qualche competizione (Monte Zerbion
Skyrace, Torgnon Pink Trail, Ultra K Trail, ndr) per riprendere il ritmo gara prima degli appuntamenti più importanti, come poteva essere quello della Lavaredo 50K, l’unico che avevo realmente segnato in calendario (2° posto al termine di un serrato duello con Francesco Puppi, ndr). Ovviamente l’andamento della preparazione non è mai un dato certo. Uno si programma quanto vuole, ma bisogna anche
avere un po' di fortuna. Quest’anno è andata bene perché a Cortina sono arrivato con una buona condizione fisica. La settimana dopo ero ancora in dubbio se partecipare al Sentiero 4 Luglio perché volevo vedere come recuperavo dalla gara precedente. Ho fatto qualche giorno a casa tranquillo, qualche giro in bici e dopo un allenamento di corsa le sensazioni erano ottime. Quando sei così recuperi in maniera incredibile, quindi ho deciso di confermare la mia partecipazione a Salvadori. In effetti era una gara che avevo nel mirino già da qualche anno. Mi sono studiato il percorso tutta la settimana e alla fine, quel giorno, stavo davvero da Dio. Penso di esser arrivato a Corteno all’apice della mia condizione».
Parliamo subito dell’impresa sulle Grandes Jorasses. Da dove nasce l’idea di questo record? «L’idea è nata 6 anni fa, ma allora dovevo ancora trovare la mia vera identità, dovevo ancora scoprire che tipo di atleta ero. Il record di Mammoliti del 1993 mi aveva incuriosito. Avevo chiesto a Denis Trento, guida alpina ed ex atleta della nazionale di scialpinismo, di portarmi sulla Normale per capire se ero all’altezza di affrontare una sfida del genere. Dopo qualche giorno mi chiamó dicendomi "andiamo, ma facciamo la Traversata sulla Ovest e scendiamo dalla Normale”. Io ero super gasato, ma non avendo mai fatto vie alpinistiche, non sapevo a cosa andare incontro. Fu un viaggio incredibile, lungo ed eterno; una giornata durissima. Ebbi una crisi pazzesca, probabilmente dovuta alla lunga permanenza in quota. Ricordo poco e niente della Normale, troppo stanco o concentrato. Fu da lì che decisi di accantonare il progetto del record, in maniera molto naturale e spontanea. Per battere i record bisogna essere sicuri delle proprie capacità; su certi progetti devi andarci deciso e convinto. Devi prenderti del tempo e starci dietro, ritagliarli il giusto spazio, perché richiedono molto impegno anche a livello logistico e
organizzativo. Le gare sono lì, arrivi il giorno prima e trovi il piatto pronto. Qua devi starci dietro, pianificare e programmare. Allora avevo ancora idee confuse e non ero ancora abbastanza maturo per affrontare questa sfida».
Qualche giorno prima eri al Jardin de l’Ange, alla partenza del Gran Trail Courmayeur. Hai avuto modo di fare una ricognizione del percorso? Com’erano le condizioni? «Sì la mattina stessa del GTC ero stato con il mio socio (Hervé Vevey) a fare un giro di ricognizione per capire le condizioni del ghiacciaio, in particolare sullo stato dei crepacci alla base del Reposoir e la situazione del canale Whymper, altro tratto delicato per il rischio oggettivo di cadute. Immagina che dal venerdì della ricognizione al lunedì del record un ponte di neve era già crollato. Lì per lì mi son trovato spiazzato, ma con l’adrenalina a mille non stai a porti troppe domande».
Nadir è partito in assetto da running fino in prossimità del Rifugio Boccalatte, superando i primi 1000 metri di dislivello in soli 40 minuti. Qui si è cambiato e, con equipaggiamento alpinistico, ha continuato in conserva con Davide Cheraz, che lo ha accompagnato per circa 300 metri nel tratto più crepacciato. Poi di nuovo in solitaria, su per il canale Whymper fino in vetta alla Walker dove, dopo 2 ore e 17 minuti, ha abbracciato la guida alpina Marco Camandona prima di iniziare la discesa. 3 ore e 19 minuti dopo la partenza ha fatto rientro a Planpincieux, segnando un nuovo Fastest Known Time per questa via, sbriciolando il crono di 4:03:26 di Alfredo Mammoliti.
Ripercorriamo le tappe. Ci parli esattamente della via? Come si sviluppa? «Il percorso parte dai 1598 metri di Planpencieux, l’ultima frazione di Courmayeur in Val Ferret. Sono partito dal grande parcheggio, allungando di qualche minuto la traccia di Mammoliti, che era partito dalla
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chiesetta. Come lui ho fatto un paio di deviazioni rispetto alla Via Normale: la prima è un canalino nei pressi del Rifugio Boccalatte, sciabile d’inverno. C’era ancora parecchia neve per cui si affrontava in modo veloce. L’altra per prendere il couloir Whymper restando a destra del Reposoir. In cima invece ho seguito fedelmente la Normale, attraversando le pendici del seracco pensile per andare a prendere le roccette sotto la Walker. Dalle informazioni che ho avuto invece Mammoliti aveva preso un ripido canalino sulla sinistra, a fianco del seracco, un po' più veloce. In ricognizione mi sembrava buono ma la spolverata di neve prevista il sabato poteva essere un problema».
Quanto senti di aver rischiato? Quanto margine d'errore c'è in una sfida come questa? «Avevamo fatto un planning preciso. Già la decisione di cambiarsi e mettersi in assetto alpinistico (con scarponcini, ramponi e picozza) ha fatto diminuire il rischio. Per la parte più crepacciata il supporto di Davide ha aumentato ancora il fattore sicurezza. In discesa, nel tratto delle roccette sul Whymper, mi sono fatto mettere una corda fissa. Per rispettare l’etica del record, mi ero assicurato che Mammoliti avesse fatto lo stesso. In discesa sono andato veloce, impiegando 1h 02’, ma personalmente non sento di aver preso rischi. Nei tratti più delicati sono andato cauto e concentrato, facendo attenzione a mettere bene i piedi. Ho approfittato per spingere nei tratti più facili e corribili. Ovviamente ci sono rischi oggettivi che non dipendo da me, come la caduta di sassi, il distacco di seracchi e cedimenti di ponti sui crepacci. Questo è un rischio da tener conto, ma a volte non ci devi neanche pensare».
Quando sei arrivato in cima, come ti sei sentito? Cosa ha significato trovare Marco Camandona? «Pensavo di arrivare molto più stanco e tirato fisicamente, invece ero molto lucido. La salita l’ho gestita bene, se-
condo i miei piani. Marco mi aspettava 100 metri sotto Punta Walker. L’ho preso in giro perché l’ho staccato prima della cima, lui che è l’uomo degli 8000. Condividere l’arrivo in vetta è stato bello; da solo non sarebbe stato lo stesso. Marco lo conosco dai tempi del collegio ad Aosta; è stato lui che mi ha lanciato nel mondo dello scialpinismo e per me è sempre stato un mentore, oltre che un amico. E lo è ancora adesso. Per ogni cosa so che posso contare su di lui, una persona di cui mi fido ciecamente. Se oggi sono l'atleta che sono, è anche grazie a lui».
Quando hai avuto la percezione del record? «Prima di arrivare in vetta ho controllato l’orologio ed ho visto che ero ampiamente sotto i tempi di Mammoliti. Del suo record non ero riuscito a reperire moltissime informazioni, ma avevo degli intermedi di riferimento. Sono arrivato in cima in 2h 17’, lui in 2h 48’. Nella discesa sapevo che potevo contare su condizioni perfette; in basso la neve non aveva rigelato del tutto e potevo andare veloce».
Ironia della sorte. Singolare che il precedente primato risalga al 1993, il tuo anno di nascita. Secondo te, come mai è stato inviolato tutti questi anni? «Tantissimi record sono stati fatti negli anni ’90 (Marino Giacometti, Fabio Meraldi, Bruno Brunod, ndr). Poi tutto si è messo a tacere. Con l’avvento delle gare, probabilmente nessuno ha più avuto la voglia e l’interesse di cimentarsi in queste imprese. Avevano perso attrazione. Con la pandemia queste performance sono tornate in auge, guadagnando l’interesse di media e sponsor. Ai tempi Matteo Pellin, storica guida alpina Courmayeur e grande atleta dello scialpinismo, aveva espresso l’interesse di provare questo record, ma un infortunio gli aveva fatto accantonare l’idea. E non l’aveva più ripresa. È stato lì per 30 anni anche perché pianificare una cosa del genere non è semplice. Ci vuole stimolo e motivazione. Ora vediamo se parlarne invoglierà qualcuno».
Atleta eclettico, con un talento innato per gli sport outdoor. In grado di dimostrare grandi capacità anche su quei terreni che richiedono, oltre a performance e velocità, anche conoscenze e abilità di stampo alpinistico. Sono molte infatti le sue imprese “fast & light”. Nel settembre 2022 aveva stabilito un nuovo record di salita/discesa al Grossglockner (3.798m) per la via Stüdlgrat; qualche mese prima aveva fatto segnare il tempo più noto al Piz Bernina (4.049m) sulla Via Biancograt. A dieci giorni esatti si era preso un altro primato che apparteneva all’austriaco Philipp Brugger, stabilendo il nuovo FKT sulla Hintergrat dell’Ortles. Infine, giusto per non negargli alcun merito, quello strabiliante 2 ore e 02 minuti per salire e scendere il Gran Paradiso (4.061m) nel luglio 2020.
Bernina, Ortles, Grossglockner. Con il Grandes Jorasses hai completato uno straordinario poker. C’è da scommettere che non sia finita qui. «La voce ha già iniziato a circolare, quindi è inutile nascondersi. Voglio iniziare questo grande progetto che è il Cervino. La pulce nell’orecchio l’avevo già messa lo scorso anno, alla fine del mio FKT Project, in un video realizzato per La Sportiva. Alla fine c’era una scena in cui mio nonno, seduto dietro casa con il binocolo, guardava verso il Cervino. Quello era un messaggio abbastanza chiaro per chi sapeva cogliere. È sempre stato un sogno nel cassetto, un cassetto chiuso che non ho mai aperto. Da quest’anno ho deciso di sognare ad occhi aperti. L’idea è quella di metterci il naso e capire se il record è avvicinabile o no. Se sui precedenti potevo andare sul sicuro, il Cervino è un punto interrogativo. Ma qui sento di avere una motivazione in più; questo è un progetto che viene dal cuore. Abitando ai suoi piedi, la cosa che più mi peserebbe, terminata la carriera da sportivo, sarebbe il rammarico di non averci provato».
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PreAlpi Tour Hike&Fly race
Un sogno con la testa fra le nuvole
TEXT MARTA MANZONI, LISA MISCONEL PHOTOS BY ALEX D’EMILIA
“Basta aver sperimentato anche una sola volta la dimensione tridimensionale dell’aria per comprendere che tutto è diverso. Vi è qualcosa che va molto oltre il gesto atletico. Forse questo non è neppure uno sport ma una disciplina. Una disciplina dell’anima e della mente, prima ancora che del corpo”, si legge nella prefazione del libro I Signori del Vento, scritto da Maurizio Bottegal, pilota di parapendio di lungo corso, titolare della Scuola di parapendio Monte Avena, istruttore esaminatore di volo libero, con 13 presenze in Nazionale. Almeno in parte, è proprio a questa filosofia che si ispira l’hike&fly: uno sport a zero impatto ambientale, che si fonda sul connubio tra hiking e parapendio, e celebra l’unione totale con il mondo naturale. L’hike&fly prevede infatti di passare molto tempo da soli, nei boschi e tra le montagne, in quota. Molti atleti di questa disciplina non vengono dal volo libero ma dall’alpinismo e dal trail running. Nel parapendio conta tanto l’esperienza: c’è chi riesce a volare con condizioni che per altri piloti sono proibitive. È uno sport partico -
lare e intrigante da seguire, che sta prendendo piede. L’hike&fly comporta saper gestire tanti chilometri in solitaria, e sostenere una notevole fatica mentale: non è un’attività da prendere sottogamba, e richiede una buona preparazione. “Quando abbiamo iniziato a fare parapendio in Italia esisteva già l’hike&fly: andavamo a piedi in cima al Monte Avena e scendevamo volando, anche se erano solo planate di circa dieci minuti. L’attrezzatura di quegli anni, anche se diversa da quella di oggi, era comunque leggera. All’inizio il parapendio è stato utilizzato dagli alpinisti per scendere velocemente dalla montagna e salire magari due cime, invece che una. In Italia, il parapendio com’è inteso adesso, è nato un po’ dopo, circa nel 1987, quando sono aumentate le sue prestazioni”, racconta Maurizio Bottegal. Lo sviluppo dell’hike&fly è legato all’innovazione di vele e tecnologie, che hanno ridotto il peso dello zaino, consentendo di fare tanti chilometri e centinaia di metri di dislivello. Le variabili in gioco in questa disciplina sono tante, e non tutte controllabili: molto dipende dal meteo, e
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La competizione di hike&fly organizzata dal Para&Delta Club Feltre, torna ancora più in grande nella sua seconda edizione, grazie anche al supporto di Aku.
“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.”
(JURIJ ALEKSEEVIC GAGARIN)
ultimamente è difficile avere delle previsioni affidabili, a causa del cambiamento climatico.
“In 35 anni di volo non ho mai visto questa energia: fenomeni metereologici estremi, inaspettati, che arrivano all’improvviso, si formano velocemente e vanno via rapidamente, con violenza e forte intensità. Stiamo assistendo alla tropicalizzazione delle nostre aree, come conseguenza del riscaldamento globale causato dall’uomo. Essendo sempre per aria, ci accorgiamo di questi mutamenti”, continua Maurizio Bottegal.
Schiz e polenta
Nata nel 2021, con l’intento di valorizzare la montagna e il territorio, dando spazio a piloti con una discreta esperienza ma non per forza professionisti, che desiderano avvicinarsi al mondo delle gare di hike&fly di più giorni, la PreAlpi Tour ha già conquistato i cuori di tanti appassionati. La sua seconda edizione si è svolta dal 20 al 23 luglio 2023, sempre grazie all’organizzazione a cura del Para&Delta Club Feltre situato a Boscherai, nel comune di Pedavena (Belluno), e con il sostegno di Aku. “La storia della gara nasce davanti a un buon piatto di schiz (formaggio tipico della zona n.d.r.) e un bicchiere di vino, tra me e Luca Palma. Abbiamo pensato a una manifestazione che portasse piloti all’interno della montagna così com’è, con le sue genti, le sue tradizioni, i suoi sapori, scoprendo rifugi alpini e malghe”, spiega Marco De Cet, ideatore e direttore della gara. Il campo della competizione sono aree montuose tra loro vicine, ma alquanto diverse: Dolomiti Bellunesi e Trentine, Lagorai, valle di Primiero, Altopiano di Asiago, Pasubio, Prealpi Venete. Ambienti incontaminati e paesaggi spettacolari, che mutano in continuazione: da lassù, i piloti hanno una vista privilegiata, che arriva fino a scorgere il mare della laguna di Venezia.
“È da tanti anni che ci adoperiamo per promuovere il parapendio nella nostra zona, un posto stupendo per volare rinomato a livello internazionale: qui, nel 2017 abbiamo anche ospitato i mondiali di parapendio”, dice Andrea Saioni, Presidente del Para&Delta Club Feltre e membro dello staff che organizza la PreAlpiTour. Circa una cinquantina di iscritti e dieci nazioni coinvolte, tra le quali anche Cile, Argentina, Repubblica Ceca, Spagna, Iran, Austria, Romania, per un totale di 210 km di gara.
“Sin dall’inizio, volevamo che la competizione passasse attraverso i rifugi e le malghe della nostra zona, e che il parapendio diventasse un modo per conoscere i nostri prodotti tipici, apprezzare e valorizzare il territorio, riconosciuto come uno dei migliori posti al mondo per volare. Quest’anno si sono iscritti alla gara anche tanti stranieri. Vogliamo però che la PreAlpi
Tour resti un trampolino di lancio per chi si approccia questa attività, persone che praticano l’hike&fly allo stesso modo e si confrontano alla pari. L’idea è di non avere troppi campioni: se la gara diventasse solo per professionisti perderebbe il suo valore”, racconta Luca Palma, consigliere del Para&Delta Club Feltre e pilota da trent’anni, che per la gara mette a disposizione come turn point il suo ristorante “Genziana”, in Val di Lamen, porta d’ingresso al Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.
Aku, sponsor ufficiale della PreAlpi Tour
Quest’anno la competizione è cresciuta notevolmente rispetto alla prima edizione, grazie anche al supporto di Aku, rinomato brand veneto nato in un laboratorio di calzolai a Montebelluna e sponsor ufficiale della PreAlpi Tour. “L’hike&fly è uno sport vicino ai valori di Aku: è ecologico, e si pratica contando sulle proprie gambe e capacità. È la massima espressione dell’outdoor. Sembra uno sport solitario, ma in realtà è fondamentale il lavoro di squadra. L’aspetto mentale è altrettanto importante di quello fisico: si deve pianificare e studiare, non si improvvisa”, afferma Teddy Soppelsa, Responsabile Progetto di Aku. “Oltre a essere main sponsor dell’evento, Aku ha creato un team di cinque atleti, accomunati da una grande passione per la montagna e per il volo in parapendio. Non siamo andati a cercare professionisti già affermati, ma persone con una base sportiva, che possano essere delle promesse per il futuro, con l’intento di sostenere giovani atleti dell’hike&fly che, come Aku, vivono l'avventura con spirito libero ma consapevolmente, entusiasti per ogni esperienza a contatto con la natura. I nostri atleti in partenza alla PreAlpiTour sono: Julieta Rivosecchi, Giulio Testolin, Simon Gruber, Mirko G.Nenzi. Fa parte del team Aku anche Daniele Paolazzi”, continua Teddy.
Notte prima del decollo
Il momento del briefing è sempre, oltre a rappresentare l’inizio vero e proprio della competizione, anche l’unico vero momento di incontro fra tutti i partecipanti. Ci sono tutti: c’è Aaron Durogati, Heli Schrempf terzo alla prima edizione, Melina Vinci flyer torinese dal grande potenziale, c’è il team Aku con atleti dal background fra i più diversificati e persino Tamara Lunger è stata portata qui come osservatrice esterna dal suo rinnovato interesse per il mondo dell’hike&fly.
Melina è alla sua seconda esperienza al tour: carica e motivata con il ricordo del forte senso
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di community lasciato due anni fa quando insieme ad altri atleti come Giulio Testolin aveva condiviso le ore di stop a terra. “Sarà necessario fare le scelte giuste, valutare bene come muoversi nei passaggi tecnici. Non vedo l’ora di partire, è la mia prima gara di quattro giorni e mi piace l’idea di dover pianificare ogni minimo dettaglio necessario in questo genere di competizioni. È bello vedere che un brand si interessi a questo sport, connubio fra diversi mondi e modi di vivere la montagna.” Questi i pensieri dell’ex olimpionico e atleta del team Aku Mirko Nenzi alla sua prima esperienza su più giorni. Nel team Aku, anche l’argentina Julieta Rivosecchi flyer da cinque anni trentina da tre. Questa per lei sarà una Prealpi speciale: i suoi supporter sono appena arrivati dall’Argentina e pur non avendo esperienza in montagna sono molto preparati per l’organizzazione logistica. Ogni scelta sarà però nelle sue mani ed il consiglio degli altri flyer e del suo team saranno cruciali. Compagno di team ed amico è Simon Gruber, alla sua seconda esperienza a PreAlpi Tour “Mi sento in forma! Nella la mia vita ho cercato il divertimento in tutto e così sarà anche in questa gara. Dopo la prima esperienza due anni fa mi sono preparato ed ho buone sensazioni per i prossimi giorni. Eventi come questo ci permettono di stare a contatto con gli altri flyer e vivere delle vere e proprie avventure.” L’austriaco Helmut Schrempf racconta con emozione quanto questo tipo di eventi siano importanti per stare a contatto con la community descrivendolo “emotional and a hard work” rimarcando anche la tecnicità del percorso che lo rende interessante quanto impegnativo e da non sottovalutare.
Silenzio. Le persone-uccello stanno per decollare *
Gli atleti dispongono di quattro giornate durante le quali raggiungere a piedi o in volo i sette turn point prestabiliti, posizionati presso rifugi alpini o malghe in alta quota: punti obbligatori di passaggio da fare in sequenza, a ognuno dei quali i piloti devono firmare un tabellone, scattarsi una foto e inviarla all’organizzazione al fine di convalidare il passaggio della "boa" e raggiungere il turn point successivo; come farlo è a loro discrezione. “Organizzare una gara del genere comporta un notevole impegno, tra burocrazia per i permessi e le iscrizioni, studio del tracciato, contattare le malghe giuste, seguire la comunicazione. È servito un anno di lavoro: noi siamo tutti volontari, mossi dalla grande passione per il parapendio. Siamo molto soddisfatti: la gara è andata bene, e ci sono stati tanti accessi al portale per il live tracking, con il quale si potevano seguire in diretta i piloti. Diversi atleti
di notte hanno dormito all’addiaccio sotto il temporale: sono tante le dinamiche che rendono unica questa manifestazione. Lo spirito è quello dell’avventura: riscoprire le tradizioni della montagna, assaggiando la torta, il miele fatto dalla malga. Un’esperienza fatta di sapori, emozioni e sport”, racconta Marco De Cet.
Il valore del team
La sfida, per gli atleti, è affrontare il percorso tenendo in considerazione il tempo, le condizioni meteorologiche, l'orografia e la propria forma fisica. Ogni pilota è seguito da uno o più supporter: poter contare su un team a terra, che offre indicazioni sul meteo, informazioni sulla tattica, prepara i cambi e il cibo, e magari precede sul terreno dicendo quale sentiero prendere, è fondamentale. Grazie anche al supporter, lo zaino degli atleti per la gara pesa meno di dieci chili. Il pilota, assieme al suo supporter, dove scegliere le strategie migliori di volo e i sentieri più congeniali per terminare la gara entro il tempo stabilito: per queste ragioni le componenti organizzativa e psicologica, oltre a quella di studio del territorio, sono fondamentali. Le giornate di gara iniziano alle 7 e terminano alle 21, quando i piloti si devono fermare per ragioni di sicurezza. Domenica il tempo limite di arrivo è alle 15. I piloti bivaccano o dormono in tenda o camper, in base a dove si trovano alle 21. In questo modo vivono la natura in maniera diversa, interpretando l’ambiente che incontrano. La comunicazione è stata molto accurata, grazie anche a Mountain Film Crew, che ha realizzato i video e le foto della manifestazione, e al live tracking, sistema di tracciamento in tempo reale, che ha consentito di vedere dove si trovava il pilota. Inoltre, grazie alla Federazione Italiana Volo Libero, ogni sera si è tenuta una diretta, con gli organizzatori, e i piloti, che si sono collegati per raccontare dal vivo le loro impressioni.
Una gara accessibile a piloti non professionisti
La PreAlpi Tour si ispira alla famosa X-Alps, ma le regole e il percorso la rendono accessibile anche a piloti con una discreta esperienza, ma non professionisti: un vivaio per il movimento italiano di hike&fly, e per far crescere i piloti italiani. Si è vista infatti, la differenza tra professionisti come Aaron Durogati, arrivato primo alla gara, e atleti appassionati, che hanno impiegato un giorno in più. “Sono molto soddisfatto: è andato tutto dritto e sono riuscito a chiuderla in due giorni. La gara è stata organizzata molto bene, e il percorso toccava panorami davvero spettacolari: non
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avevo mai visto il 70 per cento dei posti dove sono stato. Il tracciato mi interessava, e così ho deciso di partecipare, con l’obiettivo di vincere: una bella sfida. Anche le condizioni sono state interessanti: il secondo giorno è stato impegnativo con temporali, ho dovuto bivaccare in quota sotto una pietra, e poi volare con vento molto forte. Tutti questi elementi hanno reso la PreAlpiTour molto stimolante”, racconta Aaron Durogati. Grande soddisfazione anche per il secondo classificato, Titta Scalet, che sulla croce del Pafagai ha dichiarato: “Non me l’aspettavo, il mio obbiettivo era arrivare nei primi cinque. Aaron è di un altro livello, tra gli amatori sono arrivato primo”. Qualche ora dopo di lui in terza posizione, è atterrato all’arrivo al Para&Delta Club Feltre, Simon Gruber, professionista dello snowboard freestyle, e atleta del team Aku: “Sono felice e soddisfatto, ambivo ad arrivare nei primi dieci. La PreAlpiTour mi ha regalato davvero tante emozioni: ho scoperto che devo ascoltarmi meglio, fidarmi di più di me stesso. È la mia seconda PreAlpi Tour e sono migliorato parecchio, sia a livello fisico che di tecnica. La voglio sicuramente rifare”. Simon ha passato diversi anni nella squadra nazionale italiana, gareggiando in coppa del mondo con discreti risultati. Da qualche anno vive a Ortisei dove è nata la sua passione per il parapendio e l’hike&fly: “Il momento più duro è stata l’ultima salita sul Monte Avena, mi ha spaccato le gambe, davvero tosta! Mi è piaciuta l’imprevidibilità dell’avventura, non sai mai cosa aspettarti in questa gara, ti obbliga sempre a trovare una nuova strategia. Interpretare il meteo è stato l’aspetto più difficile: normalmente, con queste condizioni non vai a volare. La particolarità della PreAlpi Tour è che ti permette di arrivare in posti veramente belli e selvatici come il Lagorai, dove ho camminato da solo tutto il tempo, in pace. Per farla però è necessaria un po’ di esperienza e saper volare in condizioni più tecniche, non è una gara da tutti. Il tracciato sembra corto, ma non lo è ed è molto tecnico: 210 km e una media di circa tremila metri al giorno di dislivello. Oggi ho usato tutto il giorno le Flyrock, volano!”, ha continuato Simon. “Il team di Aku ha indossato per la PreAlpi Tour la calzatura Flyrock, adatta per questo sport e attività dinamiche. Presenta una impostazione simile a una scarpa da trail running, ma con una struttura più robusta e maggiore durata nel tempo. È veloce da allacciare, ha una suola Vibram Megagrip, alta ammortizzazione, trazione, aderenza, e protezione laterale, per una buona tenuta”. Ottimo risultato per Mirko G.Nenzi, alla sua prima PreAlpi Tour, anche lui atleta del team Aku, arrivato in nona posizione: “È andata meglio di quanto mi
aspettassi, però ho fatto qualche errore di inesperienza sul finale. Queste zone le conosco bene e credo sia un aspetto importante per la gara, per andare a colpo sicuro. Il terzo giorno non abbiamo saputo interpretare bene il meteo. Per questa gara sono fondamentali tanti aspetti: l’allenamento a piedi, l’esperienza in volo, la conoscenza del territorio – anche per capire da dove decollare – la meteorologia, e avere un buon supporter”. Per 15 anni atleta Elite nel pattinaggio di velocità su ghiaccio, disciplina in cui ha disputato numerose gare internazionali e due Olimpiadi, Mirko vola da quando aveva 14 anni: la passione deriva da suo papà. “Questa gara ti permette di vedere posti dove non voleresti mai: luoghi adrenalinici, con un’energia positiva. La possibilità di esplorare ti spinge a dare di più. È una gara impegnativa: le mie gare di pattinaggio duravano tre minuti: stare in gioco per 14 ore, e il giorno dopo ripartire, ed essere sempre focalizzato, è davvero difficile. Ho imparato che posso spingere il mio fisico oltre: spesso i limiti che ci poniamo sono solo mentali. So di avere ancora molto da imparare, di sicuro c’è del margine di miglioramento”, ha continuato Mirko.
La Aku Hike&Fly
Se la PreAlpi Tour è nata come vivaio per piloti che ambiscono a partecipare a gare con chilometraggio maggiore, presto si affiancherà una gara più accessibile che si svolgerà in autunno: la Aku hike&fly Sprint. Considerata una palestra per chi vorrà accedere alla PreAlpi Tour, la Aku Sprint hike&fly è un trofeo di cinque gare, ognuna delle quali toccherà una cima tra la Val Belluna e le Prealpi Venete, e inizierà con la prima tappa il 23 settembre 2023: si parte a piedi, si arriva in decollo, e si scende velocemente, per fare una gara di centro, con una componente tecnica aggiuntiva di precisione. Ogni competizione durerà solo una giornata, ma avrà tutte le caratteristiche dell’hike&fly.
Una terapia dell’anima*
“Una sentita, irrinunciabile, volontà di essere liberi, di disporre completamente del proprio tempo e delle proprie scelte”: sono le parole scritte nella sede del Para&Delta Club Feltre, in ricordo di Adriano Guarnieri, pioniere del volo libero in Deltaplano nella Valbelluna. E sì, non c’è alcun dubbio: la PreAlpi Tour è sinonimo di libertà. Una competizione speciale, un’avventura davvero unica.
*Citazione ispirata al libro I Signori del Vento, di Maurizio Bottegal
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Soltanto un altro reportage della Lavaredo Ultra Trail
Il terzo reportage che scrivo sulla LUT, e, potenzialmente, è il terzo che leggete. Per quanto riguarda atmosfera, situazioni e persone possiamo rimandare agli articoli precedenti. In effetti, la città è come gli altri anni, e le UTMB World Series non sembrano aver portato grossi cambiamenti, sebbene le chiacchiere da spogliatoio, durante la doccia, al palaghiaccio, il sabato sera, imputino a quello tutte le carenze organizzative della gara.
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Il terzo reportage che scrivo sulla LUT, e, potenzialmente, è il terzo che leggete. Per quanto riguarda atmosfera, situazioni e persone possiamo rimandare agli articoli precedenti. In effetti, la città è come gli altri anni, e le UTMB World Series non sembrano aver portato grossi cambiamenti, sebbene le chiacchiere da spogliatoio, durante la doccia, al palaghiaccio, il sabato sera, imputino a quello tutte le carenze organizzative della gara.
Prendete sette o otto uomini nudi, metà con le gambe ancora sporche di fango, l’altra metà con la testa bagnata e la pelle arrossata dal vapore e dall’acqua bollente delle docce, prendete sette o otto di questi uomini, metteteli in uno spogliatoio e dategli un pretesto qualsiasi per lamentarsi, state pur certi che i loro discorsi verteranno sempre sullo stesso argomento: il premio finisher. Il premio finisher della Lavaredo Ultra Trail ammorba la scena del trail running italiano ben oltre il weekend a Cortina, tanto che è piuttosto frequente trovare, il resto dell’anno, gente vestita in abiti civili con una giacca fosforescente o un piumino smanicato che riporta sul petto a carat-
teri cubitali, a mo’ di mostrina militare, il grado più ambito: “finisher”. Quest’anno, come premio assegnano una giacca gialla impermeabile con cuciture nastrate e cappuccio, regolamentare, ad occhio regolarmente venduta in negozio a 200 euro. Nel mondo dei premi finisher e dei riconoscimenti materiali, nel mondo in cui alle gare ci si iscrive per il pacco gara e non per l’esperienza, in quel mondo lì quella giacca non è affatto male. Ciononostante: «Quella di qualche anno fa era più spessa, questo è un sacchetto a confronto.»
«È colpa dei francesi.»
Dannazione, hanno ragione. È tutta colpa dei francesi e dello stramaledetto “Ultra-Trail du Mont-Bleu”, come lo chiama James, because everything is fucking blue. Ma a Cortina, dei francesi, non c’è neanche l’ombra, e a guardar bene, le poche carenze organizzative sono tutte italiane. Tra queste, la scarsità di ristori nella prima metà della UD, pardon, della LUT 80, perché nel nuovo mondo “by UTMB” tutto è per tutti, e tutto deve avere il blasone delle gare più celebri, per essere venduto a costo di chiamarsi allo
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stesso modo. Forse è questa la grande novità delle UTMB World Series, dare a ogni partecipante la sensazione di correre l’UTMB-quello-vero, anche quando partecipa a una 50 chilometri sulle colline di Salisburgo. Comunque, mi convinco che l’amatore medio sappia in generale gran poco del suo sport. Sa gran poco delle dinamiche commerciali, sa gran poco di sponsor, sa gran poco delle aziende, sa gran poco degli atleti. Sospetto che nessuna delle persone in quella stanza conosca il vincitore della propria gara. La Lavaredo è ancora in buona parte una gara veneta, frequentata principalmente da veneti. Il parterre è internazionale, e in città si sentono parlare tante lingue e tanti dialetti, ma senza dubbio quello dominante è ancora il dialetto vicentino. E quest’anno, che il livello è leggermente più basso, anche di più. Che i mondiali di trail hanno dirottato verso Innsbruck molti atleti internazionali si vede soprattutto dall’assenza del nome americano che da un decennio è sempre presente a Cortina: Miller, Hawks, Tollefson, Costales, Krupicka, quest’anno nessuno. Rettifico: Krupicka c’è, ma non corre naturalmente. Presenzia per La Sportiva, per il resto lo vedo gran poco, a parte il mercoledì pomeriggio, fuori dall’albergo.
La presenza di La Sportiva è totalizzante e la città è gialla e nera, con una limitata presenza di blu pantone UTMB in zona arrivo. Se a Chamonix le aziende fanno a gara per accaparrarsi bar, eventi, hotel e bistrot, in cui insediare il proprio quartier generale, e mandano squadre di atleti in divisa a invadere la città, a Cortina quasi scompaiono. Per quattro giorni la famiglia Delladio chiude bottega, prende dipendenti, atleti e bagagli e si trasferisce qui, nella sua nuova Eszterháza, che per una settimana l’anno perde il suo tipico sapore romanesco d’annata e torna a sembrare un normale paese di montagna. Di tanto in tanto qualche nobile romano passeggia scandalizzato per Corso Italia, per lo più quelli che hanno sbagliato
settimana per venirci in vacanza, per poi trovarsi una Cortina invasa da sedicenti corridori con le buffe ai piedi e le unghie marce.
In realtà, il nome grosso americano c’è, ma non è destinato a restare negli annali della gara: cena nel tavolo di fronte, insieme a Michele Graglia, alla pizzeria Il Ponte, in fondo al corso, ordina un’insalata mista. Kelly Wolf mi mette in soggezione: è alta la metà di me ma è tutta nervo, e se per qualche ragione dovesse incazzarsi non vorrei trovarmi nei paraggi. È l’atleta di punta di La Spo e la favorita numero uno della gara regina, ma quando arriva a Cimabanche, verso le cinque di mattina, due mattine dopo, è più di là che di qua. Traffica per qualche minuto nella sua drop bag, in cerca di qualcosa che non sembra trovare, o più probabilmente non sa nemmeno cosa sta cercando. Chiede una minestrina a un volontario, quello le porge il piatto, lei lo fissa per qualche secondo, infine lo butta via. Per vedere scene simili Cimabanche è il posto giusto: appena dopo la notte, metà gara. Durante la notte, LUT attraversa alcuni dei luoghi più umidi del pianeta: Misurina, il lago d’Antorno, i laghi di Landro e infine Cimabanche. All’Auronzo, verso le tre di mattina, tira vento a 50 chilometri orari, ma i primi scollinano in maniche corte, grondi di sudore. Arrivato a Cimabanche, prima dell’alba, mentre io, Ale Locatelli, Marci Marcadella e Andrea Guglielmetti stiamo seduti come quattro vecchi avvolti nei piumini a guardare i passaggi, Robert Hajnal chiede a sua moglie del ghiaccio spray da spruzzarsi addosso, dice che ha caldo, poi si infila del ghiaccio a cubetti nella fascia elastica sulla pancia. Ci sono circa 3 gradi.
Un altro che è venuto a Cortina per colpa dei francesi è Francesco Puppi. Ha corso i mondiali due settimane prima ed è qui più per l’esperienza che per altro, e per una running stone per Chamonix. È a Cortina da solo, non ha una stanza prenotata e dorme in furgone, come tutti gli altri corrido -
ri. Passa il giovedì a chiedere a ogni persona che conosce di fargli assistenza in gara, alla fine accetto io: d’altronde non ho altro da fare e almeno avrò qualcosa da scrivere nell’articolo. LUT50 by UTMB, che chiameremo da qui in avanti col nome che ha sempre avuto, ossia CortinaTrail, per gli amici semplicemente “Cortina” – la Cortina, dicevo, è forse la gara esteticamente più bella del circuito. Si svolge tutta di giorno, è corribile, attraversa i luoghi più belli delle gare più lunghe, ed è la gara giusta per riuscire a godersi il resto della settimana bevendo birre e arrivando al fine settimana ancora con un po’ di contegno. Negli anni ha visto passare personaggi come Zach Miller, che la vinse nel 2018 in 4 ore e 20’. Quest’anno i favoriti sono Francesco Puppi, che deve ancora recuperare dal mondiale, e Nadir Maguet, che arriva da due giorni di corso guide chi sa dove. Il tempo alla partenza fa schifo e si prospetta una delle Cortine più meteorologicamente noiose che si ricordino.
Dal canto mio, l’unico punto in cui mi è consentito fare assistenza a Francesco è Col Gallina, a metà gara: di solito ci salgo solo il sabato mattina, e in realtà il venerdì l’atmosfera è piuttosto spenta, colpa del tempo e del governo. Aspettiamo sotto la pioggia l’arrivo dei primi, inizia a piovere e la temperatura si abbassa rapidamente. Nadir e Francesco corrono la Travenanzes insieme, con un altro passo rispetto al terzo e rispetto a chiunque abbia mai corso questa gara in precedenza, chiacchierano, cazzeggiano. Sono degli outsider, corridori da Golden Trail Series in un contesto di ultramaratoneti e camminatori, poi Nadir inizia a far gara e scendendo da Col dei Bos ritaglia un minuto a Francesco. Quando transita a Col Gallina sembra seduto sul divano mentre Francesco, un minuto dopo, sembra con un piede nella fossa. È trasfigurato, corre guardandosi attorno e non mi vede, gli urlo di guardare davanti e agito le braccia e le borracce verso l’alto. Ha gli occhi iniettati di sangue e non capisce
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granché. Ale mi guarda e con il suo irriducibile aplomb mi dice: «se lo sta cucinando per bene.» In effetti sembra saltare da un momento all’altro. Quando finalmente mi vede si avvicina, afferra le borracce che gli passo e tre gel e dice «e dove dovrei mettere tutta sta roba?» Al Giau, una salita e mezza discesa dopo, perde altri tre minuti da Nadir, e fanno quattro. Noi saliamo in macchina e ci fiondiamo a Cortina: il tracking non prende e lo diamo per spacciato, poi ad un tratto torna il segnale: Fra ha vinto.
Arriviamo a Cortina cinque minuti dopo l’arrivo. Lo recupero in una laterale della piazza, in mezzo al traffico: è da solo e ha le labbra viola e la pelle bianca, le gambe sporche di fango e trema, riesce a malapena a parlare. Lo accompagno alle docce ma troviamo la palestra chiusa. Pioviggina ancora e sta entrando in ipotermia. Telefono al numero di emergenza scritto sul suo pettorale e dopo un po’ arriva una signora tutta trafelata ad aprire il palazzetto anni Settanta in cui si trovano docce e deposito sacche. Ricorda una scuola, forse lo è, gli spogliatoi hanno delle lunghe panche di legno
scuro. Le luci sono spente, e ogni cosa è diventata grigia. La palestra è ancora vuota e ogni rumore rimbomba fino ai corridoi. Lentamente iniziano ad arrivare anche altri atleti e il silenzio un po’ canonico di prima scompare. Faccio una doccia anche io, la prima calda da tre giorni, poi andiamo nel furgone di Francesco e mangiamo del pane vecchio con della crema di mandorle e del miele. Beviamo un tè caldo e restiamo lì a parlare solo marginalmente della gara.
Si può dire che LUT finisca il venerdì sera, ancora prima della partenza della gara. Corso Italia pieno di persone e il Bar Sport: c’è chi ha corso il giovedì, chi deve partire dopo qualche ora, e gli ultimi arrivi della 50 chilometri. È come se tutto questo sport, per un momento, convergesse nell’angolo di quel bar. Ci sono tutti, pure Caleb Schiff, il proprietario di Pizzicletta, la pizzeria degli ultrarunner di Flagstaff, Arizona. Si bevono birre e si incontrano persone che si vedono una volta l’anno. Poi il sole tramonta e si accendono le luci di Corso Italia, Morricone, l’Estasi dell’oro, e tutto inizia davvero, un’altra volta.
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Francesco Ratti An infinite ridge
BY CHIARA GUGLIELMINA
L’appuntamento era per le otto e trenta in un ristorante di Valtournenche di cui non ricordo il nome. Francesco era in ritardo. Quando arrivò scese dall’auto con sua moglie e allungò la mano verso la mia, la presa era solida, la stretta decisa. La pelle sembrava corteccia secca, e le nocche gonfie facevano somigliare le dita a delle tozze canne di bambù. Alzai involontariamente lo sguardo poco sopra la sua testa, un triangolo di roccia con la punta mozzata ci guardava. Tutt’intorno un cielo scuro e qualche stella illuminava la neve appesa alle pendenze possibili. La stretta di mano della moglie era più gentile, ma sapeva di montagna. Durante la cena parlammo di alpeggi e di tome, di turismo, di clima e di ambiente. Valori seri difesi con fermezza, ma ancora niente alpinismo. Ordinammo il caffè e ancora non sapevo cosa avremmo fatto l’indomani.
Presi coraggio: “A che ora domattina?”
“7:30 alla biglietteria.”
Informazioni scarne.
“Cosa porto?”
“Casco, imbrago, pelli, daisy chain, due ghiera, un discensore e un paio di cordini, se li hai.”
“Ho tutto.”
“Magari iniziamo col Breithorn, saliamo con le pelli dal Plateau. Poi vediamo.”
“Va bene.” risposi senza fare altre domande. Bevemmo un Genepì del posto, salutammo una grande tavolata vicino al bancone del bar e uscimmo dal locale. In quel momento nessuno gli dava le spalle, la parete sud del Cervino, insieme a quella delle Grandes Murailles, era ora un muro bianco e altissimo davanti alle nostre facce. Un silenzio tombale, sembrava di essere in Himalaya in quelle notti in cui la luna è più grande e il cielo più vicino. Nell’oscurità notai la sagoma di una cresta infinita, che correva nel buio senza interruzioni fino a scomparire alla mia sinistra, dietro i larici scuri. Sapevo tutto dell’impresa del 2020 di Francesco e François: erano stati i primi a concatenare, in pieno inverno, la cresta Furggen, il Cervino, le Grandes e le Petites Murailles.
Sapevo dei tre tentativi degli anni precedenti, dei -23°C alla partenza dal Colle del Teodulo, sapevo persino a cosa si riferivano quando parlavano della “fossa dei leoni”. Sapevo tutto eppure non sapevo nulla. Guardavo immobile quella linea nella notte e mi chiedevo come doveva essere, la stessa scena, a prospettiva invertita. M’immaginavo i due alpinisti avvolti nell’ombra, rimboccati nei sacchi a pelo, che ricambiavano il mio sguardo lontano.
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Una cresta infinita.
Quella sera a cena non parlammo molto di alpinismo, sembravamo ignorare che la montagna più affascinante delle Alpi fosse lì a guardarci, al di là del vetro sottile delle finestre. Mangiavamo pane e formaggio a testa bassa, quasi a volerla infilare nel piatto. Come quando una bella donna entra in una sala gremita: pare indecoroso stare lì a fissarla, ed è più facile abbassare il mento. Un po’ per rispetto, ma più per timore.
Cosa voleva dire con “poi vediamo”? Cosa aveva in mente Francesco? Quella sera mi addormentai con quel pensiero.
La sveglia suonò alle sei e trenta. Anche dal tavolo della colazione la parete della montagna ti avvolgeva, ricurva su di te. Come se la vetta non volesse smettere di muoversi, di crescere. Un tazzone di yogurt e cereali e un caffè nero prima di iniziare la giornata. La domanda della sera prima, mentre cercavo di individuare la Capanna Carrel tra la Testa del Leone e il Pic Tyndall, era più insistente. Non mi dispiaceva l’idea di sciare sul Breithorn, ma io volevo toccare la roccia del Cervino. Alla biglietteria cercavo una giacca rossa, sapevo che Francesco, parte della storica Società Guide del Cervino, vestiva Millet. Era perfettamente a suo agio nei panni di quei pionieri che con lo zaino simile al suo salirono l’Annapurna nel 1950. Che con quello stesso marchio aprirono gli orizzonti dell’alpinismo. Ci salutammo come due che hanno condiviso il tempo di una bourguignonne e salimmo sulla funivia che porta a Plateau Rosà. Tempo bello e poche parole, la giornata era iniziata.
La salita al Breithorn Occidentale è una scialpinistica in quota senza particolari difficoltà. La cima, vista dal Piccolo Cervino, è una cupola di neve appoggiata su un seracco sospeso a strapiombo sul versante svizzero. Quel giorno il caldo seccava la gola e appesantiva il passo, ma considerato il peso degli zaini tenemmo un buon ritmo. Volevo sapere cosa si provasse a camminare soli su quella linea sottile, in equilibrio tra Italia e Svizzera. Lassù, esposti.
La presi larga: “Quindi tu non sei originario di Cervinia?”
“No, vengo da Lecco.”
“E come mai sei venuto proprio qui?”
“Nel 2015 ho deciso di trasformare la mia passione in un lavoro e pochi posti offrono quello che offre il Cervino.”
Una traccia ben visibile attraversava il pendio pianeggiante che collega il Piccolo Cervino alla base della salita. Dopo un paio di inversioni, quando la pendenza diventa importante, il Matterhorn. Ora si vedeva per intero, più grosso, più alto. La metà di una piramide con due facce e tre spigoli, la parete sud, la est, la cresta di Furggen, che le separa nel mezzo, e ancora la cresta De Amicis e la cresta dell’Hörnli.
Davanti a me Francesco, anche lui lassù pareva diverso. Più leggero. Mi fermai per guardarlo meglio: una figura sottile, con testa incappucciata e mento sprofondato nel collo della giacca rossa, saliva spedita.
Con l’umiltà di chi, davanti a un’opera grande, procede a testa bassa. Me lo immaginai su quella cresta rocciosa, una minuscola sagoma lontana. E mi accorsi in quel momento, che i corpi di donne e uomini che scalano montagne, visti dal basso, non sono altro che microscopi puntini invisibili. Sospesi in un’altra dimensione. Corpi bellissimi privi di materia, quasi non esistessero.
“Com’è stato collegarle tutte?” gli domandai prima di raggiungere la cresta verso la cima.
“La mia vita è tutta qui, per me sono le montagne di casa. È stata piuttosto dura, ma è stato un traguardo importante.”
Capii presto che Francesco Ratti è un uomo silenzioso. Un alpinista vero, che va in montagna per il più semplice dei motivi: perché ama farlo. Senza vanto né competizione, se non con sé stesso. Uno che non ha ceduto a quella bastarda tentazione che induce a parlare prima di fare. Francesco fa e, casomai, dopo, racconta. Più probabilmente, però, ti porta a fare una bella uscita in montagna, ha capito che può essere più utile per tutti. E visto che parlò poco ve lo racconto io cosa fece, di preciso, nell’inverno del 2020. Dal 20 al 23 gennaio, insieme all’amico François Cazzanelli percorse, nelle giornate più fredde dell’anno, la
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cresta di proporzioni himalayane che unisce le 20 vette che affacciano su Valtournenche. 51 chilometri di strapiombi, altezze estreme e passaggi vertiginosi. 4800 metri di dislivello positivo. Una cresta infinita.
Intanto lassù, noi altri, eravamo sulla sommità della cupola bianca. Il caldo aveva lasciato posto a gelide raffiche di vento. Sulla cima non restammo più di qualche minuto. Io mi sporsi per guardare giù, sul versante svizzero, le crepe profonde del ghiacciaio. Francesco si raccomandò di fare attenzione e mi indicò la strada verso casa.
“La vedi là dietro? Dietro il Lyskamm? C’è la Capanna Margherita.”
La vedevo. Li vedevo quasi tutti, da lassù, i Quattromila del Rosa.
Non era neanche mezzogiorno e stavamo sciando sul Breithorn, qualche decina di metri sopra quel seracco sospeso, eravamo minuscoli puntini invisibili. Sulla via del rientro, al riparo dal vento, faceva di nuovo caldo e la borraccia era già vuota da un po’.
“Salgono altri ragazzi da Cervinia, altre guide, ti va di salire il Piccolo Cervino con noi? Facciamo una via semplice.” mi chiese mentre toglievamo le pelli agli sci.
“Guarda che non sono un’alpinista.” risposi.
“È davvero semplice, fidati.” ribatté.
Poco dopo eravamo legati alla stessa corda, le gambe spalancate su un diedro aperto e le mani su una roccia rossa, rotta e bellissima. Stavamo scalando il Piccolo Cervino per la Via dei Professori, un’arrampicata in quota di 240 metri di sviluppo con difficoltà mai oltre il V grado.
“Cosa pensi del futuro dell’alpinismo? Visto le gravi ripercussioni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla montagna.” chiesi raggiunta la prima sosta.
“Penso che sarà fondamentale trovare vie alternative per portare avanti la nostra professione di alpinisti e di guide alpine. Esplorando nuovi terreni, nuove quote, magari con attività diverse. L’adattamento, come da sempre nella storia dell’uomo, sarà la chiave.”
La ricordo come una giornata ricca. E scalando capii cosa intendessero, i libri, quando parlavano di “roccia marcia”. Alcuni appigli erano ottimi, tolto il fatto che ti restavano in mano. Muri di lame verticali luccicavano al sole e ogni movimento, ogni suono, era naturale e lieve.
Sono in tanti a voler sapere perché gli alpinisti scelgano di fare gli alpinisti. Io non ne so molto, ma posso dirvi che scalando con Francesco, immersi in quel mondo instabile, mi sono sentita più salda che mai.
Ci si sente leggeri a essere nessuno, seppur nel tempo di una scalata in montagna.
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Sono in tanti a voler sapere perché gli alpinisti scelgano di fare gli alpinisti. Io non ne so molto, ma posso dirvi che scalando con Francesco, immersi in quel mondo instabile, mi sono sentita più salda che mai. Ci si sente leggeri a essere nessuno, seppur nel tempo di una scalata in montagna.
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Mirage: l’FKT di Timothy Olson sul Pacific Crest Trail
Il Pacific Crest Trail è uno dei tre cammini a lunga percorrenza americani compresi in quella che, nell’ambiente, viene chiamata Triple Crown of Hiking, di cui fanno parte, oltre appunto al PCT, anche l’Appalachian Trail e il Continental Divide Trail. Tutti e tre i cammini attraversano il paese verticalmente, da nord a sud o da sud a nord, a seconda del senso di percorrenza, e attraversando climi e ambienti molto diversi tra loro. Se l’Appalachian Trail percorre da nord a sud 14 degli stati occidentali degli Stati Uniti e il Continental Divide taglia in due il paese al suo centro, sullo spartiacque naturale che divide la Baia di Huston sull’atlantico dal bacino idrico del Pacifico, il Pacific Crest Trail percorre, quasi obbligatoriamente da sud a nord, le catene montuose più occidentali, quelle della California, dell’Oregon e dello Stato di Washington, dal confine col Messico a quello col Canada, attraversando il deserto del Mojave, le montagne di Los Angeles, la Sierra Nevada, e il Cascade Range, per 4265 chilometri e su un’altitudine compresa tra i 40 e i 4000 metri di altezza. La storia del Trail ha 55 anni, venne infatti aperto nel 1968 su volontà del Congresso degli Stati Uniti, e da quel momento è diventato uno dei percorsi lunghi più celebri e ripetuti al
mondo. Nella primavera 2021, Timothy Olson, ultrarunner conosciuto nell’ambiente per il suo carattere pacato e il suo atteggiamento umile, ancor prima che per le sue due vittorie a Western States del 2012 e del 2013, partì per il tentativo di registrazione dell’FKT del percorso, precedentemente detenuto da Karel Sabbe in 52d 8h e 52’, accompagnato dal suo coach Jason Koop, un riferimento nella scena ultra americana, da una troupe di due filmer, da sua moglie, incinta al settimo mese, e i loro due figli.
Il Pacific Crest Trail occupa un posto speciale tra gli FKT americani: fino a poco tempo fa rientrava infatti tra le première routes, ossia gli FKT più importanti per tradizione, storia e difficoltà. Solo recentemente, tuttavia, è stato rimosso da questa lista, a causa degli incendi che sempre con maggior frequenza colpiscono la California, e quindi il percorso, nel periodo di normale percorrenza del sentiero.
Durante il suo tentativo, proprio a causa degli incendi che hanno coinvolto la Sierra nell’estate del 2021, Timothy è stato costretto a uscire più volte dal percorso, restando costantemente in contatto con i responsabili regionali di fastestk-
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INTERVISTA AL REGISTA KEITH LADZINSKI BY FILIPPO CAON PHOTOS ANGELA PAYNE
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nowntime.com per assicurarsi che ogni modifica non invalidasse il suo tentativo. Dal suo FKT, questa primavera, è uscito in première negli Stati Uniti il documentario Mirage, che in circa un’ora di montato racconta la storia del suo viaggio. Noi lo abbiamo guardato in anteprima e abbiamo scambiato due parole col regista, questo è quello che è uscito. Buona lettura.
Una cosa che mi piace del film è che sia molto lungo: una decina d’anni fa, ormai anche qualcosa di più, era piuttosto frequente vedere film sulla corsa più lunghi di un’ora. Unbreakable dura un’ora e mezza. Sono contento di aver rivisto un film così lungo anche perché l’argomento lo richiedeva, da un punto di vista narrativo. Sono contento che ti sia piaciuto, non è nulla in confronto a quello che ha fatto Tim, ma il film, da un punto di vista registico, è stato piuttosto difficile da realizzare. Ho conosciuto Tim nel 2017, durante uno shooting per delle scarpe, io ero fotografo. Siamo diventati amici abbastanza presto, vivevamo entrambi a Boulder, ci vedevamo regolarmente, talvolta andavamo in montagna insieme e siamo diventati amici. Così abbiamo iniziato a lavorare di più insieme, principalmente grazie ad Adidas, fino a che nel 2021, ci trovavamo a Bishop, California, mi disse che voleva tentare il record del PCT e mi chiese di fare qualcosa per raccontarlo.
Qual è stato il tuo primo pensiero, quando hai capito di dover fare il film, per le difficoltà logistiche da affrontare e per l’organizzazione del lavoro? Sapevamo fin da subito che sarebbe stato un incubo a livello logistico. Il PCT percorre sentieri naturalistici in buona parte inaccessibili in auto e comunque anche molto distanti da raggiungere, inoltre lui sarebbe stato un target in continuo movimento e avremmo dovuto inseguirlo, localizzarlo, sapere come raggiungerlo e così via. Per lo più lavoravamo nelle aid station che organizzava la sua crew andando avanti e ci organizzavamo di volta in volta. Onestamente ho lavorato solo in minima parte alle riprese, ho assunto un direttore della fotografia e un assistente, Chris e Stephen, abbiamo comprato un van e abbiamo
seguito la famiglia di Tim lungo il percorso per tutta la durata del tentativo. Come regista, volavo periodicamente sul percorso per seguire il lavoro, per aiutare la mia troupe. Ma prima di iniziare sapevamo che saremmo andati in contro a qualcosa in continuo movimento. Chris e Stephen sono stati molto bravi da quel punto di vista, sia a seguirlo che integrandosi a quello che faceva la crew di Tim, e facendogli assistenza a loro volta.
Potevate fargli assistenza anche voi, quindi? Durante il tentativo? Sì, i ragazzi che filmavano hanno anche fatto assistenza, Christa era incinta e non riusciva a fare alcune cose.
Principalmente gli hanno portato acqua e cibo quando lo incontravano sul percorso per riprenderlo e cose del genere.
Quante ore dormivano per notte? Non molte, finivano alle 10 di sera e ripartivano alle 5 la mattina.
Penso che Tim sia una figura molto positiva per questo sport, non conosco la sua storia nel dettaglio naturalmente ma ha avuto dei momenti bui nella vita, e per certi aspetti si vede anche nel film. Come ti sei rapportato con questa cosa per girare il film? È vero, no, è una buona domanda. In pre-produzione abbiamo deciso che il film avrebbe parlato della loro famiglia. È abbastanza normale nel mondo dell’ultrarunning assistere a tentativi simili, ma normalmente l’atleta sceglie una crew abbastanza diversa. Loro sono stati molto bravi ma naturalmente portare con sé i bambini comporta alcuni problemi a livello organizzativo, senza considerare che Christa era incinta appunto. Quindi come regista ho deciso che quella sarebbe stata la storia più interessante: certo, Tim che prova il record è già di per sé una buona storia, ma unire queste due cose sarebbe stato più interessante. Inoltre volevo anche raccontare di quanto Christa sia forte come persona, nel riuscire a gestire e portare avanti una situazione del genere, e dall’altro lato anche Tim, che comunque correva continuando a preoccuparsi della famiglia. Per lui forse è anche stato un fattore motivante: arrivare al camper ogni sera rappresentava un po’ una linea d’arrivo, proprio per il fatto che c’era la sua famiglia.
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Una cosa bella di questo sport è proprio la possibilità di condividere queste esperienze con altre persone. È abbastanza frequente vedere persone che hanno perso qualcuno, o magari hanno perso tutto, partire per il PCT. È come se per qualcuno diventasse un punto di svolta, o un piano B nella vita: mollare tutto, prendere e andare. È stato così per Tim? E nel caso come hai raccontato questa cosa? Anche perché solitamente gli atleti fanno questo genere di record verso la fine della loro carriera sportiva, se non appena dopo aver smesso di fare gare. È vero, molte persone raggiungono certi risultati da un punto di vista sportivo o personale realizzandoli come una sorta di purificazione. Tim e Christa volevano che quello che stavano per fare era qualcosa che riguardava più loro come famiglia e l’esperienza di affrontarlo, che il record in sé da un punto di vista sportivo. Ripeto, questa, secondo me, è stata una cosa positiva da un punto di vista motivazionale. Per loro era un processo di purificazione. Per quanto riguarda la carriera sportiva di Tim, non posso parlare per lui, ma penso che lo abbia tentato ora perché sa di aver raggiunto una capacità fisica e mentale tale da poter affrontare una cosa simile.
Mhmm, forse è vero, forse non è qui e non puoi parlarne. Ma sai, raccontiamo entrambi delle storie, e per quanto vorrei fare a Tim le stesse domande, trovo affascinante la tua opinione almeno quanto la sua, proprio perché sei quello che ha raccontato la storia. A questo proposito, pensi che per Tim il PCT sia stato un’ossessione? Sì. Quando si è trasferito ad Ashland, Oregon, è entrato a far parte della comunità di ultrarunner locali, là è molto grande e importante. In quel periodo fece un viaggio con Christa sul PCT, e se ne innamorò ancora prima di iniziare a vincere le gare, quindi parliamo di quindici, sedici anni fa. Un giorno stava correndo sul sentiero e incontrò Scott Jurek, così lentamente iniziò a costruirsi l’idea che un giorno avrebbe potuto provare l’FKT. Incontrò Scott sul percorso e corsero un po’ assieme, fino a quando Tim disse a Scott: “vorrei provare a correre per
l’FKT un giorno”. Così Scott gli diede qualche consiglio e alla fine lo fece, iniziando a pensarci anni e anni prima di vincere anche una sola gara. Penso che ci sia qualcosa di magico in cose del genere. Quando Alex Honnold scalò il Capitan in free solo ci pensava già da anni, ne avevamo parlato con lui addirittura nel 2009. Tim sapeva da anni che un giorno lo avrebbe provato, e quando poi lo vedi accadere è molto bello.
Vedi qualche relazione tra scalare in free solo e correre un percorso così lungo? Certo. Sai, il free soloing è molto pericoloso, correre no. Ma la principale relazione è probabilmente mentale, sapere di dover continuare perché non ci sono altre scelte. Quello che ha fatto Alex è naturalmente molto pericoloso, ma anche lì, essere stanchi non è una possibilità, quando hai 800 metri di vuoto sotto di te. E così quando corri un FKT come quello del PCT, in cui corri 80 chilometri al giorno per giorni e giorni, essere stanchi non è una possibilità, non ci sono alibi. Tutto sta nella tua capacità di essere concentrato e focalizzato su quello che stai facendo. Le persone che hanno la capacità di fare quella cosa, di restare presenti e concentrati, ottengono grandi risultati.
Com’è andato il tour del film? Molto bene, grazie. Le persone ai festival lo hanno apprezzato, io sono molto contento ma soprattutto sono felice che Tim abbia potuto raccontare la sua storia attraverso il film e raggiungere tante persone in giro per il mondo.
Se i nostri lettori lo volessero vedere? Stiamo discutendo i deal e valutando varie possibilità, in ogni caso nei prossimi mesi sarà disponibile online in modo che le persone possano vederlo.
Grazie, magari ci vediamo a Boulder. Certo, ci beviamo un caffè insieme.
Qual è il tuo posto preferito a Boulder per un caffè? Oddio, ce ne sono tanti. Onestamente? Casa mia, perché ho un’ottima macchina per fare il cappuccino.
Grazie ancora.
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TEXT & PHOTOS BY DANIELE MOLINERIS
Eli Egger La Primadonna
che ha cambiato la storia
di RedBull X-Alps
Promessa
"Se mai un giorno avrai bisogno di un supporter, sappi che potrai contare su di me." Era inizio luglio del 2019, io ed Eli stavamo guidando verso Monte Carlo, facevamo entrambi parte del team di Aaron Durogati e stavamo per finire la nostra prima X-Alps a supporto di un atleta. Non sapevo se lei avrebbe mai provato ad affrontare una gara simile, non lo sapeva nemmeno lei, ma io avevo deciso che se fosse successo non me lo sarei perso. Ne abbiamo poi fatta un’altra insieme due anni dopo, sempre nello stesso team e siamo diventati amici o qualcosa di simile. Nel settembre dell’anno scorso Eli mi ha chiamato e mi ha chiesto se la mia promessa fosse ancora valida, perché era ufficiale: era stata selezionata per partecipare all’edizione 2023 dell’X-Alps.
Regole
Per chi non la conosce, la Red Bull X-Alps è una gara di hike and fly e c’è chi dice sia la gara più dura del pianeta. Io non so se sia la più dura, ma di sicuro non è per tutti. Bisogna essere bravi a volare in parapendio, molto allenati a camminare in montagna e per partecipare bisogna superare una selezione. Quest’anno i partecipanti erano 32 di cui 4 donne. Le regole sono abbastanza semplici, si può solo camminare o volare, bisogna passare in determinati turn point, alcuni a terra con un signboard da firmare, altri sono dei punti GPS da toccare in volo. Di notte bisogna riposare almeno sette ore senza la possibilità di muoversi. E poi,
come in tutte le gare, il primo che arriva vince. Si parte dall’Austria a si attraversano le Alpi da nord toccando Germania, Svizzera e Francia, si gira attorno al Monte Bianco e si torna da sud in Italia e poi di nuovo Austria. É un giro che ti stanchi anche solo a pensarlo. È pesante per noi, che ci possiamo spostare in auto, lo è per gli atleti che possono contare soltanto sulle proprie energie. Quest’anno il meteo per fortuna era buono e si è volato parecchio, ma questo non ha evitato ad Eli almeno 2000 metri di dislivello al giorno. Ogni atleta deve portare sempre con sé la propria vela, l’imbrago, il casco e altri strumenti obbligatori. Per portare il resto ci sono i supporter.
Team Aut4
Eravamo in quattro ad aiutare Eli, Nadine era la main supporter, quella incaricata di comunicare ufficialmente con la direzione gara, quella che ha reso la loro partecipazione la prima partecipazione interamente femminile e quella che ha camminato praticamente ogni singolo metro di dislivello. Poi c’era Verena che fa la fisioterapista, Benschi incaricato di gestire il cibo e io che dovevo occuparmi di raccontare questa avventura con le mie fotografie. In più, da casa sua nei Pirenei, Julien teneva sotto controllo meteo, rotte e spazi aerei e li comunicava in tempo reale ad Eli, mentre era in volo. E poi ognuno di noi a turno guidava, anticipava per trovare posti per la notte, faceva la spesa o camminava.
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Ballast
Eli è leggera, la più leggera dei piloti, ma per volare bene quel tipo di parapendio bisogna essere pesanti, altrimenti corri il rischio di farti portare in giro dalla vela. Così oltre al cibo, i cambi e la nostra attrezzatura dovevamo portare in decollo il ballast: una zavorra. Eli volava con un gilet di 7kg e una borsa d’acqua di 9kg attaccata all’imbrago. Questo rendeva la vita difficile a noi, che dovevamo portarli nello zaino e a lei perché non le permetteva di atterrare ovunque, è impensabile camminare fino al decollo successivo con l’aggiunta di quel peso. Il ballast ci ha complicato la vita, ma eravamo pronti.
Prove generali
Nel weekend di Pasqua ci eravamo trovati nella zona di Cavalese per fare delle prove, per conoscerci e capire i ruoli e lo spazio che occupava ognuno di noi con la nostra attrezzatura. A parte Eli io non avevo mai visto nessuno prima e dal mio punto di vista la lingua è stata l’ostacolo più difficile perché, seppur con tutti i buoni propositi, è difficile abituare un gruppo di austriaci a parlare inglese tra di loro e mi sono trovato spesso fuori dai loro discorsi, ma era una cosa
che mi aspettavo, in fin dei conti è normale. Mi ero anche chiesto perché c’ero io con quel gruppo di persone e l’ho capito con il passare dei giorni. Io ero l’unico del team ad avere preso parte ad altre X-Alps e non immaginavo quanto, quel tipo di esperienza, mi sarebbe tornata utile per gestire i momenti più difficili. Perché quelli arrivano, è inevitabile, e noi non eravamo amici. Ma siamo stati bravi a stringere i denti e a superare anche i momenti di tensione, a guardare avanti: l’obiettivo era lo stesso per tutti.
Target
La Francia, il nostro target era arrivare in Francia. Considerando le passate edizioni, con i problemi meteo e alcune nuove regole noi saremmo stati contenti di arrivare a vedere il Monte Bianco. Ci sono atleti che a terra sono fortissimi, che non hanno bisogno di quel peso in più e che in giornate di brutto tempo possono fare molta strada; Eli era allenata ma non a quei livelli e lo sapeva. E poi si vola sulle montagne, quelle vere, e le condizioni non sono mai semplici, bisogna essere piloti esperti in quel tipo di competizioni, bisogna essere pronti a decollare in situazioni al
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limite ed Eli, anche se sa volare molto bene, era una X-Alps rookie. L’unica opzione era cercare di evitare il brutto tempo e volare il più possibile. Per fortuna le condizioni erano buone e, nonostante un inciampo il primo giorno che ci ha visti al penultimo posto, Eli ha iniziato a recuperare una posizione alla volta. Alla fine sarà l’atleta che in questa edizione ha volato di più. Con Julien nelle orecchie a consigliarle dove andare, quando attraversare una valle o dove trovare un buon decollo ci siamo trovati a Chamonix molto prima delle aspettative. E allora non rimaneva altro da fare che andare avanti con un po’ di leggerezza in più, perché da lì in poi era tutto di guadagnato.
Storie
Gare come questa sono vissute a pieno da tutti i componenti del team: c’è l’atleta e ci siamo noi supporter, ognuno ne vive un pezzo e la vive con il proprio punto di vista ed aspettative. Abbiamo avuto incomprensioni, decisioni complicate ed ognuno era preparato in modo diverso. Io sapevo già cosa mi aspettava, conosco Eli e so che il suo carattere la rende dura in situazioni di stress, è una cosa che sapevo avrei dovuto gestire. Conoscevo quella stanchezza, sapevo che avremmo dormito poco e scomodi, che avrei editato le mie fotografie di notte nella tenda, che ci saremmo lavati quando c’era la possibilità e che avremmo faticato tanto. Abbiamo macinato metri di dislivello con zaini improponibili e guidato per ore, certe volte inutilmente. Passare da una valle all’altra in volo richiede molto meno tempo che farlo con un furgone, ed è facile essere in ritardo. Io personalmente ho faticato parecchio perché ho cercato di raggiungere più decolli possibili per poterli fotografare, e mi sono sentito da solo per via della lingua. Non c’è stato niente di facile, ma è un tipo di difficoltà che mi fa bene, quell’essere costantemente sotto pressione è una cosa che mi manca una volta finito tutto. Come sempre mi sembra di perdere tanti
momenti della gara perché io posso raccontare solo il mio punto di vista, che sarà diverso da quello di tutti gli altri e la posso raccontare solo con la mia voce, che è l’unica che conosco, e sapere che Eli ha voluto me per questa sua prima volta ha dato un senso e un valore al mio lavoro. Perché il valore delle fotografie, al di là di quello economico, è che siano importanti per qualcuno, che non siano solo belle, che siano buone.
Primadonna
E così dopo Chamonix è arrivata la Valle d’Aosta, poi Domodossola, la Valtellina e le Dolomiti. Proprio in quei posti in cui avevamo fatto il nostro training di Pasqua ma che sapevamo non avremmo mai raggiunto. E invece dopo 10 giorni, 5 ore, 18 minuti e 38 secondi di gara Elisabeth Egger, austriaca, classe ‘95, è arrivata a Zell am See, alla fine di questa avventura, alla fine della gara. Nessuna ragazza ce l’aveva mai fatta, nessuna delle altre ragazze è riuscita ad arrivare alla fine. In 20 anni di storia della Red Bull X-Alps Eli è la prima ed unica donna ad averla terminata. E non importa se sono cambiate le regole e che il meteo fosse particolarmente buono. Nella storia di questa gara comparirà il suo nome e nella storia di Eli compariranno i nostri, che l’abbiamo accompagnata nella sua avventura più grande e difficile. Che senza di noi o con qualcun altro magari ce l’avrebbe fatta lo stesso, ma sarebbe un’altra storia. Io personalmente mi sono trovato di nuovo a dover gestire tante emozioni che rendono il ritorno a casa sempre un po’ complicato perché tutto diventa più lento, con la sua routine. Con il mio lavoro di fotografo solitamente racconto storie senza esserne parte, ma ci sono storie in cui riesco ad immergermi completamente, in cui do tutto e di cui divento parte. Storie che vale la pena vivere. Anche se io non sono in quelle fotografie, io sono quelle fotografie. Per sempre.
Promessa mantenuta.
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Diadora on the trail
Diadora Sestriere-XT: a trail running story
Il respiro affannato. I polmoni che lottano alla ricerca d’aria. Il cuore che rimbomba nelle orecchie. Le mani sulle ginocchia – il sentiero è molto più ripido di quanto non avessi pensato. Attraversa prati verdi mentre montagne rocciose ci circondano. Le cavallette saltano nervosamente nell’erba. Delle mucche ci osservano passare, pigre. Api laboriose passano da un fiore all’altro. Ogni cosa è estremamente viva. E tuttavia, finché non ti fermi a guardare da vicino, tutto appare immobile.
137 TEXT FRANCESCA JOANNAS PHOTOS ERIC SCAGGIANTE CREATIVE DIRECTION MENTAL ATHLETIC POWERED BY RUNAWAY
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Le montagne d’estate sono tra le cose più dolci che si possano vivere. Un momento di tenerezza tra l’inverno appena passato e quello che verrà. Ti fanno sentire vivo. Da poter correre per chilometri e chilometri. Rubando del tempo da una vita frenetica per qualcosa che è fine a sé stesso. Lontano da luoghi che ci rigettano e da sistemi che ci trascurano.
In una parola, esistendo, e nel modo più sincero possibile. Sono convinta che non si possa mentire mentre si corre. Non puoi prendertela che con te stesso. Non puoi essere fiero che di te stesso. Non puoi fidarti che di te stesso e della tua attrezzatura.
Le scarpe dovrebbero diventare un’estensione del corpo. Dovrebbero essere studiate in modo da supportarti ovunque, così che l’unica cosa a cui devi pensare è muoverti, leggero e veloce. Dopotutto, correre ti fa vivere i luoghi che attraversi. E solo dove sei stato a piedi sei stato davvero. Correre ti porta in una sorta di dimensione parallela, uno spazio temporale nel quale fluisci attraverso un comples-
so insieme di emozioni – fatica, pace, dolore, euforia. La cosa è che a volte i tuoi piedi sono leggeri, altre molto pesanti. Il gioco è di imparare a leggere il sentiero come un libro, usando le scarpe come degli occhiali. Per questo vanno scelte accuratamente.
Avete mai sentito il suono di uno stambecco che corre? Come rocce che rotolano. Una frana lontana. Ma con delicatezza, con controllo. Un quieto galoppare, con fiducia. Tutta questione di evoluzione e di consapevolezza. L’evoluzione naturale ha fornito allo stambecco uno zoccolo peculiare. Rigido all’esterno, per un maggior grip ed equilibrio sulle superficie rocciose; più morbido all’interno, costituendo una sorta di freno.
Uno strumento su cui fare affidamento senza alcun dubbio, anche in situazioni al limite della forza di gravità. E avere gli strumenti giusti cambia la percezione che si ha del vuoto e del pericolo. Così come correre su terreni selvaggi e ripidi. Per noi, invece, diventa una questione di evoluzione tecnologica. La biomimetica è il ter-
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mine con cui si definiscono collettivamente le tecnologie che si ispirano a soluzioni simili a quelle che in natura sono adottate da piante e animali. In biomimetica, i processi biologici e biomeccanici della natura e degli esseri viventi sono resi fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane. In poche parole: evoluzione tecnologica che impara dall’evoluzione naturale.
Con Sestriere-XT, la sua prima scarpa da trail, Diadora ha messo quest’evoluzione al servizio del trail runner. Un modello per correre come uno stambecco, il primo con tecnologia XT. Quest’ultima è ispirata alla conformazione di uno zoccolo animale.
Osservando la suola, vediamo due tipi di gomma, con una doppia densità – uno morbido al centro, uno duro all’esterno – che imitano ed esaltano nel design la forma a V dello zoccolo.
La gomma esterna lavora bene su erba e fango, mentre quella interna è particolarmente performante sulla roccia.
L’obiettivo è di garantire stabilità e grip su qualsiasi terreno, in qualsiasi condizione: erba, roccia bagnata,
fango, ghiaia. In modo che il runner debba solo adattare il passo. Il cuore della scarpa è in DD Anima, lo stesso della Atomo V7000. Garanzia di leggerezza, reattività e ammortizzazione con uno shank in pebax resistente ed elastico. Complessivamente, Sestriere-XT si concentra su come proteggere il piede e sul grip, agevolando la transizione tra la fase di impatto e la fase di spinta. Per quanto riguarda la soletta, è in Dnattivo, una high-density foam traspirante. Dnattivo minimizza la sensazione di calore e possiede dei componenti antibatterici che aiutano l’eliminazione degli odori, oltre ad essere leggera e ammortizzante.
L’obiettivo di Diadora era di ispirarsi alla natura per creare una scarpa che facesse da intermediario. Calzata, la si percepisce come uno strumento per gestire al meglio qualsiasi sentiero e qualsiasi difficoltà durante gli allenamenti di tutti i giorni. Uno strumento di cui ti puoi fidare. Perché quando ti fidi, ti abbandoni. E se ti lasci andare, tutto sembra più facile: il sentiero più ripido, la roccia più scivolosa, l’ambiente più impervio.
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The High Life
BY FRANCESCO PUPPI PHOTOS DENIS PICCOLO
RUNNERS FRANCESCO PUPPI & HENRI AYMONOD LOCATION SESTRIERE ITALY
Gli atleti oggi scrivono sempre meno dei loro allenamenti, e in generale del loro processo, questo principalmente perché nessuno ha più un blog, che è stato il principale mezzo di crescita di questo sport. E sulle riviste, articoli così d’altronde sono sempre più rari, sebbene, ne sono convinto, contino quanto una settimana di allenamento.
È un giovedì di agosto, sono nella mia casa nuova sopra a Trento, isolato da tutto e da tutti. Io e il gatto, una tazza di caffè, tanti sentieri e una chitarra con le corde consunte. La settimana prima Denis mi aveva chiesto di salire a Sestriere per scrivere un articolo su Francesco ed Henri e sul loro ritiro in altura. La quota mi avrebbe giovato, ma avevo troppo da fare e così ero stato costretto a rinunciare. Leggo vecchi articoli di Anton Krupicka sui suoi allenamenti nelle estati del 2006 e del 2007: chilometri macinati da solo, sopra alla timberline, dove l’aria è sottile e le gambe bruciano. Gli atleti oggi scrivono sempre meno dei loro allenamenti, e in generale del loro processo, questo principalmente perché nessuno ha più un blog, che è stato il principale mezzo di crescita di questo sport. E sulle riviste, articoli così d’altronde sono sempre più rari, sebbene, ne sono convinto, contino quanto una settimana di allenamento. Penso a queste
cose e poco dopo mi arriva un messaggio di Francesco che mi chiede di leggere il suo pezzo, prima di consegnarlo alla rivista. Era quello di cui avevo bisogno. Ora esco a correre. – Filippo Caon
Dopo quasi un’ora di salita, a pochi metri dalla vetta del Bric Ghinivert, in alta Val Troncea, mi sento mancare le energie. Il vento gelido dei 3000 metri di quota mi taglia il fiato, mi gira la testa e le gambe pesano come macigni. Annaspo cercando di inalare quanto più ossigeno possibile e mi arrampico con le mani tra i massi di granito, seguendo una traccia approssimativa. Alzo lo sguardo e Aymo mi fa un cenno urlandomi qualcosa, affacciato da uno dei bracci della croce di vetta. Un paio di minuti dopo, superata una cengia esposta sulla parete sud, lo raggiungo e mi rannicchio in una fessura al riparo dal vento. Una coppia di gi-
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peti si leva sfruttando una corrente ascensionale, veleggiando senza un singolo battito d’ali. Mi tolgo il vest, scatto qualche foto, tiro fuori un paio di waffles e una flask con dell’acqua per rifocillarci.
“Oggi bene eh, Aymo? Che aperta, prima del colle. Io ero un po’ stanco, mi avrai dato due minuti negli ultimi 15’ di salita.”. “Si Fra, oggi stavo bene, siamo saliti forte. L’altro giorno non avevo ancora recuperato la gara e il viaggio. Poi sai, quando hai molte cose per la testa.” “Si, lo so.” Mi allungo spontaneamente verso di lui e gli stringo un braccio attorno al collo. Rimaniamo in silenzio per un paio di minuti. “Dai, scendiamo. Ma con calma, che sono stanco.”
Verso i primi di luglio, appena il tempo di riprendermi dalla 50km di Lavaredo, ho chiamato Henri “Aymo” Aymonod e gli ho buttato lì l’idea di trascorrere tre settimane di allenamento in quota. Ancor più degli adattamenti fisiologici positivi dell’altura, l’emoglobina, i globuli rossi, eravamo forse in cerca di solitudine, di uno scorrere del tempo più lento, più umano, quasi un’evasione dalla routine delle nostre vite a quote più basse, una ricerca di stimoli e risposte che solo condividendo l’intensità di uno sforzo fisico come la corsa avremmo potuto trovare. Tra Sankt Moritz, Livigno e Sestriere, le classiche location scelte dagli atleti per l’altitude training, abbiamo opta-
to per l’ultima, quella che sentiamo più affine, allo stesso tempo probabilmente la più dimenticata, aspra e allenante. Ai 2035 metri del colle ci sono la calma, i sentieri, l’aria sottile e le poche attrezzature di cui abbiamo bisogno. C’è un’altra ragione – sentimentale forse – per cui abbiamo scelto di venire a Sestriere: qui ci siamo conosciuti una decina di anni fa, quando ancora eravamo giovani e ignari di tutto, e correvamo per salvarci la vita. Così abbiamo riempito il van di Aymo di carboidrati, abbiamo caricato le bici e siamo finalmente saliti in questo lembo estremo di Piemonte.
Sestriere è un luogo surreale, trasfigurato dagli abusi edilizi del boom
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economico prima, e delle Olimpiadi di Torino del 2006 poi. La monocoltura dello sci alpino ha trasformato tanti posti come Sestriere in caroselli d’inverno, e in luoghi spettrali d’estate, con le ruspe, gli skilift fermi, i condomini vuoti. Per rendere le montagne attraenti non è necessario disseminarle di costose e impattanti infrastrutture: la natura le ha già dotate di tutto ciò che serve. Cosa che tante località alpine ancora non sembrano aver capito. Sono temi di cui parlo con Aymo, che queste dinamiche le vive quotidianamente a casa sua, in Valle d’Aosta. Tralasciando il paese, l’ambiente attorno a Sestriere è incantevole e perfetto per allenarsi secondo il nostro stile, che si potrebbe riassu-
mere in tre parole, che ho usato come titolo per il mio podcast: any surface available, ogni superficie disponibile.
Ai 2400 metri del Col Basset puoi correre su 40km di sterrato della strada dell’Assietta, dove Bordin ha costruito i suoi successi di Seoul 1988 e Boston 1990: è la Magnolia Road delle Alpi. Poco più in basso, il sentiero Bordin riecheggia dei chilometri percorsi e consumati da maratoneti e mezzofondisti di fama mondiale. Sull’Albergian si possono fare 1500 metri di dislivello in poco più di 5km di salita. La Valle Argentera offre singletrack perfetti, vette vertiginose e panorami da Yosemite Valley.
Il nostro stile è anche quello di introdurre variabilità e imprevedibilità
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Il nostro stile è anche quello di introdurre variabilità e imprevedibilità nell’allenamento, e con Aymo non può che essere così: lui è talento e follia, io sono più metodo e lavoro duro. Siamo affini e allo stesso tempo complementari.
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nell’allenamento, e con Aymo non può che essere così: lui è talento e follia, io sono più metodo e lavoro duro. Siamo affini e allo stesso tempo complementari. Quando sei in giro con lui per una easy run, può capitare da un momento all’altro che faccia un’aperta, un allungo, solo perché ispirato dalla linea del traverso su cui stiamo correndo, o per imitare uno scatto del suo idolo Mathieu Van Der Poel. Nello stesso momento, io probabilmente presterei più attenzione a conservare le energie per il lavoro del giorno successivo, o a recuperare i chilometri del precedente. Aymo va molto forte in salita; non è un atleta esplosivo ma ha una progressione terrificante, procede quasi a balzi, a bassa cadenza, sfruttando tutta la stiffness delle sue lunghe leve. Io al contrario ho un gesto molto più economico, non mi sento davvero forte in nulla, ma posso far valere le mie capacità di corsa in pianura e su quei terreni che sfuggono ai profili altimetrici dei percorsi. Aymo è un atleta TNF, nato e cresciuto
all’ombra della Grivola, tra Villeneuve e la Val di Rhemes, a suo agio sugli sci da alpinismo, in grado di scalare il Bianco, di portare a termine diversi Mezzalama; è studente di agraria all’Institut Agricole Regional ed è laureato in scienze motorie a Torino. Io sono un atleta Nike, imbevuto di cultura track and field da Prefontaine in poi, vengo dall’ambiente di media montagna delle Prealpi lariane, sono forse più a mio agio sulle strade della maratona di New York che su una skyrace tecnica, non ho mai scalato un 4000, ragiono con la mente di un fisico.
In venti giorni di altura c’è tempo per condividere tante cose oltre alla corsa. Con Aymo finiamo a parlare di mercato immobiliare tanto quanto di teoria dell’allenamento, delle differenze tra i gruppi Sram, Campagnolo e Shimano, di silvicoltura, di fotografia, di psicologia, di outdoor e di musica elettronica. I momenti che dal mio punto di vista fanno la differenza
sono soprattutto i silenzi, le pause, i nanosecondi in cui non succede niente ma che hanno significato in loro stessi, e se non sei mai in imbarazzo, se non senti la necessità di riempirli di parole o gesti di circostanza, capisci di essere nel posto giusto e con la persona giusta. “Fra, oggi sono dal culo.” “Aymo, allenarsi è questa cosa qui. L’80% delle volte non hai buone sensazioni, ti senti fiacco, le gambe sembrano vuote. Devi abituarti al mileage, a correre da stanco, a risparmiare quando serve e a spingere quando conta.” “Sì, ma oggi pomeriggio mi sa che riposo.” Dall’alto dei miei 12 allenamenti settimanali, vorrei alle volte avere la sua capacità di ascolto e di saper dire di no.
Il programma del nostro training camp è ambizioso. Dopo l’adattamento iniziale alla quota il piano prevede due settimane da almeno 180km e diversi lavori in sequenza molto impegnativi. I miei prossimi appuntamenti agonistici sono Sierre-Zinal e
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Ha molto a che fare con le opportunità che esistono, si creano e che ad essi vengono date, ma ho la sensazione che negli USA, tante volte, una gara sia più una semplice scusa per ritrovarsi tutti insieme a correre in una foresta, e che il trail, più che uno sport, sia espressione di un modo di essere e in fondo, di stare al mondo.
OCC, tra metà e fine agosto, ma per come sono fatto e per come interpreto questo sport, non sono l’unico motivo per cui mi trovo qui. Non ho bisogno di una leva motivazionale data da un obiettivo, mi piace correre e allenarmi for the sake of it, non ci vedo necessariamente del finalismo in tutto questo. Serve di sicuro una buona dose di coraggio, o forse di autolesionismo, per finirsi sull’altare dell’inutile. Aymo non è abituato a questi volumi mentre io ho un’esperienza di gran lunga maggiore, sia in termini di allenamenti che di gare. Lo guardo e vedo un ragazzo curioso, intelligente e ambizioso, ancora acerbo per certi aspetti, ma consapevole dei propri mezzi e molto sicuro di sé. Diviso tra due fuochi: essere in qualche modo
legato alle sue sicurezze e la voglia di scoprire e fare nuove esperienze. Il talento straripante che in qualche modo gli invidio, la necessità di plasmarlo e di dargli solidità e continuità. Gli occhi che ancora gli si illuminano di entusiasmo per le cose, la passione per le persone. La sua competitività contrapposta alla voglia di vivere il lato più avventuroso e libero del trail, su distanze più lunghe, FKT e progetti personali. Correre insieme, progettare e condividere un blocco di allenamento, è un modo per alzare l’asticella e, se sei bravo abbastanza, per assorbire per osmosi tante piccole cose che potrebbero renderti un atleta migliore. È un processo di apprendimento orizzontale, che avviene in maniera non intenzionale, soprattutto
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durante i vuoti che provavo a descrivere prima.
Finiamo a parlare di US; Aymo è appena tornato da Broken Arrow, sul Lake Tahoe, dove ha corso con buoni risultati il vertical e la skyrace, anche se – mi racconta – aveva la mente parecchio altrove. Discutiamo di Parchi nazionali, di strade, di deserti, di sci alpino, di impatto ambientale. Riflettiamo sul fatto che in Europa manchino gruppi di allenamento strutturati, squadre come l’Oregon Track Club o NAZ Élite, ma anche semplicemente atleti che vivono, si allenano insieme e si comportano come un team, come potevano essere fino a pochi anni fa i Coconino Cowboys, o come capita in comunità come Flagstaff, Boulder
o Mammoth Lakes. Succede su scala minore a Chamonix, epicentro della scena trail a livello mondiale, ma non ancora in termini che definirei una community. Sono tante le differenze tra il trail europeo e quello americano, e una di queste è il modo in cui gli atleti percepiscono sé stessi all’interno dello sport che praticano. Ha molto a che fare con le opportunità che esistono, si creano e che ad essi vengono date, ma ho la sensazione che negli USA, tante volte, una gara sia più una semplice scusa per ritrovarsi tutti insieme a correre in una foresta, e che il trail, più che uno sport, sia espressione di un modo di essere e in fondo, di stare al mondo.
Ritrovo parecchio di tutto questo nel-
la persona che è Henri, un ragazzo in grado di riempire di significato molte delle cose che fa e di trasmettere entusiasmo. Mi piacerebbe far capitare occasioni del genere più spesso, magari fino a costituire un gruppo di allenamento, di persone con la nostra stessa voglia di andare fino in fondo a questa passione. Non so se Sestriere possa essere il luogo adatto per farlo, ma so per certo che quello che abbiamo condiviso questa estate, nell’aria sottile, nella polvere, sui sentieri, le creste e gli alpeggi al confine tra Val Chisone e Valle di Susa, sarà per entrambi importante.
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RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA RIVA DEL GARDA ROVERETO SALÒ SALÒ SALÒ SALÒ SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN CANDIDO SAN DOMENICO SAN GIOVANNI DI FASSA SAN GIOVANNI DI FASSA SAN GIOVANNI DI FASSA SAN VIGILIO DI FAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SAN VIGILIO DI MAREBBE SANTA CATERINA SANTA CATERINA SANTA CATERINA SAUZE
SIUSI SIUSI SIUSI SIUSI ALLO SCILIAR SIUSI ALLO SCILIAR SOLDA
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SOLDA SONDRIO STRESA
Una volta, qualcuno chiese a Ernest Hemingway cos’era per lui il coraggio. Rispose con quella che in italiano è un’espressione intraducibile: “grace under pressure”, letteralmente “grazia sotto pressione”. In molti hanno cercato, senza riuscirci, di dare un significato preciso a queste parole; la “grazia”, come la intendiamo, porta sempre con sé idee di piacevolezza e cortesia. La “grazia” di Hemingway è tutt’altro. Il suo concetto si adatta molto meglio alla definizione che ne diede Cechov: “quando un uomo usa
BY DAVIDE FIORASO PHOTO DENIS PICCOLO
il minimo numero possibile di movimenti per compiere una definita azione, quella è la grazia.” Quella “grace under pressure” che secondo Hemingway costituirebbe il coraggio è l’energia, l’efficienza, la disinvoltura dimostrata nelle situazioni più difficili. Un temperamento cardine del suo stile letterario e della morale che permea i suoi romanzi e muove i suoi personaggi. Cercare bellezza in una situazione disperata, reagire alla paura con un gesto estetico, cos’è se non un atto di estremo coraggio?
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