Caro North
Otto donne verso le pareti della Groenlandia in un viaggio in barca a vela di 3 mesi per conquistare una parete dello Scoresby Sund.
Kristin Harila
Provare a scalare le 14 vette sopra gli 8000m in meno di 6 mesi per lanciare un messaggio contro il sessismo.
Martina Valmassoi
Atleta, fotografa, artista. Per lei scialpinismo e trail running sono sport accomunati dall’estrema libertà che le regalano.
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Earned turns run deep.
We break trail in places worth protecting. With each step and each turn, our connection to the high country grows stronger. By building durable gear and keeping it in play for years to come, we minimize our footprint while maximizing our time in the mountains.
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Backcountry Touring
Photo: MATTHEW TUFTS © 2022 Patagonia, Inc.
EDITO
BY DAVIDE FIORASO PHOTO MARTINA VALMASSOI
Il divertimento è un muscolo volontario che richiede esercizio. Una celebre frase dell’antropologa Hortense Powdermaker ricorda come, in tenera età, il divertimento rappresenti “un'educazione più efficace della scuola, perché fa appello all'emozione e non all'intelligenza”. Ma con il passare degli anni, purtroppo, rischiamo di dimenticarci cosa sia, il suo misuratore si guasta o scompare del tutto. Quello che dobbiamo fare è semplicemente ritrovarlo, come cura per sollevare l’animo dal susseguirsi degli eventi, dalle fatiche, dalle preoccupazioni. E da livelli di ansia che sono comprensibilmente ai massimi storici.
Ma prima di fare ciò, è necessario capire quale sia veramente la propria idea di divertimento, che è diversa in ognuno di noi e muta nel corso dell’esistenza. Se durante gli studi cercavamo lo svago nelle feste tra amici, con il passare degli anni abbiamo tramutato questo sentimento in qualcosa di più avventuroso
ed esplorativo. Oggi alcuni lo trovano scalando le montagne, altri pedalando in sella ad una bicicletta, altri intorno a un falò con una buona birra. Seppur nella sua banalità, quello che mi ha fatto riflettere sul tema è un recente sondaggio a cui ho partecipato. Il risultato coinvolgeva le attività più disparate: dal surf ai viaggi, dal ballo al canto alla cucina. Nota sorprendente: un numero sproporzionato di intervistati citava il paddle.
Tra le tante evidenze scientifiche su quanto il divertimento sia fondamentale per il nostro benessere, mi sono imbattuto sugli scritti di Michael Rucker, psicologo e scienziato comportamentale. Nel suo libro The Fun Habit, Rucker spiega che il divertimento, a differenza della felicità, è un'azione, qualcosa che possiamo effettivamente perseguire. In altre parole, qualcosa che possiamo rafforzare, proprio come un muscolo. Si tratta semplicemente di mettere da par-
te un elenco infinito di faccende inutili e provarci con spontaneità, senza preconcetti, prendendo esempio dai bambini e dagli animali, perché loro sembrano sapere istintivamente come divertirsi.
Concedetevi questo piccolo esperimento per un determinato periodo. Adottate un approccio spensierato e sorridete nell’imparare qualcosa di nuovo, indipendentemente da quale sia l’attività. Rendete il tempo dedicato al gioco una priorità: con gli amici, con i figli, con il proprio cane. Alimentate gli ormoni del benessere con occupazioni piacevoli, anche brevi. Unitevi alle persone e aumentate la vostra interazione sociale, il divertimento in comune è più allettante di quello individuale.
Io lo faccio spesso. Per tenere sempre pieno il mio serbatoio di divertimento. Più uso questo muscolo, più lui diventa forte.
Ma sia chiaro che non mi troverete mai su un campo da paddle.
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UNCOMPROMISING PERFORMANCE IN A LIGHTER PACKAGE HUSTLE . 10 LIVE THE MOMENT BLIZZARD-TECNICA.COM
PRODUCTION
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EDITOR IN CHIEF Denis Piccolo | denis@thepillagency.com
EDITORIAL COORDINATORS
Davide Fioraso, Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Ilaria Chiavacci
EDITING & TRANSLATIONS
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ART DIRECTION
George Boutall | Evergreen Design House Niccolò Galeotti, Francesca Pagliaro
THEPILLMAGAZINE.COM Ludovica Sacco | ludovica@thepillagency.com
PHOTOGRAPHERS & FILMERS
Matteo Pavana, Thomas Monsorno, Camilla Pizzini, Chiara Guglielmina, Silvia Galliani, Francesco Pierini, Elisa Bessega, Andrea Schilirò, Denis Piccolo, Achille Mauri, Simone Mondino, Alice Russolo, Patrick De Lorenzi, Giulia Bertolazzi, Tito Capovilla, Luigi Chiurchi, Isacco Emiliani, Pierre Lucianaz
COLLABORATORS
Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Marta Manzoni, Sofia Parisi, Fabrizio Bertone, Eva Toschi, Luca Albrisi, Luca Schiera, Giulia Boccola, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel
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COMPANY EDITOR Hand Communication, Via Piave 30, Saluzzo CN 12037, Italy hello@thepillagency.com
COVER
Photo Maurizio Marassi, Graphics Sara Quatela
PRINT L'artistica Savigliano, Savigliano - Cuneo - Italy, lartisavi.it
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The Pill rivista bimestrale registrata al tribunale di Milano il 29/02/2016 al numero 73
4 THE CREW
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SARA QUATELA YANNICK BOISSENOT MICHELE BOSCACCI KRISTIN HARILA HERVE BARMASSE ON OUR WAY MARTINA VALMASSOI PAKISTAN THE NENET CARO NORTH LA LISTE SOLITUDE
ISSUE 58
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ADAM BOVE
IN THE DOL OMITES
SALEWA.COM
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PILL PANORAMA DIFFUSION È IL NUOVO DISTRIBUTORE PER L’ITALIA DI CHILLAZ
Panorama Diffusion, aggiunge al suo roster di marchi l’azienda Chillaz. Nato tra le montagne tirolesi, Chillaz si rivolge a coloro che amano la vita all’aria aperta e in particolare a chi pratica l’arrampicata sportiva con un approccio non solo tecnico ma anche sostenibile. Il taglio di questi capi, inoltre, permette l’utilizzo negli allenamenti in falesia e in palestra ma anche in un contesto più quotidiano e casual. Il CEO di Panorama Diffusion Günther Acherer si dichiara soddisfatto della nuova collaborazione, sostenendo che “sarà una garanzia di un’importante crescita”.
FABIO CAMPAGNOLO VINCE IL PREMIO EY L’IMPRENDITORE DELL’ANNO
Fabio Campagnolo, CEO dell’azienda veneta F.lli Campagnolo, è stato insignito del Premio EY L’Imprenditore dell’Anno nella categoria Fashion & Design. Un premio che è stato riconosciuto per la capacità di Campagnolo di innovarsi continuamente e di diffondere l’eccellenza italiana all’estero. “Questa azienda non sarebbe quello che oggi è senza le intuizioni imprenditoriali dei miei genitori che hanno dedicato una vita a fare crescere e prosperare la F.lli Campagnolo, e senza l’impegno e la passione profusi da tutti i collaboratori.”
IL PHANTOM 6000 HD ACCOMPAGNA GLI ALPINISTI SCARPA
Da dicembre partirà un tour che porterà gli alpinisti SCARPA in giro per l’Europa per raccontare le proprie avventure in diversi outdoor store. Sei eventi, sei città e sei atleti, con loro un ospite speciale: Phantom 6000 HD, scarpone progettato per l’alpinismo estremo con focus su un comfort duraturo per approcci lunghi e arrampicata su ghiaccio. Battistrada in mescola Vibram Durastep per massima aderenza su terreni difficili, scafo con tecnologia WinTherm realizzato all’80% in PET riciclato e scarpetta PrimaLoft sono solo alcune delle caratteristiche di questo boot altamente tecnico, caldo e protettivo.
APEX AWARDS 2022, POLARTEC HA ANNUNCIATO I 12 VINCITORI
Polartec ha annunciando i dodici vincitori dei Polartec Apex Awards 2022, concorso che celebra brand e designer che supportano i propri prodotti con le tecnologie Polartec. I capi premiati sono stati selezionati tra centinaia di candidature legate alle categorie sport e lifestyle. In particolare, quest’anno le selezioni hanno voluto enfatizzare temi quali versatilità, sostenibilità e il connubio tra tradizione e modernità. I brand che hanno ricevuto il premio sono SCARPA, la collab Element X Millet, Moncler Grenoble, Berghaus, Haglöfs, Houdini, Indyeva, KUIU, Nonnative, Pearl Izumi, Santini e Thrudark.
MANIFATTURA MARIO COLOMBO DISTRIBUISCE X-BIONIC E X-SOCKS IN ITALIA
Manifattura Mario Colombo ha deciso che affiancherà alla distribuzione di Lacoste anche quella dei marchi di proprietà di X-Technology: X-Bionic e X-Socks. Da oltre 20 anni, X-Technology offre prodotti innovativi e dalle alte performance completamente Made in Italy, certificati da 800 brevetti, 600 award e oltre 1200 medaglie vinte dagli atleti del brand. Sia Maximilian Lenk che Giulio Colombo si dicono entusiasti di affrontare le sfide che questa collaborazione offrirà.
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MAESTRALE RE-MADE RE-MADE IN ITALY.
La versione esclusiva di un classico, che riutilizza gli scarti di produzione per ridurre al minimo le emissioni di CO2 e l’impatto sull’ambiente, mantenendo inalterate prestazioni e qualità. La nuova frontiera del Made in Italy è Re-Made in Italy. Available in a limited edition of 2022 pairs.
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BY LUDOVICA SACCO
GARMIN BEAT YESTERDAY AWARDS 2022: I PREMI PER CORAGGIO E RESILIENZA
Garmin giunge alla settima edizione dei suoi Garmin Beat Yesterday Awards. La selezione ha dato frutto a cinque vincitori finali con storie impressionanti che vanno dall’ironman al ciclismo, dalla vela al trail running passando per la passione di guidare dei camion. “Ci piace pensare che i riflettori sul palco del Beat Yesterday non si spengano mai, che le storie continuino a essere raccontate e che i protagonisti le portino avanti giorno dopo giorno, anche una volta finita la festa” sostiene Stefano Viganò, Amministratore Delegato di Garmin Italia.
IL PIUMINO MYTHIC G DI RAB VINCE IL PREMIO ISPO
Il noto marchio britannico Rab ha ricevuto l'ISPO Award per la sua nuova Mythic G Jacket, ideale per le attività alpinistiche negli ambienti più estremi, disponibile sul mercato dall'autunno/inverno 2023. La giuria del premio ISPO ha dichiarato: "L'azienda Rab esprime a regola d'arte nei suoi prodotti il concetto di isolamento. Estremamente calda, leggera e allo stesso tempo resistente e "impacchettabile": questa giacca è per gli alpinisti che contano ogni grammo e vogliono tutto il calore possibile senza esser penalizzati dal peso.” Un ulteriore vantaggio per le alpiniste è sicuramente la vestibilità specifica per le donne.
THULE PRESENTA ON OUR WAY
Gli ambassador di Thule Alice Linari e Lorenzo Alesi sono i protagonisti del nuovo cortometraggio On Our Way. L’obiettivo? Esplorare le bellezze naturali senza creare un impatto negativo sul pianeta. Sono partiti da Monaco di Baviera alla volta delle Isole Lofoten completamente a piedi o con mezzi di trasporto sostenibili, come auto elettriche o barche a vela. “Per tanti anni siamo stati testimoni della trasformazione delle montagne e della natura a causa dei cambiamenti climatici. Ridurre il nostro impatto è possibile oggi, grazie alle nuove tecnologie ma soprattutto alle nostre azioni.”
DYNAFIT È IL PRIMO PARTNER UFFICIALE DI ITRA
L’azienda tedesca è ufficialmente il primo partner di ITRA - International Trail Running Association. Il comune obiettivo è di professionalizzare e promuovere il trail running, concentrandosi su tematiche come la sicurezza nelle gare, la salute degli atleti e la promozione di valori come la diversità e l’inclusione. “Dynafit è un brand fatto da atleti per atleti, e in quanto tale persegue l’obiettivo di fornire agli atleti il miglior sostegno per i loro progetti più ambiziosi. La partnership con ITRA è per noi un passo decisivo”, ha commentato Alexander Nehls, Dynafit International Marketing Director.
COLMAR SOUL
La collezione sci FW22 di Colmar del prossimo inverno è stata realizzata con un nuovo approccio: per vivere appieno ogni momento della giornata in armonia con la natura e la montagna dell’Alta Badia. Un marchio che rappresenta e racchiude il DNA da cui nasce Colmar: la montagna al suo meglio, la neve, l’aria fresca, l’ottima ospitalità e il comfort di ogni sua struttura, la deliziosa cucina tipica di quella parte di mondo diventata, qualche anno fa, patrimonio dell’umanità UNESCO.
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THE DAILY PILL
www.fjallraven.com
8.FJÄLLRÄVEN
E XPEDITION DOWN HEATER
Tra le novità introdotte da Fjällräven nella sua Expedition Series, questo caldo e iconico cappello invernale imbottito in piuma di alta qualità prodotta eticamente e realizzato in tessuto sintetico 100% riciclato. Ideale per escursioni invernali in climi molto rigidi. Dotato di visiera e paraorecchie per proteggere da neve e gelo.
10.BEARDEDGOAT NORTHWEST CAMP HOODIE
Beardedgoat è un piccolo marchio di Fayetteville (Arkansas) che vale la pena tenere d’occhio. Parte dell’outfit Northwest, Camp Hoodie è una felpa con cappuccio in pile spazzolato realizzata appositamente per rilassarsi nel backcountry, combinazione perfetta tra tecnicità e comfort. Punti di usura rinforzati con nylon ripstop resistente all'acqua.
8.BAREBONES
P OWER BANK 10.000 MAH
Cover in metallo, colorazione neutra opaca, maniglia in filo di rame per un forte accenno vintage caratteristico degli articoli Barebones Living. Questa versione da 10.000 mAh presenta una torcia a LED inclusa, uscita USB-A e USB-C e cavo di ricarica USB-C. Ideale per ambienti glamping e i luoghi di ritrovo lontani da prese elettriche.
11.EMERGENCY
C LUTCH BAG
Bustina contenitore realizzata con materiali di recupero: il TNT proviene dagli striscioni che hanno accompagnato nel tempo le manifestazioni di Emergency, mentre il jersey sul retro da vecchie magliette dell'associazione. Prodotta artigianalmente da Parallelo Lab, laboratorio sociale inclusivo fondato nel 2017 da un gruppo di creativi.
9.CMP UNLIMITECH HYBRID JACKET IN HIGHLOFT
Il pile è il fiore all’occhiello della produzione CMP e questo modello ne è un perfetto esempio. Una giacca ibrida che abbina le proprietà isolanti e la morbidezza della versione Highloft all'elasticità dello Stretch Performance (posizionato sui fianchi) per offrire massima libertà di movimento. Sul fronte una trapuntatura in ripstop con funzione isolante.
12.BSTN J ACQUARD RUNNING VEST
Il 2022 ha portato nuova linfa a BSTN. Oltre al rilancio completo, il marchio ha presentato la collezione Alpine Basketball che rende omaggio alle radici bavaresi e allo sport da cui è nato. La tipica silhouette delle canotte da running viene ripresa su questo gilet in jacquard con cerniera sul petto e sul fianco. Si completa con una toppa in silicone.
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BEST MADE
DAVIDE
BY
FIORASO
1.MIIR X BLACK GIRL VENTURES 12OZ CAMP CUP
Black Girl Ventures è la community fondata da Omi Bell per offrire, alle donne afroamericane che vogliono intraprendere una propria attività, l’accesso a risorse e formazione. Questa partnership con MiiR sottolinea le caratteristiche di resilienza e forza, propensione alla sfida e solidarietà necessarie per andare avanti nella loro lotta.
4.KEEN X ENGINEERED GARMENTS JASPER II EG MOC
Le sneakers di Keen, ispirate al mondo dell’arrampicata, si presentano in questa versione reinventata da Engineered Garments, brand fondato nel 1999 da Daiki Suzuki. La tomaia monopezzo in pelle ecologica aggiunge al design originale dettagli di prima qualità e una fodera stampata. Membrana KEEN. DRY impermeabile e traspirante.
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2.HUCKBERRY X COORS BANQUET WORK VEST
Esclusivo gilet da lavoro nato dalla proficua collaborazione tra Huckberry e Coors, storica Brewing Company di Golden, Colorado. Tela di cotone ultra resistente progettata per gestire le situazioni più difficili, morbidi interni trapuntati per un comfort extra e colletto in velluto a coste che aggiunge un tocco classico.
5.MARY CAROOLL X RUMPL VINTAGE TEE BLANKET
L’ultimo drop della serie RAD di Rumpl vede protagonista Mary Carooll. La grafica Vintage Tee, proposta nelle ceramiche dell’artista, trova riproduzione nella nuovissima coperta Cozy Hemp (79% cotone organico, 21% canapa). Uno stile nostalgico ispirato agli anni ‘70 e alle grafiche delle vecchie canotte di suo padre.
3.COLE HAAN X PENDLETON ØRIGINALGRAND LONGWING OXFORD
Due iconici marchi americani, uno storico parco nazionale. Questa nuova collaborazione, nata tra le terre selvagge del Maine, è radicata nel patrimonio e unita dall'artigianato. Sette pezzi ispirati alla bellezza e allo spirito dell’Acadia National Park, ai tessuti distintivi di Pendleton e ai design innovativi di Cole Haan.
6.GIRO X FENDER METHOD GOGGLE
Da Gimme Shelter a Dramamine, le chitarre Fender hanno contribuito a plasmare le colonne sonore dei video più iconici dei nostri tempi. Ancora oggi la musica svolge un ruolo importante nella vita di ogni skier e snowboarder. La collezione Giro x Fender nasce per celebrare la connessione che condividono queste due culture.
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7.ADIDAS X BREAST CANCER
NOW TERREX AGRAVIC ULTRA BCA
Parte della speciale collezione Breast Cancer Awareness, nata dalla partnership tra adidas e Breast Cancer Now al fine di sensibilizzare sul tema del tumore al seno e incoraggiare le persone a ritrovare la propria forza attraverso la natura. Dettagli di colore rosa e illustrazioni grafiche ideate dall'atleta Veronique Sandler.
10.KARHU X SAYSKY
RUNNING JACKET
Una collaborazione che celebra passato, presente e futuro della corsa. Quasi un secolo di storia dividono infatti le origini di Karhu a quelle di Saysky, due brand che ora uniscono le forze per dimostrare che è possibile andare avanti nella stessa direzione. Dall’ampia collezione questa giacca da corsa unisex ideale per le stagioni più fredde.
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8.BSTN X VICTORINOX POCKET KNIFE BUNDLE
La versione Spartan da 12 funzioni (il multiuso da cui è iniziato tutto) in una custom edition per BSTN, ambizioso progetto tedesco alimentato dalla passione per lo streetwear e la cultura sneaker. Disponibile in 3 diversi colori (rosso, nero, blu), ogni multitool è dotato di una custodia in pelle premium realizzata a mano da Kruno Nakic.
11.RASTACLAT X POLER STOWAWAY CHAIR
Un kit sensazionale dedicato a chiunque abbia il desiderio di portare sempre con sé una canna da mosca. Grazie all’incontro con il marchio di Far Bank specializzato nel fly fishing, il Mountain Hip Pack di Topo Designs si completa con una canna da 6 pezzi, mulinello Redington Zero Fly Reel prebobinato, set di 6 mosche secche, fly box, leader e finali.
9.CHRIS BENCHETLER X GOGGLESOC OLD MAN WINTER SOC
Gogglesoc, la cover in microfibra riciclata che protegge la lente della maschera, incontra la mano di Chris Benchetler, sciatore professionista nato tra le montagne della Sierra Nevada ma anche artista, designer e produttore cinematografico. In Old Man Winter, una delle sue opere più popolari, tutto l’amore per la natura, lo sport e la vita all’aria aperta.
12.NEWTON RUNNING X J.CREW GRAVITY 11
Con sede a Boulder, Colorado, Newton Running produce scarpe basate sulle prestazioni. La linea Gravity, la più avanzata e versatile, offre livelli di ammortizzazione e reattività senza precedenti, grazie al nuovo plantare Hytrel. Air Mesh adattivo dal design anatomico disponibile in questa esclusiva colorazione J.Crew, retailer multi-brand di NYC.
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BY DAVIDE FIORASO
I L GRUPPO ROSSIGNOL ADOTTA I L PIANO STRATEGICO ASCENSION 2026
Rossignol abbraccia un modello di impegno e responsabilità basato sulla nuova raison d'être: "Creare movimenti di sostenibilità e potenziale umano". L’obiettivo sarà guidare una strategia che consenta all'attività sportiva di svilupparsi in modo inclusivo e rispettoso dell'ambiente, conciliando performance industriale con approccio sostenibile, nel rispetto dei clienti, dei dipendenti e dell'intero ecosistema montano. Per sostenere questa ambizione, il gruppo annuncia un investimento globale di 50 milioni di euro da qui al 2026, e punta a fare del sito di Sallanches la fabbrica leader al mondo per gli sci eco-progettati e riciclabili.
S CARPA
PER DARE NUOVA VITA ALLE CALZATURE USATE
Fornire una soluzione alternativa, circolare e sostenibile per la gestione del “fine vita” delle calzature, introducendo pratiche di riciclo virtuoso come nuovo standard all'interno della filiera. Questo l’obiettivo principale di “Re-shoes”, iniziativa che vede SCARPA in prima fila in qualità di coordinator di un consorzio di varie realtà internazionali. Il progetto si svilupperà nell’arco di 42 mesi e prevede la produzione e messa in commercio di un nuovo modello di calzatura del brand di Asolo, realizzato attraverso la raccolta, la selezione e il riciclo di scarpe usate.
T RACCIABILITÀ SENZA COMPROMESSI: HANWAG È 100% MADE IN EUROPE
Nonostante in Europa non esista una legge che imponga alle aziende di esplicitare l’esatta provenienza dei prodotti, Hanwag non solo dichiara il paese in cui vengono realizzate le sue calzature ma attesta orgogliosamente una produzione 100% Made in Europe con materiali e componenti, a loro volta, di provenienza europea. Oltre a garantire la qualità e affidabilità del prodotto finito, la scelta di Hanwag ha importanti risvolti dal punto di vista della sostenibilità: ridurre le distanze permette di limitare le emissioni e verificare che il processo produttivo sia effettivamente sostenibile.
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LANCIA “RE-SHOES”
BY
P ATAGONIA MILANO INAUGURA L A NUOVA REPAIR STATION
Lo store milanese di Patagonia ha inaugurato la nuova Repair Station permanente. Cerniere rotte, tessuti bucati, bottoni e strappi: chiunque potrà riparare gratuitamente (e in qualsiasi momento) i propri capi Patagonia direttamente in negozio. “Dopo quella di Berlino, la Station è la seconda nel suo genere in Europa e ci aiuta a prenderci la responsabilità dei nostri prodotti anche dopo averli venduti” spiega Matteo Diciomma, Store Manager Patagonia Milano. L’iniziativa si aggiunge alle altre che fanno parte
V IBRAM PRESENTA LA VERSIONE E CO FREE DI FUROSHIKI
La sensazione di avvolgimento e protezione, tipica dell’arte giapponese Furoshiki, torna ad abbracciare l’iconico modello ideato da Vibram. Portable, easy on, multi-use e multi-fit sono i quattro key concept alla base di questa calzatura vincitrice del Compasso d’Oro. L’inedita collezione Eco Free si distingue per una suola in Vibram Ecostep Natural, una gomma con più del 90% di materiali naturali. Il colore è realizzato utilizzando pigmenti delle piante, mentre nella parte superiore un nuovo filato composto da nylon e poliestere riciclato.
G ORE-TEX
REALIZZATI CON TESSUTO BIONIC
La divisione Fabrics di W. L. Gore & Associates ha annunciato l’introduzione di due laminati Gore-Tex costituiti da una nuova membrana ePE e tessuto in poliestere Bionic riciclato al 100%, realizzato con il 50% di rifiuti di plastica raccolti nelle comunità costiere e il 50% da altre raccolte municipali. Gore ha deciso di collaborare con il team Bionic per sostenere la loro missione di ridurre la plastica negli oceani attraverso l'impegno della comunità, investendo nel loro impianto di recupero e selezione a Cóbano, in Costa Rica.
T HE NORTH FACE PRESENTA
L A SUA PRIMA COLLEZIONE CIRCOLARE
Ogni secondo un camion di prodotti tessili viene smaltito in discarica o bruciato, ciò significa che l'87% dei materiali utilizzati per la produzione di abbigliamento finisce tra i rifiuti. The North Face presenta così la sua prima collezione circolare, caratterizzata da scelte pensate per ridurre al minimo gli sprechi. Capi che possono essere facilmente disassemblati e riciclati alla fine del loro ciclo, dando priorità all’idea, anziché al prodotto, come illustra la campagna “It's More Than A Jacket”. A chiudere il percorso il nuovo programma Clothes The Loop, una soluzione semplice per riciclare abbigliamento e calzature usati.
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INTRODUCE NUOVI LAMINATI
ECO SEVEN
DAVIDE FIORASO
in partnership with
Gen Z: in montagna non si lasciano tracce
La Generazione Z è sempre più importante per l'industria: i nati tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila sono un pubblico affascinante e complesso. Sono i primi ad essere nati e cresciuti in un’epoca totalmente digitale, e ora si trovano ad affrontare sfide che in passato non c’erano: stanno diventando giovani adulti provati dallo shock della pandemia, dallo spettro incombente del cambiamento climatico e da una situa-zione politica globale abbastanza complessa. Non stupisce che il rapporto che questa generazione ha sviluppato con l’ambiente e con la vita all’aria aperta sia qualcosa di potente e, per i loro modelli di vita, imprescindibile.
La passione per la montagna, chiaramente, è qualcosa di trasversale a tutte le generazioni, ma la Gen Z sta guidando consumi e soprattutto approcci nuovi nei confronti di moltissimi aspetti della vita, outdoor compreso. Il gruppo Oberalp (proprietario di Salewa, Dynafit, LaMunt, Evolv, Wild Country e Pomoca) nella sua stagionale convention, si è interrogato sul ruolo che questi attori, esigenti e informati, stanno avendo nel mondo dell’outdoor. Qual è il loro approccio alla montagna, agli sport invernali o genericamente legati all’outdoor? Cosa cercano nei prodotti? E a livello di impegno dei brand riguardo le tematiche ambientali e sociali?
L’attrazione rispetto alle montagne è cresciuta molto negli ultimi anni, in
parte anche grazie ai social media, che creano il desiderio di emulazione negli altri e che, soprattutto dopo la pandemia, hanno fatto riscoprire alle persone la bellezza di andare a camminare in montagna.
“Quella sulla Gen Z è una discussione che, come gruppo, abbiamo iniziato a fare da tempo: abbiamo pensato di cogliere l’occasione per estendere il dialogo intergenerazionale sia tra i nostri dipendenti, che con i negozianti” ha spiegato il CEO di Oberalp Christoph Engl. “Sono diversi gli approcci, come ad esempio il modo di organizzarsi per una giornata di hiking o scialpinismo. Dalle mappe, le telefonate con i compagni e il controllo delle stazioni meteo come facevamo e facciamo noi, cinquantenni di oggi, siamo passati ai
gruppi WhatsApp e ai blog di outdoor dei Millennial, ma adesso l’industria dell’outdoor fa i conti con la Gen Z, che per ispirazioni e informazioni utilizza soprattutto i social: Instagram e TikTok in testa. Per loro, infine, non è importante tanto la meta, o il completamento dell’impresa, quanto l’esperienza in sé, il viaggio che porta in vetta o al raggiungimento di un certo numero di chilometri o grado in parete.”
C’è però una domanda per la quale gli appartenenti alla Gen Z non hanno ancora una risposta: cosa si sta facendo nell’industria dell'outdoor per proteggere l’ambiente? La preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico è per loro un aspetto cruciale di vita, che guida la maggior parte delle loro scelte, sia in ambito di
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comportamenti generali che, chiaramente, anche di consumi. Dobbiamo imparare a fare sport e fare attività outdoor in maniera rispettosa per l’ambiente e per le nostre montagne se vogliamo goderne ancora a lungo. Gli esperti ce lo ripetono insistentemente da tempo, ma sembra che i più ricettivi al messaggio siano i giovanissimi: tra i TikToker outdoor uno dei maggiori trend è quello di trovare alternative green per soddisfare i propri desideri e la propria voglia di avventura e di scoperta. C’è chi ha utilizzato la barca a vela per andare dall’altra parte del mondo e chi invece propone un racconto quotidiano di una mobilità esclusivamente green: si prende la bici con qualsiasi condizione meteo, basta sapersi organizzare. Non solo: ogni singola avventura all’aria aperta è guidata da un principio sacrosanto e inamovibile: il rispetto per l’ambien te che ci ospita. Il tempo che trascor riamo in montagna deve essere il più discreto possibile, l’imperativo è non lasciare tracce e, se possibile, elimina re anche quelle di chi ci ha preceduto e non è stato così accorto.
Quando si fa sport in montagna un aspetto cruciale è quello di scegliere i prodotti giusti, ma non sempre è semplice, ed ecco cosa fanno i Gen Z: prima acquistano quello che credono possa andare bene per loro nel mercato second hand, e poi investono in un acquisto più corposo solo in un secondo momento, quando sono sicuri di cosa va bene per loro e poi, una volta comprato, fanno sì che l’indumento o l’attrezzatura tecnica in questione duri il più a lungo possibile.
Quindi che fare con la Gen Z? La risposta dell’azienda è: boh. Dove queste tre lettere non stanno a indicare indecisione ma sono l’acronimo di Be Outdoor Humans: ovvero essere persone che amano l’outdoor e che cercano risposte sostenibili rispetto ai modelli di business e al godere
OBERALP CONVENTION
BY ILARIA CHIAVACCI
dell’attività all’aria aperta. L'industria outdoor è quella, per sua natura, più prossima alle tematiche ambientali, e quindi quella che più sta tracciando la strada, esportando in altri settori i suoi valori: è questo il momento di renderli più chiari che mai. “Vogliamo ispirare le persone ad andare molto di più in montagna, ma solo se lo fanno in maniera sostenibile. Se le persone ci vanno distruggendo tutto perde di senso. La sostenibilità non è il problema, è la soluzione” conclude Christoph Engl.
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Ecco cosa fanno i Gen Z: prima acquistano quello che credono possa andare bene per loro nel mercato second hand, e poi investono in un acquisto più corposo solo in un secondo momento, quando sono sicuri di cosa va bene per loro.
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graphic design: studio olga –photo: Riccardo De Tollis –rider: Maurizio Marassi
BY LISA MISCONEL
The North Face
Summit Series, all for one
Alberi vestiti di rosso, sprazzi di neve sulle rocce sovrastanti prati ormai ingialliti e ovviamente lui, il Cervino che con la sua imponenza ci osserva dall’alto mentre raggiungiamo la base di partenza per due giorni di confronto, montagna, scialpinismo e tanta inaspettata ma molto sperata neve.
Ospiti da tutt’Europa si aggirano per i corridoi del Grand Hotel Cervino che ha aperto le sue porte un po’ in anticipo, mentre un certo Sam Anthamatten atterra in un prato lì vicino perché, come racconta, se deve viaggiare vuole farlo nel migliore dei modi. E quale modo più semplice ed incredibile che salire in funivia sul Plateau Rosa per decollare da lì con il parapendio?
Anche le guide del Cervino sono lì, accompagnate ed a noi introdotte dalle parole e dal tono inconfondibile di Hervé Barmasse. Con loro c’è chi avrà la possibilità di esercitarsi nel soccorso da crepaccio e arrampicata su ghiaccio, e chi si avventurerà sul Breithorn.
Dopo le presentazioni, è tempo di scoprire una nuova e unica collezione Summit Series. Da questo autunno infatti, ci racconta Niall Bouzon, Senior Brand Manager di The North Face, l’azienda ha deciso di riunire tutte le collezioni series sotto un'unica gamma
comprendente alpinismo e sport invernali. In questo modo si riesce ad ottenere massima modularità e versatilità a seconda delle condizioni e preferenze personali.
I nomi dei diversi prodotti sono ripresi rispettivamente per i baselayer da termini specifici delle attività, per i midlayer da nomi di sentieri, salite e discese, infine nomi di cime, montagne e luoghi sono stati dedicati agli strati shell esterni. E così Torre Egger, Pumori, Chamlang, Verbier non sono più solo nomi di luoghi, cime e montagne ma dei migliori amici per le avventure outdoor.
Si va sul tecnico e da Monaco è volato Konstantin Dehlinger, Product Specialist di The North Face che con passione ed orgoglio inizia ad illustrare e raccontare le tecnologie esclusive pensate dal team di ricerca e sviluppo assieme agli atleti, trasformando ogni problema in una tecnologia innovativa. Ogni
strato ha la sua particolare funzionalità e tecnologia, che si differenzia nell’aspetto e nel funzionamento in base alle diverse necessità. Dal Dotknit a contatto con la pelle, al rivoluzionario Ventrix, fino all’ultra traspirante Futurelight che avrà il compito di tenerci al riparo dal vento che avremmo trovato sul Breithorn l’indomani.
Immersi nel bianco del Plateau Rosa, Jules Pession, guida alpina della storica associazione locale, ci accompagna verso il Breithorn in una mattina ventosa sopra ad un mare di nuvole. Davanti a noi il cielo è interrotto dalla silhouette di imponenti cime come la Roccia Nera, Polluce, Castore e Lyskamm, la cui traversata fra Orientale ed Occidentale, ci racconta Jules con un accenno di emozione, è fra le più belle al mondo in assoluto. È in queste condizioni non ottimali che possiamo provare l’efficacia di tecnologie come Dotknit, Ventrix e Fu-
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turelight. Ognuno con la propria funzione: il primo ci ha tenuti all’asciutto mentre salivamo, il secondo ci ha assicurato il giusto calore mantenendo una continua areazione durante i movimenti, e il terzo ci ha fatto da guscio senza mai farci sudare.
Una volta in cima, oltre al forte vento ed al panorama incredibile, ci fa compagnia anche Hervé: è bello vedere l’emozione nei suoi occhi benché lassù ci sia salito e ci salga praticamente quotidianamente. Un pezzo di cioccolata ed è tempo di scendere visto che il maltempo si avvicina e ci raggiunge proprio quando varchiamo con i nostri scarponi fradici la soglia del Rifugio Teodulo dove trascorreremo il pomeriggio e la notte.
Il vento si trasforma in bufera di neve col trascorrere del pomeriggio ed il calare del buio, ma il team The North Face ha ancora una sorpresa in serbo. Sapete come si dice... “Life isn't about waiting for the storm to pass but learning to dance in the rain” e così di lì a poco ci ritroviamo a concludere in bellezza l’esperienza con la première del film di Sam Anthamatten, Nevia, avvolti in coperte di lana in mezzo alla bufera con in mano un caldo vin brulé. È un film che racconta Sam nel suo essere l’atleta poliedrico per eccellenza, capace di impersonare in tutto e per tutto l’animo di The North Face specialmente in questa fase. Un alpinista attento, un freerider estremo ma riflessivo che pesa ogni singola decisione da lui presa in ambito alpinistico. Uno che sa tirarsi indietro come quella volta che, ci racconta, a 15 anni si trovava nel bivacco pronto per la sua prima discesa sulla Est del Cervino e la madre lo chiamò per la cena e gli ordinò di rincasare, e così fece. Allo stesso modo accetta di rimandare la sua personale sfida raccontata in “Nevia”, dove le condizioni non hanno permesso il suo adempimento perché come dice lui, “mountains are not running away”.
THE PILL SAFETY
BY TOMMASO BERNACCHI
Snow Safety Tips by Mammut
Nonostante l’argomento sicurezza in ambiente sia sempre più trattato, ancora troppo spesso si incontrano persone al di fuori delle piste battute senza i dispositivi essenziali che mettono così in grave pericolo loro stessi ma anche gli altri.
Dunque non ci stancheremo mai di sensibilizzare più persone possibili su questo tema. Per questo motivo, abbiamo chiesto alla guida alpina Maurizio Lutzenberger alcune regole fondamentali per affrontare le prime discese della stagione.
Quali sono i più grossi rischi per chi vuole uscire fuori dalle piste battute dopo le prime nevicate? Certamente, fin dalla prima nevicata, il desiderio di mettere gli sci per solcare pendii luccicanti va subito alle stelle. Il pericolo valanghe purtroppo però, anche con poca neve, si presenta abbastanza presto. Per innescare una valanga è necessaria la presenza di uno strato debole sormontato da uno o più strati coesi, un’inclinazione di almeno 30° ed uno sciatore che raggiunto un hot spot inneschi il tutto. Gli strati deboli cominciano a formarsi già nelle prime fasi dell’inverno quando, ad una prima nevicata, fa seguito un lungo periodo di bel tempo con temperature molto basse, specialmente sui pendii in ombra. Il manto nevoso ancora sottile presenta al suo interno gradienti di temperatura molto ele-
vati. Questi favoriscono la trasformazione di questi strati in una struttura particolarmente fragile. Non appena quest’ultimi vengono coperti da una seconda nevicata o da un accumulo eolico si viene a creare il binomio necessario per una valanga a lastroni. Tradotto in termini più semplici: la poca neve non è sinonimo di minor pericolo.
Viste le condizioni attuali di inizio inverno sull’arco alpino, che consigli ti sentiresti di dare agli scial-
pinisti/freerider? L’inverno, per quel che riguarda le precipitazioni, è iniziato timidamente. In quota non c’è ancora molta neve e come ho già accennato non è una cosa positiva per la costruzione di un manto nevoso affidabile. Anche il vento in alcune zone ha fatto la sua parte creando accumuli coesi e reattivi. In generale consiglio a tutti di prendere informazioni approfondite sulla struttura del manto e quindi di leggere con attenzione i bollettini valanghe che recentemente hanno raggiunto ottime affidabilità. Consiglio
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anche di scegliere itinerari con criticità commisurate alla situazione di pericolo presente. Dopo una nevicata o un evento eolico è importante aspettare qualche giorno prima di cimentarsi sulle linee più ripide. In generale, gli itinerari più ripidi vanno affrontati quando il manto è più consistente, ben assestato, e quando gli strati deboli più critici si trovano più in profondità. Le montagne hanno i loro tempi e questi vanno rispettati. Le discese più ripide sono per la primavera, adesso godetevi la polvere sui pendii meno inclinati.
THE PILL SAFETY
BY TOMMASO BERNACCHI
Ogni quanto è opportuno revisionare il proprio A.R.T.Va? I dispositivi di ricerca, comunemente detti A.R.T.Va. hanno raggiunto un alto di livello di affidabilità ed efficienza. In genere la scadenza della revisione viene indicata dal produttore ma è comunque consigliabile una revisione almeno ogni 3 anni. È assolutamente consigliabile anche il periodico aggiornamento del software che di norma ne migliora la stabilità e l’affidabilità in presenza di interferenze. Sebbene facili e intuitivi da utilizzare, consiglio comunque vivamente di esercitarsi spesso al loro uso simulando occasionalmente un’incidente di valanga. Non riuscire a disegnare linee perfette sulla neve non è cosa grave, ma non riuscire a mettere in atto una ricerca di un compagno sepolto sì!
Qual è, in assoluto, la prima cosa da fare in caso di incidente di valanga? La valanga, fortunatamente, è un evento raro. Proprio per questo però non abbiamo sufficienti occasioni per prepararci a reagire a questo tipo di emergenza. Disporre dell’attrezzatura di sicurezza (A.R.T.Va, pala e sonda), di una leadership ben consolidata e di una ferrea disciplina di movimentazione e di azione sono le prerogative principali per un autosoccorso rapido ed efficace. Prima di iniziare le procedure di ricerca vi raccomando vivamente di:
La neve è un elemento molto complesso in continua evoluzione e difficile da interpretare. Regala emozioni incredibili ma punisce severamente i nostri errori. La formula magica per la sicurezza penso potrebbe essere questa: conoscenza della materia, paura dell’imponderabile e, non da ultima, una certa dose di fortuna. Questi tre elementi sono inscindibili. Sarebbe una formula semplice… Peccato non si conoscano mai i dosaggi corretti. Comunque non puntate troppo sulla fortuna!
• Assicurarvi che non vi sia pericolo per voi e altri superstiti (seconda valanga e/o caduta).
• Focalizzare e memorizzare il punto di travolgimento del compagno. Cosa possibile solo se il pendio viene percorso uno per volta.
• Commutare tutti gli apparecchi presenti in modalità “ricezione”. Anche chi non cerca attivamente.
• Chiedere in ogni caso l’intervento del soccorso organizzato dando precise informazioni soprattutto riguardo alla vostra posizione.
Omni-Heat Infinity by Columbia
Da anni Columbia porta avanti ricerca e innovazioni che siano in grado di garantire sempre le massime prestazioni. Dopo pallini neri, tri-stelle argentate e pods metallici, ora arrivano i punti dorati di Omni-Heat Infinity, il risultato di oltre 10 anni di innovazioni tecnologiche e la massima evoluzione di tutte le precedenti
Dalla NASA all’outdoor Proprio così, questa tecnologia si ispira a quella delle coperte isoter miche utilizzate dalla NASA nello spazio, dove le temperature sono decisamente rigide ed il mantenimento del calore corporeo è fondamentale nei lunghi periodi di tempo. Ma non solo, spesso nei pre e post gara in climi rigidi la coperta termica è la salvezza degli atleti, così come quando viene utilizzata durante i soccorsi in alta quota.
Tutto il calore dell’oro Una tecnologia capace di ridefinire il “gold standard in warmth”, un gioco di parole relativo alla sua estetica che racchiude incredibili performance. La fodera interna della tecnologia è dotata di puntini dorati in grado di riflettere il calore corporeo disposti in maniera tale che lo spazio fra essi offra tutta la traspirabilità necessaria, senza però rinunciare al comfort. Grazie al suo design brevettato con un maggior numero di puntini dorati impiegati, Omni-Heat Infinity è in grado di riflettere il 40% di calore corporeo in più rispetto alle tecnologie precedenti.
Omni-Heat Reflective, Omni-Heat 3D e Omni-Heat Black Dot. Omni-Heat Infinity è presente in numerosi capi del brand: dai piumini street e outdoor alle giacche per sport invernali, dalle calzature fino agli accessori e, a differenza delle rigide coperte termiche, offre tutto il comfort che cerchi per affrontare l’inverno. Comfort e funzione si uniscono allo stile di prodotti che ben si adattano alle diverse attività all’aria aperta. La tecnologia è ben visibile all’interno dei capi e conferisce un look extraterrestre ogni volta che si apre la zip.
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NASA nello spazio, dove le temperature sono decisamente rigide ed il mantenimento del calore corporeo è fondamentale nei lunghi periodi di tempo.
BY LISA MISCONEL
BY LISA MISCONEL
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Adrien Theaux Di nuovo in pista
Slalom, slalom gigante: Adrien Theaux ha scoperto e affinato molto presto la sua sensibilità e passione per le discipline dominate della velocità: il suo debutto in Coppa del Mondo nello Slalom Gigante risale infatti al 2004, per poi piazzarsi, nel corso dello stesso anno, nella top ten della discesa libera di Lake Louise, Canada. Quando si tratta di andare forte lo sciatore francese, che non per niente è ambassador Colmar, è tra i migliori al mondo. Lo ha dimostrato anche nel 2015, quando si è portato a casa una medaglia di bronzo nel SuperG ai Mondiali. Se hai questo rapporto simbiotico con la velocità, e per la maggior parte delle tue giornate sei lanciato a 80 chilometri orari con addosso solo una tutina da gara impalpabile, forse un impatto prima o dopo lo metti in conto, ma nessuno, credo, sia pronto a mettere in conto di fracassarsi quasi completamente prima di un’Olimpiade che potrebbe essere l’ultima della carriera, esattamente quello che è successo a Theaux a Copper Mountain, in Colorado, durante un allenamento Super G.
«Era il 15 novembre 2021 e stavo facendo una sessione di SuperG, ero un po' stanco, ma niente di che. Eravamo vicini alla stagione di apertura della Coppa del Mondo e nelle settimane e nei giorni precedenti il mio feeling su-
gli sci era buono, quindi ho pensato di fare la mia prima discesa esattamente come se fosse una gara. Ho spinto tanto, ho sciato bene. È nell'ultimo tratto, nella parte ripida, che ho fatto un piccolo errore: sono caduto sullo sci interno e mi sono rialzato direttamente, ma lo sci spingeva troppo e non mi era possibile né girarlo e né frenare, quindi sono finito direttamente sulle reti: ho attraversato tre file di reti per poi andarmi a schiantare tra gli alberi». Un errore minimo che ha avuto sul corpo di Adrien l’impatto di un tornado: «Mi sono rotto una gamba, dalla parte sbagliata, anche il braccio era rotto, così come il fianco, e avevo
un grosso taglio sulla coscia, causato dal ramo di un albero». Un dolore immenso paragonabile solo a quello che un atleta può provare di fronte alla possibile parola fine nei confronti della propria strada come sportivo.
«Il mio primo pensiero è stato per la carriera, era finita. Conosco altri atleti che hanno avuto lo stesso problema alla gamba, a volte da incidenti così non si torna indietro. È stato terribile, non volevo finire la mia carriera in questo modo e, come se non bastasse, subito dopo ho pensato all’Olimpiade, Pechino 2022, che si sarebbe tenuta l’anno dopo. Era finita, i miei sogni
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Nessuno credeva nel suo ritorno eppure Adrien Theaux è tornato a gareggiare dopo un terribile incidente che sembrava avesse distrutto la sua carriera.
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BY ILARIA
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erano spariti e questo mi ha veramente strappato il cuore, è stato un momento difficile sia fisicamente, per il dolore, che mentalmente. È stata durissima rinunciare alle Olimpiadi, non essere in grado di correre per difendere le mie possibilità, ma poter solo guardare la gara. Ma fa parte del gioco, facciamo uno sport tosto e ne conosciamo le conseguenze». Le conseguenze però nel caso di Theux lo hanno fatto scontrare con le previsioni dei media, la parola fine associata al suo nome come una sentenza: un incidente del genere a 37 anni per un atleta non è una variabile da poco. Adrien però ha tirato fuori la forza di un leone e si è rimesso in gioco. «Non sapevo cosa sarebbe successo, ma avevo una cosa in testa, tornare sugli sci. Era troppo difficile guardare i ragazzi seduto sul divano. E poi amo alla follia il mio sport, quindi il mio obiettivo è sempre stato quello di tornare, ma non sapevo se questo sarebbe stato possibile. Non ho mai mollato però: ho passato momenti davvero brutti, è stata dura, con alti e bassi durante i quali alcuni sponsor mi hanno scaricato, ma ho lavorato sodo con il mio obiettivo ben saldo in testa e, passo dopo passo, ci sono riuscito. Volevo dimostrare che per me non era finita: sono fortunato a poter fare qualcosa che amo e il mio piano è quello di continuare a gareggiare al miglior livello possibile, divertendomi e con gioia». Mentre scriviamo questo pezzo Theux si è appena aggiudicato un settimo posto durante gli allenamenti per la discesa di Coppa del Mondo in Val Gardena: un rientro in pista decisamente notevole, che dimostra quanta grinta abbia questo atleta: quello che fa di uno sportivo un campione infatti va oltre i risultati, oltre il podio e le medaglie. Adrien Theux quelli ce li ha nel suo palmarès, ma di essere un campione lo ha dimostrato con la forza d’animo che lo ha portato, ormai a 38 anni, a ritornare a gareggiare dopo un
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ILARIA CHIAVACCI
BY SILVIA GALLIANI
Picture Lifetime Repair Warranty
Dal 2008, Picture si impegna dura mente nel ridurre il proprio impatto sull'ambiente, la missione è infatti quella di combattere il cambiamento climatico attraverso la passione per gli sport di montagna e la vita outdoor. I brand sono fatti di persone e in Picture troviamo surfisti, alpinisti, escursioni sti, ciclisti, sciatori. In una sola parola: avventurieri. Ed è la loro passione per la vita all'aria aperta che guida il loro bisogno di fare la differenza. Impe gno nei confronti della sostenibilità e trasparenza da sempre sono i pilastri del marchio francese. Da qui viene naturale la scelta di utilizzare mate riali e processi che impattino il meno possibile sull'ambiente, in modo da creare prodotti più sostenibili. Questo è il motivo per cui tutti i capi di Picture sono in media almeno riciclati al 50% o di origine biologica. Tuttavia, c'è sempre spazio per migliorare. E Picture continua a lavorare per trovare più soluzioni che riducano sempre di più la dipendenza dai combustibili fossili.
Altri aspetti chiave della sostenibilità sono la durabilità e il ciclo di vita di un prodotto. Ecco perché tutti i capi Picture sono progettati per durare nel tempo: utilizzare a lungo un prodotto che è già nella tue mani è l'opzione più rispettosa dell'ambiente. Tuttavia, le cose si consumano con il tempo. Pertanto, oggi Picture offre Lifetime Repair Warranty, una garanzia di riparazione a vita per i suoi capi, assicurandoti di ottenere il massimo dalla tua attrezzatura.
Invece che sostituire un prodotto vecchio con uno nuovo, Picture preferisce
riparare i tuoi capi outdoor ogni volta che è possibile. Per fornire questo servizio, il brad collabora con diversi centri di riparazione sin dalla sua creazione, nel 2008. Ma c'è di più, fino al 2021 Picture prevedeva per i propri prodotti solamente la garanzia di 2 anni richiesta dalla legge (in Francia), mettendo i consumatori in contatto con i propri centri di riparazione una volta che la garanzia fosse scaduta. Attraverso la garanzia di riparazione a vita, invece, i consumatori non dovranno più preoccuparsi di questa data di scadenza. Per tutta la vita del capo, Picture si impegna a ripararlo grazie ai numerosi centri che ora si trovano in Germania, Danimarca, Portogallo, Francia, Svizzera, Scozia, UK, Canada, USA, Russia, Cina, Australia, Argentina e Nuova Zelanda. Al lancio della Lifetime Repair Warranty, nel 2021, 46 capi sono stati riparati nei principali laboratori di
Picture mentre nel 2022, con la riapertura dei centri in tutto il mondo, Picture quadruplicato il numero: 193 capi (di cui 140 giacche) solo nel 2022. Ma c'è di più, le richieste di riparazione sono aumentate del +133% tra il 2021 e il 2022, segno evidente di come riparare invece che sostituire stia ora diventando la normalità. Le riparazioni aumentano la longevità di un prodotto, diminuendo il suo impatto complessivo sull’ambiente, e sempre più persone stanno diventando consapevoli dell’effetto positivo che questa semplice azione ha sulla natura.Attualmente Picture sta pianificando di espandere la propria rete di centri di riparazione per garantire ai clienti un facile accesso al servizio a seconda di dove si trovino. Questo progetto si inserisce nell'approccio generale di Picture alla conservazione: ridurre il fabbisogno energetico e modificare i modelli di consumo.
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FLORIAN PALLUEL
Abbiamo avuto la possibility di scambiare qualche parola con Florian Palluel, Sustainability Manager di Picture, per saperne di più sull’impegno del marchio riguardo la sostenibilità e la durata dei suoi prodotti.
Da dove nasce l'idea di offrire una garanzia di riparazione a vita? Invece di sostituire un capo danneggiato con uno nuovo, preferiamo riparare ogni volta che è possibile. Per fornire questo servizio, collaboriamo con diversi centri di riparazione sin da quando Picture è stato fondato nel 2008. La garanzia di riparazione a vita introdotta nel 2020 è stata un’evoluzione naturale per noi.
Il mercato del second hand e delle riparazioni sta crescendo sempre di più. Pensi che ciò sia dovuto ad una crescente consapevolezza da parte dei consumatori riguardo al tema della sostenibilità? È difficile da dire. Quando si tratta di riparare i vestiti, direi di sì, perché c'è un legame diretto con la loro durabilità: si evita un nuovo
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BY SILVIA GALLIANI
acquisto. Anche l'usato è un ottimo modello di consumo, ma è guidato principalmente da scelte economiche. Inoltre, vedo un potenziale effetto di rimbalzo con i capi second hand: quando sai che sarà molto facile vendere un prodotto usato, potresti essere incoraggiato ad acquistarne sempre di nuovi. Ecco perché su Vinted ad esempio vediamo tanti capi nuovi, mai indossati o indossati una sola volta. Quindi la moderazione dovrebbe essere fondamentale anche quando si tratta di acquistare oggetti di seconda mano.
Pensi che sia una tendenza in atto che coinvolge solo le giovani generazioni? E se è così, come avvicinarsi a un pubblico più ampio? Non riguarda solo le generazioni più giovani, ma soprattutto quella corrente. Tuttavia, non ho mai lavorato su come avvicinare un pubblico più ampio, se non attraverso l'istruzione e la formazione.
Parlando di nuovo di sostenibilità, perché è meglio riparare un capo
piuttosto che comprarne uno nuovo? Quali sono i vantaggi in termini di risparmio energetico e riduzione dell'impatto che la produzione e commercializzazione di un nuovo prodotto hanno sull’ambiente? Raddoppiando la durata di vita di un prodotto si evitano emissioni di gas serra (circa il 44%, Bédat, 2021) perché durante questo periodo di tempo si evitano uno o più acquisti. E, naturalmente, quando c'è un acquisto, c'è stata in primo luogo una produzione. Ogni fase del processo di produzione richiede elettricità e la generazione dell'elettricità utilizzata per alimentare le macchine è la causa principale delle emissioni di carbonio nell'industria tessile. Questo progetto di garanzia di riparazione a vita si inserisce nel nostro approccio generale alla conservazione: ridurre il nostro fabbisogno energetico e modificare i modelli di consumo. Noi di Picture sappiamo di avere un ruolo da svolgere affinché tu possa far durare i tuoi vestiti il più a lungo possibile.
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Ride, Protect & Share : these three words represent the essence of who Picture is: a snowboard, ski, surf, and outdoor clothing brand who, while not taking itself too seriously, still wants to effect change.
BC/TOURING LINE
Technical, lightweight & ergonomic products, dedicated to backcountry touring.
Aligned with Picture’s community, its new Freetouring line gathers everything that defines the brand: riding off tracks, drawing lines with your friends, exploring local outdoors while always promoting sustainable solutions in everyday life. Looking for peaceful playgrounds, fresh powder and pushing out your boundaries, you’ll find a complete range of jackets & pants featuring Picture’s most performant technologies.
Distribuito da BOARDCORE S.R.L. info@boardcore.it www.boardcore.it
Fjällräven
Polar
300km nella natura incontaminata
Dopo un primo decennio in cui esperti sled dog driver si misurarono in una gara simile a quella vista in Alaska, il Polar venne trasformato in un evento per persone comuni con il desiderio di sfidare sé stesse affrontando il selvaggio percorso nella natura del Circolo Polare Artico.
La storia di una gara che divenne un’avventura
Tutto ebbe inizio nei primi anni ‘90, quando Åke Nordin, il fondatore del brand outdoor svedese, partecipò come spettatore alla leggendaria Iditarod Race, la più importante competizione di sled dog in Alaska, restando affascinato dal suo svolgimento e dai partecipanti. Uno di questi era Kenth Fjellborg, fra i più noti sled dog driver svedesi ed è dall’incontro con questo che Åke ebbe l’idea di portare il format di quella gara anche nella propria terra natia. Dopo un primo decennio in cui esperti sled dog driver si misurarono in una gara simile a quella vista in Alaska, il Polar venne trasformato in
un evento per persone comuni con il desiderio di sfidare sé stesse affrontando il selvaggio percorso nella natura del Circolo Polare Artico. Grazie al giusto supporto, equipaggiamento e mentalità, Fjällräven diede così inizio a uno degli eventi più unici ed inclusivi al mondo.
Dalla Lapponia svedese ai margini dei fiordi norvegesi Prima di poter affrontare 300km immersi nella natura selvaggia ed incontaminata, è necessario che i partecipanti apprendano tutte le tecniche di sopravvivenza essenziali che potranno tornare utili e in certi casi indispensabili nel corso della spedizione. Questo avverrà proprio nella
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MISCONEL
BY LISA
PHOTO ADAM BOVE
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Lapponia svedese a Jukkasjärvi, a 17km da Kiruna dove partirà la loro avventura, non prima però di aver incontrato ognuno la propria squadra di cani con i quali stabilire un vero e proprio rapporto di interdipendenza per i 6 giorni seguenti. Direzione nord, attraversando la sterile tundra lappone, laghi ghiacciati e foreste di montagna in sperduti luoghi come Sevujärvi, Kattuvuoma, Råstojaure, passando persino per una delle più estese aree di permafrost in Europa, Pälstsa. Un’avventura a stretto contatto con in cani dove sarà necessario adattarsi ai cambiamenti naturali, con temperature fino a 30° sotto lo zero, e cavarsela autonomamente mettendo in piedi accampamenti e cucinando all’aperto, potendo però sempre contare sul supporto delle guide e degli esperti di Fjällräven. Dopo cinque notti, illuminate solo da infinite stelle e riscaldate dal fuoco e dalle emozioni, si raggiungeranno i margini dei fiordi norvegesi a Signaldalen.
Chi, come e quando?
Dopo lo stop forzato causato dalla pandemia, Fjällräven Polar torna con un percorso nuovo, ed è inutile dire che il numero dei candidati degli anni passati è aumentato a dismisura con oltre 14mila appassionati di outdoor da ogni angolo del mondo assetati di avventura, natura e forti emozioni, disposti a giocare tutte le proprie carte per entrare a far parte dei meritevoli 20. Le selezioni, con una modalità tutta nuova, si sono svolte dal 24 ottobre al 13 novembre e i nomi dei futuri membri della spedizione Fjällräven Polar 23, che si terrà dal 30 marzo al 5 aprile 2023, sono stati comunicati il 2 dicembre scorso. Insomma, non possiamo che attendere con ansia la fine dell’inverno per scoprire come andrà quest’avventura unica nel suo genere e, chissà, magari pensare ad una candidatura per la prossima edizione!
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BY LISA MISCONEL
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Moncler Grenoble III
BY CHIARA GUGLIELMINA LOCATION MONTE ROSA
Siamo fotografi, giornalisti e appassionati di outdoor, ma prima di ogni altra cosa siamo montanari. Di noi si dice che siamo introversi, testardi, di mentalità chiusa. Si dice che siamo solitari, istintivi e spesso taciturni di poche parole. Sono tante le storie che si raccontano intorno alla montagna e alla sua gente. Il marchio Moncler nasce nel 1952 a Monestier de Clermont, un piccolo villaggio vicino a Grenoble, non lontano dalla vetta più alta d’Europa: il Monte Bianco.
Era inevitabile che una relazione tra le due realtà nascesse.
Tutti conoscono il vocabolo “Moncler”, ma forse non tutti conoscono la storia che ne ha sancito la nascita. Ricordate quei montanari di qualche riga fa, quegli uomini duri, umili ma orgogliosi? La storia di uno dei Fashion Brand più riconosciuti al mondo è nata ai piedi della montagna; idee visionarie di gente di montagna, per gente di montagna. L’origine stessa del nome proviene dall’abbreviazione di quel piccolo villaggio, in quel piccolo stabilimento di montagna di Monestier de Clermont.
Se si ha come obiettivo quello di scalare una grande vetta, partire con umili intenzioni è il segreto per non fallire dopo i primi dislivelli. I piumini Moncler comparvero per la prima volta sulle spalle degli operai che lavoravano in quel piccolo stabilimento di montagna. Scopo principale? Il riparo dal freddo, fin da subito. Fu poi l’alpinista Lionel Terray a intravedere tra quelle piume posate su spalle calde, una possibile linea specialistica per escursioni più severe, su quelle montagne che sovrastavano ogni cosa fuori dalla fabbrica. Nessuno, nemmeno loro, poteva immaginare che lo sviluppo dei primi sacchi a pelo imbottiti, insieme alle tende con struttura telescopica, avrebbe potuto portarli fino all’allora inviolata vetta del K2. Noi oggi siamo gli stessi montanari di un tempo, con il nostro orgoglio e la nostra cocciutaggine. E anche le necessità sono le medesime: andare in montagna riparandoci dal freddo. Moncler questo lo sa, pare ci conosca bene ormai. Tendenzialmente è il calendario a segnare, con le ultime settimane di novembre, l’arrivo della stagione sciistica. Quest’anno, forse come nel 1952, è stata la neve a farlo. Sul Monte Rosa, a 3000 metri di quota, fiocchi enormi, pesanti e vento di tempesta hanno investito il versante su cui avevo programmato di testare e fotografare i nuovi capi dell’ormai nota linea Moncler Grenoble. L’unica pista
aperta quel giorno era avvolta nella nebbia e alternava lastre di ghiaccio a pesanti cumuli di neve fresca; difficile da sciare perfino per i più esperti. La stazione ha fatto il possibile ma le avverse condizioni meteo hanno complicato le cose a molti. A noi è bastato cambiare programma. Dalle ampie vetrate all’arrivo della funivia che porta al Passo dei Salati si gode solitamente di una vista mozzafiato su alcune delle cime più belle dell’intero massiccio. Quel giorno solo bianco assoluto, aria a vorticare senza direzione e disegni in continuo movimento sul manto nevoso vicino alla parete rocciosa che segna l’inizio di una famosa linea di freeride: la Balma. S’intravede, in quel manto animato tra le folate di tormenta, una breve ma percorribile via di risalita con le pelli di foca. E perché no? “Mettiamo alla prova, anche nella montagna più severa, i capi di quel piccolo stabilimento di montagna.” ho pensato. Qualche ora dopo siamo rientrati al bar completamente asciutti; entusiasti. Non ne abbiamo parlato molto per non contraddire la nostra reputazione di taciturni, ma tutti hanno ordinato una birra sorridendo.
La collezione di quest’anno sposa l’abilità tecnica e le lavorazioni innovative unendole a una tavolozza colorata, a silhouette audaci ed elementi casual. In questi capi è stata riservata la giusta attenzione a qualunque sciatore; dal freerider estremo all’amante degli aprés-ski.
Una pacca su quelle spalle vogliamo darla anche per la recente dichiarazione: “Mai più pellicce animali in abiti e accessori firmati Moncler.” I materiali impiegati, già da questa collezione, sono a basso impatto ambientale e lo vediamo nell’utilizzo di cotone biologico e piuma sostenibile. In sintesti, per noi uomini e donne di montagna, solitari e di poche parole, doppio pollice alzato.
With Sara In her lines
TEXT CHIARA GUGLIELMINA
PHOTO MATTEO PAVANA & MAURIZIO MARASSI
C’è una fotografia di Sara in cui, timidamente, si copre il viso con una grande foglia verde. Lunga tre grossi palmi di mano e larga almeno due. È bella e simmetrica e ha il lembo verde come la foresta a parte la spessa nervatura, che dal picciolo all’apice, la divide e si ramifica in sfumature più chiare. La foglia completa Sara, ma quando la sposta la sua delicatezza esplode. “Caspita, sei bellissima.” ho pensato la prima volta che l’ho vista. Non l’ho detto a voce alta perché i pensieri preziosi, rari, vanno custoditi. Ci sono cose nella vita che vanno dette, altre scritte. E la voce non rende giustizia a un tocco gentile come il suo, le parole su carta stampata rimangono. Viso sorridente e lineamenti fini come i suoi disegni. Della bontà ne parlano gli occhi, della forza il suo gesticolare, contenuto ma preciso. Se è vero che “forte è chi tratta gli altri con delicatezza” Sara è poderosa.
Potrei descrivere il suo lavoro per ore ma non serve, parla da solo. Inoltre, il mio compito dovrebbe essere quello di raccontarvi chi è e cosa fa Sara. Perciò, nel caso qualche folle non avesse compreso la forza della sua arte già nel primo paragrafo, provo a riassumere in maniera più concreta (che in questo caso è la peggiore tra le possibili) quello che fa.
Innanzitutto, va chiarito che Sara è un’artista. E come tutti i grandi artisti questo suo impulso è “qualcosa che si porta dentro da quando è piccina” dice lei e “qualcosa che si porta dentro dalla nascita” dico io. Così come lo è il suo legame con la natura. Per farla semplice potrei dirvi che Sara disegna. Ma non sarebbe vero perché lei è un’artista. E sono cose diverse. Sara è innanzitutto una gran lavoratrice, che in mezzo a tutte queste linee è riuscita a incastrare anche un lavoro a tempo pieno come quello di Designer per Wild Country, noto brand di arrampicata. Dal punto di vista umano, invece, Sara si esprime, e il disegno ne è una bellissima conseguenza, ma potrebbe anche diventare altro. Quello che intendo, quello che credo di aver capito, è che nella composizione finale delle sue opere non conta tanto il quadro finito, quanto piuttosto le linee che le hanno permesso di esprimersi arrivando a quell’unico disegno definitivo, scelto tra infinite possibili varianti. Dal punto di vista tecnico invece, se devo parlare da graphic designer e fotografa, sono imbarazzata dal suo talento. Realizzare una buona composizione quando si scatta, specialmente in montagna dove gli elementi sono in movimento continuo, è complesso. Pensare di illustrare una fotografia di montagna, già composta e
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scattata da una terza persona (l’autore), richiede abilità tecniche di livello superiore.
E prima di parlarvi del progetto in collaborazione con Cober volto a sensibilizzare e informare sul tema dello scioglimento dei ghiacciai, faccio una parentesi legata alla forza poderosa di cui accennavo qualche riga fa. Se state leggendo The Pill probabilmente siete runner, skier, cyclist, hiker o altro ancora e avete sicuramente imparato, nei vostri anni in montagna, a comprendere a fondo il senso delle distanze.
A luglio di quest’anno Sara ha disegnato le sue linee lungo i 100 metri d’arrivo della Maratona delle Dolomiti. Tecnica: gessetto su asfalto. 100 metri sono quelli corsi da Bolt in 9’’58; lei ha disegnato ogni millesimo di quel tempo. In parete sono almeno tre tiri di corda. 100 metri di dislivello possono influenzare, e di molto, l’arrivo o meno in vetta. 100 metri sono tanti.
Io l’ho visto il video che le hanno rubato durante l’esibizione. Una figura snella, agile e delicata come le sue piante si muove tra linee effimere, destinate a scomparire. Nelle cinque ore impiegate per completare il quadro, fino a coprire ogni metro, non ha solo disegnato. Lo ribadisco. In quel suo spazio-tempo infinito Sara si
è espressa. E io mi sono commossa. Non si muovono le sue mani, si muove tutto il corpo. Una delicata danza di cui non rimarrà nessuna traccia. Linee essenziali portate via, una dopo l’altra, dal passaggio dei ciclisti. Linee sbavate, alla fine cancellate, eppure eterne.
(E lo so che qualcuno di voi sta pensando che io stia esagerando. Ma, o state leggendo la rivista sbagliata, o non avete visto il video, o non conoscete Sara. In ogni caso potreste e dovreste porre rimedio alla cosa.)
Non è poi così diverso da chi, le sue tracce, le disegna sulle montagne.
*Herbarium è il progetto da cui è partito tutto non a caso “herbarium”, che deriva probabilmente dall’antico persiano “asparag” significa, per l’appunto, germoglio. Ma la sua arte, come le sue piante, si sono evolute più in là. Lo trovo un concetto tanto semplice, quello che sta delicatamente urlando Sara, da sentirmi in imbarazzo nel non averlo compreso prima. Serve avere fiducia nei germogli, minuscoli seppur capaci di superare rigidi inverni. Microscopici segni di vita in grado di far crescere alberi enormi sotto cui, un domani, riposare. Origine di piante con gigantesche foglie verdi come la foresta, testimoni di un miracolo, vive per far
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vivere la pianta o, come piace a Sara, utili per coprirsi timidamente il viso.
Per parlarvi della collaborazione con Cober (azienda produttrice di bastoni e racchette per le attività outdoor) è giusto che sappiate che, fin dalle origini, si è distinta per l’impegno verso scelte che fossero sostenibili per l’ambiente tutto e, in particolare, per quello montano. Tenendo conto che l’esordio di Cober risale a settant’anni fa, definirlo un brand visionario mi sembra il minimo.
Le tre t-shirt in cotone organico e stampa in serigrafia artigianale, frutto della collaborazione vincente tra Cober e Sara, fanno parte della capsule collection *herbarium x Cober realizzata all’interno di “The Art of Skiing”, progetto sviluppato dall’azienda stessa con lo scopo di rendere più saldo il legame tra montagna, sport e arte. Al confezionamento dei capi hanno lavorato i detenuti e le detenute del carcere Lorusso Cotugno di Torino. Un’attenzione in più che dimostra, ancora una volta, il riguardo del brand verso temi sociali e ambientali, nonché l’interesse per la promozione di una moda etica. Le linee che Sara ha tracciato su quel cotone vergine raffigurano tre specie in via di estinzio-
ne: Cardamine resedifolia L., Minuartia sedoides L., Gnaphalium supinum L. Ancora una volta Sara ha fatto ciò che le riesce meglio: tracciare linee. Questa volta le ha fatte germogliare sugli scatti di Maurizio Marassi, fotografo e atleta d’eccezione. Non credevo fosse possibile migliorare certe immagini eppure pare che Sara abbia aggiunto qualcosa alla visione del fotografo, alleggerendolo. Inserendo per togliere. Completando l’opera. Come ci riesca rimane un mistero. Ed è giusto così.
Essendo, le sue linee non delineate da punti finiti, il progetto si è evoluto com’era prevedibile. Le ramificazioni delle sue piante hanno finito per mettere radici fino al Trento Film Festival, in una mostra organizzata e curata in collaborazione con il fotografo Matteo Pavana e il ricercatore Gianalberto Losapio.
Né Sara né Matteo sono ragazzi capaci di fare cose senza che abbiano significato. Non hanno disegnato casuali linee su belle immagini, hanno scavato e si sono interrogati perché fanno parte di quegli strani individui che sanno ancora porsi domande. Una volta, un tizio famoso ha detto che “Il problema dei fi-
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losofi e degli artisti è che s’interrogano su cose di cui la maggior parte del mondo non comprende le risposte.” Personalmente non lo trovo un gran problema. Dalla loro indagine emerge come le specie pioniere seguano i ghiacciai nel loro ritiro, evidenziando come una volta scomparsi questi, la diversità delle specie vegetali diminuirà. E fino al 22% delle 118 specie analizzate potrebbe scomparire per sempre, localmente o dappertutto. Ecco perché “The Eco Of Glaciers” è il nome della collezione in collaborazione con Cober. “Eco”, non “riverbero” o “rimbombo”, la parola scelta è “Eco”. Come il riflesso di un suono che ritorna, evocativo del lamento dei ghiacciai durante il pianto della fine: lo scioglimento definitivo. Un grido d’aiuto all’umanità tutta.
A tutte queste immagini stampate, capolavori che incorniciano queste parole (o forse il contrario), non voglio aggiungere altro. Le linee di Sara germogliano sulle fotografie di Maurizio e Matteo per raccontare la storia di specie vegetali che potrebbero estinguersi insieme ai ghiacciai. Lo ripeto però, GERMOGLIANO, e ormai noi tutti sappiamo che se la vita riparte, lo fa da quei microscopici miracoli.
Nelle cinque ore impiegate per completare il quadro, fino a coprire ogni metro, non ha solo disegnato. Lo ribadisco. In quel suo spazio-tempo infinito Sara si è espressa. E io mi sono commossa. Non si muovono le sue mani, si muove tutto il corpo. Una delicata danza di cui non rimarrà nessuna traccia. Linee essenziali portate via, una dopo l’altra, dal passaggio dei ciclisti. Linee sbavate, alla fine cancellate, eppure eterne.
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Yannick Boissenot Skialp and paragliding
PHOTOS FABIAN BODET
TEXT ILARIA CHIAVACCI
Yannick non si accontentava di essere sia un fenomeno sugli sci che un ottimo fotografo e filmmaker: ha dovuto iniziare a volare col parapendio.
Eccellere con gli sci ai piedi, sia che si tratti di una discesa o di una risalita, non ha impedito a Yannick Boissenot di eccellere anche dietro l’obiettivo, che si tratti di una macchina fotografica o di una telecamera. Oltre i mille metri d’altitudine, a Chamonix sul Monte Bianco Yannick è di casa e lo ritrae come si potrebbe ritrarre uno di famiglia. Essere di casa sulla montagna più alta e maestosa dell’Europa Occidentale, però, non lo rende immune al fascino di sfide sempre nuove e, a trentotto anni, Yannick ha messo a segno un’altra avventura mozzafiato dove, questa volta, ha unito scial-
pinismo e parapendio. La ricerca di percorsi inediti è il motore di Yannick, per cui la preparazione è fondamentale: questo genere di missioni si iniziano a macchinare con mesi d’anticipo. Ancora prima che finisca l’estate, lo scialpinista-fotografo inizia a studiare i possibili tracciati da seguire e inizia a mettere in cantiere l’attrezzatura di cui avrà bisogno: combinando due discipline tanto diverse tra loro, lo scialpinismo e il parapendio, è fondamentale essere preparati ad affrontare condizioni meteorologiche che possono cambiare in maniera anche molto repentina, perciò quello che Yannick
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porta con sé è sempre studiato nei minimi particolari. Per missioni di questo genere un aspetto cruciale è la leggerezza: per questo da qualche anno lo scialpinista collabora con il team produttivo Salewa, che ha una linea pensata, modellata e realizzata sulle esigenze di chi pratica scialpinismo e che ha debuttato al pubblico in questo autunno/inverno 22/23.
Skialp e parapendio: cosa ti ha portato a studiare una missione strutturata con questa combo? Negli ultimi dodici anni ho realizzato imprese sul massiccio del Monte Bianco e accompagnato spedizioni in tutto il mondo: Perù, Pakistan, India, Giappone e Alaska, sempre con gli sci e sempre su percorsi molto difficili. Ho da sempre avuto un debole per lo sci estremo, in particolare per le linee molto ripide ed esposte. Quell’amore per lo sci estremo rimane, ma oggi sono padre di due figli, il che significa che dedico un po' meno attenzione ai miei progetti in montagna. La combinazione di parapendio e sci però
è una nuova sfida per me, che mi dà piacere e soddisfazione quanto lo sci estremo e che allo stesso si concilia meglio con la mia vita attuale.
Quando
ti sei avvicinato al parapendio?
Dopo il lockdown, nel 2020. Non so perché, ma dopo essere stati privati della libertà mi è venuta voglia di volare. In più il riscaldamento globale sta avendo un impatto sempre maggiore sul nostro habitat e, nel lungo periodo, il parapendio potrebbe diventare sempre più pratico, se non essenziale, per raggiungere buone linee in quota e poi anche per tornare
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a casa. Questo mi eviterebbe lunghe discese a piedi, a volerla vedere in ottica conservativa mi fa evitare anche di sforzare le ginocchia.
Quale tra le due discipline ami di più?
Lo sci è la mia passione fin da bambino: adoro la parte di ricerca e poi il piacere di tracciare nuove linee nella neve fresca. Il parapendio è qualcosa di nuovo per me, volo soltanto da due anni e ho ancora molto da imparare. È qualcosa di diverso, ma dopo una bella volata provo la stessa soddisfazione che dopo una giornata sugli sci.
Ci racconti dell’impresa?
L'idea era quella di decollare dall'Aiguille du Midi e di atterrare alla base della parete, per poi partire per la salita e infine sciare. Dopo aver terminato la discesa idealmente sarei dovuto decollare di nuovo con il parapendio per finire poi la giornata con un atterraggio nel cortile di casa. Quindi sono partito con un primo tentativo di planata verso le Periades, dove però c’era vento fortissimo da ovest, con una velocità che ha raggiunto i 25 mph a quota 11.800, che mi ha impedito di decollare. Ho dovuto quindi dirottare la partenza a 11.150 piedi, ho potuto
così attraversare la Vallée Blanche e atterrare poche centinaia di metri sotto il punto di decollo, in un canalone intatto con condizioni di neve perfette che mi ha permesso di completare con successo questo primo test. Ho atteso a lungo, sperando in una finestra meteo con buone condizioni che mi permettessero di partire dall'Aiguille du Midi e sciare la parete nord del Dome du Gouter, a 14.120 piedi. La combinazione di un inverno molto secco, come non ne ho mai visti in tutta la mia vita, e di condizioni di vento troppo impegnative per il mio livello di parapendio, mi hanno fatto desistere. Le
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montagne ci saranno anche il prossimo anno, almeno spero, quindi ho deciso di dare la priorità alla sicurezza durante questo progetto perché la parte del volo in parapendio è ancora un territorio relativamente inesplorato per me.
Come ci si prepara a una missione del genere?
La parte fondamentale è l’osservazione, che inizia già in estate, quando le montagne non sono ancora coperte dalla neve, poi continua in autunno, quando iniziano le prime nevicate, e culmina in inverno: è fondamentale essere sul posto il più spesso possi-
bile, per rendersi bene conto delle condizioni. Questo in linea generale, siccome adesso ho incluso anche il parapendio nelle mie avventure significa che la preparazione e la ricerca dovranno essere ancora più meticolose: dovrò infatti trovare le aree adatte sia per il decollo che per l'atterraggio, poi potrò raggiungere la mia destinazione con gli sci.
Siccome adesso ho incluso anche il parapendio nelle mie avventure significa che la preparazione e la ricerca dovranno essere ancora più meticolose: dovrò infatti trovare le aree adatte sia per il decollo che per l'atterraggio, poi potrò raggiungere la mia destinazione con gli sci.
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Michele Boscacci Beyond
BY DENIS PICCOLO PHOTOS MATTEO PAVANA
Il “Bosca”, chi lo ha visto in gara se lo ricorda bene. Quello sguardo, i nervi tesi e quella voglia di arrivare. Con gambe e braccia che spingono e il cuore che pompa a mille, fino all’ultimo metro. E la puoi quasi sentire, tu che lo stai guardando, tutta questa energia. Ti fa venire voglia di prendere gli sci e andare, su e giù come fa lui quando si allena. Ma poi ti sovviene che non hai, tu, vinto qualcosa come tre Coppe del Mondo. E due ori, e cinque argenti e un bronzo ai Mondiali. E l’entusiasmo si smorza un po’, e non ti rimane che sognare…
Michele Boscacci, classe 1990, è Valtellinese DOC. Papà e mamma, entrambi di Albosaggia (Sondrio), che insieme al nonno gli hanno trasmesso la passione per lo sport e la montagna. Anzi per lo sport “fatto in montagna”. Attualmente è un atleta della nazionale italiana di scialpinismo e gareggia per il Centro Sportivo Esercito. I risultati hanno fatto sì che anche importanti brand di settore, come La Sportiva, volessero legare il proprio nome alla sua figura. Figlio dello scialpinista Graziano Boscacci, è cresciuto sportivamente nella Polisportiva Albosaggia. Spesso per i “figli d’arte” è complicato uscire dal cono d’ombra, ma lui ha saputo andare oltre. Ha vinto la classifica generale della Coppa del Mondo 2016, 2018 e 2022. Ai Campionati Mondiali, tra il 2013 e il 2019, ha messo in fila 2 ori, 5 argenti e un bronzo.
Michele, come commenti la scorsa “stellare” stagione agonistica? È andata certamente bene. Non pensavo, a 32 anni, di riuscire a fare una intera stagione ad altissimi livelli. L’ho presa con la filosofia step by step, e appunto passo dopo passo, gara dopo gara, mi sono accorto che continuavo a stare bene e a mantenere (cosa non scontata per un atleta che gareggia a questi livelli, ndr) la forma fisica. Tra i risultati che mi hanno dato maggiore soddisfazione, oltre alla Coppa del Mondo naturalmente, anche le vittorie alla Pierra Menta e alla Sellaronda Skimarathon. Dopo una stagione così sarebbe bello ripetermi, ma so che non sarà facile.
Cresci con l’influenza del papà, anche lui campione, e del nonno. Quando però hai cominciato a capire che lo scialpinismo sarebbe potuto diventare la tua professione? Da bambino il nonno che mi portava alle gare del papà e spesso mi trainava con una corda (avevo solo 5 o 6 anni) per vederlo scendere da un punto più bello e panoramico. Nella Polisportiva Albosaggia. Allora eravamo qualcosa tipo 3 o 4 ragazzini tesserati e lo scialpinismo era davvero uno sport di nicchia. Ho cominciato a gareggiare in tenera età e mi piaceva “andare per gare”. Con la scusa che “ero figlio di Graziano” avevo a volte l’occasione di scambiare qualche parola anche con atleti più grandi di me che diversamente non avrei approcciato. Spesso
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Perché dietro ai risultati di un campione ci sono impegno, passione, determinazione e perseveranza. Tanto allenamento (oltre al talento) che lascia però spazio anche a una quotidianità fatta di famiglia e amore per la propria terra.
mi chiedevano come stava e poi chiudevano con Salutami il papà. Era così. Nel 2008 sono entrato in Nazionale Juniores e da lì è stata una crescita continua.
Se non avessi fatto l’atleta, quale altro futuro avresti immaginato per te? Il papà e il nonno hanno una falegnameria. Credo che avrei lavorato nell’azienda di famiglia. Cosa che ho fatto fino ai 22-23 anni, fino a che non sono diventato uno scialpinista di professione.
Sappiamo che hai anche degli animali… È una cosa curiosa! Esattamente, ora ho una stalla con una ventina di esemplari di Bruna Alpina. Fin da bambino ero affascinato dai pastori. I miei bisnonni avevano “gli animali” e spesso, nel tempo che ho trascorso con loro, mi raccontavano dei pascoli e degli alpeggi. Forse, così facendo, mi hanno tramandato la passione. Un sogno rimasto nel cassetto fino a che, già in Nazionale, non ho potuto comprarmi due vitelli, che col tempo sono diventati adulti. È partito tutto da lì.
Da settembre 2021 sei sposato con Alba De Silvestro, compagna di squadra in Nazionale. Come è la vita di una coppia di atleti? Rispetto alle altre coppie trascorriamo molto più tempo insieme. Ci svegliamo insieme, andiamo ad allenarci e torniamo insieme. Non trovo ci siano dei “contro” nel condividere così tanto, anzi ci sono solo vantaggi: ad esempio lei mi stimola negli allenamenti.
Quale è il peggior difetto del Michele-atleta e quale quello del Michele-persona?
Sugli allenamenti sono spesso troppo fiscale, in passato mi sono concentrato su volume e quantità, tralasciando altre cose importanti. Anche come persona, quando mi metto in mente una cosa… Guai se non riesco a ottenerla. Tradotto, un po’ testardo e poco elastico forse.
C’è un avversario con cui ti stimola particolarmente gareggiare? Senza esitazione ti rispondo Robert Antonioli. Siamo cresciuti insieme, entrati in Nazionale insieme e già da giovani ci stimolavamo l’un altro. Con Eydallin siamo la vecchia guardia.
Uno sportivo, del presente o del passato, che stimi / ti affascina è? Che domande, Kilian! Quando io ero giovane, lui iniziava ad andare forte tra i senior. Mi sono scontrato con lui e qualche volta l’ho anche battuto… Ma erano più le volte in cui era lui ad avere la meglio. Una testa forte, inossidabile. Un vero fuori classe, difficile da eguagliare. Spesso quando sento pronunciare la frase “questo ragazzo è un futuro Kilian” sorrido e penso che “di Kilian ce ne è uno solo”.
Skialp e Olimpiadi: ti piace la direzione che sta prendendo la disciplina? Sta prendendo una piega che a tanti non piace. In parte sono d’accordo, perché quello che vedremo alle Olimpiadi snatura un po’ la disciplina. Tuttavia penso che, come in altre discipline, ci sono state delle evoluzioni che col tempo sono piaciute. La cosa positiva è che, certamente, le Olimpiadi saranno per questo sport una finestra sul mondo, così come è stato per l’arrampicata sportiva.
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Da bambino il nonno che mi portava alle gare del papà e spesso mi trainava con una corda (avevo solo 5 o 6 anni) per vederlo scendere da un punto più bello e panoramico.
BY
MANZONI
“Ogni attivista deve essere un sognatore, un utopista, un massimalista... Di fronte a violenze, attacchi, malintesi e stigmatizzazione, dobbiamo avere la forza di rialzarci ancora e ancora. Dobbiamo sognare di poter migliorare il mondo se vogliamo essere in grado di continuare a lottare.”
Perché parlando delle avventure di Kristin Harila, molti sentono l’esigenza di specificare che ha gli occhi azzurri, i dread biondi e un sorriso meraviglioso, mentre di Denis Urubko non gliene frega niente a nessuno di come è fatto ma solo di quello che fa? Perché si precisa che è un’alpinista donna? Perché il mondo della montagna è ancora estremamente machista e misogino. Eppure di donne che vanno in montagna e ottengono dei risultati incredibili ce ne sono sempre di più. Courtney Dauwalter, Laura Rogora, Silvia Vidal, tanto per dirne tre. Tuttavia, nella maggior parte delle divisioni di Ricerca e Sviluppo dei brand outdoor ci sono solo uomini, convinti che tutte le donne impazziscano per il fucsia.
Così finisce che se ti metti in testa di battere il record del mondo di ascesa in velocità di tutti i quattordici ottomila della Terra, ma sei una donna, trovare una tuta d’alta quota della tua misura diventa un casino, perché esistono
solo taglie da uomo. E quindi te la devi fare realizzare su misura, e poi sbatterti parecchio per trovare uno sponsor. Esattamente quello che è successo a Kristin Harila, da poco entrata nel team SCARPA.
Raccontaci chi sei. Parole tabù: montagna e alpinismo. Sono Kristin, ho trentasei anni, vengo dal nord della Norvegia. Quest’anno ho scalato dodici ottomila. Quando ero piccola giocavo a calcio e a pallavolo e ho sempre fatto molta attività fisica. Ho gareggiato come professionista nello sci di fondo fino al 2009, quando ho scoperto il mondo della corsa in montagna e dell’ultrarunning, di cui mi sono innamorata. Nel 2015 ho vinto, attraverso il mio lavoro, un viaggio in Kilimangiaro, e ho deciso di scalare la montagna più alta dell’Africa. Nel 2019 mi sono licenziata (la scelta migliore che ho fatto nella mia vita) e ho deciso di prendere un anno sabbatico per fare alpinismo. Sono volata in Nepal,
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- INNA SHEVCHENKO, FEMEN LEADER MARTA
Kristin Harila, un’utopista realista
dove ho scalato il Putha Chuli (7246m). Poi sono salita sull’Aconcagua (6962m), in Argentina, e ho fatto alcune spedizioni di scialpinismo. Poi è arrivata la pandemia. Ne ho approfittato per allenarmi, e nel 2021, appena è stato possibile, ho scalato l’Everest e poi il Lhotse in sole 12 ore, stabilendo un nuovo record femminile. Ho anche iniziato a programmare il mio progetto, cioè essere la prima persona al mondo a scalare le quattordici vette del mondo sopra gli ottomila metri in meno di sei mesi, e per riuscirci ho venduto tutto quello che avevo. Inoltre, a causa delle difficoltà che ho incontrato, ho avuto modo di toccare con mano quanto l’industry dell’outdoor sia ancora molto lontana dalla parità di genere. Non hai una casa e non hai un fidanzato. Cosa stai imparando dal tuo stile di vita alternativo e dagli sport estremi a contatto con la natura? In realtà quando ho iniziato questo progetto avevo un ragazzo ma è finita perché ero sempre in montagna. Non è facile avere una relazione quando viaggi sempre per fare spedizioni. Amo il mio stile di vita ed essere a contatto con le montagne, ma di sicuro è tosta, ci sono dei giorni molto duri. Trovo però più difficile la vita quando scendo dalle montagne, sono a casa e devo trovare degli sponsor per i miei progetti.
L'alpinismo è roba solo per egoisti? No, non credo. Per quanto mi riguarda, sono un’alpinista perché amo scalare le montagne ma anche perché voglio cambiare qualcosa in questo mondo. Durante quest’ultimo anno ho lavorato con molti brand outdoor e ho realizzato quanto siamo lontani dall’avere una parità di genere. Pensiamo di avere raggiunto un buon livello di uguaglianza e di rispettare i diritti delle donne, mentre ne siamo lontanissimi, persino qui in Norvegia. Quando devo cercare uno sponsor è molto difficile, la maggior parte dei marchi di outdoor supportano solo atleti uomini e producono abbigliamento per alpinismo solo per gli uomini. Per questa ragione utilizzo il mio progetto degli ottomila per avere l’opportunità di sedermi al tavolo con i brand e chiedere come mai questo mondo sia ancora così sessista. Ci sono sempre più donne che scalano e la community sta andando nella giusta direzione, ma credo ci sia ancora molta strada da fare, in particolare con le aziende. Perché, con un progetto di pari portata, un uomo conta più di una donna? L’alpinismo non riguarda solo me, ma qualcosa di più importante. L’alpinismo è evitare il dolore o ricercare il dolore? È ricerca della sofferenza o del bello? Per me significa vivere la vita a stretto contatto con la natura ma anche riuscire a
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raggiungere la vetta. Per questa ragione è fondamentale essere fortemente motivati sotto diversi punti di vista. Se decidi di intraprendere determinati progetti devi essere consapevole che comportano una notevole dose di sofferenza. Devi sapere che ti sentirai a disagio per un lungo periodo di tempo.
Stavi per diventare la prima persona al mondo a scalare le quattordici vette della terra sopra gli ottomila metri in meno di sei mesi, battendo il record di Nirmal Purja che, nel 2019, con il suo Project Possible 14×7 (14 cime in 7 mesi) era stato l'alpinista più veloce. Avevi tre giorni d'anticipo sul precedente primato, cos’è andato storto? Dal Manaslu, l’ultimo dei dodici ottomila che ho scalato, avevamo a disposizione altre cinque settimane per battere il record e abbiamo iniziato le pratiche per ottenere i permessi per scalare le ultime due montagne, che però ci sono stati negati dallo stato cinese, costringendomi a rinunciare al mio obiettivo, nonostante gli sforzi che ho fatto anche con il governo norvegese e la comunità di arrampicatori. Non ho però intenzione di rinunciare! Riproverò il prossimo anno, partendo dai due ottomila che mi mancano, il Cho Oyu e il Shisha Pangma, e salendo poi di nuovo sugli altri dodici, cercando di farcela
in cinque mesi. Credo sia fattibile, di sicuro ci servono i permessi e dobbiamo essere fortunati con il meteo.
A livello logistico come hai affrontato le ascese? Tutta la parte di pianificazione, dalla ricerca dello sponsor fino alla richiesta per i permessi, è stata davvero complessa. Credo però che il prossimo anno andrà meglio, conosco le procedure e le montagne e credo riuscirò a muovermi con più facilità.
Con che stile hai affrontato gli ottomila? Durante questo progetto ho scalato con l’aiuto di Sherpa e di ossigeno, ma è stato diverso per ogni montagna, in alcune c’erano corde fisse, in altre no. Il prossimo anno comunque ho intenzione di non utilizzare l’ossigeno. In generale credo che ognuno possa fare alpinismo come crede, l’importante è essere onesti sui mezzi che si utilizzano.
Oltre l’interesse per le montagne, in proporzione quanto hanno contato raggiungere un record e il riconoscimento successivo? Amo scalare le montagne, ma è fondamentale che ci siano diverse ragioni che ti spingano a intraprendere un progetto come quello degli ottomila, il solo riconoscimento non basta. Il record è importante, perché ti aiuta a trovare degli sponsor che ti sostengano.
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Hai scalato l'Everest e il Lhotse in 8 ore e mezzo, entrambi nella stessa giornata. L’evoluzione dell’alpinismo è sempre più all’insegna di leggerezza e velocità, ma che gusto c’è nello scalare una montagna in velocità? Non esiste una contraddizione rispetto al nuovo sentimento di ricerca di maggiore armonia con i ritmi della natura? C'è il rischio che si moltiplichino i fattori di rischio? Per la sicurezza è positivo essere veloci, più a lungo stai sulla montagna più sei esposto a fattori di rischio. Di certo un progetto come quello degli ottomila è speciale, perché si focalizza sul tempo, c’è molta pressione e devi essere veloce. Sento il bisogno di vivere qualche avventura dove la performance non abbia tutta questa importanza, credo che dopo il progetto degli ottomila mi prenderò il tempo per farlo.
Durante le tue spedizioni alpinistiche come hai visto cambiare le montagne a causa del cambiamento climatico? Quest’estate in Pakistan faceva davvero molto caldo, e abbiamo notato dei cambiamenti, soprattutto nei ghiacciai, dove c’erano molti crepacci e valanghe. Anche i monsoni in Nepal sono arrivati prima del solito, un fatto assolutamente anormale.
Pensi che la montagna sia per tutti o solo per pochi? Ritengo che le persone debbano essere adeguatamente preparate, da tutti i punti di vista. Devono essere allenate, avere esperienza e fare un passo alla volta. In generale però credo sia positivo che si ricerchi una vita all’aria aperta, si vada in montagna e si approfondisca la passione per l’outdoor.
Qual è il ruolo degli alpinisti nel sensibilizzare l'opinione pubblica in merito al disastro ecologico che incombe? Credo che ognuno possa fare qualcosa di positivo per cambiare il sistema e avere un ruolo attivo nel proteggere l’ambiente. Per ora cerco di fare quello che posso per ridurre i miei consumi e le mie emissioni ma dopo il progetto degli ottomila vorrei essere più attiva su questo tema e stimolare le persone a riflettere attraverso i fenomeni che vedo durante la mia attività di alpinista.
Credi sia possibile scalare un ottomila in modo sostenibile? Hai preso molti aerei per il tuo progetto? Sì credo sia fattibile, mi sembra ci sia maggiore sensibilità, per esempio è obbligatorio riportare a valle le bombole di ossigeno e ci sono multe salate per chi non lo fa, di sicuro però si può fare di meglio, essere più attenti, creare meno spazzatura e portare sempre a valle quella che troviamo. Il mondo della comunicazione ha una notevole responsabilità, è importante che ci sia un’adeguata informazione. Cerco di prendere il minor numero di voli possibile ma alcuni sono inevitabili se vuoi fare determinati progetti. Definiresti l’alpinismo un privilegio? Sì, penso di essere molto fortunata a poter vivere questa vita. Molte persone non hanno la possibilità di stare in giro per tutto questo tempo. Hai paura di morire in montagna? No. Ci sono state delle situazioni nelle quali ho pensato di esserci andata molto vicina, ma credo che la cosa più importante nella vita sia fare quello che ci piace. Non penso alla morte.
Salire un ottomila se sei donna o uomo è uguale? Credo che le donne siano altrettanto forti degli uomini e quindi non si ci sia differenza.
Pensi di ispirare le persone? Spero di sì, mi piace l’idea di motivare le donne a scalare le montagne e fare ciò che vogliono davvero. Ricevo molti feedback positivi dalle donne, ma anche dagli uomini, e devo dire che è una bella soddisfazione.
Come immagini l’alpinismo del futuro? Spero che ci saranno dei passi in avanti per quanto riguarda la parità di genere, mi sembra che ci stiamo muovendo nella giusta direzione.
Se guardi fuori dalla finestra cosa vedi? Qui a Oslo è già buio! Ieri però ha nevicato ed è stato molto bello.
Chi sarai in una prossima ipotetica vita? Non credo ci sia un’altra vita, la vita è adesso.
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Hervé Barmasse Resilienza
TEXT ILARIA CHIAVACCI PHOTOS PAOLO SARTORI
Hervé Barmasse i modi di vivere la montagna li ha esperiti tutti: a 16 anni era una promessa dello sci alpino nelle categorie della discesa libera e dello slalom gigante, fino a che un’incidente gli ha stroncato quella possibile carriera. “Scordati di sciare ancora, sarai fortunato se riuscirai di nuovo a camminare” gli dissero i medici. Hervé però non solo gli sci ai piedi li ha rimessi eccome, ma poi è diventato anche maestro di sci e pure di snowboard. La passione vera però non l’ha trovata in pista, come credeva da sedicenne, ma in quel contatto con la montagna che è riservato a pochi, nelle vie più impervie e nelle condizioni più estreme. Oggi è l'alpinista italiano che si appresta a raccogliere l’eredità di giganti come Walter Bonatti e Reinhold Messner ed è parecchio titolato a parlare del futuro delle nostre montagne, intese sia come formazioni geologiche, che come comprensori e comunità. Hervé può parlare del futuro del turismo di montagna non solo perché è un profondo conoscitore di questo ambiente e perché lo ama tantissimo, ma anche perché ha provato molte volte sulla sua pelle cosa significhi dover cambiare rotta, riformulare quella che credeva fosse la strada giusta. È successo a sedici anni con l’incidente, è successo ancora quando è quasi morto colpito da una valanga mentre scalava una cascata
di ghiaccio in Pakistan, ed è successo sullo Shisha Pangma, il suo primo 8000, scalato in stile alpino e abbandonato a tre metri dalla vetta perché la neve sotto di lui e sotto il compagno David-Göttler stava cedendo. Insomma, Hervé è uno che la resilienza l’ha allenata e coltivata, proprio come ha fatto con le sue incredibili doti da alpinista. Resilienza che è d'obbligo coltivare e allenare per tutte quelle comunità montane che hanno basato la loro sussistenza sullo sci alpino e sui comprensori, ma che oggi, alla luce dei cambiamenti climatici e dello spettro della siccità, si trovano costrette a ripensare la loro offerta, se non nell’immediato, sicuramente in un futuro abbastanza prossimo. Ho avuto la fortuna di poter trascorrere due giorni insieme ad Hervé nella sua Breuil-Cervinia, il comprensorio che per lui è casa, dominato da quella montagna, il Cervino, che per lui è fonte continua di ispirazione, quella montagna dove, tra vie nuove, prime solitarie, prime invernali e concatenamenti è l’alpinista che ha compiuto più exploit, ma soprattutto il posto in cui ha ritrovato la speranza dopo l’incidente grazie al padre Marco, alpinista e guida alpina pure lui. “Noi qui, a Breuil-Cervinia e Val-tournenche, con i nostri 3800 metri di altitudine siamo molto fortunati, ma il turismo di montagna deve essere ripensato dalle basi.”
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L’alpinista, erede di Bonatti e Messner, atleta SCARPA e The North Face, si apre in una riflessione profonda e accorata su cosa sia meglio per il futuro delle nostre cime: niente critiche, ma soluzioni.
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È sabato sera e siamo al rifugio Teodulo, a 3337 metri sopra il livello del mare, è fine novembre e ha già abbondantemente nevicato e fuori (sono le nove di sera) il termometro segna -15 gradi. Sembrerebbe tutto in regola, ma se sei un alpinista non ti fai fregare da quello che “sembra” tutto ok.
“Gli inverni sono sempre più miti, le estati sono sempre più calde e quest'anno abbiamo per la prima volta parlato di siccità: le prospettive future per le nostre stagioni invernali, soprattutto per quello che riguarda il turismo invernale legato alle stazioni di sci, deve essere sicuramente ripensato. In particolar modo per quelle stazioni che cercano di sopravvivere tra i 1000 e 1500 metri: quella ormai è diventata un’altitudine dove si possono fare degli sforzi enormi per sparare la neve, ma dobbiamo capire che se continuerà a mancare l’acqua e ad esserci la siccità, probabilmente quell’acqua dovrà essere utilizzata in altro modo.”
Quindi? Che fare? “Dobbiamo effettuare un cambiamento e lo dobbiamo fare subito affinché sia moderato e graduale. Dobbiamo riuscire a proporre nelle nostre località un turismo che sarà differente da come lo conosciamo, un modello alternativo ma che porterà comunque la gente in montagna. Se non lo facciamo adesso, e non partiamo subito, allora si rischiano delle grane. Per le stazioni che si trovano dai 1500 metri in su la prospettiva è un po’ più rosea, ma anche lì si dovrà fare attenzione, perché ormai è solo questione di tempo.” La discussione che anima il mondo della montagna in questi mesi infatti riguarda proprio la sopravvivenza dei comprensori sciistici per come li conosciamo: “Io credo che sia poco lungimirante puntare il dito solo sugli impianti sciistici, ipotizzare di chiuderli: sicuramente ci dovrà essere una traslazione, questo passaggio però va preparato. Al di là di come verrà prodotta la neve se questa mancherà, un’altra questione importante legata ai comprensori riguarda la mole di persone che vi si riversa condensata in pochi mesi invernali. Una montagna può recepire 5000, 6000 auto? Sono molte le domande connesse all’attività nei comprensori, però dobbiamo guardare anche all’indotto che genera questo tipo di turismo, e dobbiamo capire come andarlo a sostituire. Chiudere e basta, dove c’è anche una responsabilità sociale dell’indotto economico che un’attività come lo sci alpino genera, semplicemente non ha senso.”
Parli in termini di sovvenzioni? “La prima cosa che serve sono delle idee, e poi servono dei soldi per realizzarle. Le idee però dobbiamo averle noi, un politico cosa ne sa di cos’è la vita in montagna, la realtà dei montanari e la realtà di queste stazioni? È chi vive queste realtà che deve impegnarsi a trovare delle vie d’uscita, i politici poi ci devono aiutare a renderle fattibili. Ma bisogna fare attenzione a una cosa: non possiamo immaginarci gli stessi numeri di un tempo, comunque qualcosa deve cambiare. Dobbiamo arrivare a un punto in cui riconoscere che quello che abbiamo ci basta, ci porta soldi a sufficienza e capire che bisogna fermarsi: l’esagerazione non porta a un turismo sostenibile, ma al collasso. E serve anche un’altra cosa: smetterla con la critica sterile. Noi montanari dobbiamo impegnarci nell’intavolare una discussione proficua sul nostro futuro, e non limitarci a parlare per slogan tranchant. Non è che possiamo spegnere lo sci, come non possiamo spegnere le fabbriche, o le città. Milano inquina, che facciamo, spegniamo Milano? Ci dovrà essere una transizione, ma dovrà essere graduale.”
Quale potrebbe essere un modo per una sorta di “decrescita felice” per i nostri comprensori? “Immaginiamo un comprensorio che registri in una stagione invernale la presenza di un milione di persone, di cui 800 mila sono legate al turismo dello sci su pista, ma sappiamo che lo sci su pista è destinato a morire. Come faccio a mantenere quelle stesse 800 mila persone proponendogli un turismo differente? Magari un tipo di turismo non dove si lavori 4 mesi, poi ci sia una stagione morta, e poi altri 4 mesi, ma si lavori tutto l’anno. Quelle stesse 800 mila persone, spalmate su 12 mesi anziché su 4, portano un tipo di turismo molto più sostenibile dal punto di vista ambientale. È questo secondo me quello che dobbiamo fare: far arrivare quegli stessi turisti in momenti diversi, diversificando l’offerta legata alla montagna. Prendiamo gli Appennini ad esempio: il turismo della neve e dello sci sono terminati ormai molti anni fa e si sono preservati, sono rimasti molto selvaggi, ed è ad esempio quello che cercano gli stranieri: territori intatti e poco esplorati. Una direzione potrebbe essere questa ad esempio, creare dei parchi e tutelare quelle zone, che non dovranno essere visitate per l’antropizzazione o per l’offerta alberghiera, ma per quelle che sono dal punto di vista naturalistico. I parchi del Nord e del Sud America funzionano per quello, danno alle persone una natura intatta, preservata, ed è quello che dobbiamo fare anche noi.”
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Il Rifugio Teodulo ha delle vetrate enormi che si affacciano proprio sul Cervino, montagna simbolo che, per la sua forma, viene utilizzata anche per descrivere altre montagne del mondo: l’Ama Dablan, per esempio, viene descritto come il Cervino dell’Himalaya. Non solo, per la sua conformazione, tutto il massiccio è così selvaggio da essere definito l’Himalaya europeo. Quando Hervé lo guarda si percepisce tutto l’amore che nutre nei confronti di questa montagna, si capisce perché si accalora quando si parla di proteggere l’ambiente montano, alpino o himalayano che sia. Oggi che le avventure in montagna stanno diventando sempre più popolari infatti, oltre alla normale attività nei comprensori, anche l’intensa frequentazione dei ghiacciai e delle cime più ambite non dà certo una mano alla situazione. “Il processo che ci deve essere per chi intende darsi a discipline outdoor a stretto contatto con la montagna più selvaggia deve passare attraverso cultura e coscienza, e quelle non le trovi su internet, ma le trovi attraverso l’esperienza, tua e degli altri. Normalmente quando ci si approccia a certi tipi di ambienti, come appunto i ghiacciai, bisogna affidarsi a chi la montagna la conosce bene, cioè le guide alpine. Bisogna capire una cosa: la montagna è pericolosa: noi frequentandola accettiamo il rischio, ma dobbiamo anche accettare il fatto di rispettarla, di salirci alle sue regole, non alle nostre, quindi non lasciando traccia del nostro passaggio. I ghiacciai oggi sono in forte pericolo, noi qui a Breuil-Cervinia siamo fortunati: questi e quelli intorno al Monte Rosa saranno probabilmente gli ultimi a scomparire, ma prima o poi succederà, chi pensa che tra 100 anni ci saranno ancora i ghiacciai sulle Alpi è un illuso. Ma la riflessione che dobbiamo fare non è tanto che non ci sarà più un qualcosa che ci consente di fare attività in montagna, ma che non ci sarà più acqua, e l’acqua è vita: oggi dovrebbe essere questo il focus di tutti quanti, la montagna assumerà un’importanza che non ha mai avuto, perché è necessaria alla vita dell’uomo.”
Ormai la luna è alta e illumina quella piramide perfetta che è il Cervino. “Ogni volta che lo guardo non posso a fare a meno di pensare a quante ne abbiamo passate insieme, certo, confrontato con la parete del Nanga Parbat sembra quasi piccolo.” Hervé sta per ripartire: probabilmente mentre starete leggendo questo pezzo sarà ad acclimatarsi in Nepal, tra il 10 di dicembre e Natale, prima di ritentare l’impresa che lo scorso anno ha dovuto abbandonare a causa
del maltempo: scalare un 8000 in inverno e in stile alpino (ovvero portando con sé tutto quello che gli serve e riportandolo giù). “Se ci sembra di non rispettare le montagne di casa, allora cosa dobbiamo dire di quelle dell'Himalaya o del Pakistan? Oggi siamo arrivati al paradosso, si parla sempre più di massificazione del K2: ci sono sempre più turisti che ci salgono con l’ossigeno e con le corde fisse, che stanno letteralmente plastificando la montagna. Ancora: sull’Everest vengono abbandonati ogni anno 6 chilometri di corde fisse, che una volta finita la stagione rimangono inglobate dal ghiaccio e non si possono più togliere. Salire un ottomila a questo prezzo è solo un atto egoistico e di vanità.”
Al di là dei turisti però ci sono anche tanti atleti che frequentano le vie normali. “Io credo che un alpinista serio non lo dovrebbe fare: la storia degli 8000 è già stata ampiamente scritta. Non sei in grado di salirci in stile alpino? Pazienza: farai un 6000, un 4000. Credo che anche da parte delle aziende outdoor ci dovrebbe essere un po’ più di serietà in questo, mentre invece continuano ancora a venire sponsorizzate imprese che contribuiscono a plastificare la montagna con le corde fisse. Dobbiamo iniziare a ragionare per esempi positivi e chi in questo mondo rappresenta l’élite, ovvero le guide alpine e gli alpinisti professionisti, ha il dovere morale di soddisfare i propri desideri di performance in maniera responsabile. Per me l’unico modo di scalare una montagna è in stile alpino, ma non si tratta di una conquista sportiva, dell’essere più o meno bravo a scalare una montagna, ma del lasciarla più o meno pulita. Io credo che dovremmo riprendere l’esempio dei grandi alpinisti del passato, non per fare qualcosa di eclatante, ma per fare qualcosa di giusto.”
Ed è per questo che riprovi il Nanga Parbat in inverno? “Il punto di partenza mio e di David (Göttler) è che vogliamo dimostrare che si può scalare un 8000 in inverno in stile alpino. Noi forse ci siamo spinti un po’ troppo in là perché ci abbiamo provato sulla parete più grande del mondo che, in inverno, non è mai stata salita neanche in stile himalayano, quindi sarebbe stata una cosa veramente eclatante, la nostra motivazione però nasceva dal voler portare un esempio. Ovviamente è una cosa molto difficile: tutti gli 8000, in inverno, al momento sono stati scalati in stile himalayano. Neanche noi ce l’abbiamo fatta, ma sappiamo che è possibile con le condizioni meteo giuste: ecco perché ci riproviamo ma, a differenza dell’anno passato, prima ci acclimateremo in Nepal, e poi decideremo quale 8000 salire in base alle condizioni metereologiche.”
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On Our Way
BY LORENZO ALESI AND ALICE LINARI
On Our Way è il secondo progetto di Lorenzo Alesi, Alice Linari e Paolo Prosperi, il cui obiettivo è sensibilizzare sugli effetti del cambiamento climatico e sui possibili nuovi comportamenti che potrebbero portare a risultati positivi e rappresentare un'opportunità di sviluppo e crescita per il futuro. Il viaggio di Lorenzo Alesi, sciatore professionista, atleta e fotografo, e Alice Linari, sciatrice ed esploratrice, dal cuore dell'Europa al Circolo Polare Artico, vuole dimostrare che esplorare con una minima impronta di carbonio è possibile in modo da ispirare gli altri ad agire per proteggere il nostro pianeta.
Chapter 1 - Lofoten Islands, Norway
Abbiamo trascorso gli ultimi anni cercando di descrivere la trasformazione che stanno subendo le montagne a causa dei cambiamenti climatici, mostrando luoghi incontaminati e paesaggi meravigliosi che evidenziano quanto sia unico il nostro pianeta e quanto siamo fortunati a viverci. Oggi più che mai la domanda che ci poniamo è cosa ognuno di noi può fare per combattere il problema. La quantità maggiore di emissioni di CO2 proviene sicuramente da sistemi più grandi di noi, tuttavia le azioni dei singoli sono importanti per ottenere anche piccoli risultati. Per questo abbiamo deciso di assumere comportamenti diversi nella nostra quotidianità e durante le nostre esplorazioni. Partiamo da Monaco con un'auto full electric, con già diverse soste programmate per ricaricarla pur consapevoli delle sorprese che un itinerario così lungo avrebbe potuto riservare. In realtà, il viaggio si rivela più semplice di quanto pensassimo: la rete di stazioni di ricarica è molto sviluppata nel nord Europa. Guidando su ponti che sono veri e propri gioielli architettonici, prendendo traghetti ibridi per attraversare fiordi meravigliosi, passando attraverso paesaggi mozzafiato, in soli due giorni arriviamo alle Isole Lofoten. A Ballstad, all'Hattvika Lodge, ci aspetta il nostro amico Kristian Bøe. Il
giorno dopo controlliamo diversi zone luoghi dove poter andare sciare ma purtroppo le condizioni non sono delle migliori. Fortunatamente, 48 ore dopo, una tempesta dal nord porta 30cm di neve fresca, conferendo alle Isole Lofoten il loro aspetto magico e unico. Uno dei momenti salienti della nostra esperienza sugli sci alle Lofoten è la giornata al Rundfjellet. Le previsioni del tempo sembrano promettenti e, mentre raggiungiamo Svolvaer, il sole sta sorgendo donando al paesaggio un meraviglioso colore rosa che lentamente si trasforma in oro sulla parete est delle isole. Raggiungiamo il parcheggio, prepariamo l'attrezzatura da scialpinismo e iniziamo la lunga camminata fino all'inizio della salita. Dopo aver raggiunto la vetta e ammirato l'incredibile panorama decidiamo di scendere dalla parete nord, dove le condizioni sembrano migliori. Le curve in neve fresca ci procurano puro piacere, sembra di sciare in un quadro dove noi siamo i soli soggetti in movimento. Le montagne si susseguono innevate fino al mare circondate da una luce magica: questo sono le Lofoten. Una volta rientrati ringraziamo Kristian per averci fatto vivere queste isole non come turisti ma come parte della comunità locale, è il momento di rimettersi in viaggio.
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Arriviamo a Tromsø sotto una forte nevicata. Lasciamo l'auto in carica, mentre assaggiamo dei buonissimi waffle con brown cheese in un bar vicino. Dopo poche ore raggiungiamo il porto di Hansnes e ci imbarchiamo sul traghetto per l'isola di Vannøy. Siamo super emozionati: avevamo programmato di far visita al nostro amico Marco Rossi nella “sua” isola nell'estremo nord da due anni ma abbiamo dovuto rimandare il nostro viaggio a causa del Covid. Marco è un marinaio, il programma è quindi esplorare le isole dell'Artico con la sua barca a vela "Cadeau", sciare, navigare e ascoltare le sue storie sull'estremo nord. Mentre ci godiamo una cena tradizionale norvegese, notiamo l'aurora boreale apparire nel cielo. L’avevamo già vista in passato, ma mai con tanta intensità e siamo rimasti davvero folgorati da quello spettacolo della natura.
La mattina dopo Marco ci informa che il vento è favorevole e che possiamo prepararci a salpare. Raggiungiamo il piccolo porto, carichiamo la barca con cibo e attrezzatura e via in direzione Kågen. Il giorno dopo ci svegliamo presto per goderci l'intera giornata: il sole brilla e il tempo promette bene. Il nostro obiettivo è la parete est che gode di una splendida vista sul fiordo. Una volta raggiunto il passo il tempo però muta e quando siamo a soli 300m dalla vetta decidiamo di non proseguire a causa della pessima visibilità. Aspettiamo l’arrivo del tramonto sperando, come già successo in precedenza, che il sole appaia sotto le nuvole regalandoci una bella luce per intraprendere la discesa. Dopo diverse la nostra lunga attesa viene premiata: al tramonto la neve su tutta la parete ovest del Kågen si tinge di rosa e oro, scendiamo al passo immersi in questa luce incredibile per poi risalire
sulla parete opposta e sciare giù fino quasi a pelo d'acqua. È stato davvero uno dei momenti più spettacolari di sempre: tracciare linee su un'isola remota nell'Artico, con quella luce magica e i suoi riflessi sull’oceano è stato impagabile.
Il giorno dopo attracchiamo ad Arnøy e direttamente dal porticciolo iniziamo in nostro ski tour del giorno, in un paio d'ore siamo in vetta, la vista sul fiordo è incredibile e la discesa verso l'oceano molto divertente. Salpiamo di nuovo per tornare a Vannøy. Navigare al tramonto ammirando le isole di Uløya, Lyngen Alps, Kågen Fugløya è uno spettacolo mozzafiato. Senza l'uso del motore ci godiamo appieno del rumore dell'acqua e del vento quando all'improvviso notiamo qualcosa che si muove nell'oceano: sono dei delfini che nuotano accanto alla nostra barca come se fossero venuti a salutarci .
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Chapter 2 - Arctic Islands, Norway
Chapter 3 - Senja, Norway
Lasciamo le isole dell'estremo nord con un grande sorriso sui nostri volti, ripensando alle esperienze memorabili che abbiamo vissuto. Raggiungiamo il villaggio di Torsken a Senja, la seconda isola più grande della Norvegia dove il nostro amico Jørgen Wang ci aspetta al lodge Senja By Heart. Non siamo mai stati qui quindi siamo molto curiosi di esplorare l'isola. Il giorno dopo notiamo come le nevicate dei giorni abbiamo coperto anche questa zona: le condizioni sembrano buone. Decidiamo di salire sull’Husfjellet dove ci aspetta uno scenario molto diverso dagli altri luoghi che abbiamo visitato durante il nostro viaggio: le montagne qui sono molto più rocciose e appuntite e l'acqua splende turchese. Ci godiamo una divertente discesa sugli sci e torniamo verso Torsken.
Il nostro ultimo giorno, Jørgen ci pro pone di mostrarci uno dei suoi tour pre feriti, quindi raggiungiamo la parte op posta dell'isola per conquistare la vetta del Kvaenen. Il vento è forte e le condi zioni piuttosto impegnative, con neve ghiacciata e dura e scarsa visibilità. No nostante le difficoltà, arriviamo in vetta dove ci godiamo una vista incredibile a
360 gradi: le montagne rocciose che si alzano dal mare e sullo sfondo la tempesta che si avvicina. Pochi minuti per togliere le pelli e scendiamo, il vento è troppo forte per restare più a lungo in vetta. Anche la discesa ci regala degli scenari meravigliosi. Un’ultima occhiata al lungo e stretto fiordo, forse uno dei più belli che abbiamo visto durante il nostro viaggio, ed è tempo di tornare a Torsken per fare i bagagli e salutare il nostro amico Jørgen. Il viaggio di ritorno è piacevole come quello di andata, dal finestrino osserviamo imponenti montagne, fiordi, ponti e tutti colori che la natura offre a queste latitudini. Ripensando a tutti i momenti, sia belli che difficili, vissuti in questa esperienza ci sentiamo estremamente grati per tutto ciò che ci stiamo portando a casa: esperienze, emozioni, insegnamenti. Uno stile di vita diverso è possibile: green, sostenibile, futuristico, come lo chiamano alcuni. Ciò che è importante è che possiamo davvero contribuire a preservare la salute del nostro pianeta attraverso le nostre azioni individuali, perché alla fine sono la nostra vita e
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Martina Valmassoi Atleta o Artista?
Martina Valmassoi è il personaggio più interessante che ho intervistato fino a oggi. Tamara Lunger
è poderosa, forte e tenace. Hervé Barmasse intelligente, colto, sempre impeccabile che si tratti di un bivacco in solitaria sul suo Cervino o di una presentazione di fronte a centinaia di persone. Tudor Laurini (in arte Klaus) è un’artista e per questa categoria spesso non serve aggiungere altro. Wafaa Amer ha portato la sua storia in ogni appiglio e Federica Mingolla si muove sulla roccia come Roberto Bolle sul palco del Teatro alla Scala. Sono tutti nomi conosciuti perché non potrebbero non esserlo. Ma Martina è tutt’altra storia.
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Un giovane Pablo Picasso una volta ha detto:
da grande).
Ognuno di noi fissa nella propria testa delle immagini sulle cose e sulle persone che incontra nella vita, è inevitabile. Io a Martina non ho ancora stretto la mano, ma l’ho memorizzata così: scarpe sporche di fango, un po’ fresco e un po’ incrostato. Calzini stanchi cosparsi di pinetti bianchi su fondo azzurro e una volpe rossa che corre verso il basso, lungo il malleolo. Entrambi i piedi staccati da terra a nascondere i segni dei chilometri e dei dislivelli di un trail senza fine. Pantaloncini blu, t-shirt grigia, zainetto S/Lab nero con borracce mezze piene e mezze vuote e un paio di cuffie bianche che penzolano da un lato con le batterie scariche. Sul braccio sinistro quello che immagino essere un Suunto, sul destro qualunque cosa possa essere legata a un polso. Dalla spalla destra spuntano un paio di bastoni telescopici presumibilmente utilizzati nei passaggi più tecnici mentre in testa non ha altro che un berretto eccentrico e una frontale a illuminarle la corsa. In viso c’è tutto: commozione, soddisfazione, stanchezza, gratitudine, fierezza, sudore e femminilità. Questo è il frame che voglio custodire di Martina, quello di quella volta in cui ha tagliato la linea del traguardo all’UTMB senza nessuno a precederla. Prima, dopo 145 chilometri e 9100 metri di dislivello. Con entrambi i piedi ancora sollevati da terra dopo 22 ore e 42 minuti di corsa. Prima, con le braccia spalancate come chi, più che accogliere complimenti, vuole abbracciare la folla. Perché all’UTMB quella c’è.
Sono due anni che ci scambiamo WhatsApp per organizzare un’uscita insieme, una scampagnata per lei, un allenamento fuori soglia per me. E ora che sembra finalmente
voler arrivare la neve, l’idea di una scialpinistica sembra realizzabile. Su questo naturalmente vi terrò aggiornati. Come dicevo sono tante le cose da dire su Martina, probabilmente troppe per queste pagine. Lei scia, corre, scala. Lei pedala, lavora, fotografa. Lei è gentile. La contatto telefonicamente e anche la sua voce sembra sorridere. Attenzione però, quando dico che scia sto dicendo che ha fatto parte della Nazionale A di scialpinismo fino al 2016 collezionando poi due bronzi e un settimo posto al mondiale di Tambre d’Alpago. Quando dico che corre sto dicendo che vince gare di trail running e ultrarunning di altissimo livello. Che quando pedala precede in solitaria, e con la bici carica, le tappe del Giro d’Italia. Sto dicendo che quando fotografa racconta un pezzo di sé. Quando dico che lavora sto dicendo che si fa un c**o pazzesco e quando dico che è gentile intendo che lo è proprio sempre.
“Credo che le fotografie siano come le storie: con un inizio, una fine e soprattutto qualcosa da dire. Da quando fotografo con maggiore frequenza mi viene facile raccontare le cose per immagini.”
Mentre con un orecchio ascolto Martina raccontarsi al telefono, con due dita scrollo il suo feed Instagram. Una fotografia mi cattura, la parte alta dello scatto disegna lo sfondo in un gradiente bianco e blu mentre una linea netta taglia il frame in diagonale, uno stacco pulito tra cielo e montagna. Nel mezzo una figura atletica sale in controluce, gamba destra e braccio sinistro in avanti, con la naturalezza di chi fa le cose senza prendersi sul serio, che tanto non serve. Due lunghe linee d’ombra si allungano verso l’osservatore, verso il fotografo, interrompendo
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“Tutti i bambini sono degli artisti nati, il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi.” Sono convinta che Martina, a Pablo, sarebbe piaciuta (anche
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Lei non pianifica ogni dettaglio, rifugge da quelle programmazioni di lungo periodo spesso controproducenti. Lei parte, s’informa sui primi metri e si prepara con professionalità ma poi va, senza inutili masturbazioni mentali.
la texture del manto nevoso vergine appena illuminato, chiudendo la fotografia in una composizione grafica impeccabile. Martina, lungo quella linea di confine tra terra e cielo non è a metà, non è nemmeno all’inizio. È maggiore lo spazio che si lascia alle spalle rispetto a quello che ha davanti. Una metafora perfetta per raccontare chi, come lei, naviga a vista. Lei non pianifica ogni dettaglio, rifugge da quelle programmazioni di lungo periodo spesso controproducenti. Lei parte, s’informa sui primi metri e si prepara con professionalità ma poi va, senza inutili masturbazioni mentali. Conosce bene la sua meta e sa altrettanto bene che quando è molto alta o lontana, è possibile raggiungerla solo osservandola in piccole porzioni. In questa fotografia l’autore dello scatto, Fabian Johann, ha colto la stessa cosa che ho sentito io. Lui l’ha fotografata, io l’ho scritta, ma rimane Martina ad averla disegnata.
C’è un coesistere di lucidità e incoscienza nel suo parlare: raziocinio e impulsività. È in queste caratteristiche che sono a disagio nel definirla “sportiva” o “atleta” o “fotografa”. Sento più adeguato il termine “artista”. D’altronde il termine citato, ed è Treccani a dirlo, è adatto considerando come qualità la forza dell’ispirazione e del sentimento, l’altezza della fantasia, e attribuendo all’artista soprattutto virtuosismo e abilità tecnica. Siamo sinceri, perfino nello stacchetto sul suo profilo Instagram, quello in cui si esibisce in pigiama con le stampelle, c’è tutto questo. Ah sì, le stampelle. Ha anche avuto un brutto incidente di recente, una scarica di sassi l’ha travolta mentre arrampicava in Trentino. “Poteva
andare molto peggio” racconta lei. E questo dimostra, ancora una volta, lo spirito di chi non sorride solo quando vince. Tralascio la poesia solo per un attimo, per riassumere le sue imprese (le più recenti quantomeno):
• Vincitrice nella TDS dell’ultima edizione di UTMB
• Giro d’Italia in solitaria percorrendo in anteprima tutte le tappe del Percorso Rosa
• Record mondiale di dislivello percorso sugli sci: 17.645 metri in 24 ore
Voglio inserire, in questi fermo immagine che la raccontano, uno immortalato da lei stessa: la “Martina fotografa”. Quando guardo alcune sue immagini, ricordo quanto possa celarsi nel non detto di una buona fotografia. Nel cielo nero, in quelle strisce di luci e ombre che colano dalla montagna e nella forza dei contrasti io vedo Martina, una donna consapevole che nessun sorriso è possibile senza l’equilibrio tra bianco e nero. Un atleta conscia che non può esserci luce senza oscurità. Un’artista capace di creare poesia anche con il cielo nero.
A questo punto non vedo l’ora di scattarle io una fotografia, di disegnarla a modo mio.
A presto Martina, P.S. Non chiedetele perché fa quello che fa, mi è parsa a disagio nell’esprimerlo a parole. Guardate le sue fotografie o andate a seguirla, se riuscite, su e giù per le montagne.
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First descent in Pakistan
BY AARON ROLPH
STORY FEATURING TOM GRANT AND BINEZA LOHAR
Avendo già dovuto mettere in pausa un paio di spedizioni all'estero quest'anno, devo dire che l'idea di un grande progetto sciistico in Pakistan si è subito rivelato piuttosto eccitante.
Avendo già dovuto mettere in pausa un paio di spedizioni all'estero quest'anno, devo dire che l'idea di un grande progetto sciistico in Pakistan si è subito rivelato piuttosto eccitante. Nonostante forse il Pakistan sia forse più conosciuto per il cricket che per lo sci, lo stato musulmano ospita tre grandi catene montuose e molte delle vette più alte del mondo. Da qui arriva la mia estrema sorpresa quando veniamo colpiti da un muro di caldo e una temperatura di quasi 40 gradi quando atterriamo nella capitale del paese, Islamabad. Il nostro team è composto da Bine Žalohar, il cervello dietro la spedizione ed ex sciatore freestyle professionista diventato scialpinista, Tom Grant, sciatore con grande esperienza e guida alpina IMFGA e io, un atleta che ama le avventure e che ha anche un discreto talento con una macchina fotografica . Ad unirsi anche la freerider professionista Juliette Willman e il medico Beth Healey che avrebbero cercato conquistare sci ai piedi altri obiettivi nella stessa area. Una squadra, con base a Chamonix, che non manca certo di talento e ma che nonostante tutto non si voleva prendere troppo sul serio. Abbiamo trascorso i primi due giorni esplorando la bellissima metropoli verde di Islamabad, una città che già conoscevo a causa della sua costante presenza nei telegiornali. Vivace, intensa in alcuni punti, la capitale è nota per il suo alto tenore di vita, la sua pulizia e sicurezza. Tuttavia, ci si rende presto subito qui le cose funzionavano diversamente dal numero di militari con kalashnikov che pattugliano casualmente le strade e all'ingresso di molti edifici. Ma tutto questo diventa ben presto la nostra nuova normalità, e finiamo per rilassarci mentre chiacchieriamo con i tanti local chiaramente desiderosi di salutarci e darci il benvenuto nella loro nazione.
Ma non vediamo l’ora di avventurarci sulle montagne, quindi facciamo i bagagli e iniziamo il nostro viaggio di 7 ore verso la catena dell'Hindu Kush, e in particolare verso il distretto di Swat. Arriviamo nella piccola ma vibrante città di Kalam, che sorge a 2000m alla confluenza di due fiumi glaciali. Qui ci riposiamo dopo il lungo viaggio godendoci il comfort del clima montano più temperato. Non ci facciamo mancare cucina locale tra un incontro e l'altro con i nostri compagni di spedizione che ci stanno aiutando con la logistica del campo base e stanno organizzando i portatori che ci aiuteranno a trasportare l’attrezzatura.
Zaini e attrezzatura pronti, ci muoviamo sulla nostra 4x4 sulle aspre piste di ghiaia che attraversano i villaggi remoti ma affollati mentre saliamo sempre più in alto. L'enormità del nostro obiettivo appare in vista e l'imponenza della montagna diventa man mano sempre più chiara. Alto poco meno di 6000m, il Falak Sar è la vetta più alta della valle di Ushu e del distretto di Swat. La vetta è una piramide meravigliosamente simmetrica, luccicante di neve bianca che brilla e contrasta nettamente con la ricca foresta nella sua parte anteriore. È incredibile pensare che una montagna così magnifica sia stata scalata con successo solo da pochissime persone, ed è ancora più emozionante che nessuno l'abbia ancora sciata. Con informazioni molto limitate sul percorso e nessun dettaglio sulle condizioni della montagna, abbiamo davanti a noi una grande avventura! Potremmo essere le prime persone in assoluto a mettere i nostri sci sulle linee del Falak Sar? Dopo aver diviso attrezzature e rifornimenti in carichi trasportabili, iniziamo l'avvicinamento che in due giorni ci porterà nel luogo in cui speriamo di stabilire il nostro campo base. I portatori che ci accompagnano, in gran
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Pakistan
sgradevole.
parte giovani provenienti dai villaggi locali, sembrano eccitata quanto noi nonostante i carichi pesanti. I giorni successivi sono una parte essenziale del nostro programma di acclimatazione, è quindi di vitale importanza non lasciare l'entusiasmo per questo grande progetto prenda il sopravvento su di noi.
Generalmente muoversi un ritmi moderati aiuta ad evitare malesseri dovuti al notevole aumento di altitudine. Il sentiero nel bosco si snoda in modo precario sopra un ruscello di montagna che trabocca di limpida acqua proveniente dallo scioglimento dei ghiacci, una piacevole distrazione dai nostri pesanti zaini. Il caldo sole viene presto sostituito dall'aria fresca della sera e finiamo la nostra giornata presso un accampamento temporaneo dove condividiamo storie mentre ci riscaldiamo attorno a un falò scoppiettante. La mattina seguente inizia con una salita ripida e impegnativa, e senza traccia di sentiero, ci muoviamo con cautela su ghiaioni e rocce ma in poco tempo troviamo anche la neve. Le condizioni sgradevoli aumentano ci fanno aumentare il passo fino a raggiungere un altopiano roccioso che diventerà la nostra casa per le prossime due o tre settimane.
Allestiamo un campo base decisamente migliore rispetto a ciò a cui ero abituato nelle spedizioni precedenti. Abbiamo alcune tende dove dormire comodamente, una tenda che fungerà da mensa per mangiare e rilassarci e un'altra tenda ancora dove il cuoco della spedizione, Zaheer, ci avrebbe preparato degli ottimi piatti per le nostre grandi giornate sugli sci. Siamo stati raggiunti anche dalla guida locale Ahmed, dall'assistente cuoco Nazir e persino da un poliziotto locale, Sattar, che seb-
bene fiducioso che fossimo al sicuro, ha deciso di restare con noi per assicurarci una sicurezza in più. I giorni seguenti creiamo un forte legame, scambiandoci storie delle nostre culture e ridendo molto insieme. Dopo un passato difficile e l'insurrezione dell'occupazione talebana, sembra che il Pakistan abbia ora un'ingiusta reputazione come luogo sgradevole. Ma questo è il passato e ora la realtà che incontriamo ci fa conoscere alcune delle persone più calorose e gentili mai incontrate. Sapevo che questa spedizione avrebbe significato molto di più che raggiungere una vetta o sciare su linee vergini, è invece un modo per dimostrare che il Pakistan è aperto nei confronti del mondo e un luogo culturalmente ricco e affascinante. Non stavamo arrampicando solo per noi stessi, ma per la popolazione locale del distretto di Swat. Dopo alcuni simpatici giorni di stomaci ribaltati, molto probabilmente a causa del cibo mangiato tra Islamabad e Kalam, ci siamo presi alcuni preziosi giorni di riposo e tempo per acclimatarci. Il ritmo lento della vita al campo base richiede un po' di tempo per abituarsi, ma dopo qualche giorno abbiamo una finestra di bel tempo all'orizzonte. Sembra che ci saranno due giorni di alta pressione in cui potremmo tentare la scalata alla cima, e sebbene questo arrivi ben prima durante il viaggio di quanto avessimo sperato, era comunque un'opportunità troppo buona per lasciarsela sfuggire. Ci dirigiamo quindi verso il ghiacciaio per fare lasciare la prima parte della nostra attrezzatura durante un grigio pomeriggio. Stiamo entrando e uscendo dai crepacci riuscendo a tenere gli sci e le pelli di foca addosso per la maggior parte della salita sul ghiacciaio. La sciamo il gear che avevamo trasportato in una
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Dopo un passato difficile e l'insurrezione dell'occupazione talebana, sembra che il
abbia ora un'ingiusta reputazione come luogo
Ma questo è il passato e ora la realtà che incontriamo ci fa conoscere alcune delle persone più calorose e gentili mai incontrate.
fossa scavata apposta nella neve accanto a un crepaccio facilmente riconoscibile, ci segniamo la posizione GPS e torniamo al campo.
Il giorno seguente le condizioni sembrano buone ed è ora di salire ed allestire il secondo campo base. L'aria è rarefatta a 5000 metri e a causa dei carichi pesanti che trasportiamo, avanziamo ansimando ad ogni boccata di ossigeno. Con nostro grande sollievo, raggiungiamo una superficie più pianeggiante e troviamo il punto in cui passeremo la notte. Togliere gli zaini e allestire il campo base porta un sollievo palpabile, anche se le ispezioni della parete ci lasciano preoccupati delle condizioni in cui si troverà la via di domani. Vediamo grandi lastre di ghiaccio sui pendii più in alto dove un vento impetuoso ha spazzato via la neve. Ne facciamo mente locale e cerchiamo di assumere cibo a sufficienza, sciogliere la neve e riposarci un po' prima del grande giorno.
Le partenze in stile alpino sono sempre difficili per me ma qui la situazione diventa ancora più complessa a causa dei forti venti del nord. Non ancora toccata dal calore del sole alpino, qualsiasi parte di pelle scoperta assume il suo calore quasi immediatamente. Nonostante le condizioni difficili, progrediamo bene, risalendo un terzo della parete e raggiungendo presto i tiri sul ghiaccio che ci preoccupavano. Assicurandoci di avere la corda tesa, risaliamo la parete con gli sci in spalla, usando le piccozze ed i nostri scarponi campronizzati. Fin qui tutto bene, e anche se richiede tutto il nostro impegno fisico e mentale, ci stiamo muovendo bene. Tom sta posizionando i chiodi da ghiaccio mentre io li rimuovo mentre saliamo insieme in cordata. Dopo una decina di ore di arrampicata, la vetta è finalmente in vista e, nonostante i nostri polmoni in fiamme, ci sentiamo in cima al mondo. Dopo pochi passi, ci godiamo finalmente una vista a 360 gradi sulla vetta che ci mostra cime a perdita d'occhio in ogni direzione.
Ovviamente raggiungere la cima della montagna è solo metà del nostro obiettivo, ma non sono mai stato così entusiasta di indossare i miei sci. Foto di rito in vetta e siamo pronti a salter giù lungo il pendio di neve soffice che scivola sui nostri sci. L'intera area è una zona in cui non è concesso tacere, stiamo infatti sciando sopra una cresta sospesa dove un errore potrebbe essere fatale. Tuttavia, la nostra fiducia inizia a crescere e, spostandoci sulla cresta occidentale, ci sentiamo bene finché non raggiungiamo la parete ghiacciata. Sapevamo che avremmo dovuto mettere alcune doppie qui, quindi abbiamo deciso di costruire un ancoraggio con un filettatura a V nel ghiaccio e legare insieme le nostre due corde per calarci di 50 metri. Dopo quattro lunghe calate in corda doppia, eravamo di nuovo sugli sci mentre la luce del pomeriggio cominciava a scemare dolcemente. Sapevamo che era facile proseguire da qui, quindi potevamo davvero goderci la discesa sciando forte, esultando mentre procedevamo. Abbiamo rapidamente messo via il nostro kit da ghiacciaio e abbiamo continuato a scendere. Ormai il cielo si sta riempiendo di sfumature arancioni e rosa e usciamo ad arrivare al campo base giusto in tempo. Il team al completo ci viene immediatamente incontro per celebrare la conquista della vetta e la successiva discesa con gli sci, tutti sollevati di riaverci sani e salvi al campo dopo una missione completata con successo. Abbiamo trascorso i giorni seguenti esplorando la regione, ricca sia di natura che di persone fantastiche. La gente del posto di Kalam ha gentilmente organizzato una festa per noi, celebrando la prima discesa con gli sci del Falak Sar con cibo, musica e balli locali. Ho avuto la fortuna di visitare diversi luoghi tutto il mondo grazie a spedizioni di ogni tipo e non ho mai incontrato un paese con persone così calorose e gentili. Se mai avrete la possibilità di visitare questa incredibile regione del Pakistan, non ve ne pentirete.
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Ho avuto la fortuna di visitare diversi luoghi grazie a spedizioni di ogni tipo e non ho mai incontrato un paese con persone così calorose e gentili.
The Nenet
PHOTOS GABRIELE PEDEMONTE TEXT ILARIA CHIAVACCI
La fotografia per lui è stata inizialmente una sorta di terapia, poi è diventata una passione e adesso è un esigenza. L’ultimo confine che lo ha portato a superare è quello della Siberia più dura, dove ha incontrato i nomadi Nenet.
I suoi scatti stanno diventando sempre più popolari tra gli amanti dei viaggi e dell’outdoor, ma per Gabriele Pedemonte la fotografia non è un lavoro, piuttosto una terapia, un modo per aprire la mente e curare le ferite dell’anima.
“Ho iniziato a scattare nel 2014: stavo attraversando un periodo di depressione dal quale, a conti fatti, se sono uscito è stato soprattutto grazie alla macchina fotografica. È una passione che ho unito all’altro mio grande amore: i viaggi, soprattutto quelli che mi portano a conoscere culture molto diverse dalla mia.” Il talento senza la passione va poco lontano e Gabriele li ha entrambi tanto da essere passato, in neanche dieci anni, dall’essere un totale sconosciuto a partecipare a esposizioni internazionali e veder pubblicati i suoi scatti sui più importanti magazine di outdoor. Contando che scatta solo durante le spedizioni e che ci sono stati due anni di stop dovuti alle pandemia si può considerare un bel risultato: “Quello che mi ha sempre affascinato nelle mie spedizioni è l’entrare in contatto con persone che hanno stili di vita completamente diversi dal mio.”
I grandi da cui Gabriele prende ispirazione hanno raccontato per immagini i popoli più affascinanti e remoti della
terra: Sebastião Salgado, Steve McCurry e Jimmy Nelson. “Ho anche avuto la fortuna di conoscere Jimmy Nelson anni fa a Parigi, in occasione di una mostra durante la quale esponevo anche io. Loro, in questa specifica nicchia, sono stati dei pionieri, sia dal punto di vista della fotografia di viaggio che del far conoscere al mondo la vita di determinate popolazioni.” È per questo che per la sua ultima spedizione ha scelto la Siberia: terra tanto bella quanto inospitale dove vivono i Nenet, popolo nomade che vive di pesca e allevamento di renne ritratti in passato proprio da Nelson.
Contando che scatta solo durante le spedizioni e che ci sono stati due anni di stop dovuti alle pandemia si può considerare un bel risultato: “Quello che mi ha sempre affascinato nelle mie spedizioni è l’entrare in contatto con persone che hanno stili di vita completamente diversi dal mio.”
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Nei tuoi viaggi fotografici eri sempre andato al caldo, questa spedizione ti ha messo alla prova? Decisamente. La Siberia è un viaggio molto complicato, non ti puoi appoggiare a delle strutture, perché non ce ne sono, quindi se vai lì devi per forza alloggiare e vivere con i Nenet: sono stato con loro una settimana su quasi due di viaggio. Magari sembrerà poco, ma ti assicuro che a quelle condizioni, a cui noi non siamo abituati, una settimana la percepisci come un’eternità. Avrei dovuto trovare temperature intorno ai -20, -25 gradi al massimo, ma una perturbazione inaspettata ha fatto precipitare il termometro a -50 dopo i primi due giorni. Scattare a quelle temperature è veramente impegnativo: è faticoso e doloroso per il fisico, ma complicato anche per l’attrezzatura stessa.
Dovevi essere molto veloce immagino. Fino a -40 la macchina reggeva, ma a - 50 il mirino si congelava diventando inutilizzabile: con guanti e moffole diventava molto difficile togliere il ghiaccio che si accumulava in pochissimo tempo, lo schermo si copriva in continuazione di nevischio, le lenti sfrigolavano, la messa a fuoco iniziava a scarrellare e la batteria durava veramente niente. Una sfida contro il tempo praticamente: l’autonomia delle batterie, a quelle temperature, è di 4-5 minuti. Tenevo quelle di riserva nelle tasche dei pantaloni, in modo che stando più vicino al corpo si scaldassero, quando si scaricavano le altre poi le cambiavo, scattavo altri 5 minuti e ricambiavo. Questo per me è stato il primo viaggio in un contesto del genere e, per quanto faticoso e doloroso, è stata una delle esperienze più incredibili che abbia fatto nella vita.
La Siberia è un viaggio molto complicato, non ti puoi appoggiare a delle strutture, perché non ce ne sono, quindi se vai lì devi per forza alloggiare e vivere con i Nenet: sono stato con loro una settimana su quasi due di viaggio.
Il paesaggio che ti sei trovato di fronte doveva essere a tratti straniante… È uno scenario quasi lunare: uno spazio bianco infinito che si perde a vista d’occhio e, soprattutto, è avvolto nel silenzio più assoluto. Distese bianche a perdita d’occhio con niente intorno. Uno degli scatti che mi piace di più di questo viaggio ritrae una donna che cammina in questa distesa bianca che quasi si confonde col cielo: è quasi sera e c’è la luna all’orizzonte. Che avrei visto dei posti pazzeschi me lo immaginavo: quello che non sapevo è che il viaggio in Siberia sarebbe stata un’esperienza di vita che è andata ben oltre il semplice reportage fotografico.
Come vivono i Nenet? La loro vita è davvero molto semplice: sono allevatori di renne, pescatori, e poi vivono tanto di baratto. In inverno però la loro giornata è molto corta: si concentra in base alle ore di luce, che per buona parte dell’anno non superano le 4, 4 ore e mezzo. In questo lasso di tempo si concentra la maggior parte delle attività, dal raccogliere la legna al pulire il chum, ovvero il loro tipo di tenda.
Loro come si riparano dal freddo? Principalmente con la pelle di renna: è il materiale di cui sono interamente costruiti i
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loro abiti, ma anche le coperte, il rivestimento del chum, gli stivali e le moffole. Ogni famiglia ha le sue tradizioni in questo senso.
Attraverso le tue foto hai raccontato molto bene l’effetto del freddo sulle vite e i corpi dei Nenet: guance arrossatissime, capelli ghiacciati e rughe profondissime. C’è qualche altro aspetto che hai scoperto attraverso il tuo obiettivo? Quello che ho voluto trasmettere è che questo è un popolo che vive in condizioni durissime per gran parte dell’anno, ma si adatta in maniera incredibile. Un altro aspetto che mi ha affascinato è quello della pesca, o di come loro facciano a ricavare l’acqua potabile. Che non hanno, chiaramente, e non possono ricavare dalla neve, che puoi bere in condizioni di emergenza ma non a lungo andare perché è priva di sali minerali e di tutte le sostanze nutritive di cui abbiamo bisogno. Dallo stesso lago in cui vanno a pescare ricavano dei blocchi di ghiaccio e poi li sciolgono scaldandoli nel chum per ricavare l’acqua da bere.
Come si rapportavano con te? Inizialmente la famiglia che mi ha ospitato era molto silenziosa, anche la vita dentro al chum era piuttosto separata: mi studiavano, mettiamola così. In più loro non parlano altra lingua se non la loro, quindi cercavamo di comunicare a gesti, cosa che a noi italiani riesce piuttosto bene devo dire. Una volta rotto il ghiaccio sono quindi riuscito a farmi capire, e anche accettare credo. Solo guardarsi negli occhi in maniera sincera è un grande strumento di comunicazione. E se i grandi sulle prime sono stati un po’ più diffidenti, con i bimbi è stato tutto veramente immediato.
I Nenet non hanno molto e i bambini giocano in maniera semplice, come da noi si faceva una volta: si tirano la neve, fanno la
lotta, si rincorrono. Per me è stato un po’ come tornare negli anni Ottanta, certo in condizioni più estreme, ma era da un po’ che non vedevo bambini così concentrati su loro stessi e sui loro simili. Entrare in relazione con loro forse è stato più facile perché hanno meno barriere: ho legato fin da subito in modo molto profondo con Olga, che è la bimba con le guance rossissime la cui foto è stata scelta per la cover di Sidetrack.
Per i Nenet è come se il tempo si fosse fermato e sicuramente per un occidentale entrare in contatto con queste popolazioni è qualcosa di arricchente, non si corre però il rischio, sovraesponendo la loro immagine, che la comunità prima o dopo si snaturi? Io credo che loro siano contenti di venire raccontati: poi c’è da tenere presente che il viaggio nelle loro terre è molto duro, non si può andare lì senza una guida che, almeno nel mio caso, ha sempre insistito molto sull’essere rispettosi, anche perché loro sono rimasti molto puri.
Inizialmente la famiglia che mi ha ospitato era molto silenziosa, anche la vita dentro al chum era piuttosto separata: mi studiavano, mettiamola così. In più loro non parlano altra lingua se non la loro, quindi cercavamo di comunicare a gesti, cosa che a noi italiani riesce piuttosto bene devo dire. Una volta rotto il ghiaccio sono quindi riuscito a farmi capire, e anche accettare credo.
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Secondo te non sono attratti dalla modernità? Considera che per i Nenet la scuola è obbligatoria fino ai 19 anni: i bambini lasciano la casa dei genitori a sei anni, Olga, che adesso ne ha cinque, partirà il prossimo anno: trascorrono tutto il tempo nella città più vicina e poi, una volta terminato il ciclo di studi, scelgono se tornare a vivere in maniera nomade o continuare la vita e gli studi in città. Quello che mi ha molto colpito è il fatto che la maggior parte di loro scelga di tornare indietro.
In occidente siamo molto attratti dal discorso del “nomadismo”, oggi è cool soprattutto quello digitale. Ma la vita delle popolazioni nomadi in realtà è molto dura. Ogni quanto si spostano i Nenet? Ogni dieci giorni, per altro facendo un percorso stranissimo: se lo guardassimo dall’alto sarebbe come vedere disegnare dalla loro carovana il simbolo di infinito. Durante l’inverno spostano l’accampamento di continuo facendo il cerchio di sinistra e arrivando più meno all’inizio della primavera nel punto di congiunzione tra i due cerchi: qui lasciano gli attrezzi necessari per l’inverno e i vestiti più pesanti, li nascondono e poi percorrono il resto del cerchio durante tutta l’estate. Poi ritornano nel punto di giunzione prima dell’inverno e recuperano tutte le loro cose.
C’è qualcosa che credi i Nenet ti abbiano insegnato? La semplicità: vivono davvero con niente. E lo so che è retorica, ma basta davvero poco per essere felici, noi occidentali abbiamo terribilmente troppo. Una settimana con loro mi ha fatto ritrovare i valori delle famiglie di una volta: anche solo il fatto, che è tanto basilare quanto importante, di preoccuparsi l’uno dell’altro, preoccuparsi che tutti stiano bene e abbiano mangiare. Nel nostro avere troppo sfruttiamo anche troppo il pianeta che ci ospita.
La semplicità: vivono davvero con niente. E lo so che è retorica, ma basta davvero poco per essere felici, noi occidentali abbiamo terribilmente troppo. Una settimana con loro mi ha fatto ritrovare i valori delle famiglie di una volta: anche solo il fatto, che è tanto basilare quanto importante, di preoccuparsi l’uno dell’altro, preoccuparsi che tutti stiano bene e abbiano mangiare. Nel nostro avere troppo sfruttiamo anche troppo il pianeta che ci ospita.
I Nenet probabilmente da questo punto di vista sono più rispettosi… Assolutamente, hanno molto rispetto del territorio in cui vivono. Quando smontano l’accampamento non rimane nessuna traccia del loro passaggio, non vedi nulla a terra.
Hai in programma di tornare a visitarli? Magari in estate? Sicuramente sì, anche se l’idea che mi sta ronzando per la testa ultimamente è quella di un reportage sugli allevatori di renne mongoli, pare che abbiano un rapporto molto intimo con questi animali, quasi simbiotico, si sono infatti guadagnati l’appellativo di uomini renna. In Siberia però vorrò sicuramente tornarci presto o tardi: quando la neve si scioglie le distese di prati che uno si trova davanti sono infinite, cambierebbe sia lo scenario che la quotidianità dei Nenet, quindi la motivazione è duplice.
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Caro North Sedna
TEXT EVA TOSCHI
PHOTOS RAMONA WALDNER
Sedna è il nome della dea Inuit del mare e degli animali marini. È madre e protettrice del mare, di chi lo attraversa e di chi lo abita. Non poteva essere scelto nome migliore per la spedizione di otto donne verso i fiordi e le pareti della Groenlandia in un viaggio in barca a vela di tre mesi. La scelta di chiamare questa avventura “Via Sedna” è stata fatta per mostrare rispetto e gratitudine verso la natura, l’ambiente e le culture locali.
Via Sedna però è un’avventura iniziata molto prima che le vele gonfie della Northabout hanno lasciato il porto francese di La Rochelle. In un anno le otto donne protagoniste di questa spedizione si sono preparate ad affrontare l’ignoto, innanzitutto stingendo i legami che avrebbero fatto la differenza fra successo e fallimento. L’obiettivo più palpabile era quello di aprire una via su una parete dello Scoresby Sund e, senz’altro, quello di raggiungere questo fiordo navigando a vela. Certo, poi sarebbero anche dovute rientrare a casa, ma a quello ci avrebbero pensato a tempo debito. Abbiamo parlato con Caro North che ci ha raccontato quello che è successo in questo folle viaggio attraverso i mari del nord, Via Sedna.
Com’è tornare alla vita normale dopo tutto questo tempo in barca? È molto strano. Da un lato lo è perché eravamo otto persone a condividere un piccolissimo spazio, poi perché, nonostante e grazie alla vicinanza, ci siamo trovate molto bene insieme. Adesso essere da sola, in una casa tutta per me, è molto diverso dalla normalità degli ultimi giorni. Ero abituata a essere sempre con le altre e a volte adesso mi sento sola. Ne abbiamo parlato e tutte proviamo gli stessi sentimenti.
Conoscevi già le altre compagne prima di partire? Diciamo che ho avuto modo di conoscerle nell’anno in cui ci siamo preparate alla partenza. Alcune di noi erano buone amiche, altre si conoscevano da prima ma in modo superficiale. Ma passando tanto tempo insieme per prepararci abbiamo avuto modo di conoscerci a
fondo. Costruire le relazioni umane è forse stata la parte più importante di tutti i preparativi. È quello che fa la differenza quando si deve passare tanto tempo insieme in un ambiente molto severo.
Avevi già avuto esperienze in mare? Sì, una volta sono andata in barca a vela in Antartide ma è stato un viaggio molto più breve, sette giorni di navigazione partendo da Ushuaia. In questo caso ci sono volute invece sei settimane per arrivare in Groenlandia e quattro per tornare. Non ho mai avuto un’esperienza così intensa in mare.
Qual è stata la parte più difficile del navigare per così tanto tempo in un ambiente selvaggio come quello che avete attraversato?
La parte più difficile è essere pazienti. Il meteo cambia in modo repentino e devi essere pronta a cambiare i tuoi programmi e ad aspettare in porto il momento migliore. Abbiamo incontrato brutto tempo spesso e ci abbiamo messo di più del previsto. Ci siamo dovute fermare molte volte. Eravamo intrappolate nel porto ad aspettare, a guardare le previsioni. È molto difficile mentalmente. Per me è stata la cosa più dura: essere paziente e tenere alta la motivazione non sapendo se ce l’avremmo fatta ad arrivare dove volevamo. C’è stato un momento in cui non eravamo così sicure di arrivare in Groenlandia.
Come avete fatto a rimanere allenate durante la navigazione? È stato certamente difficile rimanere allenate per arrivare in Groenlandia e aprire la via che sognavamo. Avevamo dei piani
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di allenamento di trazioni, piegamenti, e avevamo una trave con delle prese. Un allenatore mi aveva dato degli esercizi che si potevano fare anche in un piccolissimo spazio e ho scoperto che funzionava, non avevo mai pensato che si potesse allenare la resistenza in così poco spazio. Potevamo allenarci però solo quando la barca non ondeggiava troppo, quindi non abbiamo potuto farlo spesso. Le condizioni del mare erano molto lontane dalla calma piatta. A volte era calmo a mezzanotte e ne approfittavamo come potevamo. Al ritorno, però, non ci siamo mai allenate.
Come eravate organizzate per navigare? Eravamo tutte quante coinvolte nella navigazione, con turni di due ore presieduti da due persone. Faceva così freddo fuori che dopo due ore volevi solo scappare dentro a riposarsi per 4-5 ore. Con il freddo spesso passava la voglia di allenarsi. L’organizzazione sottocoperta era molto simile: tutte facevamo tutto. Abbiamo cucinato sempre tutte condividendo ricette e gusti.
Com’è partita l’idea di andare a scalare a Scoresby Sund? Inizialmente avevo visto delle foto che mi hanno incuriosita. Poi mi sono confrontata con degli scalatori inglesi che erano stati lì e mi hanno confermato che la parete che mi affascinava non era vergine. Ho visto le loro foto della parete e non ci è voluto molto altro per convincermi. Avevamo comunque diversi obiettivi in vari posti, perché non sapevamo dove il vento ci avrebbe portate. Questo, infine, ha deciso per noi, spingendoci a Scoresby Sund. Infine è stata la natura ad avere l’ultima parola.
Come è stato vedere per la prima la parete di roccia dopo tutto quel tempo in mare? È stato incredibile, un momento di pura gioia, eravamo così contente quando abbiamo attraversato il ghiacciaio e visto che la parete che sognavamo era vera e si ergeva davanti a noi. Ci sono volute sei settimane e non sapevamo se avevamo abbastanza tempo da passare a terra.
Quanto tempo avete passato a terra? Abbiamo passato solo dieci giorni a terra perché dovevamo partire a metà agosto in quanto a settembre si crea sempre una grande tempesta nel nord dell’Atlantico. Siamo arrivate solo i primi di agosto nel fiordo e avevamo pochissimo
tempo per scalare: di dieci giorni tre sono stati di pioggia, e ci sono voluti altri tre giorni per portare il materiale alla base della parte, quindi abbiamo avuto solo tre giorni per scalare.
Dicci di più di “Via Sedna”, la via che avete aperto La via è stata impegnativa sin da subito: la parete è molto a strapiombo e compatta e ci siamo mosse molto lentamente per via del terreno. Non c’erano cenge su cui sostare, eravamo sempre appese e anche questo è stato piuttosto stancante. Tuttavia, questo tipo di sfida era quello che ci ha fatto partire in primo luogo. Per un po’, vista la difficoltà, abbiamo avuto timore di non arrivare in cima in tempo. Alla fine della prima giornata abbiamo fissato delle corde e siamo scese alla base per riposare. Qui ci siamo chieste come proseguire: se proseguire in modo fast&light oppure portarci la portaledge. Abbiamo optato per una via di mezzo. Il secondo giorno siamo riuscite ad aprire solo quattro tiri ma abbiamo dormito in cengia. I dubbi a quel punto erano tanti, perché avevamo solo mezza giornata per arrivare in cima. Poi qualcosa si è sbloccato, la parete è diventata più scalabile e siamo andate più veloci, a mezzogiorno del terzo giorno eravamo in vetta. È stato il momento più intenso di tutto il viaggio: dopo tutta quella fatica, dopo tutta l’attesa a bordo della barca, dopo così tanti imprevisti ce l’avevamo fatta. Nessuna di noi poteva crederci. La via l’abbiamo aperta tutta a friend, usando chiodi solo per le calate. Quando abbiamo messo i piedi a terra ha iniziato a piovere.
Cosa senti di aver imparato dalle tue compagne di avventura? Tutte abbiamo imparato tanto: sicuramente a vivere in barca in otto. Devi essere molto rispettosa e cosciente degli spazi degli altri. Se non ti trovi bene non puoi andare via, devi adattarti alle esigenze altrui. Alla fine però siamo state molto bene insieme. Impari come comportarti, ad ascoltare, ad empatizzare. È stato bello vedere come siamo cresciute come gruppo. Insieme abbiamo imparato ad affrontare l’ignoto.
C’è mai stato un momento critico in cui avete pensato di non farcela? Sì, diversi. Il primo è stato alle Fær Øer dove siamo rimaste ferme una settimana per il maltempo. Qui ci
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siamo domandate per la prima volta se avremmo dovuto cambiare obiettivo e andare verso la Norvegia o rimanere in Islanda e scalare lì. Ma ne abbiamo parlato ed eravamo tutte d’accordo di proseguire verso la Groenlandia anche se avessimo avuto solo tre giorni di scalata a disposizione. Eravamo determinate sul rischiare il tutto per tutto. Non è stata una decisione facile. Poi, nonostante la stagione calda, siamo dovute restare ferme dieci giorni ad aspettare che si sciogliessero i ghiacci per navigare. Mentre aspettavamo era attesa una grande tempesta, e in fin dei conti la cosa più importante si è rivelata sopravvivere alla bufera, piuttosto che scalare. Mentre scalavamo, inoltre, abbiamo avuto un guasto al motore e non sapevamo se saremmo riuscite a ripartire.
In che modo la montagna e il mare si assomigliano? Entrambi sono ambienti dove si è esposti alla forza della natura e dove devi adattarti ad essa. Anche la vita in questi due posti è molto simile: dormi in posti piccoli, ti lavi poco. Navigare è un po’ come fare alpinismo.
Avete mai incontrato animali selvaggi? In mare abbiamo visto balene e delfini che nella notte brillavano per il plankton di cui si nutrono. Abbiamo visto due orsi polari: uno dalla barca e uno che è venuto al nostro campo base a terra. Noi stavamo bevendo un caffè sulla spiaggia e a cinquanta metri da noi abbiamo visto l’orso polare uscire dall’acqua e guardarci: era enorme. Io ero girata dall’altra parte ma ho visto il viso della mia amica ed ho subito capito cosa stava succedendo. I fucili erano in tenda, lontano da noi. Ci siamo guardate reciprocamente per tanto tempo perché non sapevamo cosa fare. La mia amica allora ha urlato e l’orso ha avuto paura e se ne è andato. È andata bene così perché in questo modo nessuno, né l’orso né noi, è stato ferito. Comunque quando è andato via ancora tremavamo, è stato un momento davvero intenso.
Quali sono state le tue emozioni durante il viaggio di ritorno? Mi sono goduta molto di più il ritorno, perché durante l’andata i miei pensieri erano rivolti verso l’ignoto, gli imprevisti, e sentivo molta pressione. È stato difficile rimanere positiva e motivata in certi momenti.
Nel viaggio di ritorno mi sono goduta la navigazione: avevamo fatto quello che desideravamo e mi sentivo sollevata. Comunque gli imprevisti ci sono stati anche in questo frangente: siamo dovute stare una settimana in Islanda non sapendo se saremmo riuscite a tornare in Francia. Poi il meteo è migliorato e abbiamo navigato dodici giorni di seguito. Mi sono sentita bene in quei giorni consecutivi in mare. Quando siamo arrivate a due giorni dalla nostra destinazione abbiamo dovuto aspettare altri cinque giorni per il maltempo. Quello è stato un momento molto frustrante perché eravamo già proiettate con la mente a casa.
Com’è stato salutare le tue compagne? L’ultimo giorno di navigazione è stato molto difficile a causa del maltempo, eravamo molto concentrate. Ma quando siamo arrivate a La Rochelle e ci siamo rese conto che la nostra avventura insieme stava volgendo al termine e presto avremmo dovuto salutarci ci siamo subito rattristate. Abbiamo fatto festa l’ultima sera per allentare la pressione di tre mesi in barca insieme. Poi la maggior parte di noi ha pianto. Abbiamo costruito qualcosa di potente insieme.
Cosa volete comunicare attraverso questa esperienza? Quello che vorremo davvero condividere è che se vuoi fare qualcosa puoi farla. Nessuno avrebbe pensato che ce l’avremmo fatta con un team di sole donne perché sia la barca a vela che l’alpinismo sono ambienti dominati dagli uomini. Noi sentivamo che non era così, che ce l’avremmo fatta, e questo ha fatto la differenza. Quando siamo tornate in Francia molti ci dicevano “otto donne in barca, chissà quanto avrete litigato” ma in realtà non è mai successo, siamo state molto bene tra di noi. È triste come nella società si pensi che se tante donne insieme finiscano necessariamente per litigare. Noi eravamo molto attente alle altre, abbiamo parlato di emozioni e ci siamo rispettate e questo ha creato un ambiente positivo. Vorrei comunicare che si può fare quello che si vuole e divertirsi al tempo stesso, anche quando le condizioni sono difficili. E che per alcune cose devi prenderti del tempo ed essere paziente, anche se è la cosa più difficile del mondo.
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La Liste
TEXT ILARIA CHIAVACCI PHOTOS JEREMY BERNARD
Attraverso le fotografie e il racconto di Jeremy Bernard abbiamo avuto l’opportunità di conoscere i dettagli del film dei pro skier Jérémie Heitz e Sam Anthamatten: “La Liste Everything or Nothing”.
Il mondo delle produzioni action sta evolvendo, sono sempre di più e portano l’asticella sempre un po’ più in là i film dedicati alle imprese di montagna di sciatori e snowboarder. “La Liste Everything or Nothing” è il film degli skier Jérémie Heitz e Sam Anthamatten prodotto da Red Bull e Sherpa Cinemas. Questo per Sam è il secondo progetto, che arriva dopo “La Liste”, ovvero una lista di montagne di 4000 metri di altitudine da cui tracciare delle discese epiche nelle Alpi. Questo secondo progetto è una specie di sequel: solo che dalle Alpi il set si è spostato in Pakistan e un po’ più in alto, “La Liste Everything or Nothing” è stato tutto girato a 6000 metri d’altitudine. “Questo per loro era il secondo viaggio in Pakistan, avevano avuto un brutto incidente durante il primo tentativo e così hanno dovuto rimodellare il progetto: lo sci ad altitudini così elevate è veramente impegnativo. Organizzare questo tipo di produzioni sulle Alpi, a confronto, è una cosa semplice, soprattutto perché abbiamo la possibilità di controllare le condizioni praticamente in tempo reale: ci sono guide alpine, amici che sono sulle montagne tutti i giorni e che ci possono informare in maniera puntuale riguarda lle condizioni, ed è comunque difficile, ma nulla comparato ad andare dall’altra parte del mondo dove non puoi stare per sempre, ma hai una finestra di sei/sette settimane e devi sperare che tutto vada bene.” Jeremy
inizia così il suo racconto dell’avventura pakistana. Bernard è andato al seguito della spedizione che comprendeva 2 pro skier, 2 guide alpine, 3 filmmaker, 7 sherpa e un cuoco.
Deve essere stata un’esperienza pazzesca… È stato incredibile. Il viaggio è iniziato a Islamabad e poi, da lì, due giorni di guida ininterrotta in condizioni davvero pessime fino a Skardu, il posto dove dovevamo reperire tutto il materiale per la spedizione: ci sarebbe anche la possibilità di coprire questo tratto in aereo, ma dipende molto dalle condizioni, che spesso sono impraticabili. Due volte sono stato là e due volte l’aereo non è partito, l’atterraggio a Skardu non è dei più semplici da effettuare. E anche la strada è abbastanza epica, la chiamano highway, ma non ha niente di vagamente simile a un’autostrada. Da Skardu poi c’è un altro giorno di strada fino ad Askole, l’ultimo villaggio che si incontra prima di avventurarsi sul ghiacciaio. Prima da queste parti si vedevano perlopiù alpinisti, ma da qualche anno a questa parte sono sempre di più gli sciatori e gli snowboarder che progettano avventure sulle montagne del Pakistan, i local si stanno iniziando ad abituare a noi.
Immagino sia stata un’avventura anche solo arrivare sul ghiacciaio… Pensa che da Askole siamo partiti con 25 sherpa perché avevamo tantissimo equipaggia-
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mento e cibo (siamo stati al campo un totale di tre settimane), da lì l’obiettivo era raggiungere Snow Lake, un altopiano a 5000 metri d’altitudine dove imbastire il campo base e passarci più tempo possibile, per sciare quanto più potevamo. Da Askole quindi abbiamo iniziato a camminare fino al punto in cui abbiamo raggiunto la neve, da lì in poi abbiamo messo gli sci ai piedi e trainato l’attrezzatura e tutto il resto con delle slitte per iniziare la risalita sul Biafo Glacier fino a Snow Lake. Il Biafo è il terzo ghiacciaio più esteso al mondo al di fuori della regione polare: ci sono voluti 7 giorni solo per raggiungere il campo base. Per farlo ci siamo avvalsi dell’aiuto di diversi portatori: alcuni sherpa si sono fermati al livello della neve, mentre altri 7 di loro erano portatori d’alta quota e quindi hanno raggiunto il campo base con noi e sono rimasti lì per tutto il tempo. È un discreto viaggio per arrivare fino là, ma è intenso e bellissimo, quindi ne è valsa la pena sotto tutti i punti di vista.
Freddo? Snow Lake è un altopiano di montagna, quando sei lì è tutto bianco intorno a te e, durante il giorno diciamo che fa anche abbastanza caldo, il vero problema è la notte: si gela. Si passa dai 5 gradi quando c’è il sole ai -20 di quando cala dietro le montagne. È come se qualcuno spegnesse un interruttore: quando il sole scompare è terribile perché, con il fatto che non ci sono rocce, ma solo ghiaccio e neve, la temperatura del giorno non dura, non rimane come sul terreno, che è in grado di trattenere per un po’ il calore del sole. Le notti quindi sono abbastanza lunghe e portano via un bel po’ di energie solo per proteggersi dal freddo.
Com’era la vostra daily routine? La mattina ci alzavamo molto presto, per raggiungere la montagna che Sam e Jérémie volevano sciare, e poi tornavamo abbastanza presto al campo, intorno all’ora di pranzo: lì mangiavamo, ci riposavamo e pianificavamo il giorno successivo. È stata una spedizione abbastanza stanziale, perché da lì potevamo raggiungere veramente moltissime cime, Snow Lake è circondata dalle montagne a 360 gradi: tutto intorno è ghiaccio, seracchi e crepacci. Alcuni di questi non sono sciabili, ma la maggior parte sì, in accordo ovviamente con le condizioni della neve e del sole. Avendo a nostra disposizione sia gli sherpa che il cuoco per noi è stato possibile concentrarci solo sullo sci: a quelle temperature e quell’altitudine è difficoltoso fare tutto, dallo sciogliere la neve per ricavare l’acqua al cucinare. Senza un cuoco avremmo passato la nostra giornata a sciogliere la neve per avere l’acqua e avremmo mangiato solo cibo liofilizzato, noi invece avevamo del vero cibo. Svegliarsi alle 3 e trovare il caffè già pronto anziché doversi mettere a sciogliere la neve ti mette in un'altra disposizione d’animo.
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Snow Lake è un altopiano di montagna, quando sei lì è tutto bianco intorno a te e, durante il giorno diciamo che fa anche abbastanza caldo, il vero problema è la notte: si gela.
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Eravate in un ambiente piuttosto selvaggio e inesplorato, i pericoli di certo lì non mancano e voi eravate una crew abbastanza numerosa. Che precauzioni avete preso? Tutto quello che sapevamo con certezza fin dall’inizio era dove mettere il campo base, tutto il resto lo abbiamo deciso lì per lì in maniera molto cauta, tenendo sempre in considerazione le condizioni della neve: ci siamo presi qualche giorno solo per osservare i cambiamenti nella neve. A volte riuscivamo a vedere con i nostri occhi i fattori di rischio, come valanghe e crepacci, altre era importante guardare tutti i segnali della montagna e iniziare lentamente a muoversi. Abbiamo preso confidenza e piano piano ci siamo spostati su montagne più grandi. Con noi c’erano comunque sempre le due guide, che monitoravano ogni aspetto ed erano parte del processo decisionale perché chiaramente stiamo parlando di un ambiente pericoloso: ci sono valanghe, crepacci, seracchi quindi sulla parete ci muovevamo con le corde a gruppi di due o di tre, cercavamo sempre di salire in meno persone possibile, siamo stati molto attenti alla sicurezza durante tutto il periodo dello shooting e nessuno è stato forzato a fare qualcosa che non si sentiva di fare. In montagna può sempre succedere qualcosa di brutto, ma abbiamo preso le decisioni sempre in maniera molto saggia e abbiamo messo tutti i nostri sforzi nella sicurezza, minimizzando i rischi.
Per tutto il tempo che siete stati al campo base eravate completamente isolati… Non c’erano neanche animali, o
uccelli, niente: solo neve, ghiaccio e basta. Fortunatamente eravamo un gruppo affiatato e ben assortito, ci conosciamo tutti ormai da molti anni: Sam e Jeremy da 10 anni o forse di più, il mio primo ski trip professionale fuori dall’Europa è stato con loro ed è lì, diciamo, che è iniziata la mia carriera, uno dei filmmaker è un mio amico e gli altri due erano gli unici outsider, uno canadese e uno americano, ma eravamo tutti uniti da un unico scopo, quindi è andata bene. Non dico che non ci siano state delle discussioni, perché sono comunque situazioni complesse, ma niente di non risolvibile, solo la vita normale di una campo base a 5000 metri dove si trascorre due settimane completamente isolati dal resto del mondo.
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Non c’erano neanche animali, o uccelli, niente: solo neve, ghiaccio e basta. Fortunatamente eravamo un gruppo affiatato e ben assortito, ci conosciamo tutti ormai da molti anni: Sam e Jeremy da 10 anni o forse di più, il mio primo ski trip professionale fuori dall’Europa è stato con loro ed è lì, diciamo, che è iniziata la mia carriera.
Dal tuo punto di vista di fotografo che esperienza è stata? Il mio obiettivo era di fare delle belle foto ai rider, non avevo nessuna velleità in fatto di sci, ma in generale l’obiettivo della spedizione non era tanto quello di dimostrare qualcosa in termini di performance.
Oggi ci sono molte più produzioni di un tempo, credi che anche l’approccio degli atleti si stia spostando sempre più verso la produzione di contenuti? Sicuramente le produzioni sono aumentate, questa era molto grande perché gli atleti avevano sponsor consistenti come Red Bull, non è banale trovare dei budget del genere. Oggi di contro questo genere di operazioni sono più semplici di un tempo da mettere in piedi, la tecnologia in questo aiuta molto: oggi è tutto molto più leggero, dagli sci, alle camere, alle macchine fotografiche fino alle tende e ai sacchi a pelo, che benché leggerissimi sono più caldi. Inoltre fino a poco tempo fa le società che si occupano della logistica di queste spedizioni erano abituate al turismo estivo, adesso si stanno organizzando anche per quello invernale, che è sempre più un business e per loro una discreta fonte di guadagno. Anche il Pakistan sta vivendo il suo momento d’oro, i local come la stanno prendendo? Vedono che c’è un mercato, ci sono sempre più portatori per alte quote, non saprei dire se sia una cosa in assoluto positiva, ma sta succedendo. Non solo in Pakistan chiaramente, ma specialmente sugli 8000 il turismo di massa sta causando tantissimi danni. La prima volta che sono stato in Pakistan in inver-
no eravamo praticamente soli, gli sherpa non portavano turisti sul ghiacciaio in inverno: si trattava di una richiesta veramente fuori dall’ordinario per loro, mentre da 5 anni a questa parte le cose sono cambiate. Mi interrogo sempre sul fatto se questo sia un bene o meno per le montagne. Alla fine, anche se riportiamo tutto giù, comunque produciamo rifiuti, utilizziamo le corde, prendiamo degli aerei per arrivare fin là, è un discorso un po’ complesso e di non semplice soluzione.
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La prima volta che sono stato in Pakistan in inverno eravamo praticamente soli, gli sherpa non portavano turisti sul ghiacciaio in inverno: si trattava di una richiesta veramente fuori dall’ordinario per loro, mentre da 5 anni a questa parte le cose sono cambiate. Mi interrogo sempre sul fatto se questo sia un bene o meno per le montagne.
Solitude
TEXT BRUNO COMPAGNET PHOTO LAYLA KERLEY
Un viaggio in montagna dove perdersi e ritrovarsi, ma anche un luogo dove il tempo sembra allungarsi nel pallore diffuso della luce dalle mille variazioni di grigio e blu. Un soggiorno nel nord rurale, quello meno da cartolina delle Lofoten, sulle Alpi di Lyngen.
Il volo è piacevole e il nostro arrivo a Trømso viene salutato dalla timida apparizione di un debole sole che infiamma mare e fiordi tra le montagne e le isole, bucando in alcuni punti il monotono strato di nuvole. Il nostro aereo ha sorvolato i ghiacciai e il candore azzurrognolo dei paesaggi dell'estremo nord che siamo felici di ritrovare. Lascio crescere in me il piacere e la malinconia che questi paesaggi non mancano di risvegliare nel profondo. Sono passati quattro anni dal nostro ultimo viaggio verso queste latitudini e da allora il mondo è molto cambiato... A quel tempo le benzina costava 1,20 euro al litro e se parliamo di riscaldamento globale, strato dell’ozono e istinto di massa potremmo ancora ignorare facilmente tutti i segnali e vivere nella confortante illusione di una falsa stabilità…
Il Covid non aveva ancora fatto capolino nelle nostre vite e la guerra ai confini dell'Europa non era d'attualità.
Subito scorgo Thor in lontananza, ci sta aspettando al rullo della consegna bagagli, le mani in tasca e l’atteggiamento distaccato e freddo tipico delle persone che non cercano di esserlo. Non appena ci vede inizia a camminare verso di noi sorridendo e subito prende Layla tra le sue grandi braccia da carpentiere prima di dare un abbraccio anche a me.
Li lascio al mutuo piacere del ricongiungimento e mi dirigo verso il rullo per prendere i nostri borsoni da sci apparsi poco più in là. Ventitré chili per bagaglio sono una bella sfida quando pensi di andare a sciare su queste montagne, senza contare l’attrezzatura fotografica di Layla.
Il furgone di Thor è piuttosto vecchio e malandato, ma lui ne è davvero contento perché l'ha preso a pochissimo e ci può dormire dentro... Un'esistenza frugale e modeste ambizioni di trovare del tempo libero, questo è anche ciò che ci accomuna oltre alla nostra passione per lo sci. Le
strade sono sconnesse e mi chiedo se le sospensioni del van reggeranno a lungo. Imbocchiamo il sentiero che unisce la casa vacanze di famiglia dove ci aspettano una stufa a legna scoppiettante e una sauna bollente. Abbiamo cibo e attrezzature sufficienti per alcune settimane. Passiamo attraverso un paesaggio che ci rende felici per quanto sia immutato nel tempo. Appena scesi dall’auto l'aria sembra più fredda e frizzante, un'atmosfera invernale che sulle Alpi non abbiamo proprio vissuto quest'inverno.
Perdo rapidamente il conto dei giorni mentre mi lascio rapire da una piacevole routine quotidiana. La stufa a legna che accendo alla mattina presto quando gli altri dormono ancora. La corteccia di betulla che prende fuoco rapidamente con una fiamma vivace, diffondendo un calore avvolgente ed un suono piacevole. Poi preparo una grande Moka e la cucina si riempie velocemente del profumo del caffè. Niente radio, niente giornali, mi proibisco anche di guardare le notizie sul mio cellulare, è troppo deprimente e ne subirò comunque il clamore mediatico quando torneremo in Francia. Inoltre dormo molto meglio qui e non mi sveglio nel cuore della notte super ansioso pensando a mia figlia e al mondo alla deriva in cui dovrà vivere.
Thor e Layla mi raggiungono e ci attardiamo durante la colazione bevendo caffè su caffè. Questo ritmo lento delle nostre giornate ci si addice molto di più rispetto ad un viaggio esotico su una barca nel cuore dei fiordi, che comunque costerebbe un occhio della testa e che dovremmo prenotare con due anni di anticipo. Ci permettiamo di assaporare il lusso di questo ritmo lento e silenzioso, fatto di cose semplici… Servizi igienici all’esterno della casa, niente acqua corrente ed elettricità data solo dal vento e dal sole (quando c'è)…
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Ci basta avere il caminetto e sufficiente legna per la sauna che accendiamo quando torniamo, congelati, dai nostri giri in montagna. E poi ci piace fare diversi viaggi on the road con sempre un'idea in mente ma la libertà di cambiare tutto all'ultimo momento. Anche questo è bello e ricorda a me e Layla le nostre passeggiate all'alba lungo la costa spagnola alla ricerca dell'onda perfetta.
Le condizioni sono ancora invernali, la neve è buona ma l'instabilità del manto nevoso e il rischio valanghe è molto alto. Da quando siamo qui ce ne sono state molte, con anche alcuni feriti e morti. Lyngen e le Lofoten sono massicci su cui poggia una sorta di eternità e la possibilità di sciare con vista sul mare a nord del Circolo Polare attira sciatori da tutta Europa. Ma queste montagne, che ignorano lo scorrere del tempo, possono essere terribilmente pericolose quando la neve è bagnata, ed è meglio sciare su dolci pendii che non superino i trenta gradi di inclinazione. Uno dei problemi principali, oltre ai turisti e ai tanti tour operator che propongono soggiorni chiavi in mano, è la voglia di vivere quel sogno che a volte spinge i gruppi ad uscire tutti i giorni… Anche qui, come a Chamonix quando il telefono squilla le prime domande che ci si fa è: “Saranno amici? Li conosciamo? A no, sono turisti, ok…” Una reazione certo spiacevole ma naturale se guardata più da vicino, che non impedisce che una o più persone finiscano la loro permanenza qui travolti da valanghe con magari qualche costola rotta. Qui come ovunque ci possono essere incidenti anche legati all'atteggiamento e al comportamento delle persone in montagna... Ma è sempre facile parlare o scrivere a posteriori, quale sarebbero state le nostre decisione al posto loro?
Lyngen e le Lofoten sono massicci su cui poggia una sorta di eternità e la possibilità di sciare con vista sul mare a nord del Circolo Polare attira sciatori da tutta Europa.
Torkel
Passiamo davanti al villaggio dove a volte andiamo a controllare la posta e a bere un caffè scadente, poi lasciamo la strada principale per seguire una via secondaria. Proseguiamo dopo una lago ghiacciato e una collina boscosa. Un impianto di snowboard e sci nordico nel mezzo del bosco, così come il numero sulla cassetta postale, conferma che siamo arrivati a destinazione. Erano anni che non vedevo Torkel, l’ultima volta è stato sulle Dolomiti. Era uno di quegli inverni in cui le valanghe spazzavano via strade, impianti di risalita e anche palazzi... Il nostro rapporto inizia qui alle Lofoten nel 2007. All'epoca, Henningsvær non era un luogo molto conosciuto o frequentato in pieno inverno, e il marchio norvegese con i suoi colori sgargianti e le colorate cerniere impermeabili aveva preso l'abitudine di organizzare sessioni fotografiche con il suo team di rider. Oggi siamo entrambi papà e abbiamo chiamato. senza consultarci, le nostre figlie Minna, che oltre al nome di battesimo condividono la stessa passione per lo snowboard. Dopo il caffè, Torkel prepara la sua borsa e siamo pronti a partire alla scoperta del suo giardino segreto per una di quelle giornate che ci faranno voglia tornare qui, nonostante il tempo e le condizioni ancora incerte. Non incrociamo una sola traccia sulla neve (a parte quella di un ghiottone), non vediamo nessuno durante tutta la giornata e per noi, oltre alla neve e al bel tempo, questa solitudine e questo isolamento sono un incredibile valore aggiunto alla nostra la esperienza. Condividiamo qualche birra a fine pomeriggio intorno al BBQ guardando il sole che fatica a scendere oltre l’orizzonte, ingoiando frittelle di pesce, salsicce sature di grasso e altre specialità norvegesi che riempiamo di ketchup e senape. Poi salutiamo Torkel che torna con i suoi figli verso il bosco di casa...
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Jiehkkevárri
Sono le 4.38 ed esco a fare pipì davanti casa, le stelle sono scomparse da tempo, il sole sta già colorando le cime intorno alla valle e non c'è una nuvola in cielo. Rientro in casa e sveglio tutti. Mentre siamo per strada ripenso alle tante volte che ho provato a raggiungere la cima di questo massiccio senza successo. L'ultimo tentativo è stato uno dei più impegnativi a causa delle condizioni di neve difficili e del meteo pessimo che ci aveva costretti a stare quattro ore in una buca di neve ad ascoltare il vento che si scatenava e spazzava via, poco a poco, voglia e motivazione. Speravamo sempre in una finestra di bel tempo ma il morale era ai minimi storici, poi le nuvole si sono aperte per lasciare posto ad un'atmosfera polare che ha accompagnato la nostra ritirata dal fiordo... La giornata di oggi è invece molto diversa, il tempo e la neve tengono e la lunga salita risulta piacevole. Dopo 6 ore e mezza raggiungiamo una cima piatta delle dimensioni di diversi campi da rugby, spazzata da un vento costante che ha trasformato la neve in piume di pernice bianca, come osserva Layla. Per la discesa non abbiamo definito nulla in anticipo, abbiamo deciso di valutare sul posto e di scegliere tra le tante opzioni offerte da questa bellissima montagna. La nostra decisione ricade sul corridoio occidentale, un lungo canale di oltre mille metri di altezza che abbiamo attaccato al momento giusto ma che avrebbe meritato di aspettare ancora qualche giorno. Nonostante tutto, la neve soffice e friabile ci offre una bellissima discesa e una lunga avventura. L'immenso pendio che si sviluppa sotto un costone di rocce si sviluppa in gigantesche lastre di ghiaccio battute dal vento e che il sole fa sciogliere, mitragliandoci regolarmente mentre scendiamo dalla falesia di destra...
Un percorso lungo e relativamente ripido dove scendere sarebbe sconsigliato e che richiede un po' di impegno. Affrontiamo una serie di curve matte che siamo felici di dimenticare non appena ci avviamo a comprare birre e patatine sulla strada del ritorno. Anche questo richiede del tempo che però lasciamo scivolare lentamente. La superstrada è ancora lontana, anche l'adrenalina comincia a calare e ci fermiamo sotto un bellissimo pino. Sguazziamo su uno spesso tappeto di muschi e licheni, divoriamo i nostri panini, apprezzando la fatica di questa lunga giornata. Con la testa appoggiata al borsone, guardo fisso un punto in lontananza mentre diciamo stupidaggini.
L'ultimo tentativo è stato uno dei più impegnativi a causa delle condizioni di neve difficili e del meteo pessimo che ci aveva costretti a stare quattro ore in una buca di neve ad ascoltare il vento che si scatenava e spazzava via, poco a poco, voglia e motivazione. Speravamo sempre in una finestra di bel tempo ma il morale era ai minimi storici, poi le nuvole si sono aperte per lasciare posto ad un'atmosfera polare che ha accompagnato la nostra ritirata dal fiordo...
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Husqvarna hoskehogget
Il motore è acceso e sono l'ultimo a infilarsi sul sedile anteriore del furgone. Fiocchi di neve sfuggono dal ventre di nuvole che il vento porta all'inferno. Non penso che sia un buon presagio. La nebbia bassa che si è formata con il freddo trasforma un ambiente divenuto familiare in un paesaggio ostile. Poi il sole trafigge la foschia come un malocchio giallo prima di scomparire nella tempesta. Lo scenario scorre dietro ai vetri appannati… Il rumore del motore e il raschiare del tergicristallo sul parabrezza completamente offuscato accompagnano meravigliosamente il crepitio della radio, ma nessuno sembra essere disturbato da questi suoni angoscianti. Parcheggiamo e ci avviamo lungo la strada, tornata buia e bagnata dal disgelo della neve. Sulle piste la neve è sporca e mista a ghiaia fine. La neve fresca è molto umida nel bosco di betulle, il manto è pesante, appiccicoso… Poi il pendio si raddrizza senza variazioni significative della qualità della neve. Il sudore della nostra fatica si unisce ai fiocchi bagnati che trasformano la mia giacca e il mio primo strato in un forno in cui marinerò fino al primo crinale, dove ci cambieremo nella tormenta. Le nostre pelli sono inzuppate e ora che la tempesta è passata, la neve fredda si accumula tanto che la dobbiamo rimuovere regolarmente. Sorrido mentre sento Thor fermarsi ed imprecare togliendosi gli sci... Stranamente Layla sta molto meglio di noi e non ha questo problema. I quindici centimetri di neve fredda posati su un fondo duro e ghiacciato rendono difficoltosa la progressione, gli sci scivolano e mi tirano su fianchi e ginocchia, seguiamo una cresta dal profilo alto ma punteggiata di rocce nere e spazzata da raffiche che schiaffeggiano anche noi in faccia. L'ingresso del canale non è facile da trovare. La presenza di un gran numero di corde di sosta, più o meno cotte dal sole e dal ghiaccio, che circondano una roccia che abbiamo ripulito
dalla neve con una piccozza, ci confermano che siamo nel posto giusto. Thor scende per primo mentre io tengo Layla per l’imbracatura sospesa nel vuoto in modo che possa immortalare questi momenti intensi. Dopo un po' la tensione nella corda scompare. Chiamo Thor per informarmi delle condizioni della neve nel canale… “Sembra ottima” risponde. Chiamo Layla, chiedendomi se non stiamo facendo qualcosa di stupido. Anche uno stretto canale può essere complicato da gestire in queste condizioni burrascose… Appeso alla corda, guardo Layla e Thor in cima alla striscia di neve che si tuffa tra le pareti rocciose, per poi vederli scomparire velocemente. Non parliamo molto, uniti dal linguaggio del silenzio attivato dalla volontà dell'intenzione. Thor se la prende comoda, vira in modo costante e ottimale... Le cose stanno lentamente iniziando a tornare ad essere piacevoli. Questo sarà anche il momento clou del nostro soggiorno. Che termineremo con un'ottima impressione. Tornando alla strada e alla macchina, osserviamo le montagne rivelarsi furtivamente. Un mondo di solitudine in perpetuo cambiamento.
La mattina della partenza nevica copiosamente e la tempesta in arrivo regalerà sicuramente a Thor ed ai suoi amici delle bellissime giornate sugli sci… Ci promettiamo di far di tutto per tornare su queste montagne che crescono al mutare del cielo, in questo luogo ai confini del mondo.
I quindici centimetri di neve fredda posati su un fondo duro e ghiacciato rendono difficoltosa la progressione, gli sci scivolano e mi tirano su fianchi e ginocchia, seguiamo una cresta dal profilo alto ma punteggiata di rocce nere e spazzata da raffiche che schiaffeggiano anche noi in faccia. L'ingresso del canale non è facile da trovare.
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LEADING RELAX HOTEL MARIA 1608. RESIDENCE LASTÈ 1609.
RESORT DOLCE CASA 1610.
HOTEL BELLAVISTA 1611.
WINE HOTEL SAN GIACOMO 1612. HOTEL ALPECHIARA 1613. HOTEL PIANDINEVE 1614.
SPORT HOTEL VITTORIA 1615.
ALPIN HOTEL SONNBLICK 1616. HOTEL WALDHOF 1617.
HOTEL BARRAGE 1618. HOTEL VILLA GLICINI 1619.
HOTEL EUROPEO 1620.
BEVERLY HOTEL 1621.
DOLOMEET BOUTIQUE HOTEL 1622.
HOTEL CRISTINA 1623.
LEFAY RESORT&SPA DOLOMITI 1624.
OLYMPIC PALACE 1625.
BLU HOTEL ACQUASERIA 1626.
GRAND HOTEL PARADISO 1627. HOTEL GARNI SORRISO 1628.
HOTEL MIRELLA 1629.
JOLLY RESORT&SPA 1630. RESIDENCE CLUB 1631.
CHALET LA CIASETA 1632.
FAMILY HOTEL GRAN BAITA 1633. HOTEL ANDA 1634.
HOTEL TERME ANTICO BAGNO 1635. WELLNESS FASSA 1636.
HOTEL CASTEL PIETRA 1637.
FALKENSTEINER HOTEL 1638. HOTEL RUDOLF 1639.
K1 MOUNTAIN CHALET 1640.
MAJESTIC HOTEL & SPA RESORT 1641.
PARKHOTEL SCHÖNBLICK 1642.
ROYAL HOTEL HINTERHUBER 1643. GRAND HOTEL LIBERTY 1644.
GRAND HOTEL RIVA 1645.
HOTEL ANTICO BORGO 1646.
HOTEL EUROPA 1647.
HOTEL LIDO PALACE 1648.
HOTEL LUISE 1649.
HOTEL PORTICI 1650.
HOTEL SOLE RELAX 1651.
VILLA NICOLLI 1652.
HOTEL LEON D’ORO 1653.
HOTEL BELLERIVE 1654. HOTEL LAURIN 1655.
HOTEL SALÒ DU PARC 1656.
RIVALTA LIFE STYLE HOTEL 1657.
HOTEL ORSO GRIGIO 1658.
HOTEL VILLA STEFANIA 1659.
NATURHOTEL LEITLHOF 1660.
PARKHOTEL SOLE PARADISO 1661.
POST HOTEL 1662.
RESIDENCE SILVIA 1663.
SPORTHOTEL TYROL 1664.
ZIN SENFTER RESIDENCE 1665.
HOTEL LA VETTA 1666.
HOTEL LADINIA 1667.
RENÈ DOLOMITES BOUTIQUE 1668.
X ALP HOTEL 1669.
HOTEL MONTE SELLA 1670.
CHRISTOPHORUS MOUNTAIN 1671.
HOTEL AL SONNENHOF 1672.
HOTEL CHALET CORSO 1673.
HOTEL CONDOR 1674.
HOTEL MAREO DOLOMITES 1675.
HOTEL TERESA 1676.
RESIDENCE PLAN DE CORONES 1677.
SPORTHOTEL EXCLUSIVE 1678.
HOTEL BAITA FIORITA 1679.
HOTEL RESIDENCE 3 SIGNORI 1680. HOTEL VEDIG 1681.
CHABERTON LODGE 1682. HOTEL LA TORRE 1683.
RELAIS DES ALPES 1684.
AGRITURISMO MASO LARCIUNEI 1685.
APARTMENTS SUNELA 1686.
ARTHOTEL ANTERLEGHES 1687.
ASTOR SUITES B&B 1688.
BIANCANEVE FAMILY HOTEL 1689.
BOUTIQUE HOTEL NIVES 1690.
CHALET ELISABETH 1691.
GRANBAITA DOLOMITES 1692. HOTEL AARITZ 1693. HOTEL ACADIA 1694.
HOTEL ALPENROYAL 1695. HOTEL ANTARES 1696. HOTEL CHALET S 1697. HOTEL CONTINENTAL 1698. HOTEL DORFER 1699. HOTEL FANES 1700. HOTEL FREINA 1701.
HOTEL GARNI DOLOMIEU 1702.
HOTEL GENZIANA 1703.
HOTEL MIRAVALLE 1704.
HOTEL OSWALD 1705.
HOTEL PORTILLO DOLOMITES 1706. HOTEL SOMONT 1707.
HOTEL SUN VALLEY 1708. HOTEL TYROL 1709.
HOTEL WELPONER 1710.
LUXURY CHALET PLAZOLA 1711. MOUNTAIN DESIGN HOTEL 1712.
MOUNTAIN HOME VILLA ANNA 1713. RESIDENCE ISABELL 1714. RESIDENCE VILLA FUNTANES 1715. RESIDENCE VILLA GRAN BAITA 1716. THE LAURIN SMALL&CHARMING 1717. WELLNESS RESIDENCE VILLA 1718. RESIDENCE VILLA AL SOLE 1719. HOTEL TRE CIME SESTO 1720. ALPENWELLNESSHOTEL ST.VEIT 1721. APARTMENTS RIEGA 1722. BERGHOTEL SEXTEN 1723.
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BY DAVIDE FIORASO PHOTO GABRIELE PEDEMONTE
Imparare a orientarsi in natura è l’inizio di un percorso di liberazione. È un atto avvincente e affascinante, che rivela potenzialità dimenticate a chi vi si immerge con profondo coinvolgimento e fiducia.
È questo il prezioso insegnamento che Franco Michieli ha ricevuto durante decenni di esplorazioni in numerosi ambienti della Terra. Nel suo libro “Per ritrovarti devi prima perderti” ci offre le basi per far rinascere in noi uno sguardo esplorativo, interpretando l’ambiente attraverso i sensi e le doti cognitive che ognuno di noi possiede, accettando che gli
eventi naturali facciano la loro parte, nel darci risposte e indicarci vie possibili. Senza bisogno di protesi tecnologiche. Il sole, le stelle, i monti, i fiumi, le coste, i venti, la vegetazione, i suoni e molto altro fungono da bussole e da mappe, anche nella foresta o nella nebbia, se si impara a leggerli. In ogni ricerca è possibile perdersi. Ma la perdita è temporanea quando si sa attendere un’apertura. Allora non solo ci si ritrova: si vive qualcosa di nuovo, potente e inaspettato che mai la strada sicura avrebbe rivelato.
“L’umanità ha smarrito la strada. Da quando nacquero la civiltà, la consa-
pevolezza di un errore di percorso che mette in crisi la vita è emersa con insistenza, nelle storie sacre, nei miti, nei grandi poemi. (..) Abbiamo costruito ogni genere di vie diritte, fruibili all’istante, lungo cui non si impara nulla. E abbiamo perso la selva, con i suoi mille misteri, tanto che saltelliamo senza meta nel vuoto della virtualità. É dunque nella natura che potremmo apprendere di nuovo come orientarci, non teleguidati, ma rifondando uno sguardo consapevole sul mondo? (..) Se recuperiamo fiducia nella lettura concreta della Terra, forse sapremo portare il metodo anche nel contesto civile e sociale”.
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