Scott Jurek
Se non il più forte, è sicuramente il più grande. Rappresenta tutto ciò che un ultrarunner dovrebbe essere: gentilezza, altruismo, pazienza.
Heinz Mariacher
Attraverso la storia di uno fra i più importanti alpinisti della storia che ha contribuito allo sviluppo di questo sport come atleta ma anche come innovatore.
Lise Billon
Un’alpinista dall’animo avventuroso capace di spedizioni estreme ma anche di godere delle le piccole gioie di cordata senza pensare al successo.
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Diamo un nuovo significato al termine limite.
La maggior parte delle pagine e delle storie di The Pill sono dedicate ad avventure incredibili, grandi storie di esplorazione o gesti sportivi senza pari. Come giornalista è estremamente affascinante avere a che fare con le menti e gli animi tumultuosi di donne e uomini che dedicano la propria vita ad obiettivi più o meno giudicati raggiungibili dalla maggior parte della popolazione. C’è chi è mosso dalla necessità di fare la propria parte per difendere quello che resta di questo pianeta, c’è chi ha a cuore la giustizia sociale e chi, semplicemente, il bisogno di esplorare ce l’ha nel DNA. Ci sono posti dentro di noi che è possibile frequentare solo quando ci troviamo faccia a faccia con i nostri limiti, siano questi dettati dal corpo,
EDITO
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTO LAYLA KERLEY
dalla mente, o dalle circostanze esterne. Credo che una componente egoica sia insita in tutto quello che facciamo e che il bisogno di sentirsi forti e capaci di cose fuori dell’ordinario sia qualcosa di connaturato nell’essere umano, ma ci deve essere di più. Cosa ci spinge, come specie, ad andare sempre oltre? E soprattutto, questo fuoco che ci anima e che ci ha permesso di evolverci e di costruire tutto quello che abbiamo adesso, ci sta anche portando verso il baratro? È da un po’ che mi chiedo se l’abbiamo troppo mitizzata, questa storia dello spingersi sempre e comunque oltre i propri limiti. A volte non sarebbe meglio stare un po’ lì, seduti di fronte a questi limiti, per guardarli bene in faccia, prenderci le misure, e provare ad accogliere la sensazione di impotenza che questi ci trasmettono? Non sareb
be una lezione altrettanto importante come quella impartita da una sfida superata? Qualche tempo fa mi sono imbattuta in un articolo di The Vision in cui l’autore riflette sul significato della parola «progresso» e di come sia necessario superare l’idea che attribuiamo a questo termine per poter avere qualche chance di salvarci la pelle. Se l’inquinamento galoppa senza freni è anche perché, come specie, non riusciamo a riconoscerci dei limiti. Produrre qualcosa in lana o in metallo costa troppo? Ci ingegniamo ed ecco qua un derivato della plastica pronto ad aggirare l’ostacolo.
Dagli anni Novanta ad oggi le emissioni di CO2 sono aumentate del 60 per cento ed è chiaro a tutti che nessuno degli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi sul clima per il 2025 verrà ri
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spettato. Dobbiamo ampliare la nostra visione di progresso e capire che le tecnologie, il sapere, e l’essere in grado di superare i nostri limiti d’ora in poi ci dovranno servire per decrescere, e non per crescere ancora. Siamo sempre stati abituati ad associare a termini come produttività e performance solo e soltanto significati positivi, ma è davvero così? Io onestamente una risposta non ce l’ho, ma credo che, a vedere dove sta andando il mondo a furia di performance e progresso, la risposta sia no. In “Essere natura” l’antropologo Andrea Staid sostiene che tutto quello che di male abbiamo fatto al pianeta lo abbiamo fatto perché la nostra visione antropocentrica fa sì che consideriamo la natura come “altro da noi” mentre i nativi delle Hawaii, ad esempio, considerano alberi, fiumi e montagne
EDITO
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTO LAYLA KERLEY
come dei soggetti alla pari degli altri uomini che popolano il pianeta. Ma espone anche un altro concetto molto interessante: quello dei disertori della crescita, ovvero persone come lui, ma anche come architetti che progettano bioedilizia, persone che vivono in barca a vela e navigano senza mai utilizzare combustibili fossili ma conoscendo molto bene i venti, gli attivisti e le attiviste di Fridays For Future, insomma persone che hanno scelto vite in aperto contrasto con quello che comunemente è considerato auspicabile. Ovvero crescere sempre e costantemente. In poche parole i disertori della crescita hanno scelto di non superare più certi limiti: stanno risignificando questa parola e probabilmente tutti noi dovremmo cominciare a guardare a questo termine con occhi diversi.
Dagli anni Novanta ad oggi le emissioni di CO2 sono aumentate del 60 per cento ed è chiaro a tutti che nessuno degli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi sul clima per il 2025 verrà rispettato.
Dobbiamo ampliare la nostra visione di progresso e capire che le tecnologie, il sapere, e l’essere in grado di superare i nostri limiti d’ora in poi ci dovranno servire per decrescere, e non per crescere ancora.
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6:00|ALTABADIA DOLOMITES
THE CREW
PRODUCTION
The Pill Agency | www.thepillagency.com
EDITOR IN CHIEF
Denis Piccolo | denis@thepillagency.com
EDITORIAL COORDINATOR
Lisa Misconel | lisa@thepillagency.com
EDITING & TRANSLATIONS
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ART DIRECTION
George Boutall | Evergreen Design House Niccolò Galeotti, Francesca Pagliaro
THEPILLOUTDOOR.COM
Martina Beslagic | martina@thepillagency.com
PHOTOGRAPHERS & FILMERS
Matteo Pavana, Thomas Monsorno, Camilla Pizzini, Chiara Guglielmina, Silvia Galliani, Francesco Pierini, Elisa Bessega, Andrea Schilirò, Denis Piccolo, Achille Mauri, Simone Mondino, Alice Russolo, Patrick De Lorenzi, Giulia Bertolazzi, Tito Capovilla, Luigi Chiurchi, Isacco Emiliani, Pierre Lucianaz
COLLABORATORS
Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Marta Manzoni, Sofia Parisi, Fabrizio Bertone, Eva Toschi, Luca Albrisi, Luca Schiera, Giulia Boccola, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel
SHOP & SUBSCRIPTIONS
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SHOP MAGAZINE MAP
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COMPANY EDITOR
Hand Communication, Via Piave 30, Saluzzo CN 12037, Italy hello@thepillagency.com
COVER
Photo Maurizio Marassi
PRINT
L'artistica Savigliano, Savigliano - Cuneo - Italy, lartisavi.it
DISTRIBUTION
25.000 copies distribuited in 1100 shops in Italy, Switzerland, Austria, Germany, France, Belgium, Spain, England & The Netherlands
ADVERTISING
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The Pill rivista bimestrale registrata al tribunale di Milano il 29/02/2016 al numero 73
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THE ECO EXPLORER.
Scarpa da trekking confortevole e affidabile, pensata per coloro che vogliono vivere la natura e fare scelte consapevoli. Il 45% della tomaia è composto da filato riciclato, la membrana Gore-Tex Bluesign contiene tessuti riciclati al 98% e il battistrada Vibram Ecostep Evo utilizza fino al 30% di gomma riciclata.
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CUOGHI THE DAILY PILL BEST MADE KILLER COLLABS ECO SEVEN ZAMBERLAN NEW BALANCE BODE MILLER ADAM ONDRA'S BACKPACK MARCO TOSI SALEWA SIX TO NINE OSPREY WOMEN'S FIT AKU CONERO GTX SULFUR BY TECNICA LAMUNT TAILOR IT YOURSELF SISTERHOOD & SNOWBOARDING BREAD, SKINS & CONCENTRATION
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MASCHERONA CAROLINE & JAMES
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Sky’s the limit
Go faster, together. Make speed your next challenge. With the right equipment and training, you can take on the unpredictable; with the right partner, you’ll come back home safe. Reach for your record knowing you’ve got protective and lightweight gear that’s always there to help you achieve your ultimate objectives, faster.
THE DAILY PILL
BY DAVIDE FIORASO
EUROPEAN OUTDOOR SUMMIT
A BERLINO IL 28 E 29 SETTEMBRE 2023
Dopo l’edizione di Annecy, definita da delegati e partner un grande successo, il nono European Outdoor Summit si terrà al Festaal Kreuzberg di Berlino, un luogo eclettico situato nel quartiere di Treptow-Köpenick. L’evento di European Outdoor Group, con il suo programma coinvolgente e stimolante, è un appuntamento chiave per il settore. Il claim 2023 sarà “The New Era – Business and Beyond”: i tempi sono cambiati e con esso i modi in cui si misurano successo, modelli di business, collaborazioni e sostenibilità.
KICK-START YOUR DAY: LA NUOVA CAMPAGNA SPEED HIKING SALEWA
Un lasso di tempo magico, appena prima dell’alba, in attesa che tutti si risveglino. È questo il concept di “Six to Nine: Kick-Start Your Day”, la nuova campagna Salewa pensata per il lancio della nuova collezione speed hiking. L’iniziativa sarà supportata da un video che racconterà storie da ogni angolo del pianeta: dalle Dolomiti a Nizza, da Tokyo a Boulder. Persone comuni e atleti, in pieno stile “Salewa People”, dando voce a culture diverse che attraverso lo sport condividono momenti di vita sentendosi parte di una community.
RICONFERMATA LA PARTNERSHIP TRA GARMONT E L’ASSOCIAZIONE EUROPEA DELLE VIE FRANCIGENE
Anche nel 2023 Garmont conferma il proprio supporto all’Associazione Europea delle Vie Francigene, promotrice di un percorso di 3200km che si snoda lungo il continente europeo toccando più di 700 comuni. Una forma di turismo slow, per vivere l’aria aperta e riconnettersi con la natura, in continua crescita, come testimoniano i dati raccolti dall’associazione al termine della passata annata: oltre 50.000 pellegrini hanno percorso la Via Francigena nel 2022, con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente.
MIZUNO ENGINE: RICERCA & OPEN INNOVATION
Attivo da novembre 2022, Mizuno Engine è un luogo in cui la misurazione, la prototipazione e il collaudo di nuovi prodotti si integrano al fine di ridurre i tempi di sviluppo. L’Innovation Center, struttura di 6500mq che si trova presso la sede di Osaka, dispone di una sala cucito, un laboratorio 3D, aree test, una palestra, una pista di atletica e superfici in erba sintetica. Oltre agli spazi di co-working, i dipendenti possono incontrarsi e scambiare conoscenze e opinioni, per condividere e trasformare le idee in innovazioni.
DYNAFIT MAIN SPONSOR DI GROSSGLOCKNER ULTRA TRAIL, L´ÉCHAPPEE BELLE E TRANSALPINE RUN
Pronti per vivere una stagione di trail running ad alte prestazioni? Dynafit sarà main sponsor e partner di tre prestigiosi eventi: Grossglockner Ultra Trail, che si svolge intorno al monte più alto dell’Austria, L’Échappée Belle, incastonata nella straordinaria Catena di Belledonne, in Francia, e la Transalpine Run, corsa a tappe di attraverso le Alpi, in squadre da due o, a partire da quest’anno, anche in solitaria. Dynafit riconferma così la volontà di fornire agli atleti sistemi armonizzati, composti da prodotti intelligenti, performanti ed efficienti.
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BY DAVIDE FIORASO
MAMMUT ATHLETES SUMMIT 2023
Tre giorni di momenti indimenticabili e avventure in montagna per il team internazionale degli atleti Mammut che si sono ritrovati nel cuore della Svizzera il primo weekend di marzo per l’Athletes Summit. Dopo aver visitato la sede centrale di Seon, gli atleti hanno avuto la possibilità di visitare il Jungfraujoch, Top of Europe dove li aspettava un trekking fino a Stollenjoch sul versante nord dell’Eiger. Inutile dire che ci sono stati anche molti momenti dedicati all’arrampicata! Un weekend dedicato alla condivisione della passione per l’outdoor con alcuni fra i più importanti personaggi che ne fanno parte.
WOMEN SPECIFIC FIT: I NUOVI IMBRAGHI WILD COUNTRY DISEGNATI PER L’ANATOMIA FEMMINILE
Rendendosi conto che il riproporzionamento (in alcuni casi anche la sola ricolorazione) era la soluzione principale offerta sul mercato, Wild Country è tornata al tavolo da disegno per incanalare la sua esperienza nel mondo dell’arrampicata e progettare una nuova collezione di imbracature con una vestibilità specifica. Women Specific Fit è una nuova struttura ergonomica progettata appositamente per adattarsi all'anatomia femminile, rendendo gli imbraghi più facili da indossare e più confortevoli durante tutte le attività.
SAUCONY DIVENTA MAIN SPONSOR DEL DOLOMITI EXTREME TRAIL
Saucony ha siglato un accordo di sponsorizzazione biennale con il Dolomiti Extreme Trail, una delle manifestazioni italiane di trail running di più ampia portata internazionale, oltre che di maggior fascino. L’evento, previsto per il 9-11 giugno 2023, si svolgerà nella splendida cornice delle Dolomiti Zoldane. I vincitori assoluti della 103km avranno a disposizione un pettorale per gareggiare al Saucony El Cruce, una vera full immersion nella natura sudamericana tra Cile e Argentina.
ESPERIENZE OCCITANE BY ORTOVOX: SCIALPINISMO IN VALLE MAIRA
Un gruppo di amici, una valle incontaminata e di antiche tradizioni, un film per raccontare questo incontro. Sono appena terminate le riprese di Esperienze Occitane, docufilm sulla Valle Maira supportato da Ortovox che racconta il rapporto che si è instaurato tra quattro scialpinisti e un territorio che li ha accolti nel migliore dei modi, regalando loro una neve da sogno in un inverno avaro di precipitazioni. Il documentario è ora in fase di editing e verrà presentato al pubblico nell’autunno 2023.
SCARPA E CHAMEX MOUNTAIN GUIDES: DA ASOLO
A CHAMONIX ALLA RICERCA DELL'ECCELLENZA
A partire da questa stagione le guide alpine di Chamonix Experience calzeranno SCARPA. In questo gruppo SCARPA ha ritrovato valori condivisi di sicurezza, solidarietà e sostenibilità. Tra i progetti avanzati da Chamex: l'Arc'teryx Alpine Academy, uno degli eventi più famosi dell’arco alpino, il supporto al CAX, la squadra di soccorso alpino di El Chalten, l’impegno a mostrare ai clienti l'effetto dei cambiamenti climatici, evitando attività ad alto impatto.
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CURIOUS BY NATURE
We venture out into nature to reconnect with ourselves and change our perspective to look at things differently than before.
Contemporary outdoor since 1870
1.DOLOMITE
CRISTALLO HOODED 3L JACKET
Punta di diamante della nuova collezione abbigliamento Mountain Performance di Dolomite. Un capo 3-layer per affrontare qualsiasi intemperia e non farsi mai trovare impreparati, grazie alla sua elevata impermeabilità e alle cuciture termosaldate. Realizzato con poliestere riciclato al 100% ed impermeabilizzato con trattamento privo di PFC.
4.BROOKS
H IGH POINT 3" 2-IN-1 SHORT WS
Pantalone da trail running della nuova collezione High Point di Brooks. Sezione frontale in tessuto ripstop trattato con tecnologia impermeabile, spacco laterale per agevolare il movimento, slip interno antisfregamento per offrire un morbido comfort. Quattro tasche laterali per contenere facilmente gli oggetti essenziali.
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO
2.MAMMUT
T RION NORDWAND 15
Sviluppato assieme agli alpinisti Nico Hojac e Stephan Siegrist, lo zaino Mammut Trion Nordwand 15 offre grande versatilità in ambiente alpino. Le tasche in rete posizionate sullo spallaccio consentono un accesso immediato e pratico a piccoli oggetti essenziali anche in movimento, mentre il sistema di trasporto si ispira alle canotte da trail running.
5.JAIL JAM
J A2151 BELT
Novità per la stagione FW23/24 di Jail Jam, brand italiano specializzato nella produzione e distribuzione di cappelli e accessori. Cintura elastica con fibbia compatta, che ne facilita l’apertura anche quando si indossano i guanti. Colorate, resistenti e adattabili a tutte le taglie, ideali per attività invernali all’aria aperta.
W INDBREAKER JACKET
Compromesso perfetto fra peso e funzionalità. Merino Protect nella parte anteriore, sulla schiena e sotto le braccia offre la resistenza di un sintetico con il comfort della lana Merino mentre maniche, inserti laterali e cappuccio sono realizzati in TecStretch ultraleggero per accompagnare ogni movimento. Può essere facilmente compattata all’interno della tasca sul petto.
6.SCARPA
MESCALITO TRK PLANET GTX
Progettato per lunghe escursioni, unisce le caratteristiche tecniche di una scarpa da avvicinamento con stabilità, durata e comfort di una scarpa da trekking. Grande novità il tessuto Perspair, un’unica tomaia senza cuciture con il 45% di filati riciclati, oltre alla nuova membrana Gore-Tex bluesign ed una suola Vibram Ecostep Evo.
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3. ORTOVOX
ROSANNA BUCHAUER READY FOR MORE DISTANCE ULTRA
8.KAMMOK
U RSA SLEEP SYSTEM
Un sistema all-in-one, rialzato e morbido come la seta, progettato per garantire un sonno ristoratore e dormire come mai prima d’ora in ogni avventura sotto le stelle: base autogonfiabile, topper in memory foam, sacco a pelo isolato e cuscino oversize regolabile con spessore variabile. Si racchiude all’interno della sua travel case.
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO
8.VICTORY CHIMP OUT
THERE THERMAL REVERSIBLE GILET
Da Victory Chimp, brand irlandese di cycling apparel, un pratico gilet comprimibile da indossare nel tuo prossimo giro sulla ghiaia. Realizzato con materiali 100% riciclati, abbina un isolamento in piuma sintetica ad un guscio altamente traspirante. Due look distinti in un capo completamente reversibile.
11.OSPREY
H IKELITE 18
Giacca da speed hiking leggera, antivento e traspirante: una soluzione versatile e funzionale per garantire il comfort termico durante le attività in montagna. Combina un tessuto esterno in Nylon Tencel intrecciato con pannelli di isolamento Polartec Alpha Direct. Al centro della schiena un Durastretch perforato per assicurare maggior traspirabilità.
Pensata sia per le escursioni giornaliere più impegnative che per quelle occasionali, la serie Hikelite di Osprey colma il vuoto tra gli zaini per la vita quotidiana e quelli da outdoor, offrendo una soluzione perfezionata e ricca di dettagli tecnici: tasca interna per l’idratazione, Hydraclip, copertura antipioggia inserita in una tasca con cerniera.
9.NIKE
VAPORFLY 3
Pensata per chi corre veloce. Nike ha rinnovato la scarpa più desiderata dagli amanti della corsa su strada. Una nuova intersuola ZoomX e fibra di carbonio Flyplate a tutta lunghezza mirano a ottimizzare la transizione e il ritorno di energia. Tomaia in filato Flyknit e forma convessa dell'intersuola per una migliore stabilità.
12.BMW
CE
Il customizzatore austriaco Vagabund ha collaborato con BMW per creare uno scooter elettrico multifunzionale basato sul modello CE 04 per uso urbano. Una combinazione di colori particolarmente attraente, abbinati ad elementi funzionali, creano uno stile moderno per un target giovane. Integra un sistema di trasporto per tavole da surf.
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10.SALEWA PEDROC PRO POLARTEC ALPHA JACKET WS
04 VAGABUND MOTO CONCEPT
1.FUTUR X HELLY HANSEN NORTH SHELL JACKET
Dopo Mizuno, Casio e Mountain Research, il poliedrico brand parigino Futur presenta la seconda capsule con Helly Hansen. Un progetto congiunto, dedicato esclusivamente al mercato giapponese e veicolato tramite Goldwin, che vede questa giacca in Gore-Tex nell’esclusiva combinazione bicolore richiamata anche nel pantalone abbinato.
4.BODEGA X HOKA TOR
ULTRA LOW
Sfruttando la collaborazione con il designer Jean-Luc Ambridge, Hoka e Bodega, famoso retailer con sede a Los Angeles e Boston, si sono cimentati in una reinterpretazione dei modelli Tor Ultra per il prossimo autunno/inverno. La versione Low è caratterizzata da una tomaia in pelle scamosciata con vivaci accenti viola e verde menta.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
2.PAS NORMAL STUDIOS X SALOMON ACTIVE SKIN 8 BAG
Fondere estetica e prestazioni, nell'intersezione tra città e natura, performance e funzionalità. Dal primo incontro tra Salomon e Pas, brand di abbigliamento da ciclismo con sede a Copenhagen, nasce questa personalizzazione del famoso vest da trail running. Dedicato alle adventure races su 2 ruote, integra flasks con filtro XA.
5.FILSON X TEN THOUSAND TACTICAL SHORT
Dopo il successo del primo drop, esaurito in meno di 24 ore, Filson collabora ancora una volta con l'etichetta di abbigliamento sportivo per una nuova collezione di capi essenziali. Il Tactical Short è un pantaloncino da allenamento foderato realizzato in un tessuto ripstop elasticizzato a 4 vie. Colorazione Marsh Olive tipica di Filson.
3.MAMMUT X ADAM ONDRA SILENCE MICRO - COLLECTION
Silence è il nome della micro collection in collaborazione con Adam Ondra che onora la prima via gradata 9c da lui chiusa nel 2017 a Flatanger, Norvegia. Proprio come piace ai climber, è un girocollo morbido e perfetto per le giornate in falesia dalla grafica che ci porta un po’ a sognare quei movimenti che ancora nessun altro ha saputo eguagliare.
6.SMITH X VSSL
BACKCOUNTRY SUPPLIES KIT
VSSL e Smith hanno collaborato per questo fantastico set da backcountry, un contenitore in alluminio caricato con 11 strumenti essenziali per affrontare gli imprevisti: ski strap da 15”, accessori da cucito, nastro, fascette, fischietto, sega a filo, fire starter e kit di pronto soccorso. Si completa con la led lantern a 4 modalità e l’esclusivo tappo con moschettone.
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Soften your impact.
Fresh Foam X More Trail
7.ADIDAS X NATIONAL GEOGRAPHIC
RAIN DRY JACKET
Dal 1888 National Geographic ispira le persone ad esplorare il mondo in cui viviamo e viene quasi naturale pensare ad una collezione per appassionati di outdoor. Realizzata in tessuto 100% riciclato resistente all'acqua, ripropone un'eterea immagine del White Sand National Park. Il logo sulla spalla cambia a seconda della prospettiva.
10.ASICS X MITA GEL-LYTE III OG GTX
ASICS Sportstyle ha rilasciato una nuova versione della Gel-Lyte III sviluppata con Mita, negozio di sneaker con sede a Tokyo e Bal, marchio di moda casual di alta qualità. Ampiamente rivisitata e progettata per affrontare qualsiasi condizione atmosferica, presenta una linguetta divisa da cerniera, un sistema di allacciatura rapida e tomaia in Gore-Tex.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
8.LAUREN LOMPREY X ULTRASPIRE MOMENTUM 2.0 GRAND TETON RACE VEST
Per il 10° anniversario di UltrAspire, una limited edition che rende omaggio al Grand Teton e ai luoghi in cui Bryce Thatcher ha scoperto la passione per la vita all’aria aperta. Passione che lo ha portato a siglare un FKT durato per ben 29 anni. Lo stile unico di Lauren Lomprey cattura la bellezza e l'essenza di Wyoming.
11.NEW BALANCE X NATIONALS INDOOR SWAG BAG
Quanto iniziato come semplice goodie bag, si è rapidamente evoluto in una dichiarazione di eccellenza. È l’esclusivo zaino per gli atleti che hanno partecipato all’edizione 2023 dei Nationals Indoor che si sono tenuti a The Track, la nuovissima struttura situata di fronte al quartier generale New Balance a Boston Landing.
La tecnicità e affidabilità dei prodotti Mizuno, qui rappresentati da uno dei modelli più iconici e riconoscibili, incontra per la prima volta l'autenticità di Roxy in uno stile ispirato alla cultura surf femminile. La collaborazione è stata ulteriormente rafforzata dall'impegno comune dei due brand nei confronti dell’ambiente.
12.KAM-BU X THE
FACE DRYVENT CARDUELIS JACKET TNF lancia il primo drop NSE della stagione ispirato all'edonismo notturno dei primi anni 2000 e celebrando i suoni ribelli riprodotti dall'artista e attivista londinese Kam-BU. Nuove e vivaci varianti cromatiche declinate su capi iconici, tra i quali spicca la giacca 3L Carduelis con tecnologia traspirante e impermeabile Dryvent.
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THE BACKCOUNTRY
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BY DAVIDE FIORASO
O RTOVOX PROTACT LAB PER P ROTEGGERE CIÒ CHE AMIAMO
Vivere la montagna ed amarla è una tematica che si abbina all’impatto che ognuno di noi ha involontariamente su di essa a causa della società in cui viviamo e della produzione di beni materiali. La consapevolezza diventa qui fondamentale e con la Protact Academy, Ortovox si è completamente dedicato alla protezione di montagne ed appassionati dell’outdoor con diversi progetti. Nei diversi Lab vengono forniti consigli e strumenti, ma anche raccontate storie che possono ispirare ed istruire a vivere la montagna con consapevolezza e per questo proteggerla.
L A SPORTIVA: L’ICONICA SCARPETTA SKWAMA DIVENTA VEGAN
Stesse sensazioni, stesso DNA. Pensata per garantire massime performance in parete, Skwama si rinnova senza l'utilizzo di materiali di derivazione animale. Si tratta di un’evoluzione dell’iconico modello in grado di restituire le stesse sensazioni e la stessa qualità, la compagna ideale per esplorare il mondo verticale con estrema precisione e senza compromessi. La tomaia in microfibra con sottopiede SkinLike, realizzato con materiali certificati bluesign e Oeko-Tek, conferisce doti di traspirabilità, avvolgenza e adattabilità.
S CARPA DEBUTTA CON MOJITO WRAP BIO
Dopo Mojito Bio e Mojito Planet, SCARPA introduce una nuova versione biodegradabile del suo iconico modello, dando continuità al progetto di diminuire l’impatto ambientale. Wrap Bio è una sneaker responsabile realizzata sul principio della circolarità, senza rinunciare alle performance tecniche e ai contenuti lifestyle. Tomaia in Bio Knit, tessuto a maglia biodegradabile e fodera interna in Bio Stretch, una texture elasticizzata traspirante. Design semplificato ed una scelta dei materiali che concorre a ridurre gli scarti di produzione.
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LET‘S protACT WHAT WE LOVE
Le montagne sono la nostra casa. A chi, se non a noi, spetta il compito di proteggerle? La nostra nuova protACT academy è una fonte di informazioni e d’ispirazione. Per proteggere ciò che amiamo.
Aiutaci a proteggere le montagne. ortovox.com
ECO SEVEN
BY DAVIDE FIORASO
D YNAFIT: RACCOLTI OLTRE 40.000 EURO PER AIUTARE IL LEOPARDO DELLE NEVI
Vivere la passione per lo scialpinismo e al tempo stesso impegnarsi per una buona causa: questo il concept dietro all’International Snow Leopard Day che si è tenuto nelle prime settimane di marzo. Ancora una volta Dynafit ha rivolto un appello agli scialpinisti di tutto il mondo, affinché accumulassero più metri di dislivello possibile per raccogliere fondi a favore del leopardo delle nevi, animale a rischio estinzione simbolo del brand. Dentro o fuori le piste da sci, sono stati circa 2308 gli atleti che hanno partecipato a questa edizione, accumulando 2.932.965 metri di dislivello.
FJÄLLRÄVEN E LA COLLEZIONE SAMLAREN (ELETTO BRAND PIÙ SOSTENIBILE IN SVEZIA)
Fjällräven ha presentato la nuova collezione del progetto Samlaren, nato con l’obiettivo di dare nuova vita alle eccedenze di tessuto. Tutti i pezzi della nuova capsule sono infatti realizzati con materiali di recupero, sapientemente abbinati con esclusivi accostamenti cromatici. Il progetto ha debuttato nel 2021, con una limited collection che ha riscosso un successo immediato. Nel frattempo, per il quarto anno consecutivo, i consumatori svedesi hanno votato Fjällräven come il marchio più sostenibile del paese nella categoria "abbigliamento e moda" del Sustainable Brand Index 2023.
S ALEWA APRE SECOND LIFE A BOLZANO
I n occasione della riapertura dello store di Bolzano, ristrutturato dalla celebre agenzia gpstudio, Salewa ha presentato per la prima volta la sua Circular Experience. Un format innovativo che, all’interno del negozio, permette di usufruire di tre nuovi servizi: Second Life, che consente di acquistare capi di abbigliamento, calzature e attrezzature di qualità usati, ricondizionati e riparati, Repair Service, servizio di riparazione con componenti e materiali originali, e Rental Service, dove è possibile noleggiare l’attrezzatura che serve senza doverla necessariamente acquistare.
M AMMUT: PICCOLI HANGTAGS, GRANDI VALORI
L’azienda svizzera sta pian piano riducendo gli hangtags sui suoi prodotti per ridurre l’uso della carta. D’ora in poi, tutti gli attributi di sostenibilità saranno visibili a colpo d’occhio! Con questa piccola quanto importante iniziativa, Mammut vuole portare massima trasparenza nei punti vendita ed in quello che riguarda le sfide logistiche. Tutto questo assumendosi la responsabilità del fatto che i numeri non sempre sono positivi all’inizio di un percorso ma che piccoli gesti possono comunque contribuire al cambiamento.
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LEI È MONTAGNA Abbigliamento da montagna premium per il tuo #MountainMeTime LaMunt.com
Zamberlan Salathé Trek GTX RR
È un soleggiato mattino di fine inverno, l’aria è frizzante e le giornate iniziano ad allungarsi. Oggi ci troviamo sul Passo Giau, un valico alpino delle Dolomiti, posto a 2236m di altezza in provincia di Belluno fra la val Boite e la val Cordevole. Da qui si può raggiungere il Gruppo del Nuvolao, la nostra destinazione ultima, attraverso la facile ferrata Ra Gusela. Zaini pronti e borracce piene, ai nostri piedi abbiamo la nuova scarpa Salathé Trek.
La grande novità è che lo speciale modello nasce dall’incontro dell’esperienza dello storico marchio italiano Zamberlan con il sistema svedese RECCO. Grazie al riflettore RECCO, in caso di smarrimento o di emergenza, l’utilizzatore è in grado di essere subito rintracciato dalle organizzazioni di soccorso provviste dell’apposito detettore. Il risultato è una scarpa tecnicamente evoluta, che dimostra di essere un’attenta e fedele compagna soprattutto nelle condizioni più avverse. Battezzata con il nome di uno dei luoghi più famosi dell’arrampicata, una via iconica della Yosemite Valley, nasce per trekking leggeri e l’hiking , ma il suo estremo comfort e la sua versatilità la rendono perfetta per le vie ferrate e l’avvicinamento tecnico.
Il taglio della tomaia e il collarino imbottito assicurano la protezione della caviglia, ma con la massima libertà di movimento. La calzata è avvolgente e precisa grazie all’utilizzo di materiali elastici e ad una costruzione con allacciatura fino alla punta. La nuova forma XActive Fit esalta il comfort, mentre la
THE PILL PRODUCTS
BY SILVIA GALLIANI
mescola Megagrip della suola Vibram Pepe, abbinata all’intersuola in EVA a doppia densità, offre ottima ammortizzazione e massima aderenza. È arrivato il momento di mettere Salathé Trek alla prova. Parcheggiata l’auto al passo Giau, dopo esserci soffermati ad ammirare la conca di Cortina d’Ampezzo e le più belle e rinomate cime dolomitiche circostanti, imbocchiamo il sentiero n. 443 che parte dal retro del rifugio omonimo e incrocia poco dopo il sentiero CAI n. 438 a sinistra in direzione nord. Una volta imboccato quest’ultimo, si entra in un ripido canalone dove ha inizio il sentiero attrezzato (via ferrata Ra Gusela). Giungiamo quindi al fianco sud est della Gusela, la cui cima si può raggiungere facilmente con una breve deviazione a nord su facili roccette. Ritornati sui nostri passi, proseguiamo lungo il sentiero di cresta fra la Gusela e il Nuvolau. Dopo un altro breve tratto attrezzato, raggiungiamo una scala in ferro che ci porta davanti alla terrazza panoramica del caratteristico rifugio
Nuvolau adagiato sulla roccia, come un nido d’aquila. Il panorama che si può ammirare è davvero da cartolina: si vedono le Tofane, le Cinque Torri e il Lagazuoi, la Marmolada, il Civetta, le Pale di San Martino, il Catinaccio, il Sassolungo, il Pelmo, il Sorapis e il Cristallo, una vista a 360 gradi davvero completa.
Salathé Trek si è rivelata un’ottima alleata nella nostra avventura giornaliera, una scarpa che può tranquillamente essere indossata a partire dalla guida dell’auto, per poi percorrere un sentiero, arrivare ad una ferrata o ad un’arrampicata e passare così una o più giornate outdoor facendo attività differenti. Scattiamo le foto di rito ed è il momento di rimetterci in cammino per rientrare. Imbocchiamo il sentiero n. 439 dell’Alta Via n. 1 che porta in breve alla forcella omonima. Da qui il semplice sentiero n. 452 che in discesa, a sinistra, sudest, attraversa i canaloni detritici della parete ovest del Nuvolau e ci riporta, stanchi ma felici, al passo Giau.
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BY SILVIA GALLIANI
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New Balance Fresh Foam More Trail v3
Questo marzo abbiamo provato le nuove NB Fresh Foam More Trail nella terza versione. Una scarpa massimalista dedicata alla montagna e alle lunghe distanze.
Pesa 315 grammi nella taglia 43 e ha un offset di 45mm sul tallone e 40 sull’avampiede, per un drop di 5mm.
La tomaia è realizzata con un mesh ingegnerizzato ed è rinforzata sulla punta e su tutta la parte inferiore della scarpa da un’applicazione in materiale plastico che protegge le dita. Allacciatura tradizionale, linguetta imbottita, lacci molto confortevoli e facilmente regolabili. La parte posteriore (collarino, conchiglia, tallone) è stabile ma
non ha una struttura rigida interna, permettendo alla scarpa di flettersi e assecondando il movimento del piede. La calzata è fasciante su tutta la pianta, anche sull’avampiede. Nel complesso, la parte superiore ha tutto ciò che ci si aspetterebbe da una scarpa neutra e stabile: comodità, protezione e supporto.
L’intersuola è la parte più caratteristica di queste scarpe. La mescola usa il tipico Fresh Foam New Balance, più morbido rispetto alla versione precedente pur guadagnando in reattività. Questa nuova mescola è interessante perché rende la transizione più fluida e migliorare la stabilità, usa infatti una schiuma con due densità diverse per la parte superiore e per la parte inferiore, ma senza utilizzare colle. Questo significa che l’intersuola è un pezzo di schiuma unico, senza tagli, ma con punti di densità diversi, morbido sopra e più stabile sotto, enfatizzati dalla doppia colorazione. Per quello che possiamo dire noi, la sensazione alla corsa è di una mescola sicuramente ammortizzata, che non si comprime troppo e guadagna in supporto rispet
to alla versione precedente.
Il battistrada usa una suola in Vibram XT Trek EVO in cinque pezzi, la caratteristica principale è che la tassellatura è molto pronunciata, i tasselli sono tanto profondi e hanno una superficie molto ampia dandole una buona trazione anche in montagna e su terreni tecnici. Per alleggerirla in peso e ridurre la rigidità della scarpa, la suola lascia molto intersuola scoperta, ma comunque meno rispetto alla versione precedente e proteggendo di più la parte centrale. Questo aggiustamento nel design permetterà di allungare la vita della scarpa e diminuirne l’usura sulla parte inferiore.
A chi è adatta? A corridori neutri che cercano protezione e che vogliono una scarpa per correre ovunque. La suola ha tanto grip ma l’altezza della scarpa riduce la sensibilità col terreno, funziona molto bene sul corribile e per lunghe distanze. Insomma, crediamo che i corridori a cui piace avere sostanza sotto ai piedi possano amarla su tutti i terreni.
Ci vediamo sui sentieri.
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THE PILL TEST
THE PILL TEST
PHOTOS ELISA BESSEGA
Bode takes Cortina: SCARPA 4-Quattro
È un mercoledì di febbraio come un altro a Cortina, gli sciatori disegnano curve sinuose sulle piste immacolate nelle prime ore del mattino, le Dolo miti brillano al timido sole d’inverno e... Bode Miller è appena arrivato alla Palestra Cortina 360. Ok, forse non proprio un mercoledì come un altro.
L’azienda italiana leader nella produ zione di calzature per la montagna e l’outdoor è riuscita a portare ancora una volta sulle montagne di casa uno dei più grandi sportivi di tutti i tem pi e non solo, con lui ha recentemente sviluppato uno scarpone rivoluziona rio: il 4
la prima volta su quelle piste, s’inten de, le piste le conosce e le adora così come la cucina e le Dolomiti. In que sto nuovo anno però, lo scopo della sua visita non è finalizzato al solo sci, ma dopo due anni di lavoro in video call ha potuto finalmente stringere le mani di chi, assieme a lui, ha portato a termine un importante percorso di innovazione e ricerca in campo backcountry.
Fra la moltitudine di occhi sognanti di grandi e piccoli sciatori, è stato il presidente dell’azienda Sandro Parisotto ad accoglierlo in una sala riunioni tutta fieramente allestita a tema 4 Quattro. Lo stesso, orgoglioso di poter portare avanti questa importante collaborazione, ha spiegato del ruolo di Miller come figura di riferimento per la dimensione internazionale ma non solo, l’esperienza e le nozioni ingegneristiche si sono dimostrate un’importante risorsa.
BY LISA MISCONEL PHOTOS LUCA MORANDINI
Come descriveresti il tuo rapporto con SCARPA? Dal mio punto di vista l’evoluzione di uno sport va a braccetto con lo sviluppo dell’attrezzatura utilizzata. La collaborazione con SCARPA è stata una scelta naturale per me. SCARPA porta con sé una lunga esperienza per quanto riguarda lo sviluppo dei prodotti e condivido pienamente il loro approccio basato sulla ricerca e sull’innovazione con grande attenzione verso la sostenibilità e la performance.
Com’è stato contribuire allo sviluppo e al miglioramento del 4-Quattro? SCARPA è una realtà internazionale, leader nel settore dello scialpinismo, personalmente sono
onorato di essere stato scelto come testimonial del loro primo scarpone ibrido. La collaborazione per il lancio di 4 Quattro è solo all’inizio: insieme possiamo intraprendere un percorso veramente interessante d’ora in poi. Ho testato il nuovo scarpone sul campo e dato i miei spunti e consigli che si sono trasformati in indicazioni utili per la creazione dei prossimi modelli.
Quali sono i tuoi progetti e pensieri per il nuovo anno? Non vedo l’ora di lavorare con SCARPA sui progetti legati allo ski touring e al mondo del backcountry, è un mercato in forte crescita ed è emozionante lavorare con un partner con l’esperienza e la professionalità di SCARPA.
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LEGEND
THE PILL
THE PILL LEGEND
BY LISA MISCONEL PHOTOS LUCA MORANDINI
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I pack into my backpack
Adam Ondra non ha certo bisogno di presentazioni. Da oltre un decennio, il prodigio di Brno si sta confermando uno degli scalatori più forti al mondo. Suo il primo 9c della storia (Silence a Flatanger nel 2017), sua la prima assoluta di un 9a+ in stile flash (Super Crackinette a Saint Léger du Ventoux nel 2018). Ha salito vari boulder fino all'8c+ e compiuto, in soli 7 giorni, la prima ripetizione di Dawn Wall, la via multipitch più difficile al mondo. In questi ultimi mesi ha liberato Zverinec, 9b+, nella sua Repubblica Ceca, e salito a vista Water World, la king line dell'enorme grottone di Ospo, liberata da Klemen Becan nel 2014.
In una curiosa intervista, Mammut ci svela la “packing list” del materiale utilizzato nelle sue giornate in falesia.
1. Zaino: Neon Gear 45 di Mammut è molto comodo ed ha abbastanza tasche per riporre tutto il necessario, è corredato di un sacco porta corda integrato.
2. Spazzolino: il Crimper Brush di Mammut. Arrampico spesso su roccia vergine e di conseguenza devo fare molta pulizia.
3. Chalk: uso Chalk Powder di Mammut, 100% magnesite a pezzi.
4. Crash pad: il Mammut Slam Pad 10cm di spessore che mi porto dietro quando l’avvicinamento è breve.
5. Rinvii Workhorse da 12 centimetri: una decina di Mammut Workhorse Keylock. Durevoli, ergonomici e comodissimi da usare, sono la mia scelta sia per salite difficili che per salite rotpunkt.
THE PILL CURIOSITY
BY DAVIDE FIORASO
6. Rinvii Workhorse da 17 centimetri: a volte sono necessarie fettucce più lunghe per ridurre l'attrito della fune.
7. Rinvii Sender Keylock da 12 centimetri: li uso per salite a vista dove il clipping è molto facile. Inoltre, ottimi per l'arrampicata trad dove il peso è fondamentale.
8. Assicuratore Smart 2.0 di Mammut
9. Assicuratore GriGri con moschettone HMS: per assicurare il compagno che deve lavorare a lungo sui movimenti. Il Safety Gate impedisce al moschettone di attorcigliarsi.
10. Imbracatura: Mammut Sender: perfetto equilibrio tra leggerezza e comfort.
11. Mammut Chalk Bag: è abbastanza grande e ha una forma comoda per poter immergere rapidamente la mia grande mano.
12. Nastro: preferisco averne sempre un po' con me per ogni evenienza.
13. Carta abrasiva: utile se si sta per strappare un callo su un polpastrello e non voglio usare il nastro adesivo.
14. Talismano: il cagnolino è un por
tafortuna della mia infanzia che porto sempre con me.
15. Scarpa da arrampicata Solution
Comp La Sportiva: è una scarpa da arrampicata leggermente più rigida, concepita per le massime performance.
16. Scarpa da arrampicata Solution
La Sportiva: morbida e precisa specifica per il boulder.
17. Scarpa da arrampicata Mantra La Sportiva: un'ottima scarpa per il riscaldamento o quando voglio godermi al massimo l'arrampicata.
18. Due ginocchiere
19. Corda da arrampicata: Mammut Crag Sender Dry da 9 millimetri è una corda singola da 80 metri che porto con me per l'arrampicata normale.
20. Corda da arrampicata: Mammut Alpine Sender Dry da 8,7 millimetri è la mia scelta quando voglio scalare un percorso leggero e veloce.
21. Hangboard: Il Domani di Puc Training è un hangboard portatile che utilizzo per riscaldarmi in preparazione di una via.
22. Chiave inglese: È sempre bene avere con sé una chiave inglese per serrarli.
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A sneak peek into Adam Ondra’s backpack
Essere esempio, diffondere cultura Marco Tosi
Marco Tosi è una guida alpina da quasi trent’anni e in tutti questi anni di accompagnamento ha sempre cer cato di trasmettere il suo fondamen tale amore e rispetto per la montagna e per la natura in generale. Questo Marco lo fa in tutti i modi a lui pos sibili: innanzitutto lavorando su sé stesso e facendo una vita in linea con la sua etica attenta all'impronta uma na sull'ambiente, poi trasmettendo agli altri la sua visione. Come guida e ambassador Ortovox, Marco si occu pa di sicurezza in montagna tramite le Ortovox Safety Acadamy, conside rata la più grande iniziativa di for mazione per la prevenzione valanghe nel mondo. Gli abbiamo fatto qualche domanda sul suo lavoro e sulla sua visione.
Raccontaci chi sei e di cosa ti oc cupi. Sono una guida alpina dal ‘96, ma pratico anche un’altra professione come tecnologo alimentare e nutrizionista. Trovo che siano molti i punti di contatto tra una disciplina e l’altra e per questo ne sono appassionato. Nei miei anni come guida ho sempre dato grande attenzione alle nuove generazioni, con camp multi sportivi orientati all’attività montagna. Le mie passioni sono variate negli anni: prima ero molto focalizzato sulle cascate e sulle salite più dure, ora più sullo scialpinismo e sulla formazione. Mi piace non solo insegnare la componente tecnica ma il rispetto per la montagna a tutto campo. Penso che la vetta sia una scusa per avere un’espe
BY EVA TOSCHI PHOTOS PAOLO SARTORI
rienza che parte dall’auto, anzi, meglio se parte da casa. La mia filosofia è quella di ridurre gli spostamenti in auto con altri mezzi, a piedi o in bici. Sono di Varese e dopo aver girato per le Alpi per molti anni adesso le montagne con cui sono più in empatia e affinità sono quelle della Val d’Ossola. Qui Giovanni Pagnoncelli ha fondato l’Ossola Outdoor School, con cui collaboro attivamente.
Come guida alpina mi piace coinvolgere i clienti non solo nelle decisioni ma anche nelle emozioni che si provano durante un’uscita in montagna.
Partendo da quello che hai appena
detto, perché non ci dici qual è per te il ruolo della guida alpina e cosa provi a trasmettere ai tuoi clienti? In primis mi piace trasmettere a chi accompagno che in montagna non si va per “conquistare una vetta”, e che bisogna andare oltre a questo concetto e cercare di vivere l’esperienza accettando le proprie fragilità. Io ti porto a vivere un’esperienza ludica e se possibile anche educativa, per uscire dalla vita problematica di tutti i giorni. Per questo non penso abbia senso portare i clienti a soffrire. Preferisco farti vivere un’esperienza di gioia: con il giusto equilibrio tra ingaggio e divertimento. Ad un sacco di gente ho
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THE PILL INTERVIEW
THE PILL INTERVIEW
BY EVA TOSCHI PHOTOS PAOLO SARTORI
proposto di smettere di scalare, perché non se la vivevano bene. Mi piace insegnare al cliente a diventare indipendente e a concentrarsi sull’esperienza in sé e non sulla vetta. Quando vivi un’esperienza piena è più facile anche la rinuncia. Come guide dobbiamo essere portatori di conoscenza, fare cultura. Non si trascinano più le persone su, come al guinzaglio. La guida ha ora un ruolo anche sociale. Prima l’idea era che meno si insegnava al cliente e più si lavorava. Per me è tutto il contrario: le più grandi soddisfazioni sono ex clienti che ora sono guide anche migliori di me. Tanto gente da portare ce ne sarà sempre tantissima. Ovvio, se perdo un cliente perché va con un'altra guida ci rimango male, se invece lo perdo perché va
THE PILL INTERVIEW
BY EVA TOSCHI PHOTOS PAOLO SARTORI
Trovo che sia un ottimo strumento: facile e molto comprensibile. Qual è, se per te ce l’ha, la responsabilità della guida alpina nella promozione del rispetto della natura? Sì, è la base della nostra missione. Abbiamo una responsabilità enorme perché portando in giro le persone possiamo influenzarle. Possiamo farlo da come ci vestiamo, come mangiamo, come ci muoviamo in montagna: tutto è trasmissione. A volte esagero con il messaggio. A livello pratico io propongo sempre itinerari con mobilità alternativa o in posti che posso raggiungere con la mia macchina elettrica che carico con il fotovoltaico. È il concetto di “allon
tanare le montagne” che mi affascina molto, perché se allunghi il viaggio hai un’esperienza piena da vivere. Bisogna essere esempio, ma allo stesso tempo essere flessibili, non integralisti. È una linea sottile ma cerco di restarci in equilibrio il più possibile.
Abbiamo una responsabilità enorme perché portando in giro le persone possiamo influenzarle. Possiamo farlo da come ci vestiamo, come mangiamo, come ci muoviamo in montagna: tutto è trasmissione.
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ANYWHERE IS WITHIN WALKING DISTANCE
OGNI META È NEI TUOI PASSI
ISPIRATA ALLE DOLOMITI, CREATA DAI PIONIERI E INDOSSATA DAGLI AVVENTURIERI, DAL 1897.
CRAFTED TO PERFORM
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CRODA NERA TECH GTX
Salewa Six to Nine Kick-start your day
Questo il motto con cui il brand altoatesino Salewa presenta Pedroc, la nuova collezione da speed hiking nata per vivere la natura nelle ore più magiche.
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BY SILVIA GALLIANI
così come la sua stessa definizione. Sa lewa si è data l’obiettivo di evolvere e crescere di pari passo con gli sport di montagna, offrendo le migliori soluzioni tecniche possibili per ciascuna disciplina. Ecco perché siamo così entusiasti di presentare la nostra nuova linea da speed hiking per il 2023” rivela Marco Busa, General Manager di Salewa.
Appunto per l’estate 2023, Salewa lancia Pedroc, una collezione da speed hiking che combina la tradizione con tessuti e soluzioni tecniche innovative e un design fresco e attuale. La nuova collezione Pedroc è composta da capi leggeri, traspiranti e ad asciu
gatura rapida, a cui si aggiungono due modelli di scarpe e uno zaino nelle versioni uomo e donna. La linea coniuga quindi le proprietà dei capi tecnici da montagna con l’esigenza di prodotti leggeri e orientati al fitness, creando così un concept ideale per l’abbigliamento da speed hiking, una pratica che regala diversi benefici sul piano sia fisico che mentale. In questo contesto si inserisce appunto il motto della nuova collezione Salewa, “Six to Nine Kick start your day”. Un invito ad alzarsi presto, anche durante la settimana, e a iniziare la giornata con
il piede giusto, facendo speed hiking dovunque ci si trovi: parchi, colline, litorali, montagne. Insomma, qualsiasi ambiente naturale che offra un po’ di salita e una bella vista, che sia su una valle o sul mare, su un lago o una città.
Capisaldi della linea sono la giacca Pedroc Pro Polartec Alpha, un capo isolante di soli 160g ideale per lo speed hiking intensivo in ambiente alpino ma adatto anche agli allenamenti più brevi vicino a casa. Ottima la termoregolazione, soprattutto in situazioni di escursione termica
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e condizioni meteo variabili grazie al tessuto Polartec Alpha Direct che assicura comfort e benessere anche durante l’attività prolungata. Questo materiale tecnico, ricavato da bottiglie PET riciclate, vanta una tecnologia a isolamento attivo che regola la temperatura corporea in condizioni sia statiche che dinamiche.
Con la nuova giacca Pedroc 2,5L Powertex Light, invece, anche l’obiettivo più ambizioso diventa raggiungibile e a portata di speed hiker. Questo modello è stato creato per avere un peso minimo (190g), dimensioni ridotte da piegata e un perfetto rapporto fra traspirabilità e protezione antiintemperie. Sul lato calzature abbiamo la scarpa Pedroc Pro Mid PTX che combina versatilità, stile e durevolezza in un unico modello che si adatta tanto all’allenamento sportivo in montagna quanto alla vita di tutti i giorni. Grazie alla suola Speed Hiker Pro di Pomoca e al rinforzo in corrispondenza della caviglia, si presenta come una scarpa tecnica agile ma in grado di dare sicurezza e protezione in ambiente. Il bordo rialzato in TPU, la membrana Powertex senza PFC e l’imbottitura Powertex proteggono il piede mantenendolo asciutto durante l’attività. Infine lo zaino Pedroc Pro 22L M/W, che grazie alla sua struttura aderente abbraccia la schiena senza intralciare i movimenti. È realizzato con il nuovo tessuto Duralite in nylon doppio ripstop, che promette una notevole resistenza a strappi e abrasioni pur essendo molto leggero. Questo ha permesso a Salewa di sviluppare uno zaino ricco di dettagli ma dal peso di soli 570g. Così leggero che si dimentica di averlo addosso anche quando si fa speed hiking in velocità.
Per promuovere il lancio della collezione, in vendita dalla primavera 2023, è stato realizzato un cortometraggio girato in diverse location,
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come Dolomiti, Nizza, Singapore e Boulder (Colorado), che sarà pubblicato su YouTube a inizio aprile.
Per l’occasione, Elisa Deutschmann, atleta Salewa e appassionata di speed hiking ha risposto a qualche interessante domanda.
Elisa, cos’è lo speed hiking e come si inizia a praticarlo? Fare “speed hiking” significa camminare velocemente, ma al proprio ritmo e secondo le proprie tempistiche, per vedere quanto lontano si riesce ad arrivare in un lasso di tempo breve. Non è solo questione di fitness: in realtà gli aspetti più importanti sono, da un
praticare tutti e per farlo non serve affrontare lunghi viaggi in auto o pianificare trasferte da più giorni. Basta immergersi nella bellezza autentica e incontaminata della natura, senza per forza andare lontano.
Quando si può praticare? L’orario migliore è appena prima dell’alba. C’è qualcosa di magico nel momento in cui il sole sorge e il mondo inizia a svegliarsi, e tutto è ancora immerso nel silenzio e nella tranquillità. Essendoci meno traffico e meno rumore, è più facile notare i suoni della natura, come il cinguettio degli uccelli o anche solo il nostro respiro, e vedere piccoli dettagli in grado di ispirarci. Di primo mattino siamo più freschi,
Osprey Women’s Fit Da sempre a sostegno delle donne
Da da più di trent’anni Osprey sviluppa zaini su misura in modo che si adattino ai diversi tipi di corporatura. Risale infatti al 1993 il primo modello pensato esclusivamente per la fisionomia femminile.
“Un passo cruciale per fornire una vestibilità eccellente è tenere conto delle diverse forme e dimensioni del corpo” sostiene Amy Schlosser, Senior Product Designer di Osprey. “Sappiamo che una migliore vestibilità porta a un maggiore comfort, il che significa più tempo trascorso all'aria aperta.”
Ma perché è importante tenere conto della vestibilità quando si stanno progettando dei modelli dedicati alle donne? Come spiega l'ambassador Osprey e alpinista Kristin Harila, il corpo di una donna ha esigenze diverse: “fornire alle donne la vestibilità e le caratteristiche di cui hanno bisogno significa che tutte loro avranno l'opportunità di esplorare la vita all'aria aperta e questo si traduce nel creare un mondo in cui donne e uomini possano godersi l’outdoor allo stesso modo.”
Il design dello zaino non si limita però a fornire le funzionalità di cui si ha bisogno nei grandi spazi aperti, ma anche a comprendere le esigenze dei diversi corpi e a garantire che tutti possano vivere le loro attività preferite senza compromessi. Indossare uno zaino che non calza bene, ad esempio se il busto è troppo lungo o troppo corto per la schiena, se gli spallacci sono troppo larghi o troppo stretti per le spalle e il torace, o se non c'è abbastanza imbottitura dove è necessario,
quindi il peso non verrà sostenuto comodamente da fianchi e spalle, rende i movimenti e i progressi su terreni impervi più complesso di quanto dovrebbero essere. Mal di testa e dolori ai fianchi sono solo alcuni dei problemi che possono derivare dall’indossare un modello della misura sbagliata. Uno zaino della misura adeguata che rimanga comodo è una quindi necessità assoluta per essere in grado di raggiungere un livello elevato, per un lungo periodo di tempo.
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Per questo motivo gli zaini da donna di Osprey sono dotati di un sistema dorsale che è stato progettato su misura per fornire una vestibilità ottimale per un corpo femminile, offrendo livelli di comfort e supporto elevati. Questo si ottiene con una lunghezza del busto più corta e una imbracatura più stretta e più corta in quanto le donne generalmente hanno spalle più strette rispetto agli uomini. Inoltre è necessario che questi modelli abbiano una cintura in vita che avvolga naturalmente le forme femminili, offrendo una migliore stabilizzazione del carico e un maggior supporto in modo da togliere un po’ di peso dalla schiena.
L’alpinista norvegese Kristin Harila è l’esempio di come le donne possano competere con gli uomini nel mondo dell’alpinismo, e avere uno zaino con fit adatto al proprio corpo è un fattore importante per la buon riuscita di un’impresa. “Uno zaino con vestibilità specifica per la fisionomia femminile è importante, ma più difficili sono le condizioni e le sfide che affronterai, più cruciale diventa avere il giusto fit” sostiene. "Osprey ha aperto la strada e ha tenuto conto delle esigenze di adattamento dello zaino delle donne negli ultimi trent'anni ed è fantastico vedere quanti zaini specifici da donna offrono ora, contribuendo a garantire l'uguaglianza per le donne in ambiente outdoor.”
Che tu sia una avventuriera di tutti i giorni o che tu abbia intenzione di affrontare più lunghe distanze, la vestibilità del tuo zaino può fare la differenza tra un'avventura gratificante ed un'esperienza scomoda. Sentirsi a proprio agio nel proprio ambiente è un fattore importante che infonde sicurezza. Scegliendo il giusto fit saremo in grado di affrontare tutto ciò che i grandi spazi aperti ci offrono.
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Tanti auguri Aku Conero GTX
La scarpa da trekking più conosciuta e amata di AKU compie trent’anni e, per festeggiare, si fa in tre. Ecco le tre colorazioni inedite e in limited edition con cui il brand ha celebrato la sua scarpa iconica.
In mezzo alla stanza al primo piano del Vibram Connection Lab c’è un blocco giallo con sopra uno scarponcino, giallo anche lui, con la suola tagliata a strati. La scarpa in questione è mitica per gli amanti del trekking e, in questo colore, nella realtà, non esisteva e non esisterà: la Conero GTX di AKU è stata così rimaneggiata appositamente per il suo trentesimo anniversario. Il modello full yellow è infatti uno dei tre realizzati in limited edition per festeggiare le prime tre decadi della Conero e, nello specifico, è frutto di una collaborazione con Vibram che, con la suola Fuorà, è partner di AKU dal minuto uno di vita di questa scarpa. Il giallo è il colore del logo di Vibram e questo modello monocromatico vuole essere un riconoscimento nei confronti della partnership trentennale tra le due aziende. Accanto al modello full yellow sono state create altre due varianti di colore sempre in limited edition: una marrone bruciato e beige e l’altra blu e arancio, quest’ultima sta a simboleggiare il rispetto per l’ambiente e il commitment dell’azienda in fatto di sostenibilità e l’altro la salvaguardia della tradizione manifatturiera che da sempre ha caratterizzato AKU.
La storia del brand inizia infatti negli anni Novanta, quando avviene l’incontro tra il fondatore, Galliano Bordin, e un designer in erba e talentuoso:
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BY ILARIA CHIAVACCI
Pier Callegarini. Erano anni di grande sperimentazione e AKU stava mettendo giù i tasselli di quella che sarebbe diventata una solidissima reputazione come produttore di calzature di alta qualità per la montagna. L’attitudine verso l’innovazione, intesa sia come cura dello stile che come ricerca di soluzioni tecniche per la funzionalità del prodotto, è stata la chiave di volta che ha permesso all’azienda di Montebelluna, in provincia di Treviso, di imporsi nel panorama internazionale. La storia di AKU è accomunabile a molti dei nomi che oggi sono i brand leader nel settore dell’outdoor e che fondamentalmente hanno tutti un’origine molto simile: famiglie artigiane con un enorme expertise e con una grande passione per la montagna e la vita all’aria aperta. Galliano Bordin è infatti figlio di calzolai e ha imparato i segreti della riparazione e della costruzione delle calzature fin da bambino, l’incontro con Callegarini lo porta poi a sposta
re un pochino più in là l’asticella della sperimentazione: è così che è nata la Conero e poi molti altri modelli che negli anni che hanno portato ad essere AKU conosciuta e stimata all around the world.
Ognuno dei tre modelli ha un riferimento nella storia e nei valori di AKU: il full yellow rappresenta e celebra la partnership con Vibram, quello marrone e beige la storia e l’expertise manifatturiera dell’azienda, mentre quello blu e arancio traduce in battistrada e tomaia la filosofia del brand relativamente all’impegno per la riduzione dell’impatto ambientale. Uno degli asset fondamentale dei prodotti AKU è infatti la loro durabilità, sia in termini di essenzialità del design, basata sul principio Designed to Reduce, ovvero togliere dove non è necessario, che di resistenza del prodotto, elemento fondamentale per allungare la vita di un oggetto come la scarpa da trekking.
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Comfort e precisione con la nuova Sulfur by Tecnica
Novità della SS23, Sulfur è la scarpa da avvicinamento veloce pensata per i professionisti ed esperti della montagna con adaptive shape technology.
Le scarpe da tech approach sono da sempre il go to per professionisti, alpinisti ed escursionisti esperti. Sono pensate per offrire la precisione e il grip necessari per l'arrampicata su vie normali, ferrate e per accompagnarli anche negli avvicinamenti più impervi. Per questo è fondamentale che l’agilità sia accompagnata da un grande comfort indispensabile per le lunghe giornate in quota.
Da sempre, lo sviluppo di scarpe da avvicinamento si è basato sul raggiungimento di un compromesso tra queste caratteristiche opposte: velocità e comfort e finalmente, grazie all’impiego di nuove tecnologie come l'Adaptive Shape Technology (AST), Tecnica ha sviluppato una soluzione senza compromessi: la nuova Sulfur. La tomaia è stata progettata per avvolgere il piede come un guanto e garantire un eccellente sostegno dell'avampiede e del tallone, anche sui terreni più tecnici, mentre per la forma è stata impoiegata la tecnologia AST, della quale ci ha parlato Adriano Rossato, outdoor footwear manager di Tecnica.
AST, Adapative Shape Technology: puoi spiegarci cosa vuol dire questa nuova sigla? Noi crediamo che
debbano essere le scarpe ad adattarsi alla forma del piede, e non viceversa. A partire dalla stagione estiva 2023 introduciamo la nuova tecnologia AST, Adaptive Shape Technology, proprio per rispondere alla esigenza fondamentale di chi cammina in montagna, cioè di una scarpa in grado di adattarsi alla forma del piede pronta da usare già come esce dalla scatola. Questo obiettivo si concretizza in prodotti che non fanno compromessi tra prestazioni e comfort.
In che cosa consiste esattamente?
La tecnologia AST riguarda aspetti sia di design e produzione, cioè il modo in cui vengono progettate e re
riali e soluzioni innovative. Le nostre scarpe vengono costruite attorno a delle forme che rappresentano il piede in maniera realistica, come si nota molto bene ad esempio nella zona del tallone e dei malleoli. A differenza delle forme per calzature tradizionali, più rapide ed economiche, le nostre forme anatomiche ci permettono di mantenere la promessa di un fit superiore, che si sente sin dalla prima calzata. Sul fronte dei materiali, la tecnologia AST prevede soluzioni diverse per i nostri diversi modelli a seconda delle specifiche necessità di ogni attività, come schiume memory
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adattive in EVA di diverse densità, inserti termoplastici preformati, il plantare Ortholite.
Cosa cambia e quali nuovi benefici porta rispetto alla precedente tecnologia CAS? AST è l'evoluzione della tecnologia CAS Custom Adaptive Shape. Con AST facciamo un grosso passo in avanti, in qualche modo anticipato dalla evoluzione che lo stesso CAS ha avuto nelle stagioni successive al primo lancio. Con AST le nostre scarpe offrono un avvolgimento del piede senza eguali, con un ottimo contenimento del tallone e dell'avampiede, senza la necessità di un intervento di customizzazione. Per cui
ora è sufficiente infilare le scarpe così come escono dalla scatola e andare a camminare. La customizzazione è ancora possibile ma raccomandata solo per utenti che hanno specifiche necessità anatomiche o di utilizzo delle calzature.
Edge Frame e rivoluzione. L’innovativa placca Edge Frame in TPU posizionata a contatto con l'intersuola è il vero segreto di questa scarpa fenomenale. Posizionata a contatto con l’intersuola, lavora in sinergia con la stessa per fornire alla Sulfur rigità e supporto in arrampicata, e flessibilità per l’escursionismo. La suola è in mescola Vibram Megagrip, che offre un'aderenza
impareggiabile su superfici asciutte e bagnate e una trazione efficace sui terreni misti e in condizioni variabili. La punta della suola Vibram presenta una zona piatta tipica delle scarpe da arrampicata per offrire un appoggio preciso e una tenuta efficace in punta e sul bordo durante l'arrampicata. Disponibile in due soluzioni per la tomaia, in pelle scamosciata da 1,5 mm oppure in tessuto balistico, entrambe disponibili in versione GTX con fodera GoreTex per mantenere i piedi asciutti e comodi tutto il giorno. La nuova Sulfur sarà disponibile in versioni e colorazioni specifiche sia da uomo sia da donna, per un totale di diciotto varianti.
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LaMunt Tailor it Yourself
LaMunt, high-quality brand di abbigliamento per la montagna "by women for women”, un anno fra presentava a retailer e media la collezione primavera/ estate 2023 caratterizzata ancora una volta dai valori fondamento di questo brand: l’attenzione alle necessità delle donne, la sostenibilità, la ricerca di materiali e stile con un occhio di riguardo sulla vestibilità dei capi.
Portando avanti i valori che la contraddistinguono, LaMunt amplia ulteriormente la gamma di Smart Fit Solutions per adattare ogni capo alle singole esigenze. Il concetto di Ali Shape, infatti, presente fin dalla prima collezione, si ritrova anche nella nuova proposta del brand attraverso un design morbido e “rotondo” che richiama le sinuose forme del corpo femminile, completato da un’alternanza di aree ventilate e rinforzi nelle zone che necessitano di maggiore protezione. Leitmotiv della collezione resta l'estrema versatilità dei capi, adattabili alle molteplici esigenze di chi li indossa grazie al nuovo concept “tailorityourself" con cui LaMunt trova non solo la giusta vestibilità per ogni tipo di fit, ma crea anche capi capaci di adattarsi letteralmente alle diverse silhouette di ciascuna donna.
“Per noi di LaMunt è tutta una questione di ispirazione,” sostiene Ruth Oberrauch, fondatrice di LaMunt. “Vogliamo ispirare le donne a passare il loro tempo in montagna, assaporando ogni singolo momento nella natura. Funzionalità ed este-
THE PILL PRODUCTS
BY SILVIA GALLIANI
tica sono gli ingredienti essenziali delle nostre collezioni che dimostrano, di stagione in stagione, quanto la combinazione di questi due elementi possa esprimere al meglio le molteplici individualità femminili.”
Tutto questo senza tralasciare il tema fondamentale delle sostenibilità.
LaMunt è infatti membro della Fair Wear Foundation e ha ottenuto lo Status di Leader già dal suo primo anno di attività. Ogni capo è prodotto in aziende controllate, con una selezione accurata dei materiali utilizzati, riciclati e di ultima generazione, che vanno dal cashmere postindustriale riciclato fino ai materiali sintetici. Anche per l’outerwear la scelta è stata netta: nelle collezioni LaMunt vengono utilizzati solo rivestimenti DWR (Durable Weather Repellent) realizzati senza l'utilizzo di PFC per non danneggiare l'ambiente.
“Energy” Capsule Collection
Con questi valori LaMunt lancia l'esclusiva "Energy" Capsule Collection, composta da un crop top, un leggings,
uno shorts e un coprispalle. La particolarità di questa collezione è che i capi sono personalizzabili con un semplice taglio fai date. Tutti i prodotti sono realizzati in un tessuto riciclato, elastico e aderente che una volta tagliato non lascia alcun filo, assicurando un taglio “pulito”.
Eliana Hybrid Wind Jacket & Eliana Wind Vest
Giacca a vento ibrida con sistema di chiusura a doppia zip, consente di calibrare il layering a seconda delle condizioni meteo e del proprio comfort. Sulla parte anteriore e sulle spalle la giacca è realizzata in un tessuto elasticizzato a tre strati, antivento e 100% riciclato, mentre per gli inserti sotto le braccia e sulla schiena è stato utilizzato un materiale altamente traspirante ed elastico per la massima libertà di movimento, sempre 100% riciclato. Attitude urbana e stile casual sono, invece, i tratti distintivi del gilet pensato per le attività all'aperto che mantiene le stesse caratteristiche tecniche e di performance della giacca.
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THE PILL PRODUCTS
BY SILVIA GALLIANI
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Sorellanza e snowboarding a 6000 metri
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS MATHIS DUMAS
Cosa fai dopo aver vinto quattro volte il Freeride World Tour?
Semplice, se sei Marion Haerty fai le valigie e parti per il Nepal dove metti in piedi una produzione video tutta al femminile.
“Didi” in nepalese significa sorella maggiore ed è quello che Dawa Yangzum Sherpa (la prima e unica guida nepalese dell'IUAGM), Fura (climber dell'Everest e dell'Ama Dablam), Mingma, Maia e Phurba, guide e portatrici nepalesi, sono state per Marion Haerty, ovvero la snowboarder più premiata di sempre, nella sua ascesa verso il Lobuche Peak, vetta himalayana di 6000 metri d’altitudine. Marion, che per ben quattro volte si è aggiudicata il titolo mondiale al Freeride World Tour, non ha più o meno niente da dimostrare nello snowboard, ma la sua curiosità e voglia di spingersi sempre un pochino oltre la sua comfort zone l’ha portata, con il sostegno di The North Face del cui team di atleti fa parte, a partire per il Nepal per realizzare un documentario sull'ascensione al Lobuche e sulla discesa ma, soprattutto, sulle sue compagne di viaggio, le Didi che hanno reso possibile l’intero progetto. Il team, composto interamente da donne e ragazze, è infatti il pretesto per portare l’attenzione sulle storie e sulle sfide che queste devono ogni giorno superare in un sistema ancora fortemente patriarcale. Tra loro
c’è anche Dawa Yangzum Sherpa, la Regina dell'Himalaya, come viene chiamata, guida esperta e rispettata: come tutte si è aperta la strada da sola, perché le ragazze non vengono incoraggiate a fare questo tipo di lavori, pericolosi, lontani da casa e prettamente considerati come maschili. Oggi le donne portatrici sono sempre di più: questo le porta non solo a guadagnare, ma a conoscere persone da tutto il mondo e diventare sempre più indipendenti, ma è comunque una strada in salita, sulla quale Marion ha voluto accendere i riflettori.
Come ti è venuta l’idea di questa spedizione e di un team tutto femminile? Beh la risposta a questa domanda potrebbe anche essere perché no? Perché accendere i riflettori sempre sui ragazzi e mai su di noi? Io però non direi di essere stata animata da un intento prettamente femminista, ma piuttosto volevo cercare di capire cosa stesse succedendo dall’altra parte del mondo: troppo spesso siamo focalizzati sul nostro piccolo universo in Europa mentre credo fermamente che, se solo ci conoscessimo un po’ meglio, potremmo contribuire
a creare un mondo migliore. Per me questo progetto non è stata solo l’opportunità di fare una discesa pazzesca, ma anche di creare qualcosa da poter condividere, una bella storia che per una volta ha coinvolto sole donne: vorrei che potesse essere di ispirazione per le generazioni future, specialmente in paesi come il Nepal. Didi parla di un’impresa sportiva, ma anche di sorellanza dall’altra parte del mondo e a 6000 metri d’altitudine… È stato bellissimo poter vivere questa esperienza con loro, ed era qualcosa che non mi sarei mai aspettata quando ho iniziato a pensare al progetto, credo che saremo amiche per sempre. Tutte le ragazze sono state una fonte di insegnamento incredibile: sono così gentili e felici in ogni momento, sono poverissime eppure sorridono sempre, molto più di noi europei. È qualcosa che mi ha fatto riflettere profondamente: che problemi abbiamo noi, con tutte le nostre cose e le nostre comodità, per essere sempre così stressati e arrabbiati?
Avere avuto l’opportunità di trascorrere molto tempo con le ragazze nepalesi è stata un’esperienza per me incredibile, probabilmente una delle
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migliori della mia vita, mi ritengo molto molto fortunata. La cosa bella è che mi hanno detto che anche per loro era stata la miglior spedizione di sempre: sono esplosa di gioia. Nutro per loro così tanto rispetto, è stato un onore poter imparare un sacco di cose su di loro e sulla loro vita. Era palpabile quanto fossero genuinamente felici del mio interesse, spesso le persone che lavorano con queste ragazze non sono così accorte, lasciano i bagagli e a malapena rivolgono loro la parola, le salutano, magari parlano un po’ quando raggiungono la cima e finisce lì.
Come vivono le donne in Nepal?
Il villaggio degli Sherpa è diverso da posti come Kathmandu: nelle montagne hanno più rispetto per le donne, ma quando ti allontani dalle zone più rurali la situazione cambia radicalmente, ed è molto difficile per le ragazze anche andare a scuola, figuriamoci trovare il lavoro che vogliono. Ma non è stato facile andare più in profondità in questo genere di argomenti: io dal lato mio non sono una sociologa, ma non è difficile capire che la situazione non è per niente semplice per loro. Lo stesso lavoro di portatrice è durissimo: Maya, ad esempio, ha 50 anni, continuerà ad andare avanti finché il corpo la sostiene. Non hanno un sistema previdenziale o pensionistico, quindi devono cercare di accumulare il più possibile finché ce la fanno.
Ci sono stati dei momenti duri? Ovviamente, come sempre in alta montagna, ma la cosa più difficile è stata accettare il fatto di vedere loro portare i miei bagagli: la maggior parte del lavoro l’hanno fatta gli Yak, ma c’era una ragazza in particolare che per me era straziante da guardare. Le altre mi dicevano che non mi dovevo dispiacere, perché grazie a quel lavoro stava guadagnando tanto ed era contenta, perché si sarebbe
potuta comprare delle cose a Kathmandu e per lo meno in quei giorni non doveva lavorare nei campi di patate. Oltre a questo chiaramente è stata anche molto dura fisicamente: non avevo mangiato abbastanza e raggiungere la cima è stata un’esperienza quasi mistica.
Anche emozionante però immagino… Per me è stato pazzesco anche solo starmene un po’ ferma a contemplare il panorama dalla vetta, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e, a dirla tutta, avevo questo conflitto interiore: da qualche parte dentro di me dubitavo che ci sarei riuscita. Non importa quanti Freeride World Tour tu abbia vinto, è sempre dura trovare la sicurezza dentro di te. Starsene lì a guardare l’Everest con questo collettivo di donne e sapere di essere lì per realizzare una produzione cinematografica con tutto quello che ha significato, dal mettere insieme la produzione al trovare gli sponsor, è stato incredibile.
Già, gli sponsor... È più difficile trovarne per un’atleta donna?
Dieci anni fa era così, ma adesso l’attenzione dei brand è molto diversa e, per certi versi, è una fortuna essere un’atleta donna oggi, perché tutti i brand ci vogliono includere nei loro roaster. Credo che questo sia un momento interessante per le ragazze: un progetto come Didi non sarebbe stato possibile nell’industria dello snowboard anche solo 10 anni fa. Dopo il me too c’è un trend generale, ma non solo nello sport, anche nella politica o nella moda: oggi devi per forza parlare di noi e con noi mentre noi abbiamo l'opportunità di farci vedere e sentire.
Diresti che lo snowboard è un ambiente sessista? Non di per sé, però credo che per spingersi oltre i propri limiti i ragazzi preferiscano girare o gareggiare con altri ragazzi. Non mi sono mai sentita non voluta,
o non accettata, e se sono qui oggi è anche perché sono sempre stata in mezzo ai ragazzi. Episodi di machismo però ci sono ovunque, quindi chiaramente anche nello snowboard. Accidentalmente sei stata la prima donna a scendere da Lobuche Peak, personalmente detesto i titoli che recitano “La prima donna a fare questo e quello”, tu come ti poni a riguardo? L’obiettivo non è mai stato quello di essere “La prima donna scendere da Lobuche Peak”, anche perché l’ho scoperto mentre stavo già andando là. So che per i media è di qualcosa di molto attraente da cui trarre un titolo, ma era la mia prima spedizione e quello che veramente volevo fare era qualcosa che lasciasse il segno ma, soprattutto, mi indirizzasse verso qualcosa che vorrei fare sempre di più in futuro.
Stai dicendo che lascerai le gare?
Al momento no, ma ne ero semplicemente un po’ annoiata. Snowboardare per me non è mai stato solo collezionare medaglie e bei risultati, quindi ho pensato che fosse il momento di iniziare a fare qualcosa di diverso. Questa spedizione in Nepal in questo senso è stata una specie di test: mi sono messa alla prova non solo dal punto di vista dell’altitudine, ma anche per il fatto che sono entrata molto profondamente in contatto con un’altra comunità e un’altra cultura. Grazie a questo affronterò le prossime gare con uno spirito diverso: è come se, avendo vinto il FWT per 4 volte, avessi fatto quello che dovevo e adesso è più qualcosa che faccio per divertirmi. Crescere credo che significhi anche questo, vedere le cose da un altro punto di vista. All’Extreme di Verbier il mio obiettivo sarà quindi quello di divertirmi insieme ai miei amici e celebrare questo sport, lasciarmi ispirare dagli altri e trovare la miglior linea per me in quel momento.
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Pane, pelli e concentrazione
BY FRANCESCA JOANNAS PHOTOS PHILIPP REITER
Giulia Murada, classe ’98, e Axelle Mollaret, classe ’92, hanno entrambe calzato gli sci da scialpinismo giovanissime, solo da due lati diversi delle Alpi. Dalle prime gare agli ultimi podi in Coppa del Mondo, le due campionesse non hanno di certo esitato a lasciare le proprie tracce. Ci hanno raccontato la stagione in corso, tra fatiche e soddisfazioni.
Ciao Giulia, ciao Axelle. Cominciamo dalle basi: come vi siete avvicinate allo scialpinismo?
GM Ho iniziato in realtà con il classico corso di sci alpino, ma da subito, grazie a mio papà (Ivan Murada, campione del mondo di scialpinismo nel 2002, ndr), mi sono resa conto che la mia strada era in salita. L’ho sempre seguita, anche quando ero troppo piccola per capire quello che succedeva. Appena ho potuto apprezzare lo sci fuoripista ho cominciato con la pratica dello scialpinismo, a dodici anni. Le prime gare sono arrivate poco dopo. Da allora, lui non ha mai smesso di essere il mio allenatore, però l’ho sempre chiamato per nome, soprattutto durante gli allenamenti. Questo ha permesso l’instaurarsi di una duplice complicità, di una dualità che mi piace molto nel nostro rapporto. A volte rimane separato, ma non sempre: mi conosce così bene che i
suoi feedback sono estremamente efficaci e colpiscono nel segno.
AM Ho cominciato lo scialpinismo a undici anni, con i miei genitori, o piuttosto per fare contento mio papà. Salivamo sulle montagne di Arêches Beaufort, il palcoscenico della Grande Course dove si tiene la Pierra Menta: si tratta del posto che preferisco in assoluto, dove sono nata, vivo e mi alleno ogni giorno ancora adesso. Ho partecipato alle mie prime gare qualche anno dopo, nel 2008, quando avevo quattordici anni. Da allora, non ho mai smesso. Sono entrata a fare parte del team di scialpinismo francese a 20 anni, ero l’atleta più giovane della squadra.
Siete appena rientrate da Boí Taüll. Ci raccontate la gara?
GM Sono tornata a casa soddisfatta, nonostante all’inizio fossi delusa dalle prime gare. Per tutta la stagione ho
ottenuto risultati al di sopra delle mie aspettative e sono arrivata a questi mondiali con la speranza di mantenere questo trend. Sono partita un po’ spavalda, diciamo, con in testa di volare tutte e cinque le gare pensando che sarebbe stata una passeggiata. Quando ho finito quinta nello sprint, non che non fossi contenta, ma non ho potuto non provare un po’ di delusione e di amaro in bocca. Credevo davvero di poter fare podio ai mondiali dopo tutti i podi della stagione. Il giorno dopo volevo rifarmi dalla mancata medaglia con il vertical, ed è stata la peggiore gara della stagione, ho chiuso ottava. Non ci sono rimasta male, è andata così. Mi ha aiutato a realizzare che forse ero stanca e che avevo bisogno di tranquillizzarmi in vista delle gare successive. Poi è arrivata la gara a coppie con Alba De Silvestro. È la gara più lunga del mondiale: devi correre con qualcun
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altro e hai anche la responsabilità del suo risultato. Sapendo che vincere era impossibile, abbiamo provato a non fare peggio di seconde e ci siamo riuscite. Le sensazioni sono state per me decisamente migliori rispetto al giorno prima. Infine, dopo un giorno di riposo, ho ripreso. Il terzo posto nell’individuale mi ha restituito la motivazione e nella staffetta siamo riusciti a chiudere in bellezza grazie al mio compagno di squadra.
AM I Campionati del Mondo di Boí Taüll erano sicuramente il mio obiettivo principale della stagione. Ho stabilito tutta la mia preparazione della stagione in vista di questa settimana. Sognavo tutte e cinque le gare, tutte le cinque medaglie d’oro: torno a casa con quattro ori (vertical, squadra, individuale e staffetta) e un bronzo. Sono consapevole sia un risultato eccezionale e ne sono molto fiera. Certo, ero la favorita
per queste discipline, soprattutto nell’individuale e nelle gare di squadra che sono le mie specialità, ma non che questo renda sempre più facile la competizione. Ho poi corso l’Adamello con Emily Harrop. È una compagna di squadra con la quale ho gareggiato più volte e attendevo questa gara con impazienza. Eravamo un po’ preoccupate dalla lunghezza della gara, ma l’abbiamo gestita bene.
Finora, quali sono stati i momenti più avvincenti di questa Coppa del Mondo?
GM Direi la staffetta mista. È stata la gara più strana: viste quelle che abbiamo fatto in stagione, Nicolò Canclini ed io siamo partiti con le orecchie basse. In più, come ho accennato, arrivavo stanca e delusa dalla settimana e vedendo molte squadre davanti non ci aspettavamo
di chiudere secondi. Siamo rimasti molto contenti di questo risultato. AM Penso che la Coppa del Mondo abbia iniziato a essere davvero interessante a partire dalla tappa di Morgins, la nostra prima gara individuale. È il format che preferisco in assoluto. Mi è anche piaciuta tantissimo l’individuale della Val Martello in Trentino.
Come avete vissuto i momenti più forti di questa stagione? Cos’è che vi mantiene concentrate e motivate?
GM Mi sono resa conto, soprattutto dopo la gara sprint, che se non c’è la testa non si va da nessuna parte. Ho avuto alcuni problemi di concentrazione: le temperature primaverili di questo Mondiale e il clima generale da après ski mi hanno distratta. Non me ne sono accorta, non ero totalmente concentrata sul fare fatica e questo ha intaccato i risultati.
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Sto lavorando parecchio su questo lato. Ogni tanto ci riesco e mi viene bene, altre volte ho più difficoltà. Nonostante siano una delle mie specialità, faccio particolarmente fatica durante le gare sprint: è un continuo ripetersi e aspettare. Ci sono molti tempi sospesi che non sempre affronto al meglio. Mi ha aiutata sapere che anche se sono arrivata a questo momento della stagione stanca, ero anche a livello. Ho lavorato molto su quello.
AM Penso di essere arrivata in forma e concentrata subito, alle prime individuali e ai primi vertical. Infatti sono riuscita a concatenare le vittorie: questo mi ha senza dubbio aiutata a rimanere motivata per tutte le gare. Con un’eccezione, il vertical di Schladming. La prova che davvero nessuno è infallibile! Quest’anno ho provato a rifare degli
sprint per ottenere più punti possibile per l’Overall. Mi servivano soprattutto con questo calendario che è estremamente disequilibrato. Ciò ha reso tutto molto più difficile. Ora sono motivata perché mi aspettano altri vertical e individuali, nei quali sono molto a mio agio. Tutto rimarrà in gioco fino alla finale a Tromsø. Quanto incide la concentrazione su queste gare?
GM Direi in percentuale per le gare sprint un buon 95% di testa e un 5% di gamba. Si tratta di soffrire per quei quattro minuti, accettare di farlo. Se la testa non c’è e non si accetta quest’idea, non vanno neanche le gambe. Per l’individuale, entro l’ora e mezza non è difficile mantenere la concentrazione per lo sforzo continuativo. L’Adamello, per esempio: si tratta di ricordarsi di mettere un piede davanti all’altro, insom
ma, è molto semplice quanto molto complicato. Sulle lunghe distanze del Mondiale è difficilissimo. Lì, la testa è fondamentale.
AM Direi che è fondamentale rimanere concentrati fino alla fine di ogni gara. Mi è stato sempre detto che “fino a quando non hai superato la linea del traguardo, può succedere ancora di tutto”. E questo è vero, che si sia davanti oppure dietro. Questo mi ricorda il mio primo titolo di campionessa del mondo junior, nel 2011. L’ho ottenuto grazie alla rimonta durante l’ultima discesa, nonostante non fossi mai stata una brava discesista! Ma io ero molto concentrata e lo sono rimasta, mentre la mia avversaria ha fatto un piccolo errore.
In altre occasioni, invece, mi sono ritrovata da sola in testa alla gara e mi sono un po’ “lasciata andare’’ a un rit
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mo troppo lento e le altre concorrenti mi hanno recuperata.
A proposito di avversarie: com’è il vostro rapporto con loro? Sono una fonte d’ispirazione?
GM Durante le gare non voglio pensare a chi ho di fianco. È controproducente. Cerco di vedere le avversarie non per chi sono, ovvero con nome e cognome, ma piuttosto di vederle come chi è con me lì in quel momento a provare a vincere. Siamo tutte lì per quello, con lo stesso obiettivo. Nel pre e nel post gara è diverso, si va tutte d’accordo. Non è sempre facile interagire molto, anche per questioni di lingua, però c’è sempre un grande rispetto per tutte. So come lavoro io e quindi capisco come lavorano loro: rispetto molto la fatica delle altre. AM Mi piace la competizione e ovviamente mi piace poter dare il meglio di me stessa. Non ho nessuna paura del confronto. Direi proprio il contrario! Proprio perché ho gareggiato per anni a fianco di atlete fortissime, sono potuta arrivare al livello che ho oggi. Potrei dire che senza di loro non sono sicura sarei qui. Sono le altre che mi hanno spinta ad andare ogni giorno un po’ più in là, superando i miei limiti. Quindi sì, sono sicuramente una fonte d’ispirazione!
Com’è fare parte del team La Sportiva?
GM È bello essere in una squadra così. Vengono sempre in trasferta con noi e siamo sempre molto curati dal punto di vista dei materiali. Mi piace molto anche il rapporto che abbiamo fuori stagione. Quando avevo il piede infiammato, per esempio, si sono curati molto di me. Sono molto contenta dello scarpone e in generale delle condizioni in cui il team mi mette. Mi fa piacere avere il materiale per i pochi vertical che faccio.
AM Ho la fortuna di fare parte della famiglia La Sportiva da diversi anni ormai. E ne sono molto fiera! Oltre a essere un brand molto performante, si tratta anche di una squadra molto presente. Vengono a tutte le gare
per incoraggiarci, e non solo: sono anche presenti a tutti gli eventi più importanti per noi. Anche in caso di bisogno, il team è sempre disponibile, qualsiasi sia il problema. Sono davvero super!
Ci descrivete la vostra routine pre gara?
GM Non ci sono grandi segreti, è tutto molto semplice! Tre ore prima, faccio una colazione abbondante. È la cosa che preferisco, anche se durante la stagione non posso mangiare sempre quello che voglio, ovviamente. Un’ora prima della gara si passa al riscaldamento. Poi la gara: pronti, via. Il post gara è il momento più bello. Si torna tutti in albergo, si consola chi ha perso, si festeggia chi ha vinto.
AM La mattina prima di qualsiasi gara sono molto metodica. Il mio zaino è ben preparato, pronto per partire. Dopo una buona colazione (che è la cosa che piace di più anche a me!) mi vesto, riempio le borracce e parto per il riscaldamento. All’inizio mi dedico al test delle mie pelli, per scegliere quelle che scivolano meglio.
Poi, comincio gli esercizi di riscaldamento veri e propri. Alla fine di quelli, pronti, via.
Quali sono gli obiettivi delle prossime settimane?
GM Direi ovviamente il finale di stagione della Coppa del Mondo. Mi sono ritrovata in testa in modo inaspettato, a inizio stagione non avrei mai pensato di finire in questa situazione. Ho una manciata di punti e tra le prime quattro siamo molto vicine.
Ciò vuol dire che può succedere di tutto. Sento molto la pressione perché vorrei davvero raggiungere questo obiettivo. Mi spiacerebbe buttare via la gara ma non dipende solo da me.
Cercherò di rimanere il più motivata e concentrata possibile.
AM Per la fine di questa stagione, spero davvero di fare ancora due belle gare in Norvegia, soprattutto il vertical e l’individuale. E dopo, direi che farò solo spazio a un ben meritato riposo.
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Durante le gare non voglio pensare a chi ho di fianco. È controproducente. Cerco di vedere le avversarie non per chi sono, ovvero con nome e cognome, ma piuttosto di vederle come chi è con me lì in quel momento a provare a vincere.
Siamo tutte lì per quello, con lo stesso obiettivo.
Nel pre e nel post gara è diverso, si va tutte d’accordo. Non è sempre facile interagire molto, anche per questioni di lingua, però c’è sempre un grande rispetto per tutte.
Brocchi Sui Blocchi presenta Preferisco Ghisarmi
BY MARTA MANZONI PHOTOS ROBERTO MOR
Il nuovo podcast sull’arrampicata
Brocchi Sui Blocchi è la più grande community d’arrampicata in Italia, con 25.600 follower su Instagram, 12.000 su Facebook e 11.000 su TikTok. Un progetto di comunicazione fondato da Amedeo Cavalleri che attraverso vari canali – eventi, podcast, social – racconta l’arrampicata degli ultimi, gli scarsi, elevandoli a personaggi degni di avere una storia da raccontare. Il gruppo ha creato un nuovo podcast, Preferisco Ghisarmi, disponibile su Spotify, Apple Podcast e Amazon Music. I quattro speaker – Amedeo Cavalleri, Dario Cressoni, Davide Borgogno, Roberto Mor si confrontano sull’evoluzione dell’arrampicata e su ciò che la circonda. La prima stagione di Preferisco Ghisarmi (7 puntate, pubblicate tra gennaio e marzo 2023) affronta temi come l’attivismo, l’ambientalismo, il sessismo, l’allenamento, la comunicazione. Non manca una buona dose di intrattenimento e l’ironia che contraddistingue i Brocchi Sui Blocchi. Il format di Preferisco Ghisarmi parte dalle storie dei grandi della montagna (da Tommy Caldwell passando per Jacopo Larcher e molti altri), per poi esprimere il punto di vista di ar
rampicatori qualsiasi. Le grafiche del podcast sono state realizzate da Michela Cavalleri, la sigla da Lorenzo Badioli, in arte Pupetti Tutti Matti. Produzione e montaggio sono a cura di Brocchi Sui Blocchi, sotto la direzione di Roberto Mor. Il progetto Brocchi Sui Blocchi e il podcast Preferisco Ghisarmi sono supportati da La Sportiva.
Amedeo il podcast sta andando alla grande, sei soddisfatto? Sì, molto! Le classifiche e gli ascolti dicono che il podcast sta andando davvero bene, non mi aspettavo questo successo! A oggi come ascolti siamo sui 17.000 (dato aggiornato al 19 marzo 2023) per le sette puntate e ogni giorno abbiamo circa 400 ascolti. Inoltre da quando è uscito fino a oggi il podcast è sempre rientrato nella top 200 podcast di Spotify. Niente male per un podcast di arrampicata! Volevamo fare qualcosa di nuovo, un po’ diverso dalla maggior parte dei podcast (seri) in circolazione, un format orientato anche all’intrattenimento, che permettesse di imparare qualcosa ma anche di farsi due risate.
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“L’arrampicata è libertà, un posto dove ognuno possa esprimere sè stesso.”
-BROCCHI SUI BLOCCHI
Ogni puntata ha un tema speciale… Siamo partiti da subito con l’idea di fare più stagioni, e volevamo quindi che la prima stagione fosse incentrata sui temi riguardo i quali ci interroghiamo di più e che consideriamo focali. La prima puntata è dedicata a quella che per noi è la base, ovvero l’attivismo. Inoltre affrontiamo la contrapposizione tra il bisogno di andare in montagna e isolarsi e dall’altra parte la voglia di restituire qualcosa alla società. I ragazzi che formano il gruppo dei Brocchi, infatti, anche nella vita lavorativa hanno una propensione ad aiutare gli altri: Davide è medico, Dario fisioterapista, io mi occupo di ambiente. Affrontiamo anche argomenti come il grado, l’allenamento, l’attrezzatura, le scarpette. C’è poi una puntata che si occupa di ambiente, un’altra sul racconto dell’arrampicata. In ogni puntata partiamo da un libro o da un film sull’arrampicata che ci ha insegnato qualcosa, per poi sviluppare un discorso più ampio.
Perché creare un podcast di arrampicata? In questi anni, in particolare io che mi occupo di comunicazione, ho sempre avuto la voglia di sperimentare e innovare. Penso che l’arrampicata sia un terreno abbastanza fertile, è una disciplina nuova, e la cosa più bella da fare quando c’è uno spazio così propenso all’innovazione è sperimentare e buttarsi. Per questo abbiamo deciso di provare a comunicare con il podcast. I social ti permettono di arrivare sempre a meno persone e volevamo fare qualcosa di più, sentivamo il bisogno di un nuovo strumento per arrivare alla community. In molti ci hanno detto che prima dei Brocchi non riuscivano a trovare il loro modo di vivere l’arrampicata, mentre grazie a noi hanno capito che ci sono tante sfumature. In questi anni abbiamo conosciuto tante persone e abbiamo vissuto esperienze stupende, come il fatto di essere entrati nella famiglia La Sportiva. Vogliamo condividere con gli altri quello che abbiamo imparato perché pensiamo possa essere da stimolo per tutti.
Che tipo di strumento è il podcast? Rispetto al video è uno strumento più facile. In confronto ai social, che si basano su una comunicazione breve e veloce, il podcast permette di approfondire e soprattutto rimane: chiunque lo può ascoltare quando preferisce. In Preferisco Ghisarmi ogni puntata parte da un libro o un film quindi un po’ di ricerca andava fatta e questo ci portava a creare una base dalla quale pensare un flusso di punti che avremmo voluto toccare. Tutto il resto era improvvisato, quindi molto autentico. Non abbiamo quasi mai registrato una parte due volte. Sa
rebbe stato un contro senso comunicare: “è ok fallire!”, “è ok fare schifo!” e poi cercare di creare un contenuto perfetto. L’approccio va mantenuto con coerenza: bisogna accettare l’errore anche nella vita. Non dev’essere tutto perfetto, l’importante è divertirsi!
Aldilà dei dati sugli ascolti, quali feedback state ricevendo dalla community di arrampicatori? La sensazione è che ci fosse una gran voglia di un podcast così, qualcosa che raccontasse l’arrampicata in maniera diversa. Un sacco di persone lo condividono, c’è un grande passaparola, in molti ci taggano nelle storie. Sta piacendo tanto e siamo contenti di avere azzeccato la modalità.
Il podcast, come l’attività dei Brocchi, è tutto basato sul volontariato. Chi ve lo fa fare? È di sicuro un impegno: bisogna metterci la testa, il tempo e la voglia. Ma è una passione: ci piace e ci diverte farlo, altrimenti eviteremmo. È sempre bello mettersi in gioco e scoprire nuovi modi di comunicare. Abbiamo anche la fortuna di avere il supporto di La Sportiva che ci ha aiutati a comprare un po’ di attrezzatura per il montaggio e qualche microfono per avere una buona qualità audio.
Facciamo un passo indietro, come nasce il progetto Brocchi Sui Blocchi? Nasce a dicembre 2016, un po’ per gioco: eravamo un gruppo di amici e abbiamo deciso di iniziare a raccontare in maniera divertente su Instagram un’arrampicata diversa, fatta da scalatori comuni, gente scarsa come noi, non ci interessava il mondo dei top climber. Da subito il progetto si è contraddistinto da una forte autoironia, ci siamo sempre presi un po’ in giro. Fin dall’inizio abbiamo avuto una buona risposta, i numeri erano ancora bassi ma ormai avevamo un po’ di seguito e quindi abbiamo iniziato a chiederci che cosa volessimo trasmettere su questi canali, non volevamo più solo scherzare, sentivamo di dover dare qualcosa in cambio alla community. Negli anni siamo cresciuti, ma siamo sempre rimasti un gruppo di amici che portano avanti un progetto di comunicazione.
Quali sono i valori dei Brocchi? Quali messaggi volete trasmettere? Il nostro obiettivo è creare una community di arrampicatori inclusiva, impegnata e partecipativa, dove vivere l’arrampicata con entusiasmo. Vogliamo mettere al centro del racconto le persone e le esperienze, l’arrampicata degli ultimi. Così all’autoironia si sono uniti discorsi un po’ più seri: il rifiuto della competizione a tutti i costi e dell’idea del
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la “conquista” della montagna, la lotta al sessismo e al machismo nell’arrampicata (secondo la quale devi sempre essere più forte), l’ambientalismo, i disturbi alimentari nell’arrampicata e molto altro. Crediamo anche che il grado non sia centrale, è l’attitudine che fa un/una climber: il rispetto dell’ambiente e nei rapporti con gli altri, come ti relazioni con la community. Per noi inclusività significa che chiunque può fare questo sport e ha pari dignità, a prescindere da quanto è forte. L’ambientalismo si declina nel fatto di dire che abbiamo una responsabilità nei confronti della natura: come molti sport outdoor, infatti, scalare prevede un utilizzo e talvolta anche un consumo, per esempio, della roccia. L’ambiente è una risorsa di tutti, finita, quindi non bisogna avere un approccio consumistico. Bisogna stare attenti a non sporcare e a portarsi a casa tutto ciò che si utilizza in falesia, stare attenti a come si usa la roccia, pulire le prese, stare attenti a non rompere la roccia. Amare i luoghi in cui pratichiamo lo sport vuol dire non lasciare traccia del proprio passaggio, lasciarli uguali o meglio di come li abbiamo trovati. Ci sono dei piccoli gesti, come infilare il mozzicone di una sigaretta in un buco in via, che per chi viene dopo di noi avranno un grande impatto.
Quando vi ho conosciuti avevate tutti lo smalto sulle unghie… Sì, è un segnale autoironico che rientra nel rifiuto dell’idea di maschismo: l’alpinismo in Italia è sempre stato maschilista, incentrato sull’idea di derivazione patriarcale della conquista dell’uomo su qualcosa, del predominio, competere per dimostrare agli altri la tua forza. Tutto questo l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle: la competitività, sentirci sminuiti, semplicemente perché eravamo meno forti o vivevamo la montagna in maniera diversa. In questo discorso rientra chiaramente anche il femminismo: l’arrampicata è sempre stato un mondo maschilista e ci è capitato che alcune nostre amiche non si sentissero a proprio agio in certi contesti perché c’era molto testosterone legato alla performance e tanto mansplaining.
Sentite un senso responsabilità nei confronti della community che vi segue? Sì, sappiamo che ci guardano, e quando le persone si affezionano a te e ti prendono come punto di riferimento devi dare dei messaggi positivi e di inclusività per portare delle buone pratiche. Sentiamo un po’ questo, anche se sappiamo di essere gli ultimi degli ultimi. Il rispetto per gli altri per noi è fondamentale: ogni
climber è tuo pari, la classificazione in base al grado a volte porta a degli scompensi, chi è più forte si sente più importante in questo mondo e noi vogliamo scardinare questo concetto. Gli arrampicatori sono prima di tutto delle persone.
What’s next? Quando abbiamo registrato l’ultima puntata del podcast ci è dispiaciuto molto che fosse finita questa esperienza. Pensavamo che la nuova stagione sarebbe stata tra un po’ di mesi invece credo che a breve ci metteremo già a pensarci. Il podcast è stato il nostro progetto di comunicazione più importante da quando siamo nati e penso che continuerà a esserlo anche in futuro. Ora che inizia la stagione poi saremo spesso a eventi in giro per l’Italia, insieme a La Sportiva ma non solo. È il nostro modo di “scendere in mezzo agli uomini e lottare con loro”, per usare le parole dell’alpinista Guido Rossa, perché il progetto di comunicazione digital è bello ma poi ci piace davvero stare tra la gente, confrontarci, condividere un’idea di arrampicata e portare le idee delle quali parliamo dentro la vita reale. Quando siamo partiti, intorno ai temi di cui parlavamo non c’era molta discussione, ora c’è molto più hype su argomenti come l’inclusività e l’ambiente, anche nella community di climber. Inoltre vedo che mentre all’inizio eravamo da soli, ora nascono sempre più iniziative, profili e pagine che si raccontano in un modo simile al nostro e ci dicono che si sono ispirati a noi. Sembra che nel nostro piccolo abbiamo contribuito a creare un movimento e una sottocultura che sta portando un impatto reale nel mondo dell’arrampicata.
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Penso che l’arrampicata sia un terreno abbastanza fertile, è una disciplina nuova, e la cosa più bella da fare quando c’è uno spazio così propenso
all’innovazione è sperimentare e buttarsi.
Per questo abbiamo deciso di provare a comunicare con il podcast.
Wild Life
Al Trento Film Festival il documentario su Kris e Douglas Tompkins, diretto e prodotto dai premi
Oscar Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin
BY DAVIDE FIORASO PHOTOS JIMMY CHIN
Dal 1952 ad oggi, la storia del Trento Film Festival si è intrecciata con quella della montagna e dell’alpinismo, facendolo diventare un vero e proprio laboratorio sulle culture delle terre alte, sempre pronto ad esplorare i cambiamenti. La rassegna, che si terrà dal 28 aprile al 7 maggio, torna con un programma di 130 film, frutto di un importante lavoro di selezione, ricerca e scouting che dura tutto l’anno e che permette al concorso (la sezione più prestigiosa) di mantenere quella qualità che lo contraddistingue e quella capacità di rivelare grandi titoli. Ogni anno il Trento Film Festival presenta i migliori documentari, film e cortometraggi che hanno per scenario montagne e regioni estreme del mondo, approfondendo i legami con popoli e culture, celebrando le grandi e piccole imprese degli sport di montagna, raccontando il rapporto affascinante e complesso tra uomo e natura, promuovendo la conoscenza e la difesa dei territori.
Ed è proprio su quest’ultimo tema che trova spazio Wild Life, il film documentario diretto e prodotto da Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, vincitori, con Free Solo, dell'Academy Award per il miglior documentario 2019 e candidati all’Oscar nel 2016 con Meru. Wild Life racconta la stretta relazione tra l'ambientalista Kris Tompkins ed il suo defunto marito Douglas, un'epica storia d'amore
lunga decenni, selvaggia come i paesaggi a cui hanno dedicato la vita.
Kristine McDivitt Tompkins, ex CEO di Patagonia, è co fondatrice e presidente della Tompkins Conservation. Da oltre 30 anni è impegnata a proteggere e ripristinare la bellezza e la biodiversità delle aree selvagge, ispirando l'attivismo e promuovendo la vitalità economica come risultato della conservazione. È stata una figura chiave dietro l'istituzione del Parco Nazionale del Monte León e del Parco Nazionale della Patagonia. Oggi ricopre posizioni di leadership globale, tra cui quella di presidente della campagna Last Wild Places della National Geographic Society. Ha ricevuto la Carnegie Medal of Philanthropy nel 2017 e nel 2018 è stata nominata Environment Patron of Protected Areas delle Nazioni Unite.
Douglas R. Tompkins (1943–2015) era un sostenitore della natura selvaggia, alpinista, agricoltore biologico, filantropo e ambientalista. Come fondatore di The North Face e co fondatore dell'azienda di abbigliamento Esprit, ha dedicato le sue formidabili energie al business. Come alpinista e kayaker ha completato prime ascensioni e discese fluviali in più continenti. Insieme al grande amico Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, condivideva uno spassionato amore per la natura e la volontà di fare sempre di più per proteggerla.
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Ogni anno il Trento Film Festival presenta i migliori documentari, film e cortometraggi che hanno per scenario montagne e regioni estreme del mondo, approfondendo i legami con popoli e culture, celebrando le grandi e piccole imprese degli sport di montagna, raccontando il rapporto affascinante e complesso tra uomo e natura, promuovendo la conoscenza e la difesa dei territori.
Dopo aver lasciato l'attività e aver finanziato un gruppo di fondazioni, è diventato uno dei più importanti filantropi della storia, utilizzando la sua ricchezza per acquisire, aggregare e donare terreni privati ai sistemi di parchi nazionali di Cile e Argentina. Profondamente devoto all'attivismo biocentrico, Doug è stato un fondamentale pensatore dietro numerose campagne. Morì nel 2015 dopo un incidente in kayak in Patagonia.
Per decenni Kris e Doug hanno lavorato fianco a fianco per modellare un nuovo pensiero agroecologico, ripristinando fattorie degradate e gestendo allevamenti biologici in America del Sud. Dopo essersi innamorati in mezza età, si sono lasciati alle spalle quel mondo dei grandi marchi outdoor che avevano contribuito a creare, rivolgendo la loro attenzione ad un sforzo visionario: creare un sistema di parchi nazionali in uno degli ultimi luoghi selvaggi sulla terra. Wild Life racconta gli alti e bassi di quel lungo viaggio che li ha portati ad effettuare la più grande donazione di terra privata nella storia.
Insieme hanno contribuito a proteggere circa 14,8 milioni di acri tra Cile e Argentina, rendendoli tra i filantropi di maggior successo nella storia. Attraverso Tompkins Conservation e le sue organizzazioni figlie, Rewilding Argentina e Rewilding Chile, hanno potuto creare ed espandere 15 parchi nazionali, inclusi due parchi nazionali marini. Da Hornopiren a Corcovado, da Cerro Castillo a Cape Froward. Figura chiave nei progetti di riqualificazione e conservazione, reintroducendo i servizi ecosistemici in aree degradate dalla presenza antropica, dal 2005 la Tompkins Conservation lavora per salvaguardare e ri
pristinare specie chiave come i giaguari nelle zone umide dell'Argentina e il cervo huemul altamente minacciato in Cile. Una comprovata strategia di conservazione e reintroduzione che rigenera ecosistemi completi e perfettamente funzionanti in modo che possano diventare autosufficienti con il minimo intervento umano.
Queste le parole di Sergio Fant, responsabile del programma cinematografico del Trento Film Festival: “L’occasione di portare Wild Life in anteprima italiana al Trento Film Festival nasce dal rapporto diretto con la sede centrale del National Geographic. Un rapporto che si è sviluppato negli anni e che si è coronato nel 2022 con l’anteprima italiana di Fire of Love di Sara Dawson, vincitore del premio del pubblico. A volte è sorprendente, oltre che di grande soddisfazione, scoprire il loro entustiastico interesse nel collaborare. Questo fa capire che 70 anni di storia, in certi contesti, hanno un grande peso e vengono apprezzati. Quando c’è stato il lancio di Wild Life, abbiamo subito deciso di portarlo in Italia ed il riscontro da Hollywood è stato immediato e positivo. È una storia che unisce talmente tanti elementi di interesse assoluto, dai due registi a personaggi mitici come i Tompkins e Yvon Chouinard. La vicenda incredibile di Kristine e la sua storia d’amore con Doug, i loro progetti rivolti ai parchi nazionali costituiti in Cile e in Patagonia, portano alla radice mistica della sensibilità ambientale. Crediamo che si tratti di un film che racconta un percorso fatto anche da noi, come manifestazione. C’erano tutti gli elementi per quella che speriamo possa essere una proiezione indimenticabile qui a Trento.”
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Reimagine Winter
BY MARTA MANZONI PHOTOS CAMILLA PIZZINI
“Siamo tutto ciò che è outdoor. Siamo – tutti – guidati dalle medesime passioni.
Siamo coloro che hanno provato a cercare sé stessi all’interno degli ambienti naturali e che riconoscono questo processo come fondamentale per la crescita della cultura umana.”
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Da questa idea viene fondato – da Luca Albrisi e altri 11 firmatari – The Outdoor Manifesto: un collettivo aperto, basato sul volontariato, che da anni cerca di dare un impulso di consapevolezza ecologica al mondo dell’outdoor. Un Manifesto che parte dal basso, che può essere condiviso, sottoscritto e “impugnato” da chiunque abbia voglia di contribuire alla presa di coscienza ambientale della nostra comunità e che sia pronto ad intraprendere le azioni necessarie per difendere gli ambienti naturali. “Reimagine Winter” è stata l’ultima iniziativa proposta da The Outdoor Manifesto, accolta da 40 realtà diverse: domenica 12 marzo, in 12 località di 8 regioni italiane, oltre mille persone hanno manifestato, tra Alpi e Appennini, mosse dall’urgenza di immaginare un nuovo inverno e promuovere un’idea di sviluppo turistico più sostenibile slegato dall’anacronistica monocultura sciistica e, soprattutto, dalla costruzione di nuovi impianti di risalita.
Luca, Reimagine Winter è stata una delle mobilitazioni più partecipate a difesa del futuro delle terre alte, ci racconti com’è andata?
Alla grande! È stato sorprendente sia il passaparola e la condivisione che ci sono stati prima della manifestazione, sia la partecipazione: mille persone nelle terre alte sono tante, è un numero importante considerando i luoghi in cui si sono svolte le mobilitazioni, molto diversi dalle piazze cittadine raggiungibili comodamente. C’è stato davvero un grande entusiasmo. È emerso un sentimento di solitudine provato da chi fa attivismo nelle terre alte: spesso, infatti, è difficile avere vicinanza fisica con altre persone che lavorano su certi temi. Inoltre, facendo attivismo, sono più le volte che si perde e si fa fatica a raggiungere risultati tangibili, e ogni tanto sembra di fare la guerra contro i mulini a vento: le implicazioni psicologiche non sono indifferenti. Il bello di una partecipazione così diffusa, secondo molti, è stato proprio vedere tante persone
che condividono un’idea. Poter dire "finalmente insieme siamo riusciti a spingere questo problema fino a un livello nazionale". Siamo molto soddisfatti di questa storica manifestazione, non solo per come ha posto l'attenzione sulla necessità di “reimmaginare l’inverno” ma soprattutto perché rappresenta il primo, fondamentale, passo verso un attivismo collaborativo delle terre alte fatto di nuove strategie, relazioni e importanti azioni.
Com’è nata l’idea? Era da un po’ che avevamo in mente di creare un’iniziativa diffusa legata all’inverno. Nel frattempo il discorso sugli impianti è diventato mainstream e noi avevamo sempre più contatti con diverse realtà. Così abbiamo pensato a una mobilitazione che rendesse evidente quanto sia diffuso il problema, agendo in maniera coordinata in tutta Italia, dalle Alpi agli Appennini. Era un’idea interessante anche per dimostrare che esistono già tanti gruppi, comitati, associazioni sportive, culturali e ambientali, che si occupano di queste tematiche in maniera indipendente: noi abbiamo solo proposto l’idea, senza “calare” nulla dall’alto. È chiaro che un processo che prevede un confronto così è più complicato, e i tempi si allungano, ma per noi era importante lanciare un messaggio politico insieme, far fronte comune. Per questa ragione non è mai stata presentata come un’azione di The Outdoor Manifesto, voleva essere una cosa condivisa. È stato anche un parametro di giudizio per avere la percezione del network che stiamo creando.
Qual era l’obbiettivo della manifestazione? Non voleva essere un’azione solo contro qualcosa ma offrire un punto di vista collettivo, la necessità di pensare qualcosa di diverso e cambiare il nostro schema mentale, che non vuol dire screditare e demolire quello che c’è, ma accogliere le sfide del nostro tempo. vogliamo immaginare un sistema sostenibile da un punto di vista ambientale ma anche sociale, umano ed economico. Il claim
Reimagine Winter ha premiato molto, è stato davvero sentito dalle persone: è un modo innovativo e creativo di pensare la battaglia politica senza scontrarsi e basta. Volevamo sottolineare la necessità di un concreto cambio di paradigma per lo sviluppo delle montagne della penisola, in grado di immaginare l’inverno tramite nuovi modelli che si sleghino dalla monocultura impiantistica e dello sci da discesa. Un futuro diverso rispetto a logiche socioeconomiche anacronistiche, non solo è possibile ma è diventato assolutamente necessario. I nuovi impianti secondo noi non hanno senso, da nessun punto di vista. Accettiamo e usiamo quello che c’è, ma investire in nuovi comprensori vuol dire ricadere in uno schema passato e non immaginare un nuovo inverno.
Quali sono le località coinvolte dalla mobilitazione? Volevamo mostrare come il problema sia profondamente diffuso in tutta la penisola. Costruire un nuovo impianto a San Primo, a 1500 metri, come si può pensare che sia economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile? Sono state coinvolte località diventate simbolo di un problema ormai presente su tutte le montagne italiane: Monte San Primo (Lombardia), Monte Campione (Lombardia), Piani Di Artavaggio (Lombardia), Alpe Devero (Piemonte) Serodoli (Trentino), Panarotta (Trentino), Arabba (Veneto), Sella Nevea (Friuli VeneziaGiulia), Corno Alle Scale (Emilia Romagna), Terminillo (Lazio), Roccamorice (Abruzzo). Quali adesioni avete ricevuto? Era importante dare alle persone dei punti di riferimento sul territorio, realtà vicine a loro che si mobilitano su questi temi. Inoltre credo che questa manifestazione sia servita alle associazioni locali per creare delle reti tra di loro. All’inizio ci siamo confrontati con una decina di gruppi (tra associazioni, comitati, e gruppi spontanei), mentre alla fine hanno partecipato più di quaranta realtà: la condizione per essere inseriti nella lista era di essere fisica
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mente presenti alla manifestazione. In particolare hanno aderito a Reimagine Winter: The Outdoor Manifesto, Mountain Wilderness Italia, Io non ho paura del lupo, Italia Nostra Trentino, Dolomiti Open, Basta Impianti, Giovani Club Alpino Italiano, Salviamo l’orso, Coexistence.life, XR Trento, TAM Commissione Tutela Ambiente
Montano SAT, SAT Società Alpinisti Tridentini, Comitato Permanente per la Difesa delle Acque del Trentino, GAS Trento, RAM, GEL Ledro, WWF Trentino, Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo”, Circolo
Ambiente Ilaria Alpi, Ape Milano, POW Italia, Comitato Tutela Devero, Comitato MTO2694, Ape Brescia, Un Altro Appennino è Possibile, Appen
nino Splitboard, Ape Bologna, NO
TSM, Balia dal collare, Legambiente
Treviso, Per altre strade, CAI FVG, Legambiente Carnia Val Canale, FFF
Trieste, Lost in Prealps, T.A.M. FVG, Ambientalmente Lecco, Legambiente circolo Lecco, Legambiente circolo Lario sponda orientale, Soci banca etica Lecco.
Per chi non vi conosce, come nasce The Outdoor Manifesto? Parlando insieme a Davide “Zeo” Branca, grande entusiasta outdoor che aveva già un background di attivismo politico, ci siamo resi conto di come in questo mondo mancasse un processo dal basso che creasse consapevolezza ecologica, e così abbiamo messo nero su bianco la nostra visione, quello che secondo noi dovrebbe essere l’outdoor come esperienza, filosofia, ma anche a livello commerciale. Da subito abbiamo voluto condividerlo con altre persone, che appartenessero a tutte le diverse sottocomunità del mondo outdoor, in maniera trasversale, che sono diventate cofirmatarie del Manifesto. Dopo questo passaggio è stato condiviso ed è sempre piaciuto molto: fin dall’inizio in tanti si sono immedesimati in quelle parole. Ora sembra attuale perché questi discorsi sono diventati mainstream, ma quando lo si leggeva allora era abbastanza fuori dagli schemi, basta pensare che è stato
scritto prima del movimento Fridays for Future.
Cos’è diventato il Manifesto nel corso degli anni? Il primo periodo abbiamo viaggiato e partecipato a vari eventi realizzati apposta per il Manifesto e a iniziative promosse da altre realtà. Il primo passo era dire: “Ecco quello che pensiamo. Se vi piace l’idea e siete d’accordo con questi valori sottoscrivete il Manifesto (cosa che può ancora essere fatta sul sito internet) e metteteci la faccia.” Poi c’è stata la pandemia e abbiamo lavorato da remoto a livello di comunicazione. Uno dei punti più importanti del Manifesto, infatti, è creare una cultura outdoor, che abbia certi principi: anche se da alcune persone questo aspetto non viene interpretato come un’azione pratica in realtà credo che lo sia. Il fatto di elaborare concetti, dare visione a certe situazioni, sensibilizzare, formare le persone, discutere certi temi, magari non è come raccogliere la plastica per terra ma in qualche modo è più difficile, e in più si spera che contribuisca a creare qualcosa che in futuro permetta alle persone di decidere da sole quali azioni intraprendere. Fare cultura è un atto pratico. Dopo il Covid abbiamo intrapreso diverse azioni, come manifestazioni, serate, partecipazioni ad altri eventi, sempre molto partecipate. Piano piano ci siamo guadagnati una nostra credibilità anche a livello istituzionale e nel corso del tempo abbiamo creato tante belle relazioni con persone e altre realtà, lasciando da parte il nostro ego: l’importante è fare qualcosa insieme per questa sfida enorme che abbiamo davanti, mirando a qualcosa di più grande.
Hai detto “se vuoi essere un attivista ti devi attivare” cosa intendi?
So che può sembrare paradossale, ma spesso ci arrivano messaggi da parte di persone che si aspettano che gli vengano dati dei compiti da parte nostra, mentre fare attivismo dal basso significa che ognuno cerca di assumersi la sua responsabilità, prendendosi in carico una fetta di quel problema. Non
siamo un gruppo chiuso ma diffuso, cerchiamo di coordinarci, ma siamo cellule relativamente indipendenti.
Collaborate con aziende outdoor? Abbiamo ricevuto diverse proposte ma abbiamo sempre posto una condizione per collaborare con noi: non ci basta una donazione economica.
Che attivismo serve adesso? Persone che hanno voglia di sbattersi, di mobilitarsi, mettere in discussione il sistema in cui viviamo, del quale tutti facciamo parte. Basta con la paranoia che non possiamo criticare la società in cui viviamo, altrimenti non la cambiamo più. Non si può pensare che o una persona è totalmente sostenibile o non può dire nulla, che è poi quello che impone il sistema per non farti esprimere. Ci sta usare l’auto e gli impianti ogni tanto, prendere un aereo qualche volta: ci vuole chiaramente equilibrio e pensare a delle alternative, senza però farsi mettere i piedi in testa da chi dice che se non sei perfetto non puoi parlare. Certo è importante avere un senso di responsabilità personale, evitando di essere solo un “poser green” che riposta dei contenuti sui social. Piano piano i messaggi arrivano, anche se partono dal basso e in maniera più debole rispetto alle potenzialità di comunicazione del sistema.
Prossimi step? Spero che questa mobilitazione sia servita non solo a noi ma anche a tante altre realtà per capire che questo modo di agire è molto utile per lavorare su tematiche extraterritoriali, come può essere il discorso delle Olimpiadi di MilanoCortina 2026, che di certo affronteremo, o quello dell’emergenza idrica nelle valli. Bisogna muoversi a livello territoriale ma contestualmente avere una visione globale ed essere pronti a collaborare anche con altre realtà: credo che questo sia l’approccio fondamentale per l’attivismo dei prossimi anni. Non so se salveremo il Pianeta o il prato dietro casa, ma io sento la necessità di provarci e penso sia giusto percorrere questa strada.
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Family, Boulder & Life Scott Jurek
BY FILIPPO CAON PHOTOS DENIS PICCOLO
Una sera di fine febbraio, torno da una corsa e vedo un messaggio che dice: “C’è Scott qui, so che è un tuo idolo, se vuoi preparare delle domande oggi lo intervistiamo.” Non solo Denis è a Gran Canaria con Brooks per il Trail Meeting mentre io sono a Trento con 35 gradi, ma è anche in compagnia di Scott Jurek. Comunque, invio le domande e qualche giorno dopo ricevo un video da sbobinare: si vede Scott seduto su un sasso che risponde ad alcune delle mie domande, si proprio alle mie! È tutto molto divertente e un po’ surreale. Cristo, è Scott Jurek.
Cresciamo tutti con dei miti, e se è troppo tardi per crescerci invecchiamo. Per uno che corre le 100 miglia quel mito è Scott. Non penso che ci sia mai stato qualcuno di così grande, in questo sport, quanto lui. Si dice sia stato il più forte, ma non so dirlo: tutti i suoi record sono stati battuti e i tempi con cui vinceva le gare vent’anni fa oggi basterebbero a malapena per arrivare sul podio. Però è stato il più grande. Perché rappresenta tutto ciò che un ultrarunner dovrebbe essere: gentilezza, altruismo,
pazienza. Serve pazienza per aspettare al traguardo tutti i concorrenti dopo aver corso 160 chilometri. E poi perché nessuno vincerà mai più sette Western States di fila. Se non sapete chi è Scott Jurek andate a spulciare i blog, a leggere i suoi libri e ad ascoltare le sue interviste, magari partendo da questa.
Ciao Scott, come stanno Jenny e i bambini? Avrei voluto portarli qui a Gran Canaria, ma è ancora stagione invernale negli Stati Uniti. Io e la mia famiglia sciamo molto e passiamo tanto tempo in montagna. A questo punto della mia vita il mio focus è sulla famiglia ma anche sul trascorrere molto tempo fuori e fare attività outdoor. Avere una famiglia e gestirla è quasi un’ultramaratona.
Una delle cose per cui amo l’ultrarunning è la storia. Qualunque sport ha una storia, ma per la sua natura, nell’ultrarunning la storia è facile che diventi leggenda. Pensi mai al fatto di essere stato parte fondamentale di uno dei momenti probabil-
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Cresciamo tutti con dei miti, e se è troppo tardi per crescerci ci invecchiamo. Per uno che corre le 100 miglia quel mito è Scott. Non penso che ci sia mai stato qualcuno di così grande, in questo sport, quanto lui.
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mente più affascinanti di questo sport?
Pensi mai al fatto che certe storie su di te sono parte integrante della storia di questo sport? L’ultrarunning è stato la mia vita per trent’anni. E credo sia stato molto speciale viverne i momenti di cambiamento: quando sono arrivato era un ambiente piccolo, l’ho visto crescere e ho visto le direzioni che prendeva. Certo, mi mancano alcune cose di allora: era più semplice entrare alle gare, in generale ci sono cose di cui forse è più difficile vedere il cambiamento, ma in fondo il cuore dello sport è lo stesso, e ciò che lo rende speciale come la comunità o il fatto di raccogliere persone con percorsi tanto diversi a fare qualcosa di così challenging. È uno sport che mi ha insegnato tanto, e a mio modo continuo a imparare. Ma vedere sempre più persone là fuori è una cosa positiva.
Pensi che lo spirito dell’ultrarunning stia cambiando?Non penso che lo spirito dell’ultrarunning stia cambiando. È ancora vivo e sano, e il numero di persone che arriva agli eventi sta crescendo sempre di più. La famiglia si sta allargando ma lo spirito è lo stesso.
Daresti mai via un Cougar per un primo posto a Chamonix? Ahah, questa è una buona domanda. I Cougar e le mie vittorie a Western States sono tutti molto importanti per me. Ma se dovessi barattare una vittoria a Western States credo che potrei farlo per UTMB. È una di quelle gare che non ho mai vinto, e adesso ho accettato questa cosa, ma probabilmente aver vinto cinque o sei Western States invece che sette non sarebbe cambiato così tanto. Sarebbe bello aver vinto tutto ma non posso andare indietro nel tempo.
Il tuo libro preferito sulla corsa? Uhm, sono un grande fan di George Sheehan, e in particolare di un libro che non credo sia stato tradotto in italiano, si intitola Running & Being: The Total Experience, in cui si parla del modo profondo, spirituale e filosofico di leggere e interpretare la corsa. Se avete occasione leggetelo.
Il tuo film preferito sulla corsa? Un film che mi ha ispirato da bambino era la storia di Billy Mills, un atleta nativo americano che vinse un oro sui 10.000 piani alle Olimpiadi di Tokyo
nel 1964. C’è un film molto bello su di lui che si trova ancora in giro, intitolato The Billy Mills Story. È una storia molto affascinante.
Se potessi vincere un’altra gara, che gara sarebbe? Come ho detto prima, UTMB è una gara che mi manca e sarebbe stata la ciliegina sulla torta alla mia carriera.
Hai mai avuto tutte le unghie dei piedi nere contemporaneamente? No! Non so se sia merito di Brooks o del fatto che mi prendo cura dei miei piedi. Tre o quattro contemporaneamente sì, ma tutte insieme mai.
Nel tuo libro “Nord” scrivevi che prima del record sull’Appalachian Trail stavi passando un momento difficile: avevi smesso di gareggiare ma avresti voluto continuare a farlo, ti sentivi meno competitivo e stavi ridefinendo la tua nuova vita e la tua famiglia. Lo Scott di oggi cosa direbbe allo Scott di allora? Credo che lo Scott di oggi gli direbbe di godersi e salvare ogni momento. Avrei imparato tante cose lungo la strada, soprattutto nei momenti in cui la passione per lo sport sarebbe venuta meno: adattarsi a questi momenti e ricordarmi perché correvo. Ed è quello che mi avrebbe insegnato l’Appalachian Trail. Allora ero molto focalizzato sul vincere e sul gareggiare, ed è giusto avere quella motivazione, ma non è tutto.
È bello seguire te e Jenny su Instagram: vedere i bambini crescere e imparare a sciare. Com’è la vita a Boulder? Io e Denis ci siamo stati a novembre è veramente un bel posto. È molto divertente. Avere bambini è come una gara: hai alti e bassi e non è tutto facile. Abbiamo deciso di avere dei figli tardi, ma continuano a ricordarmi cos’è importante. Quando siamo in montagna mi accorgo che vedono le cose attraverso occhi diversi, e condividere le arrampicate, lo sci e il tempo passato in montagna è molto bello e mi aiuta a conoscerli. Su Instagram sembra tutto molto facile ma anche noi abbiamo i classici momenti del tipo: non voglio fare questo! non voglio sciare! non voglio scalare! Ma è bello scoprire cosa gli piace fare e cosa amano.
Grazie Scott, spero anche io incontrarti una volta o l’altra.
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Indian Summer Run
Correre per Esplorare
BY DAVIDE FIORASO PHOTOS MANUEL GATTO
Nel rigido inverno del 335, mentre usciva a cavallo da una delle porte di Amiens, Martino di Tours vide un mendicante sofferente, seminudo e infreddolito. Il soldato si impietosì, tagliò in due il suo mantello, la clamide bianca della guardia imperiale, e lo condivise con il povero. In quel preciso istante il cielo si schiarì, spuntò un sole caldo e la temperatura si fece più mite. Da allora, l'11 novembre, data della sua sepoltura, leggenda vuole che la morsa del freddo si interrompa per 3 giorni a commemorare il nobile gesto. Si tratta della cosiddetta Estate di San Martino, uno specifico periodo dell’anno caratterizzato dal sistematico ritorno dell’anticiclone. E sebbene questa fase di alta pressione abbia una sua spiegazione scientifica, preferiamo rincorrerne la visione mistica e spirituale che la accompagna.
Nel corso dei secoli questa data è diventata occasione di festa in tutto l'occidente, simbolicamente associata alla terra e i suoi frutti, dove si fa onore al vino nuovo, al buon cibo e all’abbondanza della campagna. Nei paesi anglosassoni è conosciuta come Indian Summer, l’estate indiana.
È in questo contesto figurativo e metaforico che nel 2020 abbiamo inconsapevolmente dato vita a quella che sarebbe diventata “un’emblematica cavalcata che unisce Valdobbiadene a Revine, lungo un filo di cresta che corre per 45km tra la Pianura Veneta e la Valbelluna.” Un’indigestione di Prealpi, nel momento di massimo splendore, un’avventura tra luoghi che, per alcuni, rappresentano ancora l’ignoto. Qui non si vince niente, qui non si deve dimostrare niente. Qui è dove la corsa in natura ritrova la sua espressione più pura, l’autogestione, il senso di comunità. Un antico mezzo a servizio dell’esplorazione.
Per questo abbiamo deciso di darci nuovamente appuntamento in quella terra di mezzo dove nessuno verrebbe mai a cercarci, in quello spartiacque che separa le Dolomiti dalla grande pianura produttiva del nord est. Di offrire a tutti un modo per riscoprire sé stessi, combattere contro la propria quotidianità. Perché noi siamo così. Abbiamo bisogno di comportarci come un elastico, allontanarci dalla minaccia di uniformità, fuggire dal comfort e dalla consuetudine, sentire il brivido di esporci in quel gioco costante che mira a ingannare la mente per superare la fatica. E solo allora, sazi ed appagati, ricongiungerci al mondo reale. Ma per fare questo ognuno deve scendere, almeno una volta, nel proprio inferno. Calarsi dove la natura diventa travolgente, i sentieri diventano palcoscenico, dove il buio sprigiona i sogni e l’alba, come la pace, è silente e quieta.
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“Facciamo tutto questo per riaccendere l'entusiasmo di qualcosa di primordiale, che nasce nel profondo delle nostre pance.” Per un egoistico bisogno, quello di sentirci umani, di andare oltre la moltitudine di ruoli e responsabilità che la società ha posto su di noi, sotto i biglietti da visita con il nome dell'azienda, o le etichette di padre, marito e figlio. Per ritrovare il vero essere nel suo livello più puro. Come lupi ci inchiniamo alle leggi del branco, ma quando non c’è più posto abbracciamo la vita solitaria in cerca di nuovi spazi. Ecco, questo è quello che siamo, un complesso di istinti che non riusciamo a dominare completamente. Su di essi si sono concentrate le angosce di un mondo in transizione. Abbiamo condannato il lupo per quello che abbiamo deliberatamente ed erroneamente percepito che fosse: in realtà, l’immagine riflessa di noi stessi. Come l’animale, abbiamo imparato a governare le funzioni principali del nostro ciclo vitale, adattandoci ad ambienti, climi, altitudini; abbiamo imparato a ottimizzare le energie e difendere uno specifico territorio. Per cosa? Non certo per la sopravvivenza, ma per eludere uno stile di vita sempre più dipendente da supporti tecnologici che mediano il rapporto con la realtà e fanno perdere il contatto con il selvatico. Ed ecco che il lupo diventa l’incarnazione di cambiamenti sociali ed economici traumatici, come l’abbandono della campagna o delle montagne di mezzo.
Sì, proprio quella montagna di mezzo che a noi sta cuore, le Prealpi Trevigiane. “Luoghi apparentemente perdenti che oggi sono tornati al centro di movimenti di resistenza, come il nostro.” Resistenza a modelli dominanti di standardizzazione e intensificazione, sul disegno di modernità portato a compimento durante il novecento, ma che hanno decretato la crisi della montagna contemporanea (o le sue effimere fortune). Abbandono e marginalità diffusi da una parte, divertimento turistico dall'altra, hanno scavato profondi divari territoriali che molto spesso richiedono di essere ripensati.
Oggi Indian Summer Run traccia i contorni di una nuova idea di territorio, diversa da quella tuttora dominante nei media e nell’opinione pubblica. Si propone di dare vita e valore a quei luoghi interposti tra vette celebrate e fondivalle congestionati, a due passi dalle tanto blasonate Colline del Prosecco, Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un riconoscimento di dominio diffuso, un'etichetta promozionale di dubbia utilità, più che uno strumento di politica culturale, che nelle vicine Dolomiti non ha saputo rispondere alle esigenze di tutela dei territori interessati e nemmeno a quelle dello sviluppo realmente sostenibile.
“Le montagne di mezzo non sono solo una realtà altimetrica, bensì luoghi che tengono insieme passato e futuro, rilanciando un’idea ricreativa che concilia nuovi modi di vivere e rispettare la montagna.” Un luogo di mediazione in termini di mobilità e spostamenti. Un immaginario che vede la natura come elemento esclusivamente positivo, a maggior ragione se incontaminata; concetto chiave che presuppone che l’uomo sia sempre e soltanto agente contaminante. Indian Summer Run nasce qui dentro, da un’esperienza personale, e si apre con il desiderio di condividere la passione per la corsa e per l’esplorazione delle terre alte a margine dei flussi turistici, alla ricerca di nuovi spazi vitali. A volte anche un pretesto, per raccontare le Prealpi attraverso i suoi tratti identitari. Correre in un ambiente nuovo, scoprire luoghi e sentieri sconosciuti, assumerne i suoni, gli odori, i panorami è un piacere speciale che traccia ricordi indelebili.
Come spin off del progetto Lost in Prealps, siamo animali sociali alla ricerca di un branco, che tuteli ogni suo membro, in una sorta di nucleo dove ognuno assume dignità proprio perché vi appartiene. Inquadrati in una strategia improntata all’autoconservazione. Indian Summer Run mette tutti sullo stesso livello, ognuno parte di una grande famiglia che usa la forma più semplice ed elementare di movimento in montagna come pretesto per evadere, stare in compagnia, divertirsi e vivere l’aria aperta. Riaccendere l’istinto all’esplorazione e alla contemplazione riscoprendo il significato del termine “paesaggio”. Questo è ciò che vogliamo, conducendo la nostra piccola rivoluzione con lentezza.
Come lupi ci inchiniamo alle leggi del branco, ma quando non c’è più posto abbracciamo la vita solitaria in cerca di nuovi spazi. Ecco, questo è quello che siamo, un complesso di istinti che non riusciamo a dominare completamente. Su di essi si sono concentrate le angosce di un mondo in transizione. Abbiamo condannato il lupo per quello che abbiamo deliberatamente ed erroneamente percepito che fosse: in realtà, l’immagine riflessa di noi stessi.
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Guiding Light Krystle Wright
ILARIA CHIAVACCI PHOTOS KRYSTLE WRIGHT
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Capita a volte che chi ha avuto una vita densa e sia stato in contatto spesso e volentieri con situazioni estreme sviluppi una sorta di saggezza ancestrale, una calma interiore che consente di vedere le cose con lucidità e distacco, che apre la mente alla creatività e predispone l’animo per realizzarla. Krystle Wright è una di queste persone: a neanche quarant'anni ha già vissuto molte vite e oggi raccoglie i frutti di tutta questa densità, dando vita a progetti artistici che uniscono visione e sport, amicizia e natura, come quello che l’ha portata in Utah insieme all'amica e climber Angela Van Wie Meersch per illuminare dall’interno la fessura della Seventh Serpent, un 5,11+ che squarcia la roccia in maniera piuttosto suggestiva. I colpi di genio migliori, a pensarci bene, a volte sono anche i più semplici: illuminare la roccia da dentro, appunto, segnare con la luce una via in modo che al buio emerga la sua forma. Un’idea talmente limpida da essere perfetta che è venuta alla fotografa australiana dall’incredibile vita e dall’inesauribile creatività. Krystle sta nel Queensland, a un’ora di distanza da Brisbane, ci incastriamo con il fuso, lei ha nove ore in più sulle spalle quando parliamo su Zoom: qui la giornata è appena cominciata mentre la sua sta per finire. Krystle ha un impulso fortissimo al nomadismo, ma dalla pandemia in poi ha dovuto radicarsi, scegliersi una casa e un luogo più o meno fissi fissi. “Negli ultimi dieci anni ho girato il mondo dormendo sui divani dei miei amici, cercando ogni sorta di avventura che mi ispirasse. Poi è arrivata la pandemia e adesso ho una casa, il che
non è male, perché spesso è nei momenti di vuoto e di noia che ti vengono le idee migliori.” Di tempo per annoiarsi Krystle ne ha sempre avuto poco perché prima era inviata come fotografa a coprire tutti i maggiori eventi sportivi, dalle Olimpiadi alle coppe del mondo fino alle competizioni più bizzarre ed estreme. “Dopo quattro anni come fotografa sportiva per i quotidiani ero estremamente stanca che ho realizzato che non faceva per me.”
Cos’è che ti ha fatto cambiare idea? Quanto ero libera dal lavoro organizzavo sempre spedizioni e avventure per conto mio ed esploravo diversi sport. La mia prima grande spedizione che si possa definire tale è stata sull’Isola di Baffin, a metà strada tra il Canada e la Groenlandia, è stato il primo turning point perché, dal momento che ho fatto quell’esperienza, ho immediatamente capito che quella era la mia strada. Vivevo ancora a Sydney all’epoca e lavoravo come fotografa per i quotidiani per riuscire a mantenermi: ricordo questo momento in cui io ero seduta in macchina di fronte al palazzo della redazione e non riuscivo ad entrare perché stando seduta lì realizzavo sempre più quanto odiassi quel lavoro. Avevo già deciso di lasciare il lavoro, ma dovevo portare a termine un ultimo incarico: una spedizione di paracadutismo in Pakistan. Ero molto focalizzata sul lavoro, perché era la mia grande opportunità con National Geographic, poi un giorno abbiamo mancato la giusta finestra per il take off e mi sono ritrovata a precipitare. È stato tostissimo, ma a volte le cose peggiori che ci capitano sono i migliori spartiacque della vita.
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Una fotografa dal passato extreme ha realizzato un progetto visivo incredibile dove luce e arrampicata si fondono: ecco le Seventh Serpent come non l’avete mai vista.
Quando sono tornata ho definitivamente realizzato quanto odiassi il mio lavoro e così l’ho lasciato immediatamente, ero in una relazione tossica, e con un po’ più di tempo sono uscita anche da quella, vivevo a Sydney ma io non sono una persona che ama vivere in città, e così me ne sono andata.
Ora sei di nuovo in qualche modo radicata però… Vivere costantemente on the road può essere estremamente romantico, ma quello che la maggior parte della gente non coglie è che comporta un enorme sacrificio in termini di privacy, perché sei sempre nello spazio di qualcun’altro. Iniziavo a sentire il bisogno di uno spazio tutto mio quando la pandemia mi ha costretto a crearmelo. Nel fare questo ho realizzato che la cosa migliore dell’essere radicati è l’avere il tempo di annoiarsi, che è una grandissima cosa perché è quello che ti dà la spinta a sognare. Prima con tutti i viaggi e tutte le persone dalle quali ero costantemente circondata avevo smesso di sognare, perché la mia mente era continuamente stimolata. Qui invece è successo che ho ricominciato a farmi venire delle idee e, un giorno, mentre guidavo per andare nello spot dove abitualmente arrampico, ho avuto l’idea di provare a vedere cosa sarebbe venuto fuori dall’illuminare una via con l’illuminazione artificiale. Il mio lavoro si muove infatti lungo due direzioni distinte: da una parte documento quello che succede senza una regia preventiva, mi piace essere lì, vivere il momento e raccontarlo, ma dall’altro mi piace fantasticare su concept creativi in cui coinvolgere atleti che abbiano una determinata visione.
E così hai deciso di illuminare la Seventh Serpent in Utah… Lo scorso anno ho avuto l’opportunità di andare in Utah con la mia amica Angela Van Wie Meersch, ci pensavo da un po’ e lì ho trovato la fessura perfetta da illuminare. Origi
nariamente l’idea era quella di scattare in una notte di luna piena in modo da avere più luminosità in generale, ma in queste situazioni non importa quale design perfetto tu abbia orchestrato nella tua mente, la natura ti può sempre giocare qualche scherzo lungo il percorso e tu ti devi adattare. Anche lo scouting della fessura non è stato immediato, ma quando ci siamo trovate davanti la Seventh Serpent abbiamo capito che era quella perché ne cercavamo una che avesse una bella forma, che non fosse tutta dritta, ma neanche che si interrompesse, quindi non è stato facile e quando l’abbiamo vista era lei.
Operativamente non deve essere stato semplice né allestire il set e né scattare… Per niente: Angela è salita per prima e, una volta in cima, io ho seguito i suoi passi per inserire le luci lungo la fessura. Cosa che non è stata semplice perché ho dovuto fissarle bene con del nastro: l’ultima cosa che volevo era che a un certo punto ne cadesse una. Questa operazione però è durata due giorni perché eravamo lì in un periodo in cui le temperature erano estremamente alte e non potevamo arrampicare durante il giorno, ma dovevamo aspettare che il sole calasse nel tardo pomeriggio. Nel frattempo però abbiamo fatto degli esperimenti, ad esempio il primo giorno, dopo aver sistemato il set, abbiamo fatto dei close up e il giorno dopo io sono scesa e risalita dal canyon opposto per scattare da una diversa prospettiva.
Cosa ha significato per te questo progetto? La cosa più bella che ho potuto sperimentare è che le persone hanno ri
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Ho realizzato che la cosa migliore dell’essere radicati è l’avere il tempo di annoiarsi, che è una grandissima cosa perché è quello che ti dà la spinta a sognare.
conosciuto che fosse un’idea unica: questo è un bel feeling da avere. Ho costruito la mia carriera sul seguire le mie passioni e progetti legati a quelle e successi come questo mi fanno capire quanto sia sulla strada giusta. Non potrai mai sapere cosa gli altri vogliono davvero, quindi non ha senso creare progetti sulla base di quello che potrebbe piacere a qualcuno: se invece trasmetti quello in cui credi le persone si connetteranno spontaneamente con quel lavoro, perché vedranno quello che vedi tu e ti riconosceranno l’ambizione che ti ha portato a realizzarlo. In fin dei conti non si tratta neanche di fare soldi, perché non sto andando neanche vicina a recuperare quello che ho investito, ma non è questo il punto. Quello che volevo era realizzare una visione che ho avuto, soddisfare quella curiosità: ora so che tornerò per scattare delle variazioni di quell’idea e posso dire a me stessa “Brava, hai avuto una bella idea!”
Quanto conta in questo tipo di progetti il rapporto con l’atleta? La maggior parte del tempo lavoro con atleti e capita spesso che diventino amici molto stretti, alcuni di quelli con cui ho lavorato più a stretto contatto adesso sono una specie di famiglia allargata per me. Conosco Angela da veramente molto tempo, anche se non avevamo lavorato insieme ma, quando le ho parlato del progetto, da subito è stata coinvolta al 100%. C’è un gruppo ristretto di atleti che contatto quando si tratta di progetti come questo, perché richiede una notevole pazienza da parte loro: non si tratta solo di arrivare, arrampicare e andarsene, ma al contrario è un progetto che impiega più giorni, in cui ci si deve ingegnare per risolvere i problemi e capire come le cose possono funzionare. Credo che Angela fosse contenta anche solo di partecipare a qualcosa di estremamente creativo
Cosa vedi nel tuo futuro come fotografa? Non vorrei sembrare troppo nostalgica, ma io non sono cresciuta circondata dai social media e ho passato mattinate e mattinate a non fare niente, solo a stare sdraiata con il mio gatto al sole: mi mancano quei momenti. La nostra società ti porta sempre a guardare a quello che c’è dopo e a non considerare i momenti di stanca, non tenendo di conto il fatto che non è possibile per ognuno di noi dare sempre tutto al 100% ogni giorno, ogni ora. Abbiamo bisogno dei momenti di down e accettare i momenti in cui siamo annoiati, perché è salutare: sono quei momenti ad essere preziosi per alimentare i sogni e la creatività. Credo che quello che veramente voglio per la mia carriera è di continuare a coltivare delle idee, perché mi dà un’incredibile soddisfazione come artista, ma non sento la pressione di doverlo fare costantemente. Proverò, ne sceglierò un paio tra quelle che ho avuto e proverò a farle al meglio delle mie possibilità e probabilmente fallirò qui e là, che è una cosa comunque da accettare, ma questo è quello che un’artista fa: provare e poi provare ancora.
In fin dei conti non si tratta neanche di fare soldi, perché non sto andando neanche vicina a recuperare quello che ho investito, ma non è questo il punto. Quello che volevo era realizzare una visione che ho avuto, soddisfare quella curiosità: ora so che tornerò per scattare delle variazioni di quell’idea e posso dire a me stessa “Brava, hai avuto una bella idea!”
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Marco & Roby, Io, Tevere
BY ILARIA CHIAVACCI
PHOTOS DANIELE CUOGHI
e Roby D’Amico?
Un documentarista col pallino per gli squali, uno dei surfisti italiani più forti, 406 chilometri, 12 giorni, un van e due sup, decine di ore di girato, molti rifiuti raccolti e una vomitata: il viaggio di Marco Spinelli e Roberto D’amico (che d’ora in poi nel testo sarà Roby, come poi tutti in definitiva lo chiamano) dalla foce del Tevere a Roma ha dato origine a un documentario che provoca risate, rabbia e commozione che si alternano incessantemente durante tutti e 34 i minuti di proiezione. “Io, Tevere – Le radici del mare” è un cortometraggio prodotto da FACE e finanziato dalla compartecipazione di Flowe, Breitling e Cotopaxi e fa parte del “Progetto Tevere”, un’iniziativa nata con l’obiettivo di portareall’interno delle scuole eventi e workshop per la promozione della cultura ambientalista. Marco e Roby in comune hanno un amore profondissimo e un legame ancestrale con il mare ed è probabilmente questo che li ha portati ad unirsi, ad eleggersi a compagni di viaggio prima ancora di conoscersi realmente bene e a imbarcarsi per un’avventura tanto densa quanto faticosa. Entrambi nelle loro vita ad alta intensità di frequentazione del mare si imbattono quotidianamente in una quantità incredibile di rifiuti: Marco è un documentarista subacqueo tra i suoi lavori “Missione Euridice”, un documentario disponibile su Amazon Video dove racconta come ha liberato, insieme a suo fratello Andrea, una delle secche più importanti della Sicilia da una tonnellata di reti fantasma mentre Roby, oltre ad essere
un surfista fortissimo e passare il 90 per cento del suo tempo tra le onde, è il fondatore del movimento Roby Cleanup, con cui periodicamente ripulisce spiagge e non solo dai rifiuti insieme ai volontari che si vogliono unire a lui. “Chiunque viva il mare ha ben presente che problema siano i rifiuti e quale sia la loro origine” introduce il discorso Roby. “Per questo si chiama Le radici del mare."
Marco: Ci siamo immaginati i fiumi proprio come se fossero le radici che portano al mare: e, a ben pensarci, anche da un punto di vista visivo i fiumi sono le radici. Solo chi vive certe realtà tocca veramente con mano i danni dell’inquinamento. Roby ci è a stretto contatto in superficie, io sott’acqua. Quello che accade in mare però spesso origina in città: come fa una confezione di polistirolo che viene utilizzata nelle piantagioni o un pallone da calcio a finire nel fiume? Bisogna agire sulla consapevolezza e su come il fiume venga gestito al di fuori. Se tutti agissimo in modo più sensato ci sarebbero la metà dei problemi, però a volte le persone si comportano in modo sbagliato semplicemente perché non sono state educate sulle conseguenze di quelle azioni.
Roby: La messa a terra più importante del progetto è infatti stata quella di portare la nostra esperienza nelle scuole: abbiamo fatto un primo round in cui abbiamo raccontato il nostro viaggio, ma senza far vedere il documentario, che non era ancora ultimato, e ora partiremo per un secondo tour durante il quale ci sarà la proiezione. Siamo sicuri che parlare a 2000 - 3000 alunni possa veramente dare un grosso contributo a cambiare le cose.
Roby, oltre ad essere un surfista fortissimo e passare il 90 per cento del suo tempo tra le onde, è il fondatore del movimento Roby Cleanup, con cui periodicamente ripulisce spiagge e non solo dai rifiuti insieme ai volontari che si vogliono unire a lui. “Chiunque viva il mare ha ben presente che problema siano i rifiuti e quale sia la loro origine” introduce il discorso Roby. “Per questo si chiama Le radici del mare.”
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Io, Tevere - Le radici del mare è un documentario dolce e amaro, che racconta tanto la bellezza di questo mitico fiume, che le terribili condizioni di degrado in cui versa, soprattutto a partire dal suo ingresso a Roma. Pronti a partire in van con Marco Spinelli
In una scena di “Io, Tevere” Roby nel raccogliere una bici gettata nel fiume viene colpito da un odore fortissimo, si accascia sul sup e inizia a vomitare.
Marco filma di lavoro, ma neanche per Roby il mondo delle produzioni è nuovo e di corti legati al surf ne ha girati.
R: In qualsiasi cosa che fai, quando c’è di mezzo lo sport, nasce sempre un po’ di invidia, di competizione, vuoi sempre che la tua parte sia la migliore, quella con la performance più bella. Invece in questo progetto ci è venuto spontaneo tirare fuori il meglio l’uno dell’altro. Siamo stati forti nel far funzionare situazioni anche non semplici da gestire.
A guardarli nel documentario in effetti sembra che siano amici da una vita.
M: Non avevamo alle spalle una grande produzione, con esperienza pluriennale, quindi la cosa bella è che ci siamo aiutati tutti molto l’uno con l’altro. L’ultimo giorno ad Ostia eravamo tutti distrutti, in più, girare lì all’idroscalo non è affatto semplice: di fronte c’è una baraccopoli ed è una situazione in cui arrivare con le camere non è il massimo. Gli operatori erano un po’ titubanti, ma alla fine abbiamo fatto gruppo e abbiamo portato a casa la scena.
R: Passare da Ostia era importante però anche nell’ambito del documentario stesso, lì c’è una situazione di degrado molto accentuata, con la discarica a pochi metri dalla baraccopoli: volevamo porre l’accento proprio su questo, su come queste persone siano costrette a vivere.
Nel documentario Roby e Marco riflettono sul fatto che le persone si sentono ospiti della natura, e non parte di un tutto: man mano che si allontanano dalla foce per andare verso la città è lampante la differenza di comportamento tra le persone che hanno incontrato lungo il percorso. Le comunità che vivono più immerse nella natura, sono quelle più inte
grate con essa, che la tutelano di più, mentre più i due protagonisti si avvicinavano a Roma e più questo aspetto si perdeva, fino all’ingresso in città, accompagnato dalla maestosità della capitale, ma anche da una quantità di rifiuti incredibile.
M: In città il fiume è sotto gli occhi di tutti, ma è come se le persone non lo vedessero veramente. Anche noi, della reale quantità di immondizia, ce ne siamo resi conto solo navigando il fiume. Non è una situazione normale e dall’alto si percepisce appena, ma è da dentro, dalla prospettiva del Tevere, che fa paura.
R: Non ci capacitiamo di come una cosa simile sia sotto gli occhi di tutti e nessuno faccia niente. E non stiamo parlando della bottiglietta di plastica, ma di materassi, biciclette e di ogni genere di rifiuto.
*Consiglio di saltare questa parte se siete delicati di stomaco o se state leggendo The Pill davanti a una bella colazione*
In una scena di “Io, Tevere” Roby nel raccogliere una bici gettata nel fiume viene colpito da un odore fortissimo, si accascia sul sup e inizia a vomitare.
R: Nel documentario poi è relativamente breve, perché la scena è stata tagliata, nella realtà andava avanti. Io non volevo metterla, Marco poi diciamo che l’ha inserita a tradimento.
M: Pensa che a Face, che ha prodotto il documentario, e ai finanziatori, avevo promesso che l’avrei accorciata ulteriormente, non l’ho mai fatto. Se documentario dev’essere, uno che recupera una bicicletta dal fiume e inizia a vomitare è abbastanza esaustiva rispetto alla situazione.
R: Se dici Tevere la prima cosa che generalmente viene in mente è lo schifo, un fiume pieno di rifiuti, che puzza, il viaggio invece si è trasformato in una scoper-
ta di tante realtà bellissime, sia dal punto di vista paesaggistico, che delle comunità che popolano le sponde del fiume e che non hanno quella risonanza che dovrebbero avere. È una costa lunga 400 chilometri che potrebbe essere sfruttata di più, in certi punti potrebbe tornare ad essere balneabile. Il nostro obiettivo era sì sensibilizzare su quello che di brutto stiamo facendo al Tevere, ma anche mostrare alle persone quanto questo corso d’acqua sia bello.
M: Lungo il percorso siamo anche entrati in contatto con dinamiche nascoste e gravissime, come paesi che scaricano nel fiume illegalmente senza depurazione. Però abbiamo anche avuto l’opportunità di conoscere realtà bellissime, oasi e associazioni, come Tevere Explora a Torrita Tiberina, che è un luogo pazzesco dove la volontà è quella di coinvolgere i ragazzi grazie all’organizzazione di attività a contatto con l’acqua. Il tema è infatti anche quello che se le persone smettono di vivere il fiume, poi se ne disaffezionano e, conseguentemente, disinteressano. L’inquinamento sicuramente è un problema, ma manca una narrazione volta a valorizzare gli aspetti positivi e le bellezze del Tevere.
Roby e Marco sono accompagnati, durante tutto il viaggio, da un’epica voce narrante, che guida gli spettatori attraverso le anse del fiume, ma anche attraverso le sue sofferenze.
M: Dare la voce al fiume è stata la scelta migliore perché il voice over, il fiume che parla, sta un po’ a significare la nostra volontà di dare voce alla natura, che non sentiamo mai. Volevamo rappresentare questa dicotomia tra il fiume, anziano e incazzato con i ragazzi, e loro che invece si adoperano per dargli una mano e alla fine si guadagnano il suo affetto. Il documentario si chiude infatti con la richiesta del Tevere “Amici miei, fate qualcosa”.
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*Consiglio di saltare questa parte se siete delicati di stomaco o se state leggendo The Pill davanti a una bella colazione*
Heinz Mariacher The Innovator
BY TRISTAN HOBSON
Heinz Mariacher siede al tavolo della cucina di casa, sul Passo di Carezza in Alto Adige. La neve piovigginosa di un temporale di inizio autunno ricopre le Dolomiti, impedendo al 66enne di andare ad arrampicare su una falesia isolata in una valle alpina a 20 minuti da casa. L'area ospita alcune delle migliori vie sportive d'Italia, ma è rimasta fuori dai media dell'arrampicata, proprio come preferisce Mariacher. "L'arrampicata ha sempre riguardato il divertimento e le sfide personali” dice, "non la fama o l’avere un alto profilo.” In questa valle tranquilla, Mariacher possiede un terreno dove ha restaurato una vecchia capanna di contadini per avere una base dove rilassarsi, andare ad arrampicare, testare nuovi modelli di scarpe e pensare a nuove vie, lontano, ironia della sorte, dalle masse attratte dallo stesso sport che ha contribuito ad elevare.
Appena fuori dalla finestra, le nuvole trasformano il mare di rosse cime dolomitiche in un grigiore tetro che si allarga a est verso la Marmolada e il Sass dla Crus, montagne dove Mariacher ha contribuito a plasmare l'arrampicata in solitaria, a partire dagli anni '70. A un'ora di macchina nella direzione opposta si trova Arco, dove la sua passione per i movimenti fluidi su roccia hanno contribuito ad accendere la miccia dell'arrampicata sportiva nei primi anni ’80.
Mentre chiacchieriamo davanti a un espresso, Mariacher scompare al piano di sopra, tornando con una scarpa
da ginnasta nera senza lacci."Questa slipper è del 1970" racconta. “L'ho trovata in un negozio a Innsbruck e me ne sono subito innamorato!" Quando ha iniziato a progettare scarpette da arrampicata per il brand italiano La Sportiva, nel 1982, non vedeva l'ora di creare un modello basato su questa scarpa, anche se il suo primo incarico è stato quello di progettare uno scarpone rigido e alto. Dopo l'uscita delle Mariacher (il modello alto appena citato) nel 1982, ha continuato a creare alcune delle scarpe più iconiche di questo sport, tra cui molte per SCARPA, l’azienda dove oggi lavora.
Lo slancio gioioso con cui Mariacher spiega il suo amore per questa scarpetta e per questo sport bilancia la meticolosità della sua mente ordinata. Una personalità generalmente riservata che è spesso vista come ostinata, specialmente sui social media o sul web, dove difficilmente contiene le sue opinioni riguardo agli scalatori moderni che, a suo dire, sono oggi troppo ossessionati dall'immagine e dalla presenza sui media rispetto ai tempi passati "di totale libertà incondizionata perché a nessuno fregava un cavolo dell'arrampicata."
Pochi giorni più tardi, dopo che il tempo si è schiarito, vedo questa sua etica in prima persona nella sua falesia segreta, un luogo che lui e la moglie sono felici di condividere con gli amici ma che hanno chiesto a giornalisti e autori di guide di tralasciare, nella speranza di proteggere il loro tran
quillo santuario. Qui, su questa rupe calcarea nelle Dolomiti, i cervi vagano ancora e i fiori di campo fiancheggiano la roccia.
Data la sua resistenza al cambiamento, potrebbe essere facile dipingere Mariacher come un vecchio hippie, uno di quegli abitanti avvizziti dei luoghi che hanno scalato duramente per tutta una vita e un pozzo senza fondo di opinioni senza mezzi termini. Ma lui è un personaggio molto più complesso e stravagante, uno che abbraccia anche la tecnologia, il lusso moderno e le nuove idee, specialmente quando alimentano il suo desiderio di divertimento e di gioco. E mentre i suoi modi calmi, tranquilli e sempre dritti al punto potrebbero farlo sembrare chiuso, è invece una persona desiderosa di ascoltare, ridere e condividere una storia con tutti coloro che hanno una visione simile, lontana dall’autopromozione personale.
Nato a Wörgl, Austria, nel 1955, Mariacher ha iniziato ad arrampicare quando gli scarponi da alpinismo con la suola rigida erano la norma. Da bambino, lui e suo fratello Rudi, di 12 anni più grande, sono stati cresciuti in modo tradizionale, testa bassa e lavorare sodo. Ma, come ricorda "Da bambino avevo totale libertà. Dopo la scuola, prendevo la mia bicicletta e andavo a perdermi nei boschi, o esploravo i canyon partendo dal letto del fiume fino a raggiungere la cima, scomparendo fino a tarda sera." Quando Heinz aveva 16 anni, l'arrampicata
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Da ben quattro decenni Heinz Mariacher progetta e disegna scarpette da arrampicata. Scalatore all'avanguardia degli anni '70 e '80, ha da sempre utilizzato sia la sua esperienza che il suo occhio da artista per sviluppare quelle calzature che sono oggi veri e propri strumenti di precisione.
Data la sua resistenza al cambiamento, potrebbe essere facile dipingere Mariacher come un vecchio hippie, uno di quegli abitanti avvizziti dei luoghi che hanno scalato duramente per tutta una vita e un pozzo senza fondo di opinioni senza mezzi termini. Ma lui è un personaggio molto più complesso e stravagante, uno che abbraccia anche la tecnologia, il lusso moderno e le nuove idee, specialmente quando alimentano il suo desiderio di divertimento e di gioco.
era diventata un obiettivo significativo e, inutilmente, cercò di trovare partner attraverso il club alpino austriaco. Ma la mentalità tradizionale dell'arrampicata fatta di scarponi pesanti e scale di aiuto non si adattava allo stile libero del giovane. Decise quindi di continuare a esplorare l'arrampicata in solitaria o con partner occasionali. All'età di 17 anni, Mariacher aveva salito in solitaria le vie più impegnative del Kaisergebirge, le sue montagne di casa.
Un anno dopo, iniziò ad adattare questo suo spirito volto a muoversi il più velocemente e liberamente possibile alle intricate pareti delle Dolomiti. Nel 1974, all’età di 18, Mariacher concatenò Cassin (VII 500 metri) e Comici (VII 500 metri) sulle Tre Cime di Lavaredo in meno di quattro ore. Scalò in solitaria Lacedelli (VI+ 500 metri) sulla Cima Scotoni, autoassicurandosi sul primo tiro, e poi salì in solo Vinatzer (VI+ 800 metri) sulla Marmolada, nel 1975 a 19 anni, utilizzando una corda solo sul sesto tiro per l'autoassicurazione fissando un anello di corda attraverso due chiodi.
“Per me, l'arrampicata ha sempre significato muoversi leggeri e veloci e godersi l'esperienza fisica, non solo conquistare una parete o una montagna a tutti i costi" dice Mariacher. Il suo approccio basato sul concetto di less is more ha segnato un'importante rottura rispetto alla tradizione dell'arrampicata dolomitica e ha scosso la scena fino alle sue radici. Il suo amico Hoette trova l'etica di Mariacher particolarmente notevole dato la famigerata roccia della catena montuosa. "La
roccia è completamente fragile, una presa potrebbe rompersi in mano in qualsiasi momento" racconta Hoette. "Onestamente, è una fortuna che non sia morto in quei primi anni in cui praticava free solo. Non stava ad ispezionare le vie o a leggere guide, si limitava a camminare fino al muro e iniziare a scalare."
Poco più che ventenne, abbandonando il suo lavoro di geometra, Mariacher andò a vivere nella sua auto e si trasferì nelle Dolomiti. Il suo stile di arrampicata e il suo modo di vivere erano un affronto per la comunità locale, i suoi ritardi e il suo approccio casuale ne scossero le fondamenta. Mariacher indossava abiti fatti in casa dai colori vivaci, cappelli piumati e occhiali alla John Lennon. "Una ribellione nei confronti della tradizione che prevedeva solo del noioso marrone e grigio indossato in montagna a quei tempi" racconta. Nonostante l’animo, tuttavia, anche lui aveva delle regole rigide: niente spit, niente soste o tiri con attrezzatura da risalita (un passo avanti rispetto ai suoi inizi), e solo arrampicata dal basso, anche se significava rinunciare a tornare un altro giorno, il tutto radicato nel profondo desiderio di “testare i miei limiti, non i limiti dell’attrezzatura."
Seguendo questa etica, Mariacher ha aperto numerose vie nelle Dolomiti negli anni '70 e '80. A causa della mancanza di spit, attrezzatura e passaggi chiave, queste vie sono difficili da tradurre nel moderno sistema di gradazione dei passaggi tecnici di oggi, ma molte hanno resistito alla prova del tempo come capolavori. Mariacher è legato
soprattutto alla Marmolada e alla sua parete sud di 900 metri, dove ha aperto 12 nuove vie tra il 1977 e il 1982. La sua collezione qui vede vie ancora oggi raramente ripetute come Abrakadabra, il primo VII in parete nel 1981, e Tempi Moderni (VII+ 900 metri), un capolavoro che come spiega lui è "una via che vedevo come l'ultima speranza per l'idea classica dell'arrampicata libera, in cui una via veniva aperta dal basso senza preispezione, tutta l'attrezzatura utilizzata in lead, e sebbene i chiodi potessero essere usati per proteggere un movimento difficile appendersi ad essi non era accettabile." Un’impresa condivisa nel 1982 con Luisa Iovane, che conobbe scalando nel 1978 al Passo Sella. Iovane, a suo modo, era un'ottima alpinista e divenne una delle migliori arrampicatrici sportive dei tempi, con 8 titoli come campionessa italiana, diversi podi internazionali e un secondo posto nella Coppa del Mondo 1989 dietro a Lynn Hill.
"Avevo 17 anni" ricorda Iovane. "Avevo già avuto partner eccezionali, ma lui era di gran lunga il migliore e il più veloce. E non gli dispiaceva che mi arrampicassi con le scarpe con la suola liscia e senza casco, perché lo faceva anche lui. Potrei tranquillamente riempire pagine e pagine del mio diario di arrampicata con le nostre salite. Dopo la prima estate, però, dovetti anche accettare il fatto che a volte capitava di sprecare una giornata di tempo perfetto con un tentativo fallito su una nuova via, solo a causa della sua rigida etica." Racconta riferendosi ad una volta in cui i due lasciarono una via, costretti a tornare un altro giorno, quando un movimento o una sequenza non potevano essere sbloccati in libera, o senza spit.
Tuttavia nel 1980, dopo un viaggio in Yosemite con Iovane per scalare Half Dome, the Nose, e Salathé Wall, Mariacher riconsiderò l’uso degli spit. Racconta: "In Yosemite, ho visto per la prima volta l'arrampicata come uno sport in un modo completamente nuovo. Sono tornato sulle Dolomiti
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e ho scalato di nuovo Abrakadabra e Tempi Moderni. Dopodiché, ho deciso di dedicarmi all'arrampicata sportiva, perché mi era chiaro che questa era la chiave per arrampicare più duramente in montagna, quindi sono andato ad Arco e ho iniziato a sviluppare nuove vie.”
Ad Arco, Mariacher è stato attratto dal mare di lastre di calcare intatte. Nel 1982 ha aperto la prima vera via sportiva dall'alto della zona, Specchio delle mie brame (6b). Chiodare queste pareti portò Maricher, come spiega lui stesso, a "reinventare l'arrampicata per me stesso" concentrandosi esclusivamente sul movimento, anche se per gli standard moderni le vie sono sportive, con spit molto distanziati.
Dal 1982 fino al 1984, Mariacher conquistò alcune delle salite più impegnative di Arco, vie come Super Swing (7b+) e Tom e Jerry (7c) che richiedono un utilizzo dei piedi molto preciso e una grande flessibilità dei fianchi. Entrambe si sviluppano su pareti quasi verticali in cui gli scalatori devono passare delicatamente da un piede all'altro su minuscole tacche.
Il pro climber norvegese Magnus Mitbø, che scalò le vie nel 2019, disse “Le prese sono terribili, e ti senti come se da un momento all’altro verrai sbalzato via dal muro. Le vie sembrano anche molto più difficili rispetto ai loro gradi. Gli alpinisti erano davvero forti in quello stile allora, e forse anche più umili.”
Durante questo suo personale rinascimento, Mariacher si attenne, come al solito, a certi principi. "Le vie possono essere chiodate dall'alto verso il basso solo supponendo quale sia il pun
to migliore per i rinvii e le prese non possono mai essere provate mentre ci si cala dall’alto” racconta. Anche con l'aggiunta della sicurezza degli spit, l'arrampicata, fatta bene, richiedeva comunque un movimento continuo, e lui non credeva nell'analisi, nella pratica e nella memorizzazione dei micromovimenti sulla punta. Quando l'area ha attirato l'attenzione del pubblico e le vie hanno iniziato ad essere praticate, Mariacher si è rivolto ad altro con sgomento. Prima a Lumignano, realizzando le prime salite rotpunkt di progetti come Atomic Cafe (8a) e El Somaro (8a), mostrando la sua padronanza nell'arrampicata. Poi, nel 1986, in Val San Nicolò aprì Kendo, una delle prime vie 8b+ al mondo. E poi ha chiodato dal basso Tempi Modernissimi una via 7c+ di 8 tiri in Marmolada.
Nel 1981, La Sportiva propose a Mariacher di diventare un loro atleta e di aiutarli a sviluppare una nuova scarpetta da arrampicata, entrambe rare opportunità all'epoca. Sebbene La Sportiva si fosse fatta un nome con i suoi scarponi da alpinismo, l'allora azienda creata 53 anni prima non era ancora riuscita a sfondare nel mondo dell’arrampicata su roccia.
Fino a quel momento, gli scalatori usavano principalmente scarponi da alpinismo o il modello Super Gratton di Edmond Bourdonneau (detto anche "EB") con suola liscia, a volte di dimensioni così piccole che era necessario un sacchetto di plastica per infilarci il piede. Tuttavia, Mariacher aveva sempre avuto una passione per la sperimentazione di calzature diverse, casual e non da arrampicata sulla roccia, inclusi alcuni modelli da città del brand italiano Superga
con suola di gomma, che ammette di aver indossato "semplicemente perché sembravano fighe sulle grandi pareti dolomitiche.”
Grazie a lui, nel 1982 La Sportiva lanciò la sua seconda scarpetta da arrampicata, la Mariacher. Questo modello alto, viola e giallo, prese d'assalto il mercato europeo. Mariacher aveva scelto l'intersuola e lavorato sulla forma definitiva di tomaia e suola, testando diverse idee sulla roccia. "Poi tornavo in laboratorio e mettevamo a punto la rigidità, la tensione e il volume" ricorda. Nel 1984, la scarpa aveva raggiunto il Nord America e si era ufficialmente guadagnata un seguito globale, andando a sfidare la famosa Boreal Firé, rilasciata negli Stati Uniti nel 1983, e la prima scarpetta da arrampicata con suola in gomma morbida. Mariacher creò la sua tanto attesa slipper, Ballerina, nel 1984. Anche se forse troppo in anticipo sui tempi in termini di morbidezza, questo modello ha segnato la prima scarpa da arrampicata slip on, nonché il primo design slip on di La Sportiva. In contrasto con le tradizionali costruzioni in cui la tomaia di una scarpa veniva tesa sull'ultima forma 3D simile a un piede e poi fissata a un materiale più rigido e in seguito attaccata all'intersuola e alla suola, le calzature slip on utilizzavano un calzino simile alla tomaia. Questo si estendeva intorno alla forma, con l'intersuola e la suola che si attaccavano direttamente alla tomaia. Sebbene entrambe le tecniche siano ancora utilizzate oggi, l'introduzione della lavorazione slip on ha consentito di ottenere scarpette più morbide e sensibili e in grado di dare un migliore gioco di piedi.
Nel 1991, Mariacher trascorse otto mesi a sviluppare Mythos, una scarpa che ancora dopo 30 anni rimane un punto di riferimento per l'arrampicata dove si sfrutta lo spigolo della scarpa e su placca tecnica. Alex Huber, pioniere del free climbing tedesco, ne è un fan sfegatato. “Ho scalato quasi sempre con le Mythos. Se mi vedete in
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"In Yosemite, ho visto per la prima volta l'arrampicata come uno sport in un modo completamente nuovo. Sono tornato sulle Dolomiti e ho scalato di nuovo Abrakadabra e Tempi Moderni. Dopodiché, ho deciso di dedicarmi all'arrampicata sportiva, perché mi era chiaro che questa era la chiave per arrampicare più duramente in montagna."
Fino a quel momento, gli scalatori usavano principalmente scarponi da alpinismo o il modello Super Gratton di Edmond Bourdonneau (detto anche "EB") con suola liscia, a volte di dimensioni così piccole che era necessario un sacchetto di plastica per infilarci il piede.
molte occasioni con altre scarpe è perché quelli erano allora i nuovi modelli che avrebbero dovuto essere sponsorizzati" dice Huber.
Nel 1993, a 38 anni, Mariacher da atleta e designer diventa vicepresidente del reparto ricerca e sviluppo nonché azionista di La Sportiva. Si sentiva "troppo vecchio per stare al passo con l'evoluzione atletica dell'arrampicata sportiva, e non era interessato a interpretare l'eroe della montagna per estendere il mio status di atleta per un altro decennio.”
Nel 2005, Mariacher si separa da La Sportiva con l'idea di dedicare più tempo all'arrampicata e all'escursionismo nelle Dolomiti. Ben presto però gli viene offerto un posto da SCARPA, un'azienda di calzature con alle spalle 67 anni di storia e nota per i suoi scarponi da montagna, telemark e scialpinismo. Attirato dal calzaturificio di Asolo e dalla possibilità di rinnovare le scarpette da arrampicata del marchio, Mariacher si unisce al brand come Rock Shoe Category Manager. Racconta: "Progettare e testare scarpe è divertente, avevo ancora molte idee e sapevo che i modelli da arrampicata non avevano ancora raggiunto il loro pieno potenziale." In quel che descrive “la progressione naturale delle conoscenze e dei desideri futuri nella costruzione di scarpe" SCARPA nel 2006 lanciò Mago, una scarpetta asimmetrica e semirigida. Mariacher iniziò a sbizzarrirsi, sviluppando un’intera famiglia di scarpe che offrissero vari gradi di fluidità e tipologie di aggancio, ad esempio la linea Instinct. Nina Williams, un'atleta SCARPA che ha utilizzato la Instinct LV per conquistare la parete a strapiombo di Simply Read (8b) in Rifle, Colorado, racconta "C'è qualcosa di speciale nella punta della scarpa.
Riesco a vedere un piccolo appiglio, e tutto quello che devo fare è mirare in quella direzione, l’alluce guida la punta della scarpa proprio sulla presa.”
Mariacher lavora ancora come faceva originariamente nel 1981: sviluppa un concetto basato su materiali, forme e durata, fa assemblare un prototipo, quindi va ad arrampicare per testarlo. Il test avviene in genere nella sua falesia segreta, dove può utilizzare vie e prese specifiche come indicatori della qualità del prototipo. Mariacher è noto per il suo stile di arrampicata fluido e naturale, quando testa un nuovo modello sostiene che "la mia mente non è spenta come sarebbe normalmente. Sto invece arrampicando con più consapevolezza di quale sia la sensazione che mi da ogni pre
La Checklist di Heinz Mariacher
sa, e sono pienamente consapevole di quello che sto facendo in modo da ottenere il miglior feedback possibile." Con questo feedback annotato mentalmente, Mariacher torna in SCARPA per lavorare con i modellisti, mettendo a punto la scarpa nei minimi dettagli. Come dice lui stesso “Si tratta di un processo che potrei continuare all'infinito perché c'è sempre qualcosa da migliorare in una scarpa” anche se a un certo punto queste devono andare sul mercato. "Finché potrò continuare a testare i miei progetti e, attraverso le mie competenze, capire cosa deve essere cambiato e adattato in futuro continuerò a lavorare su nuovi modelli di scarpe da arrampicata" dice Mariacher. Intanto ci mettiamo d’accordo per andare ad arrampicare nella sua falesia segreta nonché terreno di prova preferito non appena la roccia si sarà asciugata. Lì, indosserà un paio di prototipi nuovi in modo da testarli su di un 7c scarsamente chiodato, prendendo silenziosamente delle note mentali per qualche cambiamento futuro.
Mariacher ha ridefinito gli standard sia dell'arrampicata sportiva che di quella alpina sin dagli anni '70. "In montagna mi sono sempre rifiutato di usare gli spit e ho portato avanti una filosofia basata sul concetto di less is more, con attrezzatura ridotta al minimo in modo che il rischio diventasse parte del grado" racconta. “Un V+ (con pessima attrezzatura o nessuna) sulle Dolomiti può essere impegnativo, tradotto in gradi francesi è un 5a, che suona ridicolosamente facile e non presuppone nessuna sfida! In passato ci muovevamo molto su roccia estremamente friabile, su avvicinamenti, vie e discese difficili." La vie di 800m+ sulla parete sud della Marmolada evidenziano la sfida unica delle vie di Mariacher, dove le prime ascensioni sono state fatte in solo, senza spit, e in una sola giornata. Riguardo alla sua attrazione per questa parete ormai iconica, aggiunge “prima dell'arrampicata sportiva, ho scoperto la parete sud della Marmolada, un luogo quasi dimenticato con poche vie e tanto spazio libero per nuove salite. Per me e per alcuni amici rappresentava il parco giochi perfetto per stabilire un nuovo stile di arrampicata: scalare leggeri, veloci e in free solo seguendo una filosofia basata sul concetto di less is more. Purtroppo questo mondo ideale è durato solo pochi anni, perché non appena le nostre nuove salite hanno attirato l'attenzione degli alpinisti più tradizionalisti, la parete è stata invasa dall'alpinismo di conquista. Diversi progetti che avevo tentato in stile purista sono andati perduti a favore di arrampicatori che usavano uno stile misto e risolvevano i passaggi difficili con l'aiuto di chiodi e spit. Deluso da questa concorrenza sleale e dall'occasione persa di lanciare una nuova era sulle pareti alpine, ho rinunciato all'alpinismo e mi sono rivolto con gioia all'emergente arrampicata sportiva.”
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Ecco alcuni highlight della sua carriera:
SALITE IN SOLITARIA:
• 1973 Fleischbankpfeiler "Rebitsch" (VI+ 300m) Schmuck Fleischbank, Wilder Kaiser (VI+ 400m)
• 1974 Cassin (VII, A0, 500m) e Comici (VII 500m), Tre Cime di Lavaredo (3:30 totali per entrambe le vie)
• Lacedelli, Cima Scotoni (VI+, A0, 500m)
• 1975 Vinatzer Marmolada (VI+ 800m)
• 1979 Conforto Marmolada (VI+ 900m free solo)
• 1985 Don Quixote Marmolada (VI 800m free solo, 1:20)
PRIME SALITE IN MARMOLADA
• 1977 Harlekin (VI+) su Punta Rocca. Prima salita con Reinhard Schiestl
• 1978 Hatschi Bratschi (VI+) su Punta Ombretta. PS con Luggi Rieser “Darshano” e Reinhard Schiestl
• 1979 Vogelwild (VI+) su Punta Ombretta. PS con Luggi Rieser “Darshano” e Luisa Iovane
• 1979 Zulum Babalù (VI+) su Punta Ombretta. PS con Egon Wurm
• 1979 Don Quixote (VI+) su Punta Ombretta. PS con Reinhard Schiestl
• 1980 Abrakadabra (VII) su Punta Ombretta. PS con Luisa Iovane
• 1980 Sancho Pansa (VI) su Punta Ombretta. PS con Luisa Iovane
• 1981 La Mancha (VI+) su Punta Ombretta. PS con Luisa Iovane
• 1982 Umbrella (VII) su Punta Penia. PS con Luggi Rieser “Darshano”
• 1982 Tempi Moderni (VII+) su Punta Rocca. PS con Luisa Iovane
• 1986 Tempi Modernissimi (7c+) su Sasso delle Undici. PS con Luisa Iovane
• 1987 Via Attraversa Il Pesce (IX) su Punta Ombretta. PS con Bruno Pederiva, con tiri alternati
VIE CHIODATE AD ARCO
• 1982 Specchio delle mie brame (6b)
• 1983 Super Swing (7b+)
• 1983 Pipistrello (7b)
• 1984 Tom Tom Club (7b)
• 1984 Tom & Jerry (7c)
• 1984 007 (7c)
PRIME VIE 8B IN ITALIA
• 1986 Prima salita rotpunkt di Kendo (8b+), San Nicolò
• 1988 Prima salita di Looping (8b), San Nicolò
DESIGN SIGNIFICATIVI
• 1982 La Sportiva Mariacher: gomma liscia, tomaia foderata in cotone, migliore vestibilità rispetto alle scarpette da arrampicata dell’epoca
• 1983 La Sportiva Ballerina: prima scarpa da arrampicata slipon
• 1986 La Sportiva Kendo: la prima scarpetta da arrampicata con tirante posteriore
• 1991 La Sportiva Mythos: grande precisione in un modello dalla forma piatta/neutra
• 1997 La Sportiva Miura: prestazioni a tutto tondo in una forma rilassata
• 2003 La Sportiva Testarossa: precisione, scarpa ribassata che bilancia la morbidezza con il supporto attivo
• 2006 SCARPA Mago: con tecnologia XTension che avvolge il piede donando precisione e aggiungendo supporto ai bordi
• 2010 SCARPA Instinct: una famiglia di scarpette con diverse chiusure (slipper, velcro, lacci) e gradi di rigidità per conferire diverse caratteristiche prestazionali
• 2012 SCARPA Boostic: modello di precisione pensato per lunghi tiri e multipitch tecnici, aggiornato nel 2020
• 2016 SCARPA Drago: ultra morbida, bilanciata, dona una sensazione naturale e di supporto, ha introdotto il sistema SRT (surround rubber tension)
• 2020 SCARPA Veloce: nuova vestibilità extra larga per l'arrampicata in palestra e le lunghe sessioni
• 2020 SCARPA Furia Air: la scarpetta più leggera e morbida sul mercato, ha anche introdotto il sistema PAF Heel per una calzata che assorbe al meglio la potenza
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Katia Mascherona Goldilocks and the snow leopard
BY LISA MISCONEL PHOTOS GIACOMO MENEGHELLO
Non è facile dipingere il ritratto di un’atleta. Vorresti sempre raccontare e far emergere ciò che non è scontato, ciò che non è tempo, risultato o routine di allenamento. È facile scrivere e riflettere su figure conosciute che di sé parlano molto e sembra quasi di conoscerle davvero solo grazie a tutto il materiale disponibile sul web e non. Questa volta invece parliamo di un’atleta molto giovane che di sé parla con controllo, precisione ed un pizzico di timidezza, la stessa timidezza che però svanisce una volta in gara. Parliamo di Katia Mascherona, classe 2001, riccioli biondi che la rendono inconfondibile anche quando indossa il casco. È nata e cresciuta a Bormio, in Valtellina, come dice lei, il posto ideale per chi ama la montagna e gli sport all’aria aperta. Negli ultimi due anni si è fatta notare dalla Spagna all’Austria scalando non solo i dislivelli ma
anche le classifiche fino a guadagnarsi l’oro under 23 nel Vertical ai mondiali di Boí Taüll.
Come ti sei avvicinata alla montagna ed in particolare allo scialpinismo? Qualcuno ti ha trasmesso questa passione? Già dai tempi della scuola d'infanzia praticavo scialpino, ma sei anni fa quando i miei amici mi hanno portata a fare una gita in montagna con l'attrezzatura da scialpinismo, mi sono innamorata subito. Così, supportata da mio papà ho deciso di buttarmi in questa avventura.
È stata una stagione in cui sei salita sul podio un bel po’ di volte... Com’è andata? Negli ultimi due anni ho raggiunto vari risultati per me molto importanti; l'anno scorso ho vinto la classifica overall u23 di Coppa del Mondo, mentre quest'anno ho conquistato tre bellissime medaglie
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Già dai tempi della scuola d'infanzia praticavo sci alpino, ma sei anni fa quando i miei amici mi hanno portata a fare una gita in montagna con l'attrezzatura da scialpinismo, mi sono innamorata subito.
u23 ai campionati mondiali in Spagna: l'oro nella Vertical e due argenti in Sprint ed Individuale. Questa stagione è iniziata con un po' di alti e bassi, ma fortunatamente grazie alle Fiamme Gialle che mi supportano ed al mio allenatore Davide Canclini (Toio) sono riuscita ad arrivare ai campionati mondiali nel pieno della mia forma fisica.
Quale risultato ti ha resa più fiera? Sicuramente il primo posto da u23 nel Vertical ai mondiali: un risultato davvero inaspettato, non essendo la mia specialità preferita. L'altro risultato è stato il nono posto nella Sprint di Coppa del Mondo in Val Martello. Non mi era mai accaduto di arrivare nelle prime dieci in una gara di così alto livello.
Qual è la tua gara del cuore? E quella che sogni un giorno di poter fare? Non ho una vera e propria gara preferita, quest'anno sicuramente è stata l'individuale sul ghiacciaio del Presena, dove ho trovato tutte le condizioni a mio favore: partendo dal clima freddo (perché soffro terribilmente il caldo) fino ad arrivare alla neve polverosa nelle discese. In un futuro però mi piacerebbe mol
to avere l'occasione di prender parte alla Pierra Menta: me l'hanno sempre descritta come la più bella gara della Grande Course.
Come affronti una tipica giornata di gara? Come prepari il corpo, ma soprattutto la mente? Prima di tutto devo puntare la sveglia ad un orario multiplo di 5, sono molto scaramantica! Non potrei mai svegliarmi ad un orario non preciso. Per preparare al meglio il mio fisico per la gara, già dalla colazione mangio sempre le stesse cose. Successivamente ho bisogno di prendermi del tempo per concentrarmi, ma soprattutto rilassarmi. Prima della gara cerco sempre di incontrare "papà" Robert (Antonioli ndr.) per un incoraggiamento. La mente, per quanto possibile, cerco di prepararla prima, quando sono a casa e dove posso contare sul supporto fondamentale della mia famiglia e del mio fidanzato.
Qual è la parte più bella del tuo sport? Sicuramente a livello agonistico lo sci alpinismo è fatica e non si ha l'occasione di apprezzarlo fino in fondo, ma basta una giornata di tranquillità in montagna con gli amici per esaltarne tutti i suoi pregi: la tranquil
lità, i panorami mozzafiato e l'adrenalina nel cercare i canali più belli dove potersi divertire in discesa.
Sei più a tuo agio in salita o in discesa? Visto il mio passato nello sci alpino, sicuramente è la discesa dove mi sento più sicura e riesco a dare il meglio di me su pendii di diverse pendenze.
Cosa fai quando non pelli? Quando non sono impegnata con gare o ritiri mi piace molto andare in montagna con mio papà e i miei amici senza pressioni, con il solo scopo di divertirci. Ultimamente ho scoperto anche la bici da corsa, e grazie all'ambiente in cui vivo dove ci sono diversi passi alpini come lo Stelvio, il Gavia e il Mortirolo dove riesco ad allenarmi al meglio.
Come vivi l’agonismo? All' inizio era ansia allo stato puro, ora la situazione è un pochino migliorata, sarà perché comincio a conoscere l'ambiente e le persone che mi circondano, ma riesco a sopportare meglio lo stress pregara. Resta comunque che sono una persona un po' scaramantica, nessuno mi può togliere l'accoppiata calza/mutanda dello stesso colore per ogni specialità di gara.
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Sicuramente a livello agonistico lo scialpinismo
è fatica e non si ha l'occasione di apprezzarlo fino in fondo, ma basta una giornata di tranquillità in montagna con gli amici per esaltarne tutti i suoi pregi.
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C’è un atleta o una figura che è per te fonte di ispirazione? Certamente, il mio atleta preferito è Robert Antonioli. L'ho sempre apprezzato perché anche se è un atleta di altissimo livello è sempre pronto a dare consigli e ad aiutare noi giovani del gruppo, e grazie alle sue parole pregara riesce sempre a darmi la giusta grinta.
Quali sono gli obbiettivi per l’estate e la prossima stagione? L'obbiettivo per la stagione estiva è sicuramente quello di riuscire ad allenarmi al meglio. Mi piacerebbe anche prender parte ad una gara di corsa in montagna, così da potermi confrontare anche in un altro sport. Per il prossimo inverno sarebbe bellissimo riuscire ad eguagliare le due passate stagioni.
Sogni le Olimpiadi? Ovvio che sì, come tutti gli atleti anche a me piacerebbe molto poter partecipare alle
Olimpiadi. Specialmente perché si terranno proprio sulle piste di casa dove mi alleno.
La tua montagna, cima, salita del cuore? La montagna che fino ad ora mi ha regalato più emozioni è stato il Gran Zebrù. Forse per la compagnia, per le condizioni ottimali che abbiamo trovato, ma una volta raggiunta la vetta, la vista era spettacolare ed è per quello che tuttora è la mia montagna preferita.
Da quando fai parte della grande famiglia Dynafit? Tutto è iniziato grazie allo sci club Alta Valtellina dove sono cresciuta da quando ho abbandonato lo sci alpino e intrapreso il mio percorso nello scialpinismo. Grazie a loro sono entrata in contatto con questo grande brand con il quale condivido la grande passione per la montagna e gli sport all’aria aperta.
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Il mio atleta preferito è Robert Antonioli.
L'ho sempre apprezzato perché anche se è un atleta di altissimo livello
è sempre pronto a dare consigli e ad aiutare noi giovani del gruppo, e grazie alle sue parole pre-gara riesce sempre a darmi la giusta grinta.
Caroline & James ecco come dovrebbe essere una famiglia (di climber) nel 2023
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS RAPHAEL FOURAU
Entrambi climber professionisti di successo, entrambi atleti The North Face, entrambi genitori che si dividono equamente la cura dei figli.
Caroline Ciavaldini ha 37 anni, è una climber professionista che, prima di votarsi all’adventure climbing, è stata un portento delle competizioni indoor.
James Pearson è suo marito, ha scoperto l’arrampicata a 16 anni e da quel momento non si è più tolto le scarpette. Entrambi sono atleti The North Face e insieme hanno deciso di diventare genitori e, sempre insieme, hanno stabilito che le basi sulle quali avrebbero costruito la loro famiglia sarebbero state l’uguaglianza tra i genitori e l’amore per il climbing. Li
ho conosciuti nell’ambito del Milano Climbing Expo, occasione in cui Caroline ha presentato “Baby Steps”, il docufilm in cui racconta il percorso che l’ha portata ad essere madre ma allo stesso tempo a non voler rinunciare alla sua vita da sportiva. Famosa, e criticata, per aver arrampicato fino all’ottavo mese di gravidanza, Caroline ha fatto della parità genitoriale uno degli asset imprescindibili intorno a cui ruotano la sua vita e la sua famiglia e ha raccontato la sua storia in modo da poter aiutare e ispirare altre donne.
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“Baby Steps” è il documentario che racconta la loro storia e la scelta di Caroline che, in un mondo ideale, non dovrebbe avere nulla di fuori dell’ordinario.
Caroline
Eri preparata, prima di diventare mamma, a quello che sarebbe successo? Dal momento zero in cui diventi genitore realizzi che quella sarà la cosa in assoluto più difficile che farai in tutta la tua vita: ma non riesci veramente a mettere a fuoco tutto quello che succederà fino a che non ti ci trovi. Io sono il tipo di persona che si prepara, quindi avevo riflettuto molto sull’impatto che diventare mamma avrebbe avuto sulla mia vita di atleta, dunque io e James abbiamo provato ad arrivare pronti: volevamo essere genitori, ma non ci è mai passato per la mente di rinunciare ad essere anche climber professionisti. Ci sono un sacco di modelli nel mondo a cui potersi ispirare e noi ci siamo documentati: ci sono coppie che con un bambino appena nato hanno girato il mondo in van, oppure famiglie che fanno homeschooling, abbiamo cercato di trovare il modo di fare quello che amiamo pur avendo dei bambini. I nostri figli vanno alla scuola e all’asilo normali, ma spesso ci seguono se dobbiamo stare in viaggio, come adesso. È tutta una questione di equilibrio secondo me. Sicuramente devi mettere in conto di ricavare dello spazio nella tua vita per i figli che vuoi mettere al mondo.
“Baby Steps” che messaggio vuole lanciare? Ci sono molti messaggi che ho voluto esplicitare: ho avuto molti amici che si sono persi affrontando la genitorialità, e ci sono passata anch’io. Il messaggio fondamentale quindi credo che sia che essere genitori non è facile, mentre la nostra società ci racconta l’esatto opposto. È dura ed è ok sentirsi persi per mesi, perfino per anni se sei un genitore giovane. Questo non significa che non ne valga la pena, ma che è del tutto normale non stare bene nel momento in cui si diventa genitori.
Come si superano questi momenti? Io ho una passione, mio marito ha una passione: questo è quello che ci rende felici, secondo noi non silenziare quello che ci rende contenti è essenziale per essere dei buoni genitori. Se noi siamo felici, loro sono felici. Continuare a portare avanti le proprie inclinazioni o il proprio lavoro però è
possibile solo se tutti e due i genitori sono allineati, se c’è una disuguaglianza nella coppia, e uno dei due si comporta in maniera egoista e fa esattamente quello che faceva prima, significa che, di conseguenza, l’altro genitore deve dare tutto. Ti consideri femminista? Credo di sì, è solo che, a volte, penso che le persone odino questa parola e ciò non va bene. Non mi sento una di quelle femministe super combattive, però so una cosa: io voglio l’uguaglianza e mi batto per averla. Come società abbiamo un’eredità che non è equa, non lo è stata fino a pochissimo tempo fa e in molti frangenti non lo è nemmeno adesso. La società ti spinge a pensare che, se sei donna, dovrai essere mamma e dovrai ricoprire questo ruolo meglio di qualsiasi altra cosa tu faccia nella vita. Credo che molto di questo aspetto derivi dalla tradizione cristiana e in che in Italia forse sia ancora più marcato che in Francia, ma ho visto molte delle mie amiche pensare la stessa cosa, in maniera più consapevole o meno. Io stessa, quando ho avuto il mio primo figlio, ho avuto un momento in cui volevo solo essere una mamma perfetta e silenziare tutto il resto di me: ho vissuto questa dualità per molto tempo. Nonostante credessi di essere arrivata preparata al parto, sono stata attraversata da pensieri che mi dicevano: “Perché non lascio a James fare il climber professionista e io faccio semplicemente la mamma?” Poi succedeva che stare tutto il giorno a casa con i bambini e basta non mi rendeva felice, mentre se avevo anche solo un'ora per andarmi ad allenare mi rendevo conto di essere migliore anche con loro. Ho dovuto però fare un lavoro su me stessa per convincermi del fatto che non ero una pessima mamma solo perché mi assentavo per un’ora: a volte non ero neanche fisicamente chissà quanto lontana, magari James si prendeva cura dei bambini mentre io ero nell’altra stanza. Quindi non è neanche che non fossi lì, ma il mio cervello semplicemente non era al 100% focalizzato su di loro. In fin dei conti credo che questo sia stato un bene anche per loro, sono diventati più autonomi proprio perché capita che io non sia a loro completa disposizione.
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È stato facile convincere James? Per niente, abbiamo avuto molte discussioni: ho dovuto spingerlo ad abbracciare il ruolo di padre in questo modo, perché lui viene da una famiglia molto tradizionale. Secondo il modello che ha ricevuto lui il babbo lavorava, e la mamma si occupava dei figli. Il babbo inoltre era l’unico a portare la propria passione, lui era un giocatore di rugby, all’interno della vita familiare. Ho dovuto educarlo a comportarsi diversamente, ma ho dovuto educare anche me stessa, perché nemmeno io sono l’immagine dei miei genitori: entrambi abbiamo dovuto capire e identificare il modo in cui siamo stati cresciuti per poi fare le nostre scelte ed esseri liberi di essere i genitori che volevamo essere. È solo nel momento in cui realizzi che è la società a metterti addosso tanta pressione che diventi in grado di decidere cosa è buono per te e cosa invece non lo è. Conosco molte donne per cui la passione numero uno è la famiglia: è l’unica cosa che desiderano dalla vita, e va bene così. Per me è diverso: non posso pensare di essere solo quello. Anche perché mi chiedo: se la tua passione numero uno è la famiglia, come farà questo a renderti felice per tutta la durata della tua vita? Mia mamma era un’insegnante ed è stata la mamma perfetta, ha fatto moltissimo per noi: ha sempre incoraggiato me e mia sorella a fare sport, portandoci ogni giorno dopo la scuola alle attività che praticavamo. Quello che è successo però è che, una volta che noi siamo cresciute e la sua passione numero uno se n’è andata di casa, lei è entrata in depressione e non si è più ripresa. Non voglio questo per me: i miei figli sicuramente mi rendono felice, ma ho bisogno anche di essere una persona soddisfatta a prescindere da loro.
Sei stata criticata per aver arrampicato all’ottavo mese di gravidanza? Molte donne si sono avvicinate a me con curiosità, chiedendomi consigli e cercando di capire come mi potevo sentire o come loro potevano fare lo stesso. Non c’è stato un uomo che sia venuto a me a criticarmi, ma ho avuto molti hater su Instagram, che è un mezzo diabolico perché permette a persone che non avrebbero mai il coraggio di affrontarti di persona di scriverti cose orribili.
James
Eri preparato, prima di diventare padre, a quello che sarebbe successo? Quello che posso dire riguardo a tutto il processo di diventare genitori è che a un certo punto ti rendi conto di come le idee che avevi sempre avuto, le convinzioni su come funziona il mondo, erano totalmente sbagliate. Io ero molto preoccupato dal fatto che non avrei avuto più così tanto tempo libero come quando io e Caroline non avevamo bambini, che non avremmo più potuto viaggiare ogni volta che volevamo, come era sempre stato. Avevo paura che i figli ci avrebbero portato via tutta la magia che avevamo, il lusso di poter decidere delle nostre vite liberamente, ma la realtà è che è molto meglio di prima. Chiaramente abbiamo molto meno tempo, questo è innegabile, ma quel poco che abbiamo è decisamente più prezioso, quindi troviamo il modo di essere più efficienti in tutto, abbiamo acquisito un sacco di abilità in questo senso.
Ti senti di star perdendo colpi, come climber, per via dell’essere padre? In una maniera veramente bizzarra, che non mi sarei mai aspettato, sono invece diventato più efficiente come climber. Avere meno tempo e meno opportunità di focalizzarsi sulle condizioni perfette mi fa essere più performante. Ora non è più una questione di aspettare il momento migliore, il tramonto o il calare del vento: l’unico momento che ho è
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Ho avuto molti amici che si sono persi affrontando la genitorialità, e ci sono passata anch’io. Il messaggio fondamentale quindi credo che sia che essere genitori non è facile, mentre la nostra società ci racconta l’esatto opposto. È dura ed è ok sentirsi persi per mesi, perfino per anni se sei un genitore giovane.
quando i bambini dormono e me ne frego delle condizioni. Incredibilmente questo mi porta ad arrampicare molto meglio di prima.
È stato facile per Caroline convincerti a dividere equamente il carico genitoriale? Tutto quello che io e Caroline abbiamo fatto dal minuto uno della nostra relazione è cercare di essere paritari, ma credo che in questo lei mi abbia spinto molto. Mi rendo conto che io ho la tendenza a ricreare la situazione in cui sono cresciuto, che è sicuramente più tradizionale rispetto a come noi stiamo crescendo i nostri bambini. Mia mamma non ha mai lavorato per tutto il tempo in cui io e i miei fratelli eravamo piccoli: era quella che cucinava, puliva e si accollava la maggior parte del lavoro in casa, mentre mio padre era quello che andava a lavorare, guadagnava e utilizzava il tempo libero della famiglia per praticare il suo sport preferito, ovvero il rugby. Ho dovuto imparare a riconoscere che un altro modello non solo è possibile, ma che è giusto perché è paritario: ognuno di noi due ha la stessa responsabilità di guadagnare, di stare dietro ai bambini, di cucinare, di pulire, ma anche lo stesso tempo da dedicare all’arrampicata. A volte mi rendo conto di avere la tendenza a voler ricreare il modello dei miei genitori, specialmente quando passiamo molto tempo con loro, come durante la vacanze di Natale, ma Caroline è quella che mi riporta sempre nella giusta direzione, lei è quella che mi spinge sempre a guardare un po’ più in là e a progredire nei miei pensieri, ci supportiamo a vicenda, siamo una squadra.
Ti consideri femminista? Io credo che la parola femminista sia la nostra peggior nemica quando è riferita ad un uomo, perché suona genuinamente cringe. Io cerco, per quello che posso, di contribuire alla definizione di un mondo equo sia che si tratti di genere, di etnia o di religione: per me non c’è ragione per venir trattati diversamente. Credo che, nel caso della parità di genere,
non debba essere una lotta combattuta solo dalle donne, ma da donne e uomini insieme. Rispetto all’essere genitori c’è un momento legato alla gravidanza in cui c’è poco da discutere, è ovvio che il peso sia per forza più spostato sulla donna e quindi è normale, per me, oggi voler scaricare Caroline il più possibile.
Hai ricevuto critiche o battute per aver rallentato un po’ nel climbing? La cosa veramente triste è che l’unica che ha ricevuto delle critiche al momento è stata Caroline: la società è ancora indietro su questo e lei è vista come quella che dovrebbe stare a casa con i bambini. Si parla tanto di famiglie moderne, ma quando una famiglia lo è davvero sembra strano a molti.
Quello che posso dire riguardo a tutto il processo di diventare genitori è che a un certo punto ti rendi conto di come le idee che avevi sempre avuto, le convinzioni su come funziona il mondo, erano totalmente sbagliate. Io ero molto preoccupato dal fatto che non avrei avuto più così tanto tempo libero come quando io e Caroline non avevamo bambini, che non avremmo più potuto viaggiare ogni volta che volevamo, come era sempre stato. Avevo paura che i figli ci avrebbero portato via tutta la magia che avevamo, il lusso di poter decidere delle nostre vite liberamente, ma la realtà è che è molto meglio di prima.
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The year of change Barkley Marathons
BY FILIPPO CAON PHOTOS ALEXIS BERG
Ci sono pareri contrastanti sulla Barkley:
c’è chi la ama e c’è chi non la capisce e sostiene che sia insensata e masochista e che non c’entri nulla con lo sport della corsa. Non c’è molto da fare se non constatarlo e passare oltre. Potremmo stare giorni a discutere su cosa sia o non sia l’ultrarunning; se è più ultrarunning una 100 chilometri su strada o una 400 chilometri in montagna. Perché il Nolan’s sì e Barkley no? Perché il TOR sì e l’Appalachian Trail no? Perché The Speed Project sì e Spartathlon no? E perché Translagorai sì e UTMB no? E perché e perché. Perché confondiamo i nostri interessi con la definizione di uno sport? L’unica cosa che davvero possiamo dire con certezza è che queste cose così diverse tra loro convivono pacificamente dagli albori dello sport.
Con la professionalizzazione dello sport gli atleti di livello sono sempre meno interessati a eventi più indipendenti e alternativi, quando invece un tempo c’erano corridori molto più trasversali. Se da un lato i finisher di Barkley sono in larga parte outsider rispetto alla scena ultra, altri ne sono rappresentanti perfetti: David Horton oltre a detenere il record sui grandi cammini era un coach di atletica leggera e aveva vinto JFK 50, Old Dominion, Arkansas Traveller e Hardrock; Blake Wood è tra i fondatori e vincitore di Hardrock e tra gli ideatori del Nolan’s 14, ma ha corso anche gare molto diverse come Rocky Racoon, Javelina, Bear, mezzo fondo e meeting di atletica su pista. A Barkley sono passati Hal Koerner, due volte vincitore di We
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stern States, Gary Robbins, e Courtney Dauwalter, l’atleta versatile per eccellenza, capace di vincere UTMB, una 24h su pista e poi partecipare a Barkley. Insomma, se è vero che i partecipanti di Barkley sono in parte outsider, sono anche corridori completi. Dal 1986, il primo a finire la Barkley Marathons fu Mark Williams nel 1995. Poi non ci riuscì nessuno per altri cinque anni, fino al 2001 in cui ci riuscirono in due, David Horton e Blake Wood. Ancora nessuno nel 2002, poi Ted Keizer nel 2003, e Mike Tilden e Jim Nelson nel 2004. Dopo la seconda volta che due corridori riuscivano a finire la gara, Lazarus Lake indurì il percorso e nessuno la finì più per altri tre anni. Poi, iniziò la stagione migliore della Barkley: nel 2008 Brian Robinson con
record del percorso, nel 2009 Andrew Thompson, nel 2010 Jonathan Basham, nel 2011 Brett Maune. Quattro di questi cinque in meno di 58 ore. Il 2012 fu l’anno dei record: Brett Maune diventò il primo due volte finisher segnando l’attuale record del percorso, inoltre, riuscirono a finirla anche Jared Campbell e John Fegyveresi, diventando la prima edizione con tre finisher della storia. Nel 2013 Nick Hollon e Travis Wildeboer, e ancora Jared Campbell nel 2014 e nel 2016, diventando il primo ad averla finita tre volte. L’ultimo, John Kelly nel 2017. In 10 anni, l’unico anno senza finisher fu il 2015. Poi, dal 2017 nessuno ci è più riuscito. Fino a oggi.
Con l’edizione di quest’anno, molti media hanno iniziato a parlare di
un momento di cambiamento per la gara. Sia da un punto di vista tecnico e di durezza del percorso, sia sul piano mediatico, cercando, forzatamente in alcuni casi, una relazione tra le due cose. Si è letto parecchio circa il fatto che diventando più popolare Barkley stia diventando anche più facile, e così facendo attirerà più atleti professionisti nei prossimi anni.
Questo è in parte una lettura forzata dei risultati, che se guardati nel complesso segnano invece un progressivo indurimento della gara negli ultimi dieci anni e i tempi di quest’anno non sembrano fare eccezione. Abbiamo pensato di chiederlo all’unica persona, o una delle poche, titolata per rispondere a questa domanda. John
Kelly,
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vincitore dell’edizione di quest’anno e ultimo finisher nel 2017, ci ha risposto così:
«La gara cambia continuamente, è così fin dall’inizio. Sono cambiate l’attrezzatura, la preparazione e di conseguenza la corsa è diventata più dura per controbilanciare questo fatto e mantenere le stesse probabilità di finire la gara. Forse quest’anno la corsa era leggermente più facile dell’anno scorso, ma non molto, e in entrambi gli anni ci sono state buone condizioni. Penso che avrei potuto finire la corsa l’anno scorso se non avessi perso le pagine nel terzo loop. Quest’anno era più bilanciata, e credo che l’anno prossimo sarà leggermente più dura e più vicina all’anno scorso.»
Che la corsa cambi in continuazione si sa, e che Laz aumenti o diminuisca le difficoltà a seconda del trend di finisher anche; ma dall’altro lato le statistiche dividono chiaramente l’ultimo decennio in due blocchi che vanno dal 2012 al 2017 e dal 2018 al 2022. John conferma, con qualche correzione, questa periodizzazione, ma non imputa alle modifiche del percorso la causa principale dei risultati:
«Ci sono tante variabili che determinano questa cosa. Qualche anno ci sono più persone che hanno probabilità di finirla, altri meno. Il primo cambiamento è avvenuto dopo il 2013, nel 2012 l’avevano finita in tre, nel 2013 in due, con tempi molto bassi. Negli anni successivi i tempi di Jared Campbell si
sono alzati molto e dal 2014 a oggi io e lui siamo stati gli unici a finirla. Il 2019 è stato un altro spartiacque, e non voglio dire che fosse diventata impossibile ma Laz si era spinto un po’ troppo in là, così nelle ultime due edizioni ha fatto un passo indietro.»
In Europa la popolarità della corsa è esplosa col documentario The Race That Eats Its Youngs (2013), e in questi dieci anni ha continuato ad aumentare ma senza cambiamenti significativi. Negli ultimi anni inoltre è stato possibile seguire l’andamento della gara tramite degli aggiornamenti su Twitter, che secondo molti è una delle cause dell’aumento di interesse nei confronti della corsa, influenzandone sempre di più l’identità. A questo pro
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posito c’è chi non esita a definire Laz un opportunista.
John continua: «La popolarità della corsa è certamente aumentata dalla prima volta in cui ci sono stato, è cresciuto in generale lo sport e Barkley di conseguenza. Credo sia davvero difficile bilanciare il fatto di tenere l’evento ristretto e lontano dai riflettori e il fatto che l’ambiente stia inevitabilmente crescendo ma penso anche che Barkley ci stia riuscendo molto bene. Penso che sia positivo condividere quello che accade a Frozen Head durante la gara e dare visibilità alla cosa è solo positivo, perché sta avvenendo in modo tale da non influenzare né la dinamica della gara né l’atmosfera dell’evento. Il campo è ancora semideserto, le perso
ne sono ancora poche e l’atmosfera è ancora familiare e inclusiva.»
La crescita dello sport è un tema trasversale che riguarda tutti gli eventi indipendenti che non vogliono larga partecipazione, e di cui Barkley è il caso più eclatante. Se l’ultrarunning è intrinsecamente inclusivo, è grazie ai piccoli eventi in cui il senso di comunità e di condivisione è molto più percepibile rispetto a grandi eventi mediatici e dispersivi. Per mantenere il contatto personale tra le persone molti organizzatori sono stati costretti a prendere misure che limitassero il numero di partecipanti, e per quanto la copertura mediatica sia sempre maggiore, finora questo è stato l’unico strumento che i piccoli eventi hanno avuto
La popolarità della corsa è certamente aumentata dalla prima volta in cui ci sono stato, è cresciuto in generale lo sport e Barkley di conseguenza. Credo sia davvero difficile bilanciare il fatto di tenere l’evento ristretto e lontano dai riflettori e il fatto che l’ambiente stia inevitabilmente crescendo
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per tutelare la propria identità. Credo che sia un grande tema su cui interrogarsi in questo momento: si parla di gare, di atleti professionisti e di come lo sport in generale si stia professionalizzando, trascurando il fatto che il suo volto più grassroots possa continuare a essere tale è necessario alla salute dello sport esattamente quanto la crescita dei grandi eventi. Sono due aspetti necessari che devono coesistere.
«Credo che Barkley sia stata molto brava nel riuscire a bilanciare questi due aspetti. Nel senso che riesce a mantenere la sua aura di mistero, e quello che accade su Twitter dà informazioni importanti, racconta cosa sta succedendo, ma non quello che accade lì resta grosso modo invariato.»
Ci sono altri eventi che stanno riuscendo a farlo molto bene, e il caso più evidente probabilmente è Hardrock 100. Hardrock continua ad avere uno dei podi più di livello al mondo, è coperta mediaticamente, ma l’atmosfera è la stessa di dieci o di vent’anni fa, i volontari sono sempre gli stessi, tutti si conoscono e la dimensione è familiare. Per quanto possa essere controintuitivo, da questi esempi si vede che c’è una differenza sostanziale tra la copertura mediatica di un evento e la sua partecipazione. Il fatto che un evento sia molto ambìto, desiderato o seguìto non implica necessariamente che la sua atmosfera cambi se l’obiettivo dei suoi organizzatori è mantenerla tale. Come ultimo esempio, c’è un caso opposto che lo dimostra. The Speed
Project è un evento aperto che si professa, nelle intenzioni, senza regole e senza pubblico, raccontando uno sport che non ha bisogno di sovrastrutture e di riconoscimenti esterni. Nella realtà, in soli 12 mesi su questa rivista saranno usciti (col prossimo numero) tre articoli su questo evento, mentre uno solo su UTMB, l’ultra più mediatico al mondo e zero su Sierre Zinal, la skyrace più seguita al mondo. Se cercate The Speed Project su YouTube i primi sette risultati sono video prodotti da Altra, The North Face, Satisfy, ON, TrackSmith, RedBull, Strava. The Speed Project, al netto di tutto ciò, non ha pubblico. Così mi chiedo, da organizzatore di un evento: se devo avere un pubblico, lo voglio fisico o virtuale?
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Saving Glaciers
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS CIRIL JAZBEC
La metà dei ghiacciai presenti oggi nel mondo è destinata a scomparire. Lo si dice da tempo ma, ora che il mondo sembra essersi di colpo accorto della minaccia reale del cambiamento climatico, ogni tot vengono pubblicati studi che ci ragguagliano sullo stato pessimo di salute del nostro pianeta. Uno degli ultimi report, proveniente dagli States, non lascia speranze per i ghiacciai: la metà di quelli presenti oggi nel mondo è destinata a scomparire. Lo dicono gli scienziati della Carnagie Mellon, l’Università che ha finanziato lo studio poi pubblicato sulla rivista scientifica Science.
Questo succederà sicuramente, a detta loro, anche se riuscissimo cosa altamente improbabile a mantenere la crescita della temperatura media globale sotto gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Studi a parte, chi ama la montagna e i ghiacciai li frequenta se ne è accorto con i propri occhi: si stanno ritirando a vista d’occhio. Questa è una tematica particolarmente sentita dalla comunità outdoor e ci sono moltissimi fotografi, esploratori e atleti che negli anni hanno prestato e stanno prestando la propria voce e la propria opera per sensibilizzare l’opinione pubblica e per spingere le persone a tenere dei comportamenti più rispettosi nei confronti dell’ambiente, ma c’è qualcuno che ha deciso di fare di più: il dottor Felix Keller, un glaciologo svizzero, si è messo al lavoro insieme al suo team per trovare una soluzione pratica all'inevitabile fusione dei ghiacciai delle Alpi e sebbene non sia ritenuto il sistema risolutivo, sicuramente merita di essere raccontato.
Keller ha quindi deciso di sviluppare un complesso sistema di cavi da neve in grado di riciclare l'acqua di disgelo glaciale nella neve per portarla di nuovo in quota e formare così una specie di copertura per il ghiacciaio. La sua storia è stata raccontata da Ciril Jazbec in “Saving Glaciers” il documentario prodotto da Tent Fi e presentato all’edizione del 2023 del Banff Film Festival. Jazbec, che è un fotografo sloveno famoso per gli scatti che realizza per National Geographic e che nel 2021 si era aggiudicato il World Press Photo Award nella categoria natura con una storia che ancora una volta riguardava la sensibilizzazione nei confronti dello scioglimento dei ghiacciai, ha seguito da vicino il lavoro di Keller e la sua missione per salvare l’intero ghiacciaio del Morteratsch, nella Svizzera orientale. Quello che ha spinto Keller all’azione è la preoccupante accelerazione subita dal processo di disgelo dei ghiacciai.
“Ogni volta che sto per andare sul ghiacciaio sono tremendamente preoccupato, perché so che lo troverò cambiato, in una nuova fase. Ogni anno il ghiacciaio del Morteratsch perde infatti 30 o 40 metri della sua lunghezza, ovvero l’equivalente di 15 milioni di tonnellate di ghiaccio all’anno.” Quella descritta in “Saving Glaciers” non è la prima azione concreta intrapresa da Keller e dal suo team, che avevano già provato a ricoprire il ghiaccio con dei teli geotessili per proteggere la superficie dai raggi solari, cosa che però può essere utile su un ghiacciaio di piccole dimensioni, non su un mare ghiacciato enorme come Morteratsch.
Keller ha quindi deciso di sviluppare un complesso sistema di cavi da neve in grado di riciclare l'acqua di disgelo glaciale nella neve per portarla di nuovo in quota e formare così una specie di copertura per il ghiacciaio. La sua storia è stata raccontata da Ciril Jazbec in “Saving Glaciers” il documentario prodotto da Tent Fi e presentato all’edizione del 2023 del Banff Film Festival.
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Quella del glaciologo svizzero Felix Keller, raccontata dal fotografo e sloveno Ciril Jazbec in “Saving Glaciers”, un documentario presentato durante il Banff Film Festival 2023.
“Morteratsch si muove troppo in fretta e distrugge l’intera copertura, serve un sistema naturale in grado di contrastare la velocità alla quale il ghiaccio si sta sciogliendo” spiega Keller. Il documentario comprende anche la testimonianza della dottoressa Christine Levy, dell’ Academia Engiadina, che monitora in volo lo stato di salute del Morteratsch e degli altri ghiacciai svizzeri. Come scienziata il suo focus di studi è oggi concentrato nell'individuare dove si formerà il prossimo lago alpino, o dove si staccherà la prossima valanga di ghiaccio. Difficile pensare a questo come a un fenomeno che si possa arrestare, ma Keller non ci sta.
“Cosa posso fare per i miei figli, perché anche loro possano godere del ghiacciaio?”
È questa la domanda che batte nel petto del glaciologo e che lo ha spinto a trovare una soluzione pratica, che è arrivata sotto forma di illuminazione durante una sessione di pesca: “Stavo pescando su un fiume la cui acqua deriva dalla fusione del ghiacciaio, è lì che mi è venuta l’idea di riciclare il prodotto del disgelo per creare nuova neve.” L’idea, a detta di Keller, è semplice: preservare l’acqua di disgelo in estate nelle regioni in quota per poi poterla utilizzare per produrre la neve con cui coprire il ghiacciaio con l’obiettivo di proteggerlo dal sole. Ricoprendo di neve una specifica porzione di ghiacciaio si possono avere dei risultati importanti
e molto estesi su tutto il massiccio. Per realizzarla ha chiesto e ottenuto l’aiuto del professor Ernesto Casartelli dell’Università di Scienze Applicate di Lucerna, grazie al quale è stato possibile realizzare sia il sistema di carotaggio per estrarre la neve, che quello per l’innevamento artificiale del ghiacciaio. Tanti sono infatti i tasselli coinvolti in un progetto del genere, dall’energia impiegata per muovere le ventole, all’aria compressa per sparare la neve.
“I nostri modelli di calcolo hanno evidenziato come, se ricopriamo con la neve una superficie pari a un chilometro quadrato per un’estate intera, il Morteratsch riprenderà a crescere nel giro di dieci anni. Per fare questo però servirebbero circa 30.000 tonnellate di neve al giorno. C’è poi un altro fatto: il ghiacciaio si muove, da qui l’esigenza di innevare dall’alto con un sistema di funi, che è molto efficace perché non dipende dalle condizioni del terreno ed è capace di produrre fino a 5 tonnellate di neve al giorno. Quando riusciremo a produrre dai 10 ai 12 metri di neve saremo in grado di ricoprire il ghiacciaio per tutto l’anno e lo proteggeremo dal disgelo per un’estate intera, sarebbe un risultato veramente rilevante. Provo una sensazione particolare quando sono su questo ghiacciaio: voglio essere parte della soluzione, non del problema. Voglio avere la coscienza in pace sapendo che lascerò questo mondo avendo fatto qualcosa, e non essendomi limitato a parlare del problema e basta.”
I nostri modelli di calcolo hanno evidenziato come, se ricopriamo con la neve una superficie pari a un chilometro quadrato per un’estate intera, il Morteratsch riprenderà a crescere nel giro di dieci anni. Per fare questo però servirebbero circa 30.000 tonnellate di neve al giorno. C’è poi un altro fatto: il ghiacciaio si muove, da qui l’esigenza di innevare dall’alto con un sistema di funi, che è molto efficace perché non dipende dalle condizioni del terreno ed è capace di produrre fino a 5 tonnellate di neve al giorno.
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Quella descritta in “Saving Glaciers” non è la prima azione concreta intrapresa da Keller e dal suo team, che avevano già provato a ricoprire il ghiaccio con dei teli geotessili per proteggere la superficie dai raggi solari...
Prosecco dans le wild
BY OONA SKARI DUROY PHOTOS LAYLA KERLEY
15 marzo 2021. La neve è abbondante e le temperature si avvicinano allo zero. Le strade sono macchiate da uno spesso strato bianco. Gli pneumatici scricchiolano sul manto di neve fresca. I rumori provenienti dalla piccola cittadina di Chamonix sono attutiti dagli spessi fiocchi di neve. È forse il momento di piccola avventura sulla neve?
Il nostro piccolo team è composto da Clip che difende gli animali all’ONU, Constance la stilista, Eugénie la ginecologa, Layla la fotografa, Louis la regina dei tessuti, Mathilde la sommelier e Oona l’artista visiva. Dopo diverse discussioni soprattutto a livello meteorologico, la Valgrisenche in Italia si impone come nostra destinazione finale. Un luogo alla fine del mondo situato a qualche chilometro dal tunnel del Monte Bianco, all’incrocio tra la seconda valle e la strada per Aosta. L’appuntamento è fissato da Constance in mattinata. Ma prima caffè e zaino. In questo mese di marzo le temperature sono basse, intorno ai 10 gradi. La mente oscilla tra calore e comfort, tra ottimismo e massimo piacere. Le decisioni vengono presto prese, non c’è bisogno di perdere tempo. La maggior parte degli abiti finisce per terra, ai piedi del mobile tv e sotto il divano.
Paia di calzini in più e mutande extra vengono impilate in una pila che ritroveremo solo al ritorno. Riempiamo lo zaino il più possibile ma lasciando comunque spazio per i viveri. Barrette, caramelle e altre prelibatezze vengono infilate nel poco spazio rimasto. Partiamo a tutta velocità in direzione Valgrisenche mentre la neve inizia a cadere. Arrivate in Italia ci fermiamo velocemente in
un piccolo bar a bordo strada per mangiare un panino con un espresso un po’ troppo forte. La strada che ci rimane da fare è tortuosa e ripida e, dopo aver superato il paese di Valgrisenche, troviamo un italiano dall’aspetto snello vicino un grosso pick up blu elettrico che ci fa dei segni, è il proprietario dell’alloggio che abbiamo prenotato per la notte. Parcheggiamo le nostre macchine e mettiamo i nostri zaini nella sua auto. Alleggerite dal peso dei prossimi 7 giorni, costeggiamo il lago Beauregard in un’atmosfera invernale. I pochi chilometri da percorrere fino al dormitorio di Arolla sono rigeneranti. Le rovine sulla destra ci immergono in un’altra epoca, non si intravede neanche un’anima all’orizzonte. Il silenzio è totale. Attraversiamo con gli sci ai piedi il piccolo paese d’Uselière dove i vecchi edifici in mattoni e l'obsoleta insegna “cabina telefonica” che scricchiola giocano con la nostra imma
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La neve è abbondante e le temperature si avvicinano allo zero. Le strade sono macchiate da uno spesso strato bianco. Gli pneumatici scricchiolano sul manto di neve fresca.
I rumori provenienti dalla piccola cittadina di Chamonix sono attutiti dagli spessi fiocchi di neve. È forse il momento di piccola avventura sulla neve?
ginazione. Risaliamo un grande campo privo di tracce umane, passando vicino a qualche albero piantato qua e là, infine attraversiamo un gruppo di vecchi casolari, quasi dei ruderi, con i vetri rotti. La passeggiata invernale d'altri tempi continua fino alla ricomparsa del pick up blu elettrico. L’arrivo è imminente. L’ingresso al piccolo borgo sembra quello di un ranch del Far West. Il cottage è costituito da vecchi edifici assemblati dal nostro amico italiano, nonché sindaco di Valgrisenche. Riccardo ci ospita nel primo granaio che è costituito da quattro angoli notte, una mansarda, una grande cucina e un bagno che sembra uscito da una rivista di home decor. Il tutto a meno di 20€. Inauguriamo il nostro arrivo con un gesto aristocratico sciabolando lo champagne con l'aiuto di uno sci affilato. Non c’è niente di più soddisfacente di andare a letto vedendo una coltre bianca per poi alzarsi con un cielo azzurro. È il 2021, un anno che oscilla tra l’isolamento e la chiusura delle frontiere. Le montagne sono deserte e in questo mese di marzo gli elicotteri non volano. Silenzio e polvere bianca ci vengono serviti su un piatto d’argento.
È l’ora di uscire dalla nostra oasi di pace. Riccardo ci conferma che al bivacco Bezzi ci aspettano un mucchio di vecchie coperte di lana. In programma, Bec di Giasson, due notti al bivacco Bezzi, sciate magnifiche, Grande Traversiere, due notti al rifugio Benevolo, altre sciate, ritorno a casa. Quattro notti e cinque giorni senza nessuno all’orizzonte.
Il primo giorno è lungo, risaliamo verso il Bec di Giasson attraverso un fitto e soffice bosco. Nessuna traccia sugli alberi.
Gli zaini sono pesanti ma l’euforia è tanta che sembrano pesare un grammo. Ci sono 10 gradi, la neve è fredda e leggera
e il cielo è di un blu penetrante. Nonostante questa cornice idilliaca, rimaniamo vigili. Dopo una lunga salita e un veloce panino arriviamo finalmente al Bec di Giasson. Tiriamo fuori la bottiglia di bianco per festeggiare il nostro primo tramonto. Il bivacco Bezzi non è lontano e i raggi del sole ci scaldano ancora per un po’. Sono le 17 e ci sono ancora 10 gradi. Iniziamo la discesa verso il Bezzi, ai piedi della valle, dall'altra parte della Grande Sassière, i 10 si trasformano in 15 in questo piccolo borgo di pietra. Ci sono alcuni edifici ricoperti di neve, chiusi a causa del Covid. Ci mettiamo un po’ a trovare il bivacco. Una volta raggiunto, saliamo i pochi gradini che ci separano dal dormitorio. Apriamo la porta, i letti ci sono ma mancano le coperte e ci sono solo 2 ceppi di legna. Fanno ancora 15 gradi. Un rapido giro dei locali conferma che le coperte non appariranno e che una decisione va presa in fretta. In venti minuti siamo di nuovo sugli sci. Dobbiamo percorrere tutta la valle per raggiungere il dormitorio di Arolla. Cala la notte ma nonostante il freddo il nostro buon umore non cede. La giornata si conclude alle 20 con l’accoglienza calorosa e confortante di Riccardo e di sua moglie che ci portano gli avanzi della zuppa di legumi e 7 piccole porzioni di crème caramel. Dopo questo veloce ritorno all'infanzia, dobbiamo ripensare il programma della settimana. Il giorno seguente è degno del Giappone, riprendiamo la nostra salita nella foresta, la tempesta sta arrivando ma non ci interessa. Soli 300 metri ci separano dal nostro campo base al dormitorio. Le ore scorrono e gli sci sfrecciano.
Ridiamo, danziamo, gustiamo del vino rosso, sole in mezzo a questo scrigno di bellezza tutta italiana. La sera è dedica
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ta alla preparazione dei giorni seguenti. Piatti in tavola e grissini in abbondanza, inframmezzati da qualche passo di danza. Il rosso fa il suo lavoro, e colora le nostre guance. Sosta a Sigaro dopo il dormitorio, prima di riprendere le auto in Val di Rheme. Le ore di macchina permettono ai nostri corpi intorpiditi di riposare. L’uscita dall’auto è faticosa, dobbiamo lasciare il nostro nido per affrontare le basse temperature che ci aspettano sul percorso verso il rifugio Benevolo, ma gli spiriti sono gioiosi e la transizione avviene a ritmo di musica. C’è una bella salita che ci attende, con piccoli sentieri e grandi rocce. Immaginiamo il fiume che scorre in estate. Dopo due ore di salita, vediamo svolazzare una bandiera. Siamo arrivate a destinazione. Una sontuosa catena di montagne si presenta davanti a noi. Malgrado la moltitudine di percorsi entusiasmanti, è la fame che accompagna i nostri spiriti. I quattordici piedi sotto il tavolo trepidano d’impazienza, stimolati dal dolce profumo di zuppa e pasta. Appesantite dal peso delle prelibatezze italiane, andiamo a dormire nei letti a castello a 3 livelli. Nonostante le basse temperature i nostri piedi hanno avuto il tempo di sudare. Le calze si asciugano sui pioli della scala mentre il sonno ci rapisce e ci addormentiamo schiacciate dal peso del piumone. La giornata che ci attende è blu, molto blu. Il sole è pungente. È quasi il momento di tornare a casa ma sono le 11.30 e oggi siamo pigre. Ordiniamo prosecco e ravioli. Sole al rifugio, ci sistemiamo sulla terrazza di legno. Nonostante il nostro atteggiamento rilassato, i nostri occhi scrutano il canalone verticale che abbiamo di fronte. La festa continua. L’altoparlante riecheggia, le bollicine frizzano e i caffè si consumano. Sono le 15. È ora di an
dare ad esplorare il canale. Una leggera discesa di nebbia ci immerge in un universo onirico. Il cielo è coperto e il sole continua a bucare la sommità delle nubi con i suoi ultimi raggi. L'atmosfera è sacra. Il canale è facilmente accessibile. Aggiriamo a sinistra in leggera salita la collina che porta il nome di “Truc de Tsanteleina”. La discesa è breve ed efficiente. Due ore più tardi siamo di ritorno, riprende la danza di zuppe, paste e crostate di frutta. Il nostro ultimo giorno sarà lungo, la traversata che ci separata dall’ultima discesa è ventosa. Lame e ramponi mordono la neve con i loro denti affilati. Nonostante la mappa IGN l’applicazione Fatmap sbagliamo strada. L'errore è compensato da alcune traversate con gli sci e da una piccola salita. Esiste un aneddoto che non vi racconterò qui, quello del “il parcheggio, il parcheggio!”
Se vi incuriosisce e incrociate per caso uno dei protagonisti in un bar di Chamonix, non esitate a chiederglielo. Lui sarà felice di raccontarvelo!
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La discesa è breve ed efficiente. Due ore più tardi siamo di ritorno, riprende la danza di zuppe, paste e crostate di frutta. Il nostro
ultimo giorno sarà lungo, la traversata che ci separata dall’ultima discesa è ventosa. Lame e ramponi mordono la neve con i loro denti affilati.
Lise Billon Is #notherefortheglory
BY LISA MISCONEL PHOTOS TAD MCCREA AND JAN NOVAK
Lise Billon si trova a Valence, nel sud della Francia e oltre a chiacchierare con me l’obiettivo della giornata è bersi un bel caffè con la nonna: per fortuna l’ho beccata in un momento di calma dopo il rientro dall’ultimo viaggio in Patagonia, il quinto. Capelli scompigliati e occhi vispi assetati di avventura. Adventurous è proprio l’aggettivo a cui vorrebbe essere associata Lise. Non “cute, non “crazy” Adventurous, and dreamy.
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Malgrado l’animo dreamy, Lise le cose se le vuole se le prende… Non sta mica lì a sognare e basta. La montagna è per lei sempre stata un “family affair”: il padre è guida alpina e malgrado non fosse nata in montagna l’ha sempre frequentata nei weekend in famiglia fra una camminata ed una scalata. Infatti, quando era adolescente e voleva come i suoi coetanei ribellarsi ai genitori, il suo modo è stato quello di rifiutare l’arrampicata mettendosi a giocare a pallamano. È simpatica come storia e chissà, magari se non fosse per la sua forte attrazione verso la community dell’alpinismo adesso al posto del Piolet D’Or in mano avrebbe qualche titolo ai mondiali Handball. Dicevamo... Fin da piccola è stata vicina a ciò che era la community e l’ambiente montano, e mentre le coetanee guardavano Barbie, lei sognava spedizioni, tempeste e portaledge sui muri della Patagonia. Come accade in qualche film, possiamo rivederla qualche anno dopo mentre sale quelle stesse pareti che da piccola sognava. Capelli lunghi, risata facile, tenacia. Com’è andata questa spedizione? È la quinta volta che torno da una spedizione in Patagonia, le prime volte si è sempre trattato di esplorare zone molto remote, mentre questa volta andare a El Chaltén per me non è significato veramente andare in spedizione. Hai tutti i servizi a valle, una società, i servizi sanitari... Magari 20 anni fa si sarebbe potuto parlare di spedizione ma ora non più, ora vai lì e arrampichi. Questo perché negli ultimi anni ho iniziato a volermi godere anche i posti dove abbiamo una relazione, conosciamo la via e non dobbiamo fare niente di straordinario o inesplorato. Durante questo progetto abbiamo avuto sfortuna con il meteo, ha nevicato molto ma lo spirito di incertezza è stato in un certo senso motivo di divertimento. Abbiamo scalato vie conosciute e non estreme, niente di pazzo ma estremamente bello.
È forse per questo che sui vostri social tu e Federica Mingolla avete recentemente usato #notherefortheglory? Devi sapere che quando sei a El Chaltén hai molto tempo per parlare. Quindi ci siamo esse un po’ a filosofeggiare e.. questo è il fatto: c’è molto drama in El Chaltén, persone che vanno lì e non tornano a casa. A volte per incidenti imprevedibili molte altre per errori e mancanza di esperienza o errata valutazione, incidenti stupidi ed evitabili. Il fatto che sia diventata una meta molto gettonata ha un po’ fatto dimenticare a tutti che si tratta di alta montagna, malgrado a valle ci sia la civiltà. In più c’è il tema, come sempre, del perché. Ognuno di noi pratica l’alpinismo per ragioni diverse, ognuno inseguendo il proprio obbiettivo. Quindi c’è chi lo fa per il riconoscimento, chi per il senso di libertà, chi per piacere e chi per divertimento. È facile perdere il proprio focus in favore della gloria e del successo, che oggi come non mai soprattutto per noi donne è travolgente. Però a volte è utile ricordare a sé stessi il perché siamo qui. Siamo qui, almeno io sono qui... per giocare. Per me l’alpinismo è un gioco e voglio divertirmi. C’è stato un momento mentre scala vamo una via in cui ci siamo rese conto che non ci stavamo divertendo, il rischio era considerevole e mi sono detta: “Cmon! Non siamo qui per la gloria e non ci stiamo divertendo... Scendiamo.” Raggiungere una vetta e glorificarsi senza divertirsi a me non interessa al momento. Questo non significa che io non abbia ambizione, non fraintendermi. Ho grandi ambizioni e progetti ma non per forza questi sono mirati al successo ed alla gloria. In altri momenti della mia carriera invece arrampicavo per raggiungere il successo e lo stesso mi ha portato dove sono ora quindi un po’ mi contraddico, ma è giusto che col tempo le motivazioni si evolvano assieme a te.
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È bello vedere sui tuoi canali social la naturalezza con cui parli del ‘fallimento’ di un progetto o di una via... La semplicità con cui dici: “vabbè, sarà per la prossima”. Mi fa piacere che questo emerga! Voglio che passi il messaggio che non c’è bisogno di giustificarsi o rimproverarsi. A volte le condizioni non ci permettono di portare a termine una salita, a volte siamo stanchi altre non ci divertiamo ed è totalmente normale scendere e dire: “Questa volta non è andata, sarà per la prossima.”
Hai spesso affrontato anche la tematica della difficoltà nel trovare partner... Sì! E parlo sia per uomini che donne. Hai bisogno di qualcuno con cui (specialmente in El Chaltén) tu riesca ad andare d’accordo nella vita a valle, che sia un buon amico a cui vuoi bene e con cui condividi motivazioni ed ambizioni. Trovare qualcuno che soddisfi tutti i punti è difficile e per noi donne essendo poche nel mondo alpinistico (escludendo ovviamente la realtà degli 8000, che è un’altra cosa) la sfida è ancora più difficile. E non perché io non voglia avere partner uomini, ma negli anni ho capito che per una questione sociale, con le donne è tutto più semplice. Con un uomo devi essere sicura che il rapporto sia chiaro e non ci siano fraintendimenti, che la fidanzata non sia gelosa... Questo è il motivo tanto semplice quanto fondamentale per il quale preferisco scalare con altre donne, perché è facile, si parla di personalità e di feeling. Con Fede (Federica Mingolla, ndr), anche se lei è molto più forte di me, le ambizioni e la motivazione è la stessa e ci capiamo alla grande, anche sei lei è ancora più iperattiva di me!
Parlando della tua carriera, quali eventi ti hanno resa ciò che sei adesso? Ovviamente, il Piolet D’Or è il riconoscimento più importante per il quale mi sono fatta conoscere, nel 2016. Ma credo che un po’ del successo sia quasi dovuto di più al fatto che, insomma, sono una donna e sono una guida alpina e credo che non ci siano al momento così tante guide alpine donna. Pian piano
il numero sta aumentando ma una volta non era così. Non sono una performer, sicuramente non sono l’alpinista più forte al mondo neanche fra le donne, ma sono molto motivata e sono continuamente alla ricerca di nuove spedizioni e progetti. E non è che ho iniziato mi sono fermata dopo 5 anni, ormai è da più di dieci anni che dedico la mia vita alla montagna. Forse è perché ho sempre avuto un rapporto caotico con i ragazzi! Hahaha. Quale credi sia stata la tua più grande conquista alpinistica? Al 100% il Cerro Murallón in Patagonia, è stata la mia vera prima spedizione e anche la più importante. Ero molto naïve e non mi ero neanche resa conto di quello che stavo effettivamente facendo. Abbiamo passato trentadue giorni in totale autonomia, in cinque trasportando dieci borse dai 20 30kg per anche 12 ore. Nessuno sherpa o supporto, tutto era nelle nostre mani. Ci siamo anche ritrovati nel mezzo di una tempesta e siamo rimasti undici giorni in parete senza informazioni sul meteo perché non avevamo disponibilità di un buon satellite o dispositivi efficienti.
E com’è iniziato il tuo percorso da alpinista? Cosa consiglieresti ad una bimba che come te sogna le grandi pareti? Fino ai diciotto anni stentavo a chiudere un 6b, ho iniziato poi con l’ice climbing e prendere parte a corsi organizzati dalla federazione francese per giovani climber. Non ho mai preso parte a competizione né ero una climber forte.
Voglio che passi il messaggio che non c’è bisogno di giustificarsi o rimproverarsi. A volte le condizioni non ci permettono di portare a termine una salita, a volte siamo stanchi altre non ci divertiamo ed è totalmente normale scendere e dire: “Questa volta non è andata, sarà per la prossima.”
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Sono passata per associazioni di settore, ho conosciuto persone e mi sono fatta degli amici che condividevano la mia stessa passione ed i miei obbiettivi. È possibile approcciarsi al mondo dell’alpinismo anche attraverso lo scialpinismo, e partecipare a corsi e lezioni è importante per acquisire conoscenze e diventare indipendente.
Tu sei anche una guida alpina, lo svolgi come lavoro al momento o non più? Un tempo lavoravo molto, mentre ora grazie agli sponsor riesco a focalizzarmi sui miei progetti, che è abbastanza recente come cosa. Ho comunque continuato ad allenare un gruppo di giovani ragazze: sono in sei e in un percorso della durata di tre anni insegniamo loro tutto ciò che serve per poi concludere con una spedizione. Negli anni ho visto che non è tanto insegnare loro delle competenze tecniche quanto trasmettere loro sicurezza e insegnare loro che da sole possono riuscire in ciò a cui ambiscono. Mi piacerebbe portare nel mondo dell’alpinismo il concetto di collettività, dove spesso invece il successo è fatto di singoli.
Come vedi invece la figura della donna nel mondo dell’alpinismo? Se anni fa dovevamo dimostrare di più per farci valere, ciò che accade oggi è un po’ diverso. L’industria si è resa conto che non c’erano molte donne in questo settore e per questione diverse ha iniziato a lavorare per cambiare questa cosa spingendo giovani ragazze senza competenze e mettendole in mostra come super eroine quando in fondo non c’era niente di speciale o di eroico. Per me quello che deve venire al primo posto è l’educazione alla montagna, credo che per emergere sia necessario partire da qualcosa di profondo e nascosto ma che sia vero. Non si tratta di mettere un paio di pantaloni ed un guscio su una ragazza per renderla un’alpinista e raccontare di avventure non vere e chissà magari metterla anche in pericolo. A questo mi sento molto legata ed è per questo che lavoro per dare importanza ai valori ed alla passione prima di tutto. Non è importante che
la comunità di donne sia numerosa, l’importante è che ci siano alpiniste che lo fanno per passione e all’interno delle proprie possibilità.
Come scegli i tuoi progetti? A me piacciono molto le montagne verticali. Non mi interessa siano le più alte quanto siano inesplorate. Sono molto curiosa e cerco sempre di trovare qualcosa che non conosco solo per avere il bello dell’esplorazione. Quando siamo andati in Nepal, l’idea era in realtà quella di andare in Pakistan ma abbiamo avuto problemi con un visto e nel giro di una settimana abbiamo dovuto cercare un’altra meta, quindi se mai qualcuno se lo chiedesse... sì, è possibile organizzare una spedizione in meno di una settimana ed è lì che essere allineati con il proprio team diventa indispensabile.
Com’è il tuo rapporto con Ferrino? Sono assieme a loro dall’anno scorso, e se c’è una cosa che mi piace è quando un brand mi contatta e con entusiasmo mi fa capire che ci tiene ad avermi a bordo. La comunicazione è sempre efficace e senza difficoltà, per non parlare di quella volta in cui, prima di partire per la Patagonia, ho scoperto che a tenere le redini di tutta l’azienda era Anna, una donna. E mi sono proprio detta “che forza!”. Gli sponsor alla fine sono un po’ come compagni di cordata, devi avere la stessa visione e riuscire a lavorare bene insieme, avere una connessione a livello umano.
Progetti per il 2023? Se tutto si allinea, vorremmo ritentare il Pakistan, ma vedremo se riusciremo a mettere insieme tutti i pezzi. E ancora la Patagonia, il mio posto del cuore.
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È possibile approcciarsi al mondo dell’alpinismo anche attraverso lo scialpinismo, e partecipare a corsi e lezioni è importante per acquisire conoscenze e diventare indipendente.
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BY DAVIDE FIORASO PHOTO SOPHIE ODELBERG
“Sei la somma totale di tutto ciò che hai visto, sentito, mangiato, annusato, raccontato, dimenticato – è tutto lì. Tutto influenza ognuno di noi, e per questo cerco di assicurare che le mie esperienze siano positive.”
– Maya Angelou
Poetessa e scrittrice, Maya Angelou è considerata tra le più influenti intellettuali afroamericane di sempre, oltre che un'importante esponente per la difesa dei diritti civili. Nell'arco di mezzo secolo ha pubblicato saggi, raccolte di poesia, drammi teatrali e sceneggiature. Ha ricevuto decine di premi e più di cinquanta lauree hono
ris causa. È celebre soprattutto per le sette autobiografie incentrate sulle sue esperienze adolescenziali, un baluardo della cultura afroamericana.
La citazione con cui vogliamo chiudere questo numero è molto chiara: fra la nostra interiorità ed il mondo esterno avvengono continui scambi di informazioni che riceviamo sotto forma di impressioni e sensazioni. Anche quello a cui crediamo di non prestare importanza, ma involontariamente assorbiamo, ci influenza: musica, immagini, odori che si imprimono nel nostro inconscio.
Non possiamo pensare di isolarci dal resto del mondo, illuderci di escludere a comando ciò che non vogliamo. Possiamo però selezionare i contenuti che desideriamo assorbire, facendo scelte consapevoli. La presenza mentale, l’essere vigili mentre si sta compiendo qualsiasi azione quotidiana, è fondamentale per non farsi contaminare da ciò che è di bassa qualità. Da quella “spazzatura” psicologica che sta sempre più incidendo nelle nostre vite.
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LAST WORD
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