The Pill Outdoor Journal 61 ITA

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Speciale Trail

Ultrarunning
1500 miglia, 4 stati e 2 fusi orari attraverso la storia dell’ultrarunning. E una 100 miglia nel deserto, per ricordarsi il proprio nome.
US
Trip
Orizzonti lontani e vicini: atleti, viaggi, storie, progetti, idee, intuizioni e sogni. Insomma, pezzi di vita, lasciati a bordo sentiero. €7 The Speed Project 500 chilometri da Los Angeles a Las Vegas, in squadra: 90 chilometri a testa attraverso personaggi da romanzo e luoghi improbabili.

deburghese in sottofondo. Dietro alla cassa c’è una sezione di riviste con un paio di sgabelli su cui sfogliarle. Penso a un vecchio film di Joel Wolpert, con Krupicka seduto su uno di quegli sgabelli a leggere Alpinist. Sono passati dieci anni e io e Denis ce ne stiamo lì a sfogliare le stesse riviste leggendarie: Outside, Alpinist, Ultrarunning Magazine. Outside ha la redazione qualche centinaio di metri dopo la libreria, sempre in Pearl Stre-

gelateria. Le betulle sono arancioni e l’autunno è inoltrato. Da Burton tiriamo su un paio di free press di snowboard, sono uguali a quelli di vent’anni fa. «Quando viaggio torno sempre a casa con delle riviste» mi dice Denis, «non so se le leggerò mai tutte ma mi piacciono, mi piace averle in casa, mi piace guardarle li tutte esposte e come la memoria storica dei miei viaggi forse della mia vita.»

Denis fa riviste da quando ha la miata volta negli Stati Uniti per lavoro, per me è la prima. Io ho sì e no l’età che aveva lui quando ha iniziato, ma in entrambi i casi, almeno in un certo momento della nostra vita, abbiamo idealizzato questo lavoro.

A sfogliare Outside oggi non è poi questa gran cosa: certo, è la rivista dei racconti di Krakauer, di Into the Wild e di Aria sottile, ma la carta è scadente, le foto sono mediocri. Comunque, per me resta avvolta da un irriducibile fascino.

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Affronta ogni tipo di terreno, oltre il tempo, oltre la di stanza. Massima stabilità, ammortizzazione e ritorno di energia. Il trail è ai tuoi pie di RUN. LONGER.

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Ho iniziato a scrivere per una rivista perché amo il concetto stesso di rivista. Amo le riviste come oggetto, amo le edicole. Avete presente i Sogni segreti di Walter Mitty? Con Sean Penn che fa il fotografo per Life e spedisce i negativi a Ben Stiller che lavora nascosto in un seminterrato? Ecco, quella cosa lì. Il nostro lavoro è così? Raramente. Ma ora sono negli Stati Uniti per scrivere un pezzo, ed è quanto basta.

Mentre scrivo un reportage quella diventa la cosa più importante della mia vita, indipendentemente da come è fatto, non ha importanza. In quel momen-

EDITO

to diventa la cosa a cui tengo di più e la migliore che ho scritto. Poi l’articolo viene pubblicato e me ne dimentico, o quantomeno non lo trovo più così importante o così bello. Non so se sarà così anche questa volta, ma penso che questo numero, per il momento, si avvicini più di ogni altro al mio ideale di rivista. Lo soddisfa completamente?

No, ma ne sono comunque molto soddisfatto. Dentro ci trovate diversi reportage, interviste, articoli di prodotto, insomma, un po’ tutto quello che serve, e in più, ci trovate anche uno speciale, uno speciale davvero lungo: 50 pagine, quattro stati, due fusi orari, tre

deserti, una catena montuosa. Uno speciale che parte da un’idea: ripercorrere un movimento che da ovest, dalla California, dove l’ultrarunning è nato negli anni Settanta, torna verso est, verso le montagne, come una marea, e arriva a Boulder, in Colorado, dove questo sport si è sviluppato ed è cresciuto, e dove forse ha iniziato la sua fase discendente, e d’altronde dove è finito il nostro viaggio.

Abbiamo ripercorso la storia di questo sport, attraverso i luoghi che l’hanno segnata, per provare a vedere dove siamo finiti e dove stiamo andando.

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THE TREKKING COLLECTION

LAGORAI DOLOMITES

PRODUCTION

The Pill Agency | www.thepillagency.com

EDITOR IN CHIEF

Denis Piccolo | denis@thepillagency.com

EDITORIAL COORDINATOR

Lisa Misconel | lisa@thepillagency.com

EDITING & TRANSLATIONS

Silvia Galliani

ART DIRECTION

George Boutall | Evergreen Design House Niccolò Galeotti, Francesca Pagliaro

THEPILLOUTDOOR.COM

hello@thepillagency.com

PHOTOGRAPHERS & FILMERS

Matteo Pavana, Thomas Monsorno, Camilla Pizzini, Chiara Guglielmina, Silvia Galliani, Francesco Pierini, Elisa Bessega, Andrea Schilirò, Denis Piccolo, Achille Mauri, Simone Mondino, Alice Russolo, Patrick De Lorenzi, Giulia Bertolazzi, Tito Capovilla, Luigi Chiurchi, Isacco Emiliani, Pierre Lucianaz

COLLABORATORS

Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Marta Manzoni, Sofia Parisi, Fabrizio Bertone, Eva Toschi, Luca Albrisi, Luca Schiera, Giulia Boccola, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel, Chiara Beretta

SHOP & SUBSCRIPTIONS

www.thepilloutdoorshop.com

SHOP MAGAZINE MAP www.thepilloutdoor.com/magazine-finder

COMPANY EDITOR

Hand Communication, Piazza XX Settembre 17, Saluzzo CN 12037, Italy hello@thepillagency.com

COVER

Illustration Federico Epis X Millet

PRINT

L'artistica Savigliano, Savigliano - Cuneo - Italy, lartisavi.it

DISTRIBUTION

25.000 copies distribuited in 1100 shops in Italy, Switzerland, Austria, Germany, France, Belgium, Spain, England & The Netherlands

ADVERTISING

hello@thepillagency.com | +39 333.7741506

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The Pill rivista bimestrale registrata al tribunale di Milano il 29/02/2016 al numero 73

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THE CREW
PHOTO ACHILLE MAURI

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SPIN PLANET la scarpa che introduce un nuovo concept sostenibile nelle calzature da Trail Running, perfetta per le lunghe distanze. Cushioning protettivo e comfort dalla prima calzata.

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THE DAILY PILL

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MILLET UP FOR ANYTHING

SCIACCHE TRAIL

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THE BASQUE FEVER

THE SPEED PROJECT

THE SEARCHERS

10 P.12 P.16 P.20 P.24 P.28 P.32 P.36 P.38 P.40 P.42 P.44 P.48 P.50 P.52 P.54 P.60 P.64 P.68 P.72 P.76 P.80 P.84 P.88 P.92 P.98 P.104 P.108 P.114 P.122 P.138
PHOTO ACHILLE MAURI

THE DAILY PILL

IL NUOVO SET UP DYNAFIT ULTRA

PER LE ULTRAMARATONE DELL’ESTATE 2023

Ready for more distance? Dynafit per la stagione estiva 2023 presenta il nuovo set up Ultra, un sistema dedicato alle ultramaratone e costituito da prodotti perfettamente abbinati fra loro che vestono dalla testa ai piedi. Fra questi prodotti ci sono le nuove scarpe da trail running Ultra 100, capi di abbigliamento altamente funzionali e ultraleggeri, gli occhiali da sole Ultra, che regalano una vista con contrasti nitidi in alta quota, e attrezzatura con proprietà sofisticate per un maggiore comfort e più spazio per riporre gli oggetti.

THE NORTH FACE PRESENTA IL NUOVO SERVIZIO DI NOLEGGIO GRATUITO DI ATTREZZATURA DA CAMPEGGIO

The North Face offre a tutti coloro che amano trascorrere il tempo libero a contatto con la natura il nuovo servizio gratuito di noleggio di attrezzatura da campeggio, pensato per accompagnare gli appassionati con il meglio della tecnologia proposta dal brand. Il servizio prenderà il via dal 1° luglio per 5 week end presso gli store italiani di Milano, Verona e Torino. Per poter usufruirne sarà necessario iscriversi al loyalty programme XPLR PASS e selezionare una data di interesse.

FERRINO CORRE CON MEHT E UTLM

Quella che lega Ferrino con il territorio del Monte Rosa è una vera e propria storia d'amore. Per confermare questo storico legame Ferrino è da sempre vicino alle iniziative legate agli sport di montagna che hanno come teatro il Rosa e i territori limitrofi. Lo scorso anno è nata la partnership con il Monterosa EST Himalayan Trail, la grande gara che si svolge sul versante orientale della montagna, collaborazione che verrà rinnovata anche quest’anno in occasione della quinta edizione della competizione, che si terrà il 29 e 30 luglio con i suoi cinque percorsi di differente lunghezza e sviluppo.

MIDNIGHT RUNNERS: MIZUNO PORTA A MILANO LA FAMOSA CREW LONDINESE

Il 15/07 Milano ospiterà la “Midnight Runners”, la corsa nata a Londra nel 2015 dall’idea di due amici che decisero di invitare altre persone ai loro allenamenti serali in una esperienza coinvolgente grazie a degli speaker bluetooth. Dal 2023 Mizuno è partner del progetto che si affianca all’iniziativa locale “For Every Run Tour”: un viaggio che coinvolge 18 retailer con l’obiettivo di testare i nuovi modelli del brand in un’atmosfera di divertimento, musica e good vibes. La tappa a Milano segnerà anche il lancio del nuovo modello Wave Sky 7.

AKU ALLARGA LA SUA RETE RIFUGI A 13 STRUTTURE

Con l'arrivo della stagione estiva le montagne di preparano ad accogliere escursionisti e alpinisti desiderosi si avventura. Tra le numerose strutture sulle Alpi, 13 fanno parte della rete rifugi Aku. Avviata nel 2021 con 4 strutture, comprende oggi 13 rifugi sull’arco alpino e nell’Appennino. Oltre a fornire ai gestori e al personale di servizio le calzature idonee a svolgere il lavoro dentro e fuori il rifugio, la collaborazione con Aku prevede azioni condivise di comunicazione e il sostegno a iniziative rivolte a promuovere un approccio alla montagna più responsabile, sicuro e a ridotto impatto ambientale.

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THE DAILY PILL

JACK WOLFSKIN E REINHOLD MESSNER ANNUNCIANO LA LORO COLLABORAZIONE

L'icona dell'outdoor Reinhold Messner e sua moglie Diane diventeranno consulenti e membri del Brand Council di Jack Wolfskin, uno dei maggiori specialisti di abbigliamento, attrezzature e calzature outdoor. Lavoreranno per sviluppare concetti strategici di sostenibilità e progetti di rewilding a lungo termine. Il marchio segue il principio "Rewild yourself - Rewild the world" e supporta tutti coloro che si riconnettono con la natura e ne condividono la sua conoscenza. L'attenzione si concentra anche sulla ricostruzione degli ecosistemi.

MILLET OFFICIAL PARTNER DEL CAMPIONATO MONDIALE MASTERS DI SKYRUNNING

Millet ha siglato l’accordo di sponsorship del primo Campionato Mondiale Masters di Skyrunning che si terrà il 30 luglio alla Royal Ultra SkyMarathon di Ceresole Reale. L’accordo vede il marchio francese a fianco dell’International Skyrunning Federation e conferma il suo DNA verticale e l’impegno nella corsa ad alta quota. Si tratta della prima competizione dedicata alla categoria Masters dove skyrunner ultraquarantenni gareggeranno per il titolo in una gara di 55km che attraversa colli, morene e nevai fino a un’altitudine di 3002 metri.

LA SPORTIVA FORTIFICA IL PROPRIO POSIZIONAMENTO STRATEGICO ACQUISENDO L’AZIENDA MEET ITALIA

La Sportiva compie un importante passo per consolidare la propria filiera produttiva Made in Italy di alta qualità. L’azienda guidata dalla famiglia Delladio ha infatti acquisito la quota di maggioranza nella società veneta Meet Italia, manifattura storica specializzata nella produzione di calzature da montagna e da sempre Made in Italy. Il rapporto fra le due aziende consolida una partnership strategica di oltre venti anni che va dalla fornitura di semilavorati alla realizzazione di alcuni modelli storici dell’azienda trentina.

MATTEO DELLA BORDELLA HA COMINCIATO IL TREKKING DI AVVICINAMENTO ALL’OGRE

L’alpinista membro dei Ragni di Lecco e i compagni François Cazzanelli, Silvan Schüpbach e Symon Welfringer hanno cominciato il trekking di avvicinamento alla parete dell’Ogre (7285m). Si tratta di una delle montagne più belle e difficili del Karakorum. Le scalate di Della Bordella vengono sempre condotte all’insegna di un approccio leggero e rispettoso delle montagne e del loro contesto naturale. Matteo ha trovato un valido supporto in questo senso in Ferrino, che mette a sua disposizione il meglio delle proprie attrezzature tecniche.

GARMIN PRESENTA FENIX 7 PRO E EPIX PRO: I COMPAGNI IDEALI PER LE AVVENTURE OUTDOOR

Nell’innevata cornice dello Skyway Monte Bianco, Garmin ha presentato i nuovi smartwatch multisport fēnix 7 Pro ed epix Pro, gli ultimi arrivati che sicuramente faranno felici tantissimi appassionati di sport outdoor. Tra le tante feature innovative, le serie Pro sono dotate di funzioni dedicate all’allenamento e alla gara, una navigazione ancora più chiara e un monitoraggio approfondito dello stato di forma fisica. Entrambi i modelli sono concepiti per supportare atleti e amanti dell’outdoor e spingerli a dare il massimo in qualsiasi contesto.

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ROSANNA BUCHAUER READY FOR MORE DISTANCE ULTRA

1.LA SPORTIVA

TRACER T-SHIRT

Corse brevi e sessioni di allenamento veloci richiedono comfort e funzionalità. L'innovativa tecnologia S-Café, che combina i fondi di caffè riciclati sulla superficie del filato, regola naturalmente gli odori e la sudorazione. Il design atletico segue i movimenti del corpo ed è arricchita da dettagli riflettenti.

4.BROOKS

C ASCADIA 17

Ultima versione del modello trail di punta di Brooks, Cascadia 17 è migliorata e presenta nuovi dettagli tecnici per performance ancora più elevate. Con sistema di stabilizzazione Trail Adapt per stabilità e sicurezza sui sentieri più tecnici. Sulla suola invece troviamo un sistema di tasselli TrailTrak Green per massima trazione con il 25% di materiali riciclati.

BEST MADE

2.NEW BALANCE

S UMMIT UNKNOWN V4

Intersuola FuelCell dall’elevato ritorno energetico, suola Hydrohesion particolarmente aggressiva, abbinata ad un Rock Stop Plate che garantisce trazione su fondi bagnati e insidiosi. Tomaia bootie-style che offre il giusto supporto e aiuta a mantenere i piedi liberi dai detriti. Pensata per muoversi velocemente su terreni tecnici.

5.MILLET

I NTENSE BEL T

Ampio scomparto elasticizzato per soft flask, tasche laterali in mesh, tasca con cerniera, clip per chiavi, custodia per smartphone e porta bastoncini. Dotata di fischietto d'emergenza, questa cintura da trail running in poliestere riciclato è stata sviluppata insieme al Team Sidas Matryx. Disponibile in quattro taglie.

3. BLACK DIAMOND

D ISTANCE 4 HYDRATION VEST

Progettato per le lunghe distanze, la seconda generazione del vest Black Diamond presenta un’innovativa struttura elasticizzata che migliora ulteriormente la vestibilità ed i comfort durante la corsa. Sistema di trasporto Z-Pole, grande tasca posteriore ad accesso rapido, HydraPak soft flasks inclusi.

6.MIZUNO

WAVE RIDER 27

La 27a edizione dell'iconica Wave Rider si riconferma la scarpa da running adatta a tutti. La rinnovata tomaia in mesh jacquard, ancora più leggera, e la migliore vestibilità del tallone completano la formula perfetta per gli allenamenti quotidiani. Una scarpa dinamica che unisce ammortizzazione, velocità e supporto.

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MONT BLANC BOA ®

COMFORT MEET SPEED

THÉO LE BOUDEC ALTRA ELITE ATHLETE

FOOTSHAPETM TOE BOX

Indossare per la prima volta un paio di scarpe Altra Running significa eseguire prestazioni eccezionali con un comfort mai provato prima. Ma non solo: indossare una scarpa Altra significa anche correre verso una nuova passione, un nuovo record personale, nuovi obiettivi e tanto altro ancora.

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8.SUUNTO

V ERTICAL

I più alti standard di resistenza, la miglior precisione sul mercato, mappe cartografiche offline, un’incredibile durata della batteria, potenziata dalla ricarica solare. Suunto Vertical è il nuovo sportwatch GPS per esplorare le vette più alte e le valli più ripide. Prodotto interamente in Finlandia con il 100% di energia rinnovabile.

10.JACK WOLFSKIN

3D AERORISE 40

Traspirante, robusto e comodo: 3D Aerorise 40 possiede un innovativo sistema di trasporto per un comfort senza precedenti. Dalla stampa 3D nascono quattro imbottiture personalizzate per lo schienale che si adattano al corpo e distribuiscono il peso in modo ottimale. La struttura a pori aperti migliora la ventilazione e riduce l’accumulo di calore sulla schiena.

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8.ALTRA

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Realizzata a partire dalle stesse caratteristiche della Mont Blanc originale, integra la tecnologia PerformFit Wrap con sistema a doppio quadrante BOA Fit System, per una micro-regolazione rapida e precisa durante la corsa. Progettata per affrontare lunghe distanze nel massimo comfort grazie allo Standard FootShape Fit e l’intersuola Ego Max.

11.SALEWA

E RGO TEX SET VIA FERRATA

Set da via ferrata leggero, altamente ergonomico e ultra compatto, con moschettoni Ergotec 3.0 autobloccanti e facili da usare, cordini elastici resistenti all'abrasione e speciale sistema rotante integrato per evitare che si attorciglino. Equipaggiato con dissipatore compatto a strappo ed un anello di riposo. Si ripone nella pratica custodia in mesh.

9.AKU

VIAZ DFS GTX

Viaz DFS GTX ridefinisce un nuovo standard di calzatura polivalente per alpinismo tecnico e veloce, escursionismo impegnativo e vie ferrate. Evoluzione dello storico modello Viaz, impiega la tecnologia Dynamic Fit che permette di adattare dinamicamente la tensione del tallone al proprio passo, con un migliore comfort e stabilità.

12.SAUCONY

ENDORPHIN RIFT

Saucony presenta Endorphin Rift, per spingersi alla massima velocità su qualsiasi sentiero. La scarpa da trail combina alcune delle tecnologie più avanzate del brand in un design leggero. Ammortizzazione PWRRUN PB per una sensazione di leggerezza e il massimo ritorno di energia, suola PWRTRAC per un’elevata aderenza anche fuori dai sentieri battuti.

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CURIOUS BY NATURE

We venture out into nature to reconnect with ourselves and change our perspective to look at things differently than before.

Contemporary outdoor since 1870

1.L.L. BEAN X BEAMS

GREENLABEL SWEAT HOODIE

Beams ha rivelato la sua collaborazione con LL Bean, storico brand di outdoor gear con sede a Freeport, nel Maine. Parte di un più ampio accordo con le sotto-etichette Beams Plus e Beams Boy, la collezione completa di capi casual relaxed fit è stata presentata da una adorabile campagna dal tema “a little clever daily wear”.

4.BRAIN DEAD X OAKLEY

RADAR EV PATH

Nel corso della sua evoluzione, la collezione Radar ha assunto diverse forme, adattandosi ad un ambiente in continuo cambiamento. Questa versione segna un punto di partenza importante, la nascita dell’Oakley Factory Team, laboratorio di innovazione creato da Oakley con Brain Dead, collettivo di artisti e designer fondato a Los Angeles nel 2014.

KILLER COLLABS

2.RC X MERRELL 1 TRL

MTL LONG SKY 2

Un modello che nasce dall’incubatore di idee chiamato Merrell Mountain Lab, ed evolve nella collezione 1TRL, progettata per coloro che cercano altre dimensioni fuori dal sentiero. Un concentrato di stile e funzionalità che si veste con due nuove colorazioni proposte da Reese Cooper, stilista californiano e artista multidisciplinare.

5.CIELE ATHLETICS X ROARK

BOMMER SHORT 3.5"

The Lost and Found è la nuova avventura congiunta tra Ciele e Run Amok, nata a Tahiti, nel profondo della giungla. Il pantaloncino Bommer Ridge è stato aggiornato con un leggero tessuto elasticizzato a 4 vie perforato che ne migliora la traspirabilità. Fodera a compressione, tasche con chiusura a calamita, tasche con zip sul retro.

3.PAS NORMAL STUDIOS X SALOMON XT 20 HIKING BAG

Salomon e Pas tornano con il secondo capitolo della collaborazione presentata a inizio 2023. Si tratta di una piccola capsule caratterizzata da una colorazione verde oliva. Ad accompagnare la sneaker RX Snug lo zaino XT 20, pensato per chi ama i viaggi e l’escursionismo. Design audace, tessuti morbidi, e un'infinità di scomparti.

6.PARKS PROJECT X NEW

BALANCE FRESH FOAM HIERRO V7

Tra le innumerevoli iniziative di Parks Project, a supporto e tutela dei parchi nazionali americani, spunta il debutto collaborativo con New Balance: un’ampia collezione di abbigliamento funzionale e questa rielaborazione della Hierro V7 in una tomaia Nightwatch Green rafforzata da sovrapposizioni di pelle scamosciata.

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Soften your impact.

Fresh Foam X More Trail

7.SKIDA X WILD RYE

BRIM HAT

L’incontro di due brand, tutti al femminile, che condividono la passione per il bello: Wild Rye, B-Corp della Sun Valley e Skida, azienda di headwear e accessori con sede nel Vermont. Brim Hat è un cappellino leggero, ripiegabile e ad asciugatura rapida per tutte le occasioni all’aria aperta. Disponibile in questa esclusiva stampa Chonky Floral.

10.HOKA X COTOPAXI

ANACAPA BREEZE LOW

Dopo il successo del 2021, Cotopaxi rinnova la collaborazione con il brand del gruppo Deckers. Lo fa con un’altra interpretazione d’impatto, quella su Anacapa Breeze Low, la cui tomaia ultraventilata propone un vivace remix supportato dalle principali caratteristiche prestazionali Hoka: suola Vibram Megagrip e tallone Hubble ampliato.

KILLER COLLABS

8.STANLEY X PENDLETON

CLASSIC PERFECT-BREW POUR OVER SET

L’autentico motivo Pendleton si abbina ancora una volta alla forma e alla funzione Stanley in un set che onora e supporta i vigili del fuoco delle terre selvagge. Il pour-over in acciaio inossidabile include un filtro riutilizzabile, mentre la leggendaria struttura sottovuoto del Camp Mug manterrà il tuo caffè alla temperatura perfetta.

11.FAXE KONDI X SAYSKY

COMBAT T-SHIRT

Lo stile scandinavo di Saysky, urban e casual, si ravviva con gli iconici colori di Faxe Kondi, bevanda danese prodotta da oltre 50 anni dalla Faxe Bryggeri. Nella collezione questa versione della t-shirt da running Combat in SAYSKYDRY performance fabric. Sulla manica lo slogan "Når der går sport i den", quando c'è lo sport dentro.

9.STONE BREWING X SANUK

YOU GOT MY BREW ST

Classico Sidewalk Surfer ideale a garantire il comfort dal giorno alla notte. Tomaia 100% canapa con tradizionale cucitura rialzata in punta, plantare Soft Top in schiuma Bloom foderato in pelle e dettaglio co-branded a rimarcare la collaborazione con Stone Brewing, uno dei più grandi birrifici artigianali di tutta la California.

12.THE NORTH FACE X ONLINE

CERAMICS BASE CAMP GEAR BOX

The North Face annuncia il secondo capitolo della collaborazione con Online Ceramics, marchio streetwear, fondato a Los Angeles nel 2016, noto per le sue t-shirt tinte a mano. Tra le nuove proposte il borsone Base Camp Gear Box in poliestere riciclato, ideale per il trasporto di attrezzatura grazie a supporti metallici pieghevoli.

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Non farti ostacolare dalle intemperie. Libera il tuo istinto animale con la collezione High Point, che ti o re massima libertà di movimento, spazio e protezione. D'ora in poi completa la tua dotazione trail con i nuovi capi dotati di sistemi di termoregolazione in lana merino e le giacche impermeabili 14K/14K.

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S CARPA: HERVÉ BARMASSE NUOVO

AMBASSADOR

PER LA SOSTENIBILITÀ

SCARPA rinnova la tradizione che lega il proprio marchio ai più importanti protagonisti dell’alpinismo internazionale: Hervé Barmasse sarà infatti nuovo ambassador del brand, con un focus particolare sulla sostenibilità. L’atleta valdostano rappresenterà SCARPA a livello internazionale, collaborando allo sviluppo di nuovi prodotti e dando il suo contributo alla ricerca di soluzioni innovative per il mondo dell'alpinismo. Barmasse metterà inoltre a disposizione di SCARPA la sua esperienza come divulgatore, facendosi promotore di iniziative mirate a diffondere i valori di rispetto dell’ambiente e sostenibilità.

V IBRAM E NNORMAL SIGLANO UNA NUOVA PARTNERSHIP E LANCIANO IL REPAIRABILITY PROGRAM

Uno dei pilastri dell’impegno di NNormal è rappresentato dalla durata di una calzatura. Il Repairability Program è sicuramente un’ottima soluzione per prolungare la vita delle scarpe ed evidenzia l’impegno condiviso tra i due brand verso la trasformazione del modo in cui le scarpe vengono prodotte e utilizzate. L’iniziativa di risuolatura Vibram, a cui è stato dedicato un team di calzolai esperti nella riparazione di scarpe tecniche da running, sottolinea il valore di questa pratica e il ruolo che ognuno può svolgere nella riduzione degli sprechi.

S ALEWA LANCIA VENTO, LA PRIMA CAPSULE COLLECTION DA MOUNTAIN BIKE

Da sempre sinonimo di attrezzatura tecnica innovativa per l’alpinismo e l’arrampicata nonché un punto di riferimento a livello internazionale. Per la stagione 2023 il brand ha deciso di sviluppare la sua prima collezione da mountain bike. Fedele al motto “Live the Mountains, ride with nature”, la linea è stata studiata per avere un’impronta ambientale minima grazie all’utilizzo di tessuti naturali come Alpine Hemp e lana Alpine Merino. In aggiunta, l’etichetta Salewa Committed certifica il rispetto di stringenti criteri di responsabilità sociale e ambientale.

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VIAZ DFS GTX

PERFORMANCE, SICUREZZA E COMFORT

NATURAL STRIDE SYSTEM

ECO SEVEN

“ TAGLIA, STRAPPA, CUCI” AL CAMPO BASE FESTIVAL CON FERRINO

Dal 2 al 4 settembre al Campo Base Festival in Val d'Ossola, Ferrino da appuntamento a tutti gli appassionato di outdoor con il suo progetto di upcycling. "Taglia, strappa, cuci" sono infatti le parole d'ordine dell'approccio all'upcycling di Ferrino che ha affidato ai propri modelist il compito di trovare soluzioni pratiche e facilmente realizzabili di riutilizzo creativo che consentano, ad esempio, di dare nuova vita alla tenda che ci ha accompagnato in tante avventure, trasformandola in una sacca, in un telo da pic nic o in un pratico copri zaino.

M AMMUT, STRAVA E CLIMEWORKS NELLA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Seguendo la sua strategia climatica “do our best, remove the rest” Mammut ha investito fortemente nella ricerca di soluzioni innovative per minimizzare le emissioni di carbonio in tutta la supply chain. Il frutto di questi sforzi è rappresentato dalla collab con Climeworks, leader nella rimozione dell’anidride carbonica. In questo ambito, Mammut ha intrapreso una importante iniziativa sfidando gli atleti su Strava al “race to zero” nel mese di maggio 2023 con l'obiettivo di percorrere 100km per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgenza di agire in relazione al cambiamento climatico.

J ACK WOLFSKIN VERSO UN'ECONOMIA SEMPRE PIÙ CIRCOLARE

Jack Wolfskin, il marchio tedesco di abbigliamento, calzature e attrezzature per l’outdoor, sta lavorando per implementare un modo nuovo e sostenibile di utilizzare gli scarti tessili all'interno della propria linea di produzione. Il questo ciclo virtuoso, i tessuti in poliestere saranno riciclati una volta rimosse cerniere, bottoni e chiusure in velcro. Attraverso un processo chimico verrà prodotto un granulato di PET certificato da Global Recycle Standard (GRS), indistinguibile da un materiale non riciclato in termini di proprietà e sensazione al tatto. Da qui nasceranno nuovi e sempre più sostenibili prodotti.

O RTOVOX SS24: PER PROTEGGERE

L A MONTAGNA E GLI ALPINISTI

Ortovox ha sempre avuto come obiettivo quello di proteggere coloro che praticano sport di montagna e, al tempo stesso, preservare l'ambiente adottando un approccio responsabile e coerente. In quest'ottica si inserisce la nuova serie Westalpen che rappresenta un’innovazione che punta a garantire un livello superiore di protezione in alta quota. I prodotti della linea offrono una protezione tecnica hardshell specifica per i terreni più impegnativi. Sono inoltre realizzati con un nuovo materiale misto Merino che protegge dall’abrasione pur offrendo la traspirabilità necessaria in alta quota.

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saucony.com
Hit the trails. Ditch the speed limits.
PEREGRINE 13

Ultra Trail Snowdonia

Sono partito da Venezia con il sole e sono atterrato a Manchester con la piog gia, quella forte, che mischiata a nebbia e vento poneva le basi per un weekend in pieno stile anglosassone. Mentre l’ad detto al noleggio auto osserva le condi zioni della vettura, mi accorgo che il volante si trova a destra, dettaglio che avevo completamente tralasciato. Non sarà un grosso problema, ma il ricor do di anni fa, di quella prima volta, mi alza i battiti. Eppure bastano dieci mi nuti di sudore freddo per farmi entrare nel clima, e poi la gente qui sembra ri spettare limiti e indicazioni. Direi bene.

Mi dirigo a Llanberis, nella regione del Gwynedd, nel nord del Galles. Due ore circa di auto su strade larghe a più cor sie, poi un’unica svolta a sinistra e mi trovo immerso nella natura. È tutto come l’avevano descritto nei libri, come avevo visto nei documentari: distese d’erba verde smeraldo, alberi, pecore, un lago e piccoli torrenti sparsi ovunque. Abbasso il finestrino e rallento, c’è silenzio e sento il cinguettio degli uccelli. I muscoli delle spalle si rilassano e nel mentre ha perfino smesso di piovere. C’è ancora un po di foschia ma sono ottimista, nessuna previsione parla di cattivo meteo per i prossimi due giorni. Quello che basterebbe per ripagare l’immenso lavoro di organizzazione dell’Ultra Trail di Snowdonia. Il motivo per cui sono qua. Quello che basterebbe a circa 2800 trail runner provenienti da oltre 64 nazionalità per godersi il Parco Nazionale di Snowdonia.

Ultra Trail Snowdonia è l’unica gara del prestigioso circuito “by UTMB” nel territorio del Regno Unito e nasce da un'idea del corridore britannico Michael Jones, mentre si allenava per l’UTMB

(Ultra Trail du Mont Blanc) nel 2015. Michael si chiese perchè non ci fossero gare di ultra trail simili nel Regno Unito e così, alla fine del 2017, dopo essersi classificato 8° alla CCC (Courmayeur/ Champex/Chamonix), ha lanciato la gara. Un successo immediato nella sua prima edizione da 50 e 100 miglia. Oggi è alla sua quinta edizione e offre 4 distanze: 25k, 50k, 100k, 100m.

Ai media hanno riservato una splendida casetta molto accogliente. Busso la porta e mi apre Mathieu, un francese che correrà la 50k. Assieme a lui c’è Louis, un altro francese, l’assistente di gara. Conosco subito Sange, sta suonando il flauro, è nepalese e correrà la 100miglia. Claire invece è una YouTuber inglese e correrà, con calma dice lei, la 50k.

Ci sono circa 2000 abitanti in questo paesino ma sembrano molti meno. La via principale, che di fatto è il centro del paese, è composta da strette case

di vari colori. Negozi, pub, supermarket. Sembra esserci tutto l’occorrente. Chiudo la porta per farmi due passi, dopo ore di aerei e auto mi sembra il minimo. Raggiungo il villaggio di gara. Sono curioso. Attraverso un campo d’erba inzuppato d’acqua, poi un ponte stretto e fatto di legno, con mamma anatra e i suoi piccoli che mi passano affianco. All’improvviso sento il rumore di un treno a vapore. Mi spavento ma è tutto vero. È il treno che dalla zona di partenza e arrivo della gara porta fino a Llanberis Pass, dove la maggior parte degli escursionisti parte per raggiungere la vetta dello Snowdon, il monte più alto del Galles. Il giorno successivo perlustro tutti i ristori della gara con i due francesi, in auto. Osserviamo alcuni passaggi. Ci gasiamo. È tutto stupendo, non c’è una nuvola, il sole splende, la temperatura mite, il venticello. Se rimane così, sarà perfetto domani! In Italia piove fortissi-

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mo. Il mondo si è ribaltato. Godiamoci il momento. Ho voglia di partire, di far girare le gambe, di conoscere posti nuovi. Finalmente è arrivato il giorno della gara. Sono le 7 di mattina e la griglia di partenza è quasi piena, siamo circa 1200 corridori nella 50k, di fatto la distanza più quotata del weekend. Ci scaldiamo, sono con Alessandro, un amico che abita a Londra. Cerchiamo di farci spazio per non rischiare di rimanere incagliati nel gruppo. Arriviamo li davanti, dove a pochi metri ci sono corridori del calibro di Tom Evans.

Se non lo conosci, male. Uno dei miei idoli, nello sport e nella vita.

La partenza è esplosiva. Lo sapevo. Ne sono abituato. Che siano dieci chilometri, cinquanta o cento, la questione è sempre la stessa: si parte forte! Il profilo altimetrico della gara parla chiaro. Due salite da mille metri circa, due discese, due salite da 600 metri circa, per un totale di circa 3300 d+ in 55 km. La prima salita è quasi tutta corribile, con un pezzetto erto nel mezzo. La prima discesa invece è incredibilmente posata su sassi più o meno piatti, più o meno stabili, più o meno bagnati. Non lo nego, amo i segmenti tecnici e mi sono divertito un sacco. La vista aperta sulla vallata mi ha riempito il cuore. Nella seconda parte della discesa i tecnicismi lasciano spazio ad un percorso prima pianeggiante, poi nervoso, fatto di continui saliscendi tra fango ed erba inzuppata, all’ombra di alberi secolari dai tronchi spessi come automobili e rami intrecciati. Dopo aver scavalcato letteralmente le recinzioni del bestiame con scalette appositamente costruite, iniziamo la salita allo Snowdon. Finalmente, sono curioso di salirci.

Lunga, erta, dura e tra fatica, gioia e divertimento il mio tendine d’Achille, già dolorante nei mesi precedenti alla gara, decide di non collaborare, quasi volesse dirmi di alzare quella benedetta testa, di godermi i paesaggi, di non guardare l’orologio. Quasi volesse dirmi che due

giorni di sole, in Galles, sono un regalo per pochi. Sembra strano, ascolto questa sensazione. Sono sereno e salgo molto piano rispetto ad un ritmo gara. Perfino mi fermo a guardarmi attorno. Il dolore passa in secondo piano. Godo il momento. Osservo le creste ondeggianti delle altre cime, percepisco tutto il percorso della gara.

Vedo perfino Llaneberis laggiù infondo. Ho perfino l’occasione di conoscere alcuni concorrenti. Portoghesi, cinesi, spagnoli, colombiani. Dalla cima dello Snowdon, e siamo solamente a 1086 metri di altitudine, si vede il mare. Fantastico. Nonostante il ritmo il tendine si incazza ugualmente e decido di fermarmi al 30 esimo chilometro per non aggravare la situazione. Ho il sorriso e un volontario stupito e perplesso mi chiede cos’ho combinato. Spiegata la situazione mi fa un sorriso, mi abbraccia, chiama un altro volontario. Nel mentre mangio. Ho comunque fame. Bevo. Un altro volontario mi sorride, mi porta vicino al mezzo di trasporto. Sono sorridenti e disponibili qui, li pensavo diversi questi Gallesi. Maledetti pregiudizi!

Salgo sul furgone dei DNF (do not finish) e nonostante tutto non è mai piacevole, ve lo assicuro. Nonostante la gioia interiore, capace di farmi vivere il momento con un gran sorriso, il tra-

gitto è infinito e salgono corridori ritirati dalla 50k, 100k, 100miglia. Siamo in otto e non c’è un posto libero. C’è gente assonnata e distrutta dalla vita.

All’arrivo incontro Mathieu, il mio coinquilino. È arrivato secondo, dietro a Tom Evans, primo oggi con il crono di circa 5 ore e 30 minuti. Gli chiedo com’era la seconda parte di gara e mi dice che avrei potuto continuare. La seconda parte è fantastica, si corre all’ombra, in mezzo ai boschi, si sale nelle due creste, molto simili tra loro, dove si osserva lo Snowdon in lontananza, i laghi ed i piccoli villaggi. Poi si scende in picchiata verso Llanberis sperando che qualcuno non ti sorpassi. E così, si arriva secondi. Non ci vuole mica tanto, mi dice sorridendo!

Lo abbraccio, mi congratulo e gli dico che ci tornerò in Galles, ci tornerò a Snowdonia, perché la serenità che mi ha messo questo luogo non è da sottovalutare, perchè la bellezza e la varietà dei suoi percorsi mi hanno stupito, perchè l’organizzazione è stata impeccabile e nonostante tutto, questa rimarrà un’esperienza incredibile da aggiungere al mio bagaglio da esploratore di montagne. La prossima edizione si svolgerà dal 10 al 12 maggio 2024 e le iscrizioni sono già vicine al sold out. Facci un pensiero!

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Ambiente e disciplina Rosanna Buchauer

Rosanna Buchauer è una runner tedesca, trasferita in Tirolo Austria, dove lavora per l’agenzia del turismo. Oltre a questo ovviamente corre, corre, corre molto. Corre fin da quando era bambina, dopo una breve pausa dove ha praticato pattinaggio su ghiaccio, ha ricominciato con la passione della corsa, che in verità non l’aveva mai abbandonata. Solo però quando si è trasferita a Innsbruck per gli studi ha scoperto la bellezza di farlo su sentieri, alzando ogni giorno di più i metri di dislivello fino a raggiungere le vette più alte.

Cosa ti appassiona del trail running? Non credo che mi appassioni solo la corsa, ma piuttosto la combinazione tra l’ambiente e la disciplina – la montagna e la corsa - perché mi piace stare da sola e quando corro in montagna non incontro così tante persone e stando da sola posso veramente godermi la natura. Un’altra cosa che ricerco è quella sensazione di quando ti spingi al limite ma continui ad andare anche se sei esausta e poi, una volta tornata a casa, ti concedi dei piccoli premi: del buon cibo o qualcosa che ti fa stare bene.

Il tuo peggiore e migliore momento sui sentieri? Credo che entrambi siano stati durante i Campionati del Mondo a Innsbruck. Il peggior mo -

mento è stato quando a metà gara mi sono resa conto che le mie gambe erano veramente stanche, troppo per correre in discesa e non mi era mai capitato prima di sentirmi così. Ho pensato seriamente di ritirarmi. Poi però ho pensato a come sarebbe stato finire una gara con i tuoi amici e parenti all’arrivo, e infatti ho vissuto il mio miglior momento di corsa passando la linea d’arrivo a Innsbruck perché è la mia città e vedere così tante facce familiari, così tanti sorrisi e sentire

così tante voci strillare il mio nome è stato decisamente emozionante. Alla fine erano lì solo perché io avevo deciso di correre una gara.

Una gara o un’avventura che sogni? Ci sono ancora moltissime cose che vorrei fare in montagna. Ho un progetto nelle Alpi austriache con una parte di traversata in ghiacciaio che non so se riuscirò a fare quest’anno o il prossimo per via delle condizioni meteorologiche. Per il resto vor-

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rei fare una gara che sia tecnica e in qualche bel posto e infatti nella mia lista c’è la Snowman Race a Bhutan. Mi ispira principalmente per il posto e poi perché si svolge tutta ad alte quote.

Quali sono i principi che tu e Dy nafit condividete?

Dynafit abbiamo entrambi a cuore si spiegano bene con il loro slogan “Spe ed Up” che io traduco con l’andare veloce e leggera in montagna. Inoltre, così come per il brand, la corsa in mon tagna e lo scialpinismo sono le attività che mi appassionano maggiormente. Siamo allineati su questo aspetto.

sposta in testa da un po’ di tempo. Per me questa persona è Martina Valmassoi, è stato molto bello condividere alcuni momenti con lei durante il Cam-

pionato. L’ho incontrata poche volte ma la seguo da molto tempo e amo il suo approccio alle gare e al muoversi in montagna. Martina combina sempre le gare con avventure e progetti in montagna e anche io faccio lo stesso sia per allenarmi che per motivarmi. L’ammiro molto sia come atleta che come persona.

Se dovessi scegliere un solo album da ascoltare mentre corri quale sarebbe? Se dovessi scegliere un solo album di un solo artista da ascoltare mentre corro sarebbe qualcosa di Macklemore. Ho molte delle sue canzoni nelle mie playlist che ascolto per correre.

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Odlo: Heightening outdoor experiences

Odlo nasce in Norvegia più di 70 anni fa a partire dall'esigenza di creare abbigliamento performante e di qualità che potesse essere utilizzato in condizioni difficili. Il brand da sempre crea base layer funzionali e da allora ha continuato ad innovare, realizzando prodotti eccezionali in grado di adattarsi ai diversi stili di vita attivi durante tutto l'anno.

I loro design da trail running da sempre attirano tutte quelle perso -

ne che amano perdersi in montagna. Per saperne di più riguardo la nuova collezione abbiamo raggiunto Kilian Breuer, Product Director di Odlo, per una chiacchierata. Kilian è entrato a far parte del team Odlo il 1° febbraio 2023, dopo aver costruito una carriera senior nel merchandising, nelle vendite e nello sviluppo di prodotti in quattro diversi brand outdoor. È anche un appassionato ciclista, trail runner e amante dello sci di fondo.

Per sviluppare i migliori prodotti che rispondano alle esigenze di atleti e

appassionati, Odlo ha collaborato con personalità affini e atleti che hanno dato il loro contributo allo sviluppo di svariati prodotti. Lo scopo del brand è quello di supportare individui, squadre ed eventi che condividano le passioni e gli interessi del marchio e che ispirino quante più persone a esplorare una vita outdoor attraverso una moltitudine di sport. Questo impegno è evidenziato dalla collaborazione con il Team Odlo X-Alp, la squadra di trail running con sede ad Annecy.

“Questo team condivide la nostra stessa passione per la corsa” afferma Kilian. “Si tratta di una partnership basata sul trascorrere del tempo insieme, praticare sport e ascoltare le loro intuizioni ed esperienze. Tutto ciò ispira la nostra creazione di prodotti e alimenta il nostro desiderio di

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trovare le migliori soluzioni possibili per le esigenze specifiche degli atleti. Il team è anche una parte fondamentale del nostro processo di testing del prodotto, grazie a prototipi e nuovi design che vengono testati durante ogni fase di sviluppo.”

L'obiettivo di Odlo è quello di creare una linea di abbigliamento estremamente comoda e performante in modo che i runner possano concentrarsi sulla bellezza della corsa, non su ciò che indossano. “Creare qualcosa di così comodo che ti accorgi a malapena di averlo addosso, è in quel momento che sappiamo di aver realizzato qualcosa di eccezionale” afferma Breuer.

Ma cosa fa Odlo per rispondere alle esigenze specifiche dei trail runner?

“Quando si tratta di climi più caldi, il kit da corsa deve essere sinonimo di leggerezza,

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libertà di movimento e durata. Ciò è particolarmente vero quando si ha a che fare con cambi di quota e condizioni meteorologiche di montagna in rapida evoluzione. In queste situazioni, diamo la priorità a tessuti leggeri e ad asciugatura rapida, che siano elastici ma anche di lunga durata. Si tratta di design che rispondono alla corsa in tutte le sue forme ma sono ulteriormente arricchiti da dettagli apprezzabili che soddisfano le esigenze di chi corre in montagna.”

Questa stagione ha visto alcuni dei prodotti trail running più innovativi del brand, a partire dalla T-Shirt X-Alp Performance Wool 115, un capo molto leggero e traspirante che ha recentemente vinto un ISPO award. Poi la giacca impermeabile Zeroweight, un paio di pantaloncini da uomo e una gonna 2 in 1 da donna.

“Le partnership creano un dialogo continuo tra noi e gli atleti. Siamo ispirati a lavorare a stretto contatto con loro perché vogliamo vedere i nostri prodotti testati nelle circostanze più estreme” conclude Kilian. “Vogliamo anche che gli atleti siano ispirati da ciò che stiamo creando. In questo modo entrambe le parti possono spingersi oltre i limiti per ottenere i migliori risultati possibili. È davvero un piacere lavorare con atleti che condividono le nostre passioni. Tutto ciò ci permette di creare dei prodotti sempre migliori.”

Vogliamo anche che gli atleti siano ispirati da ciò che stiamo creando. In questo modo entrambe le parti possono spingersi oltre i limiti per ottenere i migliori risultati possibili.

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Oberalp Summit fra Montagna e Metaverso

Diventerà la montagna un’esperienza da vivere anche nel mondo virtuale? Nasceranno comunità e appassionati di sport alpini nel Metaverso? Ed ancora, questo Metaverso è effettivamente un business case per l’industria outdoor, così lontana per identità e caratteristiche? Del Metaverso si parla ormai da un po’ in diversi campi ed occasioni. Ma tutto questo parlare trova ad oggi una consapevolezza nei consumatori e nei player del mondo outdoor?

Il Gruppo Oberalp si impegna ogni anno in due Summit in occasione dei quali non si limita a presentare le nuove collezioni in location uniche e con le iconiche sfilate, ma vuole indagare e studiare tematiche rilevanti per l'intero settore degli sport di montagna. Per fare questo si appoggia ad esperti e persone legate alla tematica in questione proponendo al pubblico spunti di riflessione ed informazione. Lo scorso maggio si è quindi parlato di contraddizioni che possono trasformarsi in arricchimento sull’isola di San Servolo a Venezia, dove dal mare non molti km più a nord si scorgono le Dolomiti. Non è un caso quindi la scelta della location, così lontana e diversa dalla montagna a primo impatto, ma così vicina ed unita se solo ci si ferma un po’ a riflettere. Ecco quindi l’inizio di “Montagna e Metaverso – sinergia o contraddizione?” dove si è cercato di analizzare e approfondire le opportunità e i limiti del Metaverso per le aziende specializzate negli sport di montagna.

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“Il tema del Metaverso ci ha appassionati fin da subito, perché porta con sé più domande che risposte.”

Apre così la convention Christoph Engl, CEO di Oberalp Group affiancato da Ruth Oberrauch, membro del Consiglio di Amministrazione dello stesso gruppo e dai rispettivi avatar proiettati sul mega schermo alle loro spalle. “Quale sarà il prossimo step nello sviluppo dell’industria online? Abbiamo un mondo che verte sempre di più sull’omnicanalità, sarà il Metaverso parte di tutto ciò? È qualcosa di veramente astratto e più penso al futuro, più mi piace pensare al futuro al plurale dove scenari differenti coesistono e diversi modi di agire sono portati avanti.” Tre cartellini, rosso, giallo e verde sono stati il mezzo per rappresentare la conoscenza di questa tematica fra gli ascoltatori in platea e la maggioranza di rosso e giallo ha rappresentato una grande incertezza. Non è poi vero che i più grandi cambiamenti e fenomeni culturali sono iniziati allo stesso modo? Chi avrebbe mai pensato che le palestre di arrampicata sarebbero diventate un fenomeno di massa? E che dire dell’idea di poter inviare mail, fotografare, navigare in internet e parlare da una parte all’altra del pianeta attraverso un unico piccolo dispositivo portatile?

A portare un po’ di chiarezza gli interventi di specialisti come Martino Marchetti, Innovation Lab Manager di Oberalp che parla di approccio visionario e della necessità di pensare fuori dagli schemi per poter costruire dei percorsi nuovi, specifici per le necessità dell’azienda. Marchetti ed il suo team, affiancati dalla società di consulenza Dr. Wieselhuber & Partner hanno portato avanti uno studio sulla possibilità della montagna di entrare a far parte del Metaverso: su oltre 2.500 intervistati, emerge che i tempi per presentare i prodotti in formato esclusivamente virtuale sono ancora prematuri, ma che viene dato ampio spazio a programmi

didattici per il loro miglior utilizzo e lavorare sulla consapevolezza nella community. Entro il 2030, secondo le stime di Dr. Wieselhuber & Partner GmbH, questo mercato varrà tra 1 e 8 trilioni di dollari. Si esclude tuttavia che il Metaverso con le sue funzionalità come la realtà aumentata (AR), le realtà virtuali (VR) e le tecnologie annesse come occhiali e visori possa sostituire un’esperienza reale.

Questi risultati si sono basati su cinque miti sul Metaverso presi in esame e successivamente indagati:

1. Gli alpinisti preferiscono stare all’aria aperta e non vedono interesse nel Metaverso. Nonostante questo può essere un valido strumento per offrire esperienze immersive permettendo di provare nuovi sport, pianificare in anticipo gli itinerari ed individuare eventuali rischi ma anche dare la possibilità di socializzare e condividere informazioni con altri utenti della montagna.

2. L’identità di un brand outdoor non verrà rafforzata tramite piattaforme Metaverso. Ci sarà la possibilità di visitare veri e propri store virtuali dove gli utenti, impersonificati dai loro avatar, potranno provare capi e attrezzature per la montagna come se fossero in un negozio fisico così da rendere lo shopping un’esperienza immersiva, dove i consumatori co-creano insieme alle aziende, generando nuove opportunità di business. In questo senso, Oberalp svilupperà showroom virtuali e altri servizi digitali per i suoi sei marchi di montagna Salewa, Dynafit, Wild Country, Pomoca, Evolv e LaMunt.

3. L'attrezzatura fisica da montagna non sarà venduta attraverso le piattaforme del Metaverso. Questo punto non trova ancora un impiego a livello di conversione del prodotto fisico, ma sarà di supporto all’aumento delle vendite grazie alla possibilità di

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approfondire e presentare ogni prodotto nel dettaglio. Su questo punto, con Salewa è stata recentemente sviluppata una soluzione innovativa per visualizzare le proprie tende all’interno di store fisici grazie all’uso della tecnologia VR che seppur ad oggi non ancora presente nei punti vendita, porta a discuterne la possibilità. In questo modo lo spazio ed il montaggio non sarebbero più ostacoli ed il cliente potrebbe visionare e capire meglio il prodotto grazie alla sua versione digitale tramite visore.

4. Le skin digitali e gli NFT dell'attrezzatura da montagna non diventeranno una categoria rilevan-

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te. Vendita di skin digitali e NFT e tecnologie necessarie a questo processo: a livello tecnologico sicuramente molto avanzato, sembra essere più un tema per il futuro.

5. I mondi virtuali avranno un impatto limitato sulla catena del valore degli sport di montagna. Showroom virtuali possono effettivamente essere un valore aggiunto per un brand, migliorando la collaborazione con i fornitori attraverso la creazione di una visualizzazione con l'aiuto di Multiuser VR, abbattendo le barriere linguistiche e riducendo i costi per le trasferte e, di conseguenza, l’impatto ambientale. Offre inoltre possibilità

di training da remoto e garantisce una maggiore flessibilità dei processi tenedo conto ovviamente di un processo di preparazione informatica alla base. Insomma, alla fine di tutto la domanda è: ne vale la pena? Ha il Metaverso una potenzialità effettiva per il settore outdoor? Stefan Rainer, CSO di Oberalp parla della necessità di una strategia digitale per rafforzare il valore identitario e anche fisico dell’azienda usando il Metaverso non tanto come fine o entità a sé ma come supporto e strumento per facilitare i processi fisici come ad esempio il visual merchandising in-store, la comprensione dei prodotti, la formulazione di ordini.

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Livigno e Brooks Cascadia 17: Una combo ben riuscita

Con il rinnovo della partnership tra la località lombarda e il marchio americano, Brooks si conferma sempre più presente nel mondo trail, cogliendo questa occasione per il lancio della nuova Cascadia 17.

Non ero mai stata a Livigno e credo di essermi letteralmente innamorata. Un colpo di fulmine. Dopo quasi cinque ore di viaggio, tra autostrada e statali interminabili, si scende in questo gioiello di valle dove viene organizzata una delle skyrunning piú toste d’Italia. Non a caso è qualificante per il trofeo Kima (gara di skyrunning tra le piú belle al mondo, 52km e 4200 D+). Suddivisa su due distanze, la marathon da 34 km e 2700 D+ e la skytrail di ‘’soli’’ 17km e 1400 D+, ha dato la possibilitá a chiunque di potersi mettere in gioco su una vera sky.

Con questo evento, Brooks ha deciso di presentare la sua scarpa trail di punta invitando atleti, retailer e media. Parliamo della Cascadia 17, l’evergreen con

miglioramenti e dettagli all’avanguardia. La prima grande novità è il sistema di stabilizzazione Trail Adapt che integra l’intersuola, la piastra protettiva e la suola. Questa nuova tecnologia rende ogni passo stabile e sicuro, ideale per tutti i terreni che si incontrano, offrendo un maggior controllo durante la corsa.

Andando sulla suola, troviamo il nuovo TrailTack Green che con un sistema di tasselli completamente ridisegnato garantiscono una trazione piú efficiente su superfici asciutte e bagnate. Inoltre dá una maggiore sicurezza su percorsi non regolari. Il tutto è realizzato con il 25% di materiali riciclati. Da notare, in questa zona, il richiamo allo zoccolo della capra di montagna, una sicurezza in quanto equilibrio e stabilità. Tra l’intersuola e la suola è posizionato il Ballistic Rock Shield, una piastra Pebax che protegge l’avampiede dalle asperità del terreno e dalle rocce appuntite. Sulla suola, sei differenti sezioni indipendenti si comprimono individualmente a seconda del terreno e creano una maggiore trazione sulla superficie.

‘’Ogni parte della suola si comporta in modo da assorbire gli urti e permettere una corsa fluida” afferma Francesco Caroni, Apparel e Footwear champion di Brooks.

Continua il successo della mescola in DNA Loft V2 inserita nella Cascadia 16. Questa garantisce una grande ammortizzazione anche su terreni difficili. Ideale per chi ama trascorrere molto tempo in montagna, su sentieri impervi e rocce. I tasselli sono posizionati in modo che si comprimano singolarmente nella fase di scarico, creando una sensazione di morbidezza sulla superficie del piede e maggiore aderenza su rocce e terreni irregolari.

Ultima eco news è la tecnologia PrintDye che consente di risparmiare circa 2/3 dell’energia necessaria per la tintura tradizionale e il 75% di acqua durante il processo di colorazione.

Abbiamo avuto modo di provarla sui sentieri di Livigno, cimentandosi nella gara per chi avesse piacere o semplicemente andando sul percorso ad incitare gli atleti. Rispetto alla versione precedente, una volta calzata l’ho sentita più rigida e stabile con una componente di morbidezza che ti permette di correrci bene. Non è una scarpa veloce ma sicuramente protettiva, per tutti quei runner che amano correre in alta montagna su terreni anche impervi. La tomaia risulta molto fasciante sul piede ma comunque traspirante. Lo spazio nella parte anteriore ottimizza un migliore movimento della dita ed evita il crearsi di vesciche da sfregamento nel caso di gonfiore del piede. Il fit della scarpa non dà la sensazione di avere la caviglia scoperta e anche dopo molti chilometri e stanchezza di gambe hai la sicurezza di avere costantemente il controllo del piede.

Cascadia 17 è una scarpa da trail, personalmente la azzarderei anche per un’ultra trail tecnica in cui vi si possono trovare pietraie e tratti impervi, pollice alzato per questa nuova release.

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Allacciarsi le scarpe e rimettersi in gioco: Elisa Brocard

In molti assoceranno il nome Elisa Brocard agli sci stretti e alla performance, al professionismo nello sci di fondo, alle Olimpiadi e ai Campionati del Mondo. Ma qui il fondo è solo il punto di partenza per parlare di chi è e cosa fa Elisa oggi, di come è arrivata alla corsa e di come è diventata una FrontRunner ASICS. E allora entriamo insieme nella nuova vita di questa atleta, di questa donna.

Raccontaci un po’ di te. Sono valdostana di Gressan e ovviamente vivendo in montagna ho messo i miei primi sci stretti a tre anni. Il mio primo sport e la mia più grande passione è stato lo sci di fondo, che è diventato anche una professione: prima come atleta, oggi come allenatrice, restando sempre nel Centro Sportivo Esercito. Ho partecipato a 3 Olimpiadi e a 4 Campionati del Mondo e come professionista la mia miglior prestazione è stato un 10° posto ai Mondiali. Oggi ho 39 anni ed ho terminato la carriera professionistica un paio di anni fa, iniziando a affiancare il mio coach come istruttrice e allenatrice. Sto vivendo un momento della vita di grandi cambiamenti e scoperte: sembra assurdo ma sto iniziando a lavorare adesso (non come atleta, s’intende) e mi sento molto fortunata a poterlo fare in un ambiente familiare e soprattutto passando le mie giornate in natura. Come è arrivata la corsa nella tua vita? La corsa è sempre stata presente nella mia vita: da piccolina ho fatto atletica e poi ho mantenuto l’abitudine

di correre soprattutto per allenarmi in estate. Tuttavia dopo che ho smesso di gareggiare qualche cosa si è sbloccato e mi è venuto lo stimolo per riavvicinarmi a questo mondo di cui mi sentivo di conoscere così poco. Ho avuto questa idea di mandare la candidatura ad ASICS per entrare nel loro team e sono stata presa. È stato un bel trampolino di lancio per mettermi in gioco in qualcosa di nuovo, con uno spirito totalmente diverso dal passato e da come mi sono sempre approcciata allo sport.

Cosa significa essere parte della community ASICS? Quando sono entrata nel team mi si è aperto un mondo. Non mi aspettavo di ricevere un’accoglienza così calda e mi sono resa conto di essere entrata in una famiglia, non in un’azienda. È diverso, a partire dal messaggio che vogliamo trasmettere: Anima Sana in un Corpo Sano - Sound Mind, Sound Body. In quel momento della mia vita questo messaggio ha toccato delle corde importanti, perché ero appena uscita dallo sport professionistico e dalle difficoltà ad esso connesse. Ho riscoperto cosa significa fare sport per sè stessi, per star bene, non solo per raggiungere un risultato. Certo, anche oggi se metto un pettorale cerco di dare tutto, ma lo faccio con uno spirito diverso da prima. Non lo faccio per dimostrare niente ma solo per me stessa e per trasmettere qualcosa agli altri. Mi piacerebbe molto ispirare i ragazzi giovani a fare sport, a fare movimento per star bene. Correre tra l’altro è facilissimo: basta avere un paio di scarpe e si può arrivare dove si vuole. Per spiegare cosa significa essere parte della community ASICS mi viene in mente

un evento: al Malcesine-Baldo Trail, il mio primo trail fra le altre cose, mi sono ritrovata casualmente a correre insieme a due miei compagni di team, e siamo stati insieme per tutta la gara. Abbiamo condiviso, realmente, l’esperienza. In una gara di fondo non mi è mai successo. Il mondo della corsa è molto diverso: in griglia di partenza di una competizione puoi incontrare vicini un pro e un amatore alla sua prima esperienza. Da novellina sono entrata in questo ambiente con estrema umiltà e sto scoprendo tantissime cose intorno alla corsa. C’è tutto un mondo da scoprire e bei messaggi da trasmettere. Tra questi il primo, perché senza esso non si può far nulla, è quello di avvicinare le persone alla corsa. In tal senso ASICS e noi del team, grazie a dei corsi completamente gratuiti in collaborazione con Julia Jones e Correre al femminile, abbiamo coinvolto più di 4000 donne. Ecco, questa è un’altra cosa grandiosa che mi rende fiera di far parte di questo team e che mi dà la possibilità di scoprire tantissime altre realtà oltre alla mia da ex professionista.

Trail o corsa su strada? Dislivello o distanza? Vivendo in montagna ho sempre corso su trail, e visto che come fondista l’obbiettivo delle sessioni di running era soffrire ho sempre percorso verticale e dislivelli importanti. Fra le tante cose ho anche fatto in record in salita dell’Aosta-Becca di Nona, nel 2009. Oggi però mi piace un po’ di tutto, sto anche iniziando ad apprezzare la corsa su strada dopo aver corso qualche mezza maratona. E visto che il mio obiettivo è correre la maratona di New York a novembre, dovrò farmela piacere per forza. Essendo, in un certo senso, appena entrata in questo fantastico mondo ho tempo di scoprire quali sono le distanze e i terreni che mi piacciono di più. Mi lascio tempo per scoprirlo. Intanto allaccio le scarpe da running e inizio a correre. Da qualche parte, arriverò.

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Maestri nella trazione: Scott Ultra Carbon RC

Scott ha chiamato a raccolta i migliori ritrovati in fatto di tecnologia e l’esperienza di grandi atleti per arrivare alla definizione del loro migliore modello di scarpa da trail running che sia in grado di offrire in questo momento.

Le parole d’ordine, nel trail running, sono leggerezza, resistenza e flessibilità: lo sono per gli atleti, ma lo sono a maggior ragione ancor di più per quello che riguarda l’attrezzatura. Scott in questo si è data un bel daffare, coinvolgendo esperti in ogni campo, aziende leader nella produzione di elementi come la fibra di carbonio ad esempio, e atleti del team di running, come Cody Lind, che riportando le proprie esigenze all’azienda ha manifestato l’esigenza di avere più spazio sotto il piede per le distanze più lunghe. Tutto questo fa parte del processo di progettazione della Scott Ultra Carbon RC, scarpa che è stata disegnata specificatamente per migliorare l'efficienza dei corridori nelle gare di ultra trail e, in particolare, per una che Cody Lind aveva deciso di correre. Il suo sogno era infatti, da sempre, quello di gareggiare nella leggendaria 100 miglia degli Stati Uniti occidentali, la Western States. Lavorando a stretto contatto con il team di sviluppo sull'intero concetto di scarpa e testandola a fondo durante il suo allenamento prima della gara Western

States, Cody è stato un ingranaggio fondamentale nella creazione della scarpa da trail più performante che Scott è in oggi grado di offrire.

In questo contesto si inserisce però anche la collaborazione con Carbitex: azienda leader di settore e pioniera per quanto riguarda i compositi flessibili in fibra di carbonio. La piastra Carbitex Gearflex è stata infatti integrata sia nella scarpa da strada Speed Carbon RC, che in quella da trail Ultra Carbon RC: è morbida e flessibile, ma soprattutto è in grado di aumentare la rigidità all’in-

crementare della velocità. Questa dinamicità è l’asso nella manica dato dalla fibra di carbonio, che rende la scarpa molto duttile rispetto alle esigenze del corridore. Il vantaggio di inserire una piastra in carbonio Carbitex GearFlex è infatti proprio la flessibilità dinamica: la piastra risponde all'impulso dato dal corridore aumentando la rigidità all'aumentare della velocità e mantenendo invece una buona flessibilità ad un ritmo inferiore. Per il trail running, la placca in fibra di carbonio deve essere leggera, sottile e più flessibile di una

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PHOTO SIMON DUGUÈ

placca in carbonio a tutta lunghezza, per dare al corridore la giusta agilità e sensibilità rispetto al terreno, soprattutto perché si ha a che fare con terreni irregolari. Nasce da qui l’esigenza di una piastra che si divide in due: sotto l'avampiede e verso il tallone, con l’obiettivo di aumentare la flessione laterale. La forma a coda di rondine è infatti l’aspetto che consente una maggiore flessione laterale e un disaccoppiamento naturale dell'avampiede e del retropiede: questo fa sì che non si perda né la tecnologia data dalla fibra di carbonio e né la flessibilità di una scarpa da trail.

In questo la Carbon Ultra RC si differenzia dalla Speed Carbon RC, che presenta una piastra di carbonio larga nell'avampiede e più ristretta verso il tallone: questo serve ad aumentare la stabilità e allo stesso tempo a supportare il movimento continuo e costante che si ha nelle maratone. Anche la

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suola Ultra Traction è stata progettata specificamente per le gare ultra su percorsi veloci: grazie ad un design semi-radiale è in grado di offrire la massima efficienza nel movimento in avanti, pur mantenendo elementi di trazione multidirezionale che danno sicurezza al corridore durante le curve e nei tratti più impervi. Le sneakers mediamente contano 65 componenti: ecco, nelle scarpe da trail sono molti meno, ma ognuno, ha una funzione ben specifica, frutto magari di anni di ricerca e sviluppo. È questo il caso dell’Evolved Rocker 2, realizzato grazie a ben 10 anni di studio, ricerca e sviluppo che hanno portato ER2 ad applicare la comprensione avanzata dei principi biomeccanici per arrivare ad una una posizione di corsa più dinamica, riducendo l'impatto del tallone e aumentando l'efficienza della corsa: ovvero quello che serve per correre più velocemente e più a lungo, impe-

gnando meno energia. Come abbiamo già detto, l’altro elemento imprescindibile per una scarpa da running dedicata al trail è la leggerezza, aspetto che Scott cura insieme all’ammortizzazione grazie alla schiuma Kinetic Light Foam e alla tomaia progettata ingegneristicamente.

La forma a coda di rondine è infatti l’aspetto che consente una maggiore

flessione laterale e un disaccoppiamento naturale dell'avampiede e del retropiede: questo fa sì che non si perda né la tecnologia data dalla fibra di carbonio e né la flessibilità di una scarpa da trail.

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PHOTO SIMON DUGUÈ

Cortina Dobbiaco Run: Welcome Mizuno Wave Rider 27

30km con partenza da Corso Italia a Cortina per correre tra la natura incontaminata, ponticelli e gallerie fino alla località altoatesina di Dobbiaco.

Il 4 giugno 2023 si è svolta l’ormai fa mosa Cortina Dobbiaco Run che vede ai nastri di partenza migliaia di runner pronti a darsi battaglia lungo il per corso dell’ex ferrovia che collegava la piccola cittadina bellunese a quella al toatesina. Per il nono anno consecutivo è stata rinnovata la partnership con il marchio Mizuno, sponsor tecnico della manifestazione. Proprio in questa oc casione è stata presentata alla stampa la nuova Mizuno Wave Rider 27, con cui il nostro runner Gabriele Pinzin ha corso durante questo evento.

La presentazione si inserisce nel conte sto della campagna Mizuno “For Every Run Tour” che nasce dalla necessità di far comprendere ai runner quanto, a prescindere dai propri obiettivi e dalla tipologia di allenamento, ci sia sempre una scarpa adatta al loro stile di corsa, alla loro tipologia di appoggio, alle loro abitudini. La campagna vedrà 18 eventi fra giugno e settembre e 18 negozi tecnici specializzati che coinvolgeranno le loro crew che di clienti per testare i modelli Mizuno durante le sessioni di

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allenamento. L’ultima evoluzione della Wave Rider è una scarpa neutra adatta a tutti, con un’ottima ammortizzazione ed una transizione tacco-punta fluida. Questo è dovuto alla piastra Wave in Bio Pebax Rnew a base di olio di ricino, ridisegnata con area tallonare appiattita per un maggior comfort in fase di appoggio, alette laterali che donano maggior stabilità e area mediale con design 3D per conferire ulteriore sup-

porto. Anche la tomaia è stata rinnovata con un tessuto più avvolgente, senza cuciture e che lascia traspirare bene il piede. Inoltre, la nuova Wave Rider 27 è una scarpa altamente ecosostenibile: oltre alla piastra Wave a base di olio di ricino, ha il 90% della tomaia, dell’imbottitura e della soletta in materiale riciclato. Testata lungo il percorso, Gabriele ci racconta la sua Cortina Dobbiaco, partendo dall’inizio. Che tipo di

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runner è, da quanto corre e se predilige la strada o lo sterrato.

“Corro da un bel po’. Non ricordo di precisione da quanti anni, all’inizio erano giusto quel paio di km per ricominciare a fare attività fisica dopo parecchi anni di stallo tra ozio e bagordi; poi la cosa si è evoluta e pian piano è entrata prepotentemente nella mia routine. Una data è certa: nel 2018 ho corso la mia prima maratona. Principalmente corro, mi alleno e gareggio su strada, ma da qualche anno ho iniziato a fare anche allenamenti su sterrato… Di gare ancora poche. Il trail lo vivo come fuga dai tempi, ritmi e dati: è più un piacere, un godere del silenzio e della natura ed è forse anche questo che fino ad ora mi ha tenuto lontano dalle competizioni in questo ambito. Sono un tipo da tabelle tendenzialmente: ho un coach e cerco di seguire con precisione tutti gli allenamenti che mi pianifica, ma non nascondo che a volte il mio lato più “punk” mi porta ad uscire e correre a sensazione mandando in vacca l’allenamento del giorno.”

Raccontami com'è andata la gara. Leggendo il tuo post di resoconto, cosa non ha funzionato e come sei riuscito a vedere questa competizione con prospettive diverse? Molti runner, se non va come deve, preferiscono il DNF. La Cortina Dobbiaco è una gara che da molti anni avevo

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Che tipo di gara è? Perché non è né una mezza né una maratona, corretto? É una gara particolare: non è strada e non è nemmeno trail, si corre su un percorso praticamente gravel percorrendo parte di una vecchia linea ferroviaria. Si attraversano ponti, gallerie, boschi, con scorci meravigliosi sulla Croda Rossa, sulle Tre Cime di Lavaredo e sui laghi di Dobbiaco e Landro. Inizia subito in salita, con pendenze non esagerate ma costanti fino a metà e poi si scende fino a Dobbiaco. Non è tecnica, ma bisogna saper dosare le gambe senza esagerare nella prima parte… L’opposto della mia gestione insomma.

nel mirino, più per il tracciato che per altro, ed essendo più gravel che trail poteva rientrare nelle mie corde. Anche quest’anno non ero riuscito ad iscrivermi per problemi logistici, ma inaspettatamente una mattina mi chiama Denis (l’editore di The Pill ndr) e mi offre questa opportunità; a quel punto non potevo rifiutare e così ho preso la palla al balzo. In quel periodo ero, da tabelle, in fase di mantenimento e il tempo non era molto per prepararsi. Alla fine son sempre 30km e vanno curati molti aspetti, non solo la preparazione fisica, se vuoi far bene. Come al mio solito poi, in gara, sono partito troppo forte e ad 1/3 della distanza ero già cotto. Sono uno di quelli che pensa infinite volte di abbandonare una gara, ma che poi alla fine non lo fa mai. Quando ho capito di non riuscire a stare nel tempo in cui avrei voluto finire ho cambiato l’approccio ricordandomi il motivo per il quale da tempo avrei voluto partecipare a quella competizione ed in generale a cosa mi spinge a correre non solo su asfalto. Ho mollato l’acceleratore, ho trovato un ritmo confortevole e mi sono goduto il paesaggio e il tracciato, unico nel suo genere. Mi sono immerso nell’ambiente, nel silenzio e riempito gli occhi e l’anima di quelle cose che solo certi posti ti regalano. Fino al traguardo.

Il più bel ricordo e ciò che vorresti dimenticare. Sicuramente mi porto a casa un paesaggio stupendo ed un percorso molto particolare. Nel contempo, dimenticherei la mia performance agonistica. Ma prima o poi la rifarò, preparandola meglio!

Prossime gare o eventi? Vorrei fare una maratona in autunno, stavo guardando Amsterdam. Poi quest’anno ho fatto i tempi sia in maratona che in mezza per entrare a Boston o New York, quindi almeno una delle due sarà il main goal nell’imminente futuro. Hai utilizzato le nuove Mizuno Wave Rider 27 durante la gara? Durante i tre giorni a Dobbiaco ho avuto la possibilità di testare in anteprima le Wave Rider 27. Con Mizuno avevo già corso in passato, e sempre con le Wave Rider. Ho fatto sia un allenamento pre gara il sabato che la gara la domenica. Sono scarpe molto comode e morbide, appena le calzi senti un feeling immediato. Le ho trovate anche stabili e ben ammortizzate. Le consiglierei sicuramente per degli allenamenti, anche per dei lavori. Questo modello mi ha permesso di vivere questa esperienza come andava vissuta, assaporando chilometro dopo chilometro.

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Saucony Peregrine 13 running Dolomiti Extreme Trail

Il mese scorso abbiamo preso parte alla Dolomiti Extreme Trail, una delle gare più selvagge e dure delle Dolomiti venete, scegliendo la nuova Peregrine 13 di Saucony che non ha tradito le aspettative.

Peregrine rappresenta ormai da anni la scarpa da competizione di Saucony dedicata a gare tecniche e veloci in montagna, proprio come la Dolomiti Extreme Trail. La geometria e la shape della scarpa sono asciutte e filanti, esattamente come nelle versioni precedenti: la calzata risulta fasciante, sia sul collo che sull’avampiede, mentre la linguetta imbottita protegge il piede dai lacci. Rispetto al modello Peregrine 12, questa nuova versione è stata strutturata meglio sulla parte superiore, ora ispessita e ammorbidita rispetto al modello precedente, che vedeva invece una tomaia super minimal. La conchiglia è molto contenitiva e la nuova intersuola ospita bene il piede. Quest’ultima è realizzata con schiume PWRRUN e PWRRUN+, stampate con una densità tale per cui la scarpa riesce a bilanciare un buon peso con un’ottima reattività: tutto ciò dà vita ad una scarpa bassa, compatta, ideale da spingere in piano e da lasciar andare in discesa, dove risulta molto precisa ed elastica. In salita invece si distingue per la sua anima generosa. Pur mantenendo la mescola del

battistrada in PRWTRAC di Saucony, la suola è stata ridisegnata e presenta tasselli molto più pronunciati e profondi, quasi quanto una scarpa da fango, caratteristica che ci ha decisamente aiutato in gara in discesa, dove il bosco di abeti crea quel fondo morbido e ricco di aghi che si inzuppano d’acqua.

Avendo piovuto nei giorni precedenti alla gara, alla DXT abbiamo trovato un terreno particolarmente umido e fangoso che ci ha quindi dato modo di provare Peregrine in condizioni non impossibili ma comunque tecniche. Nel complesso si è rivelata una scarpa che si adatta molto a gare di questa tipologia, sia come distanza che come terreno

e condizioni meteo. Un modello ideale anche su terreni prealpini, la maggior parte delle volte fatti di calcare, quindi con sentieri molto rotti e rocciosi. La Dolomiti Extreme è ormai uno degli appuntamenti più importanti di ultra trail nelle Dolomiti e una delle gare che è riuscita ad affermarsi meglio nel calendario: percorsi, su tutte le distanze, che copiano molto bene la morfologia e il carattere delle Dolomiti, con salite lunghe e pendenti, tanto dislivello e discese in picchiata e, soprattutto, panorami stupendi. Per quanto riguarda la 100 chilometri, è forse l’unica gara di questo tipo e con queste caratteristiche in tutta l’area: se avete occasione andate in Val di Zoldo, ne vale la pena.

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L’anima

estiva di Picture e la salvaguardia dell’oceano

Tra mare e montagna, tra surf e snowboard, con una mission che guarda all’ambiente sopra ogni cosa

Ride, protect and share (ovvero snowboardare o surfare, proteggere e condividere) sono i tre termini chiave intorno a cui Picture ha plasmato il proprio modello di business, i propri prodotti e la propria comunicazione. D’altra parte tutti i brand che hanno una connessione forte con il mondo della natura e dell’outdoor per forza di cose sono più recettivi, più attenti alle esigenze dell’ambiente, che si tratti di montagna o di mare. Picture è una realtà a cavallo tra questi due mondi, il mare e la montagna: produce abbigliamento per snowboard, sci, surf e outdoor ma, nel farlo, vuole essere il meno impattante possibile. Viviamo in un momento storico in cui all'industria tessile è imputabile il 7 per cento delle emissioni di gas serra a livello globale e in cui la crisi climatica ha raggiunto il suo apice, siamo a un passo da quello che si dice “punto di non ritorno”. La filosofia di Picture è quella che anche la più piccola azione possa fare la differenza e che il contributo del singolo sia tutt’altro che indifferente. È per questo che, da quando ha iniziato la sua attività nel

2008, questo brand si è sempre impegnato per fare un passo avanti rispetto agli altri in termini di impatto ambientale. “Il nostro impegno per un approccio sostenibile, etico e responsabile nei confronti dell'ambiente riguarda ogni aspetto della nostra attività, dalla catena di fornitura, alla produzione, alla spedizione. Per ridurre le conseguenze dell'attività commerciale sul clima e sulle persone, dobbiamo eliminare la nostra dipendenza dai combustibili fossili, limitare la crescita, cambiando i modelli di produzione convenzionali e promuovendo un consumo ragionevole.” Si inserisce in quest’ottica il percorso che ha portato Picture ad acquisire la certificazione B-Corp che, nell’ottica del management, ha un profondo senso comunitario: “Usare il business e la nostra influenza come forza per il bene è centrale nella nostra mission. Il nostro obiettivo è quello di galvanizzare il maggior numero possibile di persone della nostra comunità, partner e stakeholder dell'industria dell'outdoor e dell’abbigliamento, a partecipare alla transizione energetica e all'eliminazione del carbonio dall'economia globale. Combattere il cambiamento climatico attraverso la nostra passione per gli sport all'aria aperta, questa è la nostra missione.”

Picture, dicevamo, ha due anime: una guarda in alto, alle vette da scendere, in pista o in freeride, e l’altra guarda al mare e alle sue onde da cavalcare. Il tratto comune è avere una tavola sotto ai piedi: d’inverno da snowboard e d’estate da surf. Questi due mondi infatti non solo sono tangenti, ma condividono moltissimi aspetti a livello che potremmo definire filosofico. I surfisti e gli snowboarder condividono spesso una comunione profonda con l’ambiente che li ospita e che permette loro di praticare i loro sport preferiti, sono quindi più inclini ad impegnarsi per proteggerlo.

Uno degli aspetti sui quali un’azienda che opera nel settore tessile ha più margine di manovra ovviamente è quello dei materiali che sceglie di impiegare, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento tecnico, dove ancora rimane molto difficile ridurre la dipendenza dalle fibre derivanti dal petrolio. Quello su cui però si può lavorare è l’utilizzo di fibre riciclate, che in parte abbattono l’impatto del consumo e della domanda di petrolati. Lato mondo surf, poiché i materiali giocano un ruolo importante nel ciclo di vita di un prodotto, Picture sceglie alternative che siano il più possibile sostenibili: il nylon riciclato Regen per i costumi da bagno, il Repreve per i pantaloncini, il Repreve per i boardshorts e l'Eicoprene Oyster shell per le mute. Quando si tratta di performance e della necessità di sentirsi a proprio agio in un ambiente naturale, che sia una vetta o un ambiente marino, è necessario prediligere fibre tessili che siano in grado di ripararci dal freddo o dall’acqua, ma che siano anche traspiranti e che garantiscano il giusto comfort e la giusta libertà di movimento del corpo. L’impegno di Picture è quello di combinare l’aspetto della performance con quello della sostenibilità per garantire, da un lato, ai propri clienti di praticare il proprio sport outdoor preferito in sicurezza e in situazione di comfort, e dall’altra un impatto minore sull’ambiente.

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Trentino

Home sweet Home

Davide Magnini & Stefano Ghisolfi

Dalle alte cime innevate, al profumo di erba tagliata a valle nei mesi estivi, passando per i sentieri boschivi e sotto alle lucenti placche rocciose fino alle calme acque del Lago di Garda. Il Trentino sa essere di mille colori: è verde nei prati e nei paesaggi alpini e bianco sui pendii dolomitici, è anche verticale quanto basta per ospitare la via di arrampicata più dura in Italia senza mai dimenticare l’incredibile patrimonio storico alpinistico dei grandi maestri del panorama mondiale.

È un territorio gentile, che dà la possibilità ai suoi ospiti di viverlo come più si addice a loro, senza essere mai troppo aggressivo nel passare da valle a monti e lasciando spazio a chi ama ogni tipo di elemento. Questa gentilezza è contraccambiata da una grande ricchezza anche in termini di figure di spicco che diventano poi promotori in prima linea della loro casa. Ci piaceva l’idea di parlare con chi questo territorio lo vive tutti i giorni per necessità non solo interiore ma anche professionale. Per questo abbiamo deciso di parlare con due sportivi molto diversi fra loro per passioni e provenienza ma legati dalla stessa parola chiave: il territorio. Davide Magnini è uno di quei trentini del quale si percepisce già da lontano l’immenso orgoglio delle proprie radici, nato e cresciuto nella ridente Val di Sole.

Stefano Ghisolfi invece ha portato in giro per il mondo la fama dell’arrampicata sportiva italiana e lui in Trentino ci è arrivato per scelta e ci è rimasto per necessità.

Davide Magnini

Davide raccontaci le tue origini. Sono nato e cresciuto in mezzo alle montagne dell’alta Val di Sole vicino al passo del Tonale circondato dall’Adamello/Presanella da una parte e Ortles/Cevedale dall’altra. Precisamente nel paese di Vermiglio, quando sono nato, mio papà aveva appena aperto un negozio di articoli sportivi, Lodo Sport. Lì fin da piccolo sono stato a contatto con articoli sportivi mentre mio padre, anche lui ex scialpinista a livello nazionale, mi trasmetteva anno dopo anno la passione per la montagna. Mi ha sempre spinto a provare vari sport dallo sci di fondo alla discesa alla combinata nordica mentre d’estate mi portava in montagna con la SAT a fare escursioni e ferrate. Insomma: sono da sempre immerso nella natura in Val di Sole e la passione è nata e cresciuta insieme a me.

Raccontaci del tuo territorio. È per me uno dei più belli: si presta ad ogni attività e sport outdoor permettendoti di vivere la montagna

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in tutte le sue sfaccettature e stagioni, dall’estate con il trail running, MTB e downhill con tutti i percorsi specifici all’inverno con l’alpinismo vero sulle cime dell’Adamello/Presanella e dell’Ortles/Cevedale. Per sciare c’è tutto ciò che serve con tre ski area molto grandi e bellissime che lasciano però anche il posto allo scialpinismo per quelli che come me preferiscono salire con le proprie gambe.

Qual è in Trentino il tuo posto preferito per correre e sciare al di fuori di casa? Un posto in Trentino dove mi piace correre e sciare è sicuramente Madonna di Campiglio anche per la parte alpinistica e di arrampicata in primavera. Un altro posto del cuore è sicuramente la Val di Fassa che amo in ogni stagione con il gruppo del Sella.

Cosa da secondo te rispetto alle altre una regione come il Trentino? Secondo me il Trentino è una regione che offre tantissime varietà: partendo dal Lago di Garda con un clima mite tutto l’anno con possibilità di praticare sport acquatici come il nuoto e la vela che però offre anche escursioni toste e lunghe, vie ferrate e falesie di arrampicata. Oltre alla vastissima varietà di sport outdoor per i quali è possibile trovare terreno ideale, c’è anche una grossa varietà di montagne, dalle Dolomiti di Brenta al gruppo della Marmolada alle Alpi dell’Adamello/Presanella e gruppi di montagne molto importanti e famosi nel mondo che lo rendono unico. Inoltre è un territorio che da sempre ha investito e continua a farlo nei servizi e strutture per far vivere a tutti, cittadini e turisti, il proprio territorio e la propria natura. Abbiamo una ricchezza veramente grande da conservare e valorizzare.

Stefano Ghisolfi

Stefano tu hai scelto di trasferirti ad Arco per sport e passione. La prima volta che sono arrivato ad Arco era il 2006 quando ho partecipato al Rock Junior, la gara giovanile del Rock Master. Questa gara mi ha fatto conoscere per la prima volta Arco e a tutti i bambini piaceva arrampicare ad Arco perché oltre alla leggendaria parete del Rock Master è bello viversi le giornate di gara fra qualche bagno al lago e gelato in centro storico. Lì è stato il primo approccio; più tardi, molti anni dopo, ho deciso di trasferirmici assieme a Sara (Sara Grippo, la compagna climber ndr): prima vivevamo a Torino ma entrambi avevamo lo stesso desiderio di vivere in

un posto dove si potesse scalare sempre, con le falesie vicine e via dal caos della città. Entrambi avevamo già pensato a questa cosa prima di conoscerci, e una volta insieme il desiderio era così forte che appena finita l’università di scienze motorie abbiamo cercato una casa in affitto e ci siamo trasferiti.

Com’è vivere Arco fra stagione, fuori stagione, turismo e routine? C’è una grande differenza fra le stagioni: l’inverno c’è poco movimento se non per gli scalatori visto l’ottimo periodo per scalare, mentre l’estate si riempie di turisti e visitatori. Ci sono sempre però posti diversi per scalare e le falesie che frequentiamo noi non sono posti affollati quindi c’è posto per tutti.

Cosa dà una regione come il Trentino a sportivi come te che vivono di outdoor? Sicuramente la cosa bella del Trentino è che dà la possibilità di vivere tutti i giorni l’outdoor: basta veramente poco, è talmente tutto vicino che molte persone dopo lavoro possono prendere e andare a scalare finché c’è luce perché in poco tempo si riescono a raggiungere le falesie (al di là del mio caso, che per lavoro scalo e quindi posso farlo a qualsiasi ora ogni giorno). Non c’è il traffico che trovavo a Torino, e so che in massimo mezz’ora riesco ad essere in falesia per arrampicare. Ma non parlo solo per la scalata: in dieci minuti posso arrivare in riva al lago per un bagno, l’inverno in un’ora si arriva a Madonna di Campiglio... Insomma, l’outdoor può essere vissuto a 360 gradi in un territorio dove tutto è comodo e ravvicinato e non è dispersivo.

Il tuo posto del cuore nella tua nuova casa trentina? Uno dei posti più belli dove ho passato molto tempo nell’ultimo inverno è dove c’è Excalibur, la via che ho fatto, non tanto per la via in sé ma perché lì vicino c’è uno spiazzo dove si vede tutto il paesaggio delle Marocche di Dro e tutta una parte diversa di Arco. È un posto molto rilassante, poco conosciuto e per questo molto tranquillo. È partito tutto da Excalibur e da lì ci sono sempre tornato anche per interviste o shooting.

Il momento più bello dell’anno ad Arco? Sicuramente la primavera e l’autunno. Quando comincia a fare leggermente più caldo e si scala bene ma si può anche andare al lago.

Ti senti un po’ trentino? Direi che mi sento di casa! Ovviamente sono affezionato alle mie origini ma Arco è ormai parte di me e credo molto in questo territorio.

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Summer Life on the Move

Ci sono delle cose che ti fanno veramente sentire che è estate e che aspetti per tutto l’inverno: i festival all’aperto, il profumo delle pesche, le serate al chiaro di luna in abiti leggeri... In montagna giugno è il mese delle fragoline di bosco e dei fiori di sambuco, ed è anche quando dopo una corsa sai di poterti buttare nel primo ruscello che trovi. Crioterapia o no è indubbiamente il post attività più rigenerante per testa e corpo, anche se al posto del ruscello c’è una fontana, o un lago.

Come ogni anno noi di The Pill abbiamo passato a Cortina i giorni della Lavaredo Ultra Trail, chi per l’atmosfera, chi per il tifo, chi per correre una delle famose distanze sui sentieri dolomitici.

Proprio su questi sentieri, nel 1992 è nata una realtà calzaturiera capace di distinguersi nel mondo della camminata e tempo libero. Con i suoi sandali, da oltre vent’anni Lizard mette al primo posto valori come la leggerezza, la sostenibilità ed il comfort offrendo allo stesso tempo trazione, stabilità e protezione per i piedi sull’off road. Che si parli di camminare immersi nelle Dolomiti o sulla sabbia di estese spiagge in riva all’oceano, come

go-to di viaggi in van o uniti ad un backpack per avventure spontanee, questo è il mondo di Lizard, con un sandalo diverso per ogni mood.

Fra un test scarpe e l’altro dove abbiamo messo a dura prova i nostri piedi fra caldo, intensità e ritmi serrati su chilometri di ascese e discese, abbiamo trovato le giornate perfette per scappare in riva ad un ruscello ed immergerci nell’acqua rigenerante che scorreva fra le rocce. È in questi casi che vorresti muoverti con la sicurezza di una scarpa dal massimo grip ma con il feeling di essere scalzo: ed ecco il terreno ideale per i sandali che abbiamo messo alla prova!

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ammortizzata. Inoltre, il design unico del battistrada Vibram Eco Step assicura supporto, aderenza e comfort anche durante lunghe giornate su terreni accidentati.

Per chi preferisce maggiore protezione, l’Ultra Trek è la perfetta combinazione del comfort di un sandalo e la protezione di una scarpa. La tomaia in TPU con mesh spacer assicura traspirabi-

scelta perfetta per le avventure di tutti i giorni. Questi sandali sono incredibilmente comodi e leggeri, pensati per muoversi in libertà. Preziosi compagni in viaggi per luoghi remoti o escursioni quotidiane, sono facili da indossare e da regolare, garantendo una vestibilità sicura e confortevole. Grazie al gancio in metallo, possono essere facilmente adattati alle proprie esigenze.

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La Venta Ritorno in Chiapas

Grazie a loro sono state fatte scoperte geologiche e antropologiche incredibili: ora il gruppo La Venta è tornato in Chiapas dove tutto è iniziato, trent’anni fa.

Dell’enorme quantità di materiale che il gruppo esplorativo La Venta si è portato con sé in Messico fanno parte tende, zaini, corde, rinvii, fornellini da campo, machete. Una distesa di bagagli incredibile che è stata essenziale per portare a termine la missione esplorativa con cui sono state setacciate palmo a palmo quindici grotte nella giungla del Chiapas, in Messico. Quindici giorni, quindici grotte esplorate e monitorate, quindici sorgenti campionate e analizzate. Il team La Venta fa questo: conduce missioni esplorative nei luoghi più remoti della terra e ha iniziato la propria attività nel 1991 proprio nel canyon messicano scavato dal Rio La Venta, che è stato oggetto della loro ultima missione e che dà il nome al gruppo. La Venta può contare su una cinquantina di soci, la maggior parte italiani, ma può vantare anche membri internazionali e, da statuto, la sua mission è quella di esplorare, mappare e soprattutto documentare luoghi della terra di interesse geologico o archeologico che sono difficili da raggiungere e necessitano perciò di un team di professionisti in grado di gestire missioni in situazioni e territori estremi. “In trent’anni di attività siamo ormai molto significativi a livello mondiale: abbiamo fatto cose che nessun altro è stato in grado di fare” racconta Tullio Bernabei, il responsabile del

progetto in Chiapas. “In Groenlandia e nei ghiacciai delle Alpi abbiamo condotto ricerche sulla variazione delle masse glaciali, in Chiapas abbiamo fatto scoperte idrogeologiche e archeologiche, in Asia centrale siamo stati nelle grotte più alte, più strette e profonde del mondo. Più recentemente abbiamo condotto missioni sul ghiacciaio del Gorner, in Svizzera, per fare delle ricerche sulle grotte glaciali, mentre, proprio mentre parliamo, altri di noi sono in Islanda per una spedizione sulle grotte laviche. Da statuto, il nostro obiettivo è quello di scoprire qualcosa di significativo e poi quello di diffondere e rendere pubbliche queste scoperte, contribuire alla conoscenza collettiva: abbiamo pubblicato libri, realizzato una ventina di documentari, anche per National Geographic. I dati che raccogliamo poi sono a disposizione di enti e studiosi: il canyon esplorato in Messico fa parte di un parco naturale che ha basato il suo piano di gestione sui nostri dati, noi facciamo parte del consiglio tecnico del parco e siamo impegnati in prima linea, soprattutto per quanto riguarda le attività di conservazione.” La spedizione in Chiapas, di cui Ferrino è stato partner tecnico per quanto riguarda la fornitura dei materiali necessari per allestire il campo base, esemplifica perfettamente la complessità e il valore di quello che il gruppo La Venta fa: ovvero consentire a scienziati, idrogeologi e archeologi in questo caso, di condurre

ricerche in posti che senza il loro aiuto non riuscirebbero mai a raggiungere. In poche parole porta gli scienziati nei posti giusti.

Come si è svolta a livello pratico la missione? Quanti eravate? Eravamo in totale ventotto tra italiani e messicani, poi c’erano un colombiano e uno spagnolo e, una volta messo piede in Messico, ci siamo divisi in tre gruppi. Da Tuxtla Gutiérrez, la capitale del Chiapas, ci siamo spostati insieme alla protezione civile in questo canyon lungo ottanta chilometri. L’accesso al canyon è difficile, per questo ogni gruppo è arrivato in punto diverso: due sono riusciti a raggiungerlo a piedi, con il supporto delle comunità locali che ci hanno aiutato a portare il grosso del materiale con degli animali, mentre il terzo ha avuto bisogno dell’appoggio di un elicottero perché si trattava di un punto ancora più remoto, in generale ci sono voluti due giorni. Una volta in posizione abbiamo allestito un campo base per ogni gruppo, che ci ha dato la possibilità, per circa dieci giorni, di esplorare la parte di canyon di pertinenza e perlustrarla palmo a palmo. Tre basi logistiche per esplorazioni giornaliere quindi… I campi sono stati fondamentali perché l’esplorazione consisteva nell’arrampicarsi

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fino all’imbocco di grotte, che erano posizionate sulle pareti del canyon. La maggior parte le avevamo individuate grazie a un sorvolo in elicottero di circa un anno fa: avevamo già una lista di una decina di obiettivi già stabiliti, ma la maggior parte erano difficilmente accessibili. Per portare a termine questo genere di operazioni servono competenze alpinistiche, ma anche speleologiche: l’obiettivo della missione infatti è quello di mappare cosa c’è all’interno delle caverne.

Che importanza ha il campo base in questo genere di operazioni? Enorme: il recupero delle forze di notte è fondamentale. Puoi farti il mazzo tutto il giorno se la sera mangi e la notte dormi, altrimenti non ce la fai, perdi efficienza: in questo il tipo di attrezzatura, come quella che ci ha fornito Ferrino, fa la differenza. Poter contare su tende confortevoli, traspiranti e che riparano in maniera efficace dagli insetti può svoltare una missione.

Com’è la giornata tipo in un campo base in una spedizione di questo tipo? Le giornate iniziano prestissimo, al sorgere del sole, verso le 6.30, per questo è fondamentale poter riposare bene, poi a turno qualcuno prepara la colazione per tutti e si parte per le missioni vere e proprie. Qualcuno rimane al campo, per pulire e fare da guardia, e si comunica tra i vari gruppi via radio. Verso le sei, sette di sera si rientra tutti al campo, si lavano le attrezzature, si cena e si fanno i programmi per il giorno dopo. Alle nove siamo tutti in tenda pronti per dormire.

Che rischi si corrono in una missione del genere? Spedizioni come queste sono molto rischiose sia per i rischi che si corrono abitualmente in un territorio come questo, e poi per quelli connessi all’alpinismo. Nel canyon non avevamo la possibilità di scegliere una via migliore rispetto ad un’altra, dovevamo necessariamente raggiungere l’imbocco delle grotte: il rischio maggiore era quello di trovare della roccia non buona, magari trop-

po friabile. Questo per quanto riguarda la parte alta, nella parte bassa delle pareti invece c’è la giungla: bisogna aprirsi la strada a colpi di machete. La presenza di insetti è massiccia e, a conti fatti, è una delle cose che ci ha dato più filo da torcere: sia perché ci può essere qualche ragno o qualche scorpione nei buchi dove infiliamo le mani per fare presa, e sia perché c’è la possibilità di essere attaccati da api o vespe. Cosa che per altro è successa.

Un’ape poteva mandare a monte tutto? Io e un altro esploratore siamo stati punti, io sono anche allergico quindi per me è stato un po’ più problematico: siccome le punture erano molte siamo tornati giù subito e siamo stati recuperati da un elicottero della protezione civile che ci ha portati in ospedale. Dopodiché ci siamo dotati di tute anti api e siamo tornati a fare quello che avevamo iniziato, stavolta operando di notte, quando gli insetti sono meno attivi, e questa volta tutti interamente coperti. Siamo riusciti a raggiungere tutte le grotte.

E una volta raggiunte le grotte? A quel punto inizia il lavoro esplorativo vero e proprio, che comprende tre fasi: prima di tutto si fa esplorazione attraverso la topografia, ovvero si misurano le grotte, perché è importante avere un rilievo, un disegno del territorio, perché ci dà informazioni importanti sulla geologia. A quel punto si inizia con la ricerca di corsi d’acqua per fare dei campionamenti e vedere se c’è inquinamento: intorno al canyon ci sono delle zone abitate e questa è una delle prime cose da stabilire. L’ultimo step consiste invece nella documentazione archeologica: molte di queste grotte, quelle più accessibili, sono state frequentate in epoca antica, parliamo del 500-600 dopo Cristo, da una popolazione precolombiana parallela ai più famosi Maya, gli Zoque, una delle culture madri delle meso Americhe. Gli Zoque sono poco noti perché poco studiati, invece in questo canyon ci sono delle cose incredibili: pensa che si ar-

rampicavano sulle pareti a mani nude oppure costruendo delle impalcature per celebrare in queste caverne dei riti sacri religiosi.

Per fare tutte queste cose servono molte competenze diverse, siete un team variegato… In questo caso con noi c’era un’archeologa messicana, poi avevamo due idrogeologi per prelevare campioni d’acqua ed effettuare analisi sul posto; alcuni campioni invece li abbiamo dovuti spedire tramite elicottero nella capitale del Chiapas perché alcune analisi, come quelle dei colibatteri, che servono a sancire l’attività e la presenza umana, devono essere fatte entro 12 ore e i campioni devono essere tenuti al freddo. Poi c’erano topografi, alpinisti, speleologi e un infermiere.

Qual è stata la scoperta più significativa di questa missione? Prima di tutto abbiamo fatto analisi a tappeto delle maggiori sorgenti del canyon per capire il loro stato di salute. Questo posto è meraviglioso, ma ha subito un impatto antropico importante e, per conservare queste sorgenti, bisogna intanto scoprire il loro stato di salute. Bisogna prima di tutto capire se è un luogo così vergine come sembra a un primo sguardo, o se sta già subendo le conseguenze dell’antropizzazione. Parlando di grotte, se fosse così, non è qualcosa di risolvibile in poco tempo: mettiamo il caso che la causa sia un allevamento intensivo di animali, non è che se sposti l’allevamento la grotta dopo un giorno è pulita: trattandosi di bacini acquiferi carsici possono rimanere inquinate per decenni, quindi bisogna intervenire in tempo.

I risultati sui campioni d’acqua li avete già ricevuti? Ancora no, richiedono molto tempo: sembra tuttavia che l’inquinamento ci sia, ma meno forte di quello che pensavamo, perché queste grotte hanno un potere di ossigenazione e di purificazione delle acque molto forte, è come se la loro conformazione facesse da filtro.

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Peter Moser Pioniere reloaded

Il 10 agosto 2021 Peter Moser ha concatenato, in un giorno soltanto, sei delle principali montagne delle Pale di San Martino cercando di ripercorrere le orme dei primi scalatori. Peter Moser infatti ha lavorato per sottrazione: ha tolto la corda, l’imbrago, persino il compagno. Questo per arrivare all’essenza ultima della montagna, per provare a realizzare una missione che ne celebrasse e rivelasse l’essenza più pura: un po’ come succede quando a disegnarla sono i bambini, con la loro capacità di andare al cuore delle cose tagliando il superfluo.

Da questa sua esperienza è scaturito un film, firmato nella regia da Alessandro Beltrame e sostenuto da Aku, dal titolo evocativo: “Pionieri”. La volontà di Moser è stata infatti quella di ripercorrere i passi di chi, sulle pale di San Martino, ha aperto le prime vie, esplorato da pioniere un territorio che era ancora ignoto ai più. Il 10 agosto del 1896 Bartolo Zagonel, Michele Bettega e Beatrice Thomasson erano infatti partiti per una serie di esplorazioni che sarebbero durate anni e che avrebbero permesso agli alpinisti di godere di questi percorsi e di queste vie. Peter Moser ha voluto replicare l’ascesa dei tre, scegliendo lo stesso giorno, il 10 agosto, ma 125 anni dopo e proponendosi di concatenare sei cime in un giorno solo. Per riuscire a concatenare tutte le cime e rimanere nei tempi è partito alle 2:45, questa da parte di Moser non è stata solo una performance sportiva, ma anche una ricerca delle proprie radici, in primo luogo come alpinista, poi come guida alpina e, infine, anche come montanaro.

Ecco il percorso, sia dei pionieri che di Moser:

CIMON DELLA PALA 3.184 M

PALA DI SAN MARTINO 2.982 M

CIMA CANALI 2.900 M

SASS MAOR 2.812 M

SASS D’ORTIGA 2.631 M

PIZ DE SAGRON 2.486 M

La prima cima del percorso è anche la più alta: il Cimon della Pala si erge 3184 metri sopra il livello del Mare, il paesino di San Martino da quassù non è che un pugno di lucine tremolanti nel buio.

«Verso le 4 del mattino ho preso uno scivolone incredibile su una lastra di neve ancora ghiacciata: è lì forse che mi sono svegliato davvero ed è iniziato tutto. Prese singolarmente queste vie non sono vie difficili, anzi, ma messe tutte insieme mi hanno costretto ad una concentrazione continua e non indifferente. Mi hanno lasciato un senso di rispetto

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profondissimo nei confronti di chi ha aperto queste prime linee: loro ci hanno messo in totale 20 anni a salire queste cime, io grazie al loro lavoro e alla loro genialità ho potuto farlo in un giorno» racconta Peter Moser. «La verità è che li invidio profondamente, perché avevano tutto a disposizione, un territorio immenso e mille possibilità di esplorazione: adesso devi ritagliarti un corridoio nella storia per riuscire a creare un itinerario nuovo su una parete.» Buona parte del romanticismo delle prime ascensioni inevitabilmente è finito, oggi il mondo è diventato piccolo: tutte le conoscenze e la tecnica di cui disponiamo restringono notevolmente il campo delle “prime volte”.

«Quello che però ancora queste montagne ti danno è il senso di libertà: sono itinerari a fil di cielo che ti danno un’energia pazzesca. Muoversi in velocità senza essere legati è come essere un tutt’uno con la roccia, con la montagna. Ci sono stati dei momenti particolarmente difficili, sia dal punto di vista della fatica, ma anche della sicurezza: quando sei veloce devi prenderti dei rischi, fa parte del gioco. Io come alpinista cerco sempre l’avventura: per me la priorità è quella, anche rispetto alla difficoltà. Nell’alpinismo, come nella vita, scelgo sempre di mettermi in gioco: questa è stata indubbiamente una grande avventura. La performance sportiva era l’ultima cosa che mi interessava: l’ho fatto in velocità, è vero, ma senza fretta, senza il cronometro, il mio obiettivo era vivere l’esperienza, non misurare il tempo.» Oggi che gli alpinisti sono tutti alla ricerca di una propria cifra non è banale trovare una strada che non sia stata ancora battuta, un record che non sia già stato superato, o semplicemente trovare un’idea nuova per una missione. «Devo ancora capire che tipo di alpinista sono: l’unica cosa che mi è chiara è che amo la montagna, fa parte del mio habitat, per star bene sono costretto a stare tra le vette. Sono nato montanaro e morirò montanaro, forse per me questa è l’essenza dell’alpinismo. Per me questo concatenamento ha rappresentato anche un po’ un viaggio dentro me stesso, o forse una specie di fuga durata un giorno.»

Se è impressionante concatenare sei cime tutte tra i duemila e i tremila e qualcosa metri, è impressionante anche immaginarsi le avventure dei pionieri di fine ottocento, quando magari non ci sarà stata l’ansia da scoperta, ma di sicuro non c’erano neanche i prodotti incredibili e la conoscenza sui cui gli

alpinisti di oggi possono contare. «Queste pareti sono dei veri e propri labirinti, riuscire a salire su queste cime imponentissime, che mettono soggezione, con i mezzi dell’epoca è stato qualcosa di veramente grandioso. Avranno dovuto probabilmente osservare le montagne per giorni interi, magari aspettando che scendesse la prima neve per vedere i punti deboli. Non è scontato anche per un alpinista esperto riuscire a trovare la via migliore, figuriamoci con i mezzi dell’epoca. Questi itinerari si basano sui punti deboli della montagna, che sono dei veri e propri punti d’accesso per arrivare in cima, credo da parte dei primi scalatori ci sia stato un lavoro di interpretazione incredibile.»

Ritornare su quei percorsi e su quelle difficoltà, che oggi sembrano banali, ma metterle insieme in una giornata, rende comunque il percorso complicato, anche e soprattutto dal punto di vista dello stress a cui il corpo viene sottoposto. «L’unica mini pausa me la sono concessa al rifugio Treviso, per iniziare a rallentare dato che il mio corpo era piuttosto esausto.»

Avere tutto un mondo da esplorare sicuramente è stato un privilegio non da poco, ed è uno dei pochi che noi non potremo più avere. Come specie noi umani siamo curiosi e insaziabili, ed è questa curiosità che ci ha portato a spostare tutti i limiti, superarli, per poi magari domandarci se avesse senso farlo. Quelli che hanno scalato per la prima volta queste montagne erano dei privilegiati: inglesi che potevano permetterselo, oggi che è alla portata di molte più persone, quelli che lo riescono a fare con gli occhi della scoperta sono ancora dei privilegiati. «Con gli occhi giusti oggi secondo me si può ancora essere esploratori: se uno vuole ogni volta riesce a scoprire cose nuove. Ho voluto omaggiare una delle salite più belle in assoluto non solo delle Pale, ma dell’intero arco alpino, lo spigolo dell’Ortiga, scendendo dalla via normale e poi attraversando la valle del Sagron: il corpo è riuscito a dare anche quel di più che sembrava non esserci. Poi, quando finalmente sono arrivato sul Piz de Sagron, completando così la mia traversata delle Pale, non mi restava che scendere di nuovo: è stato un bel traguardo, un arrivo solitario su una montagna solitaria. Il mio obiettivo era arrivare alla radice dell’alpinismo, arrivare alla fine di questo concatenamento vivendo queste montagne come chi le ha guardate con occhi diversi e, forse, così facendo ho ritrovato un po’ anche me stesso.»

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He Lives to Discover Bear Grylls

Con un passato da militare, è stato anche il più giovane britannico a conquistare l’Everest nel 1997 dopo essere sopravvissuto ad un incidente paracadutistico. Di lui oggi si scrive di tutto: che è morto e che ha smesso con le sue avventure, di cosa mangia, di come si veste e si discute sulla genuinità delle sue imprese.

Edward Michael Grylls fa probabilmente parte dell’immaginario di tutti noi Millenial sin dall’adolescenza con il nome di Bear Grylls e titoli come “Wild Oltrenatura”: avventure selvagge, imprese di sopravvivenza... È sfuggito a squali e coccodrilli affrontando situazioni al limite anche a livello di alimentazione. Con un passato da militare, è stato anche il più giovane britannico a conquistare l’Everest nel 1997 dopo essere sopravvissuto ad un incidente paracadutistico. Di lui oggi si scrive di tutto: che è morto e che ha smesso con le sue avventure, di cosa mangia, di come si veste e si discute sulla genuinità delle sue imprese. La verità è che di esplorare non ha mai smesso e la sua volontà e passione sono indiscutibili e da scindere dal prodotto televisivo che lui stesso considera solo una fra le tante componenti di tutto il suo lavoro.

Per la maggior parte delle persone rappresenti l'esploratore e l'avventuriero per eccellenza. Come si è evoluto il tuo personaggio nel tempo e chi è Bear Grylls oggi?

In verità, gran parte di me è lo stesso bambino

che a 8 anni amava arrampicarsi con suo padre sulle piccole scogliere vicino a casa, dove sono cresciuto (fra l’Irlanda del Nord e l’isola di Wight, ndr). Il legame con la natura e con le persone a me care è sempre stata la mia forza motrice. Ovviamente, molte cose si sono evolute e sono cambiate, ma ciò che non è cambiato è la gioia di poter condividere con persone fantastiche l’essenza dei luoghi selvaggi: è un privilegio che non do mai per scontato.

I media hanno sempre avuto un ruolo importante nella tua carriera: riesci a immaginare le tue incredibili imprese senza una telecamera che le seguisse o una sfida da documentare? Per me questo è sempre l'obiettivo finale. Fare queste avventure senza telecamere! Se chiedete alla nostra troupe, rideranno di questa dinamica: loro sono sempre all'inseguimento e io cerco sempre di scappare! Ma in qualche modo questa tensione funziona. Voglio molto bene ai ragazzi, sono come fratelli per me, ma faccio davvero fatica a stare davanti alla telecamera. Non fa parte della mia zona di

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comfort, ma lo vedo semplicemente come una componente del mio lavoro. Ciò che facciamo al giorno d’oggi è non dire mai "azione" e tenere sempre buona la prima per mantenere un basso profilo. La troupe accende le telecamere in silenzio e noi iniziamo a muoverci... Mi piace e rende il tutto meno ufficiale e formale.

Quale ritieni sia il tuo più grande risultato? Credo che sia stato diventare Chief Scout, è stato il più grande onore della mia vita. Essere al fianco di così tanti eroi silenziosi di ogni età e sapere che insieme facciamo parte di qualcosa di così incredibile. Gli scout sono il più grande movimento giovanile del mondo, forte di 55 milioni di persone, e una forza ispiratrice per il bene. Dalle storie di coraggio nei campi profughi al lavoro dei volontari nei centri urbani, l'impegno e i valori che gli scout rappresentano sono fonte di ispirazione. Non potrei essere più orgoglioso di essere un piccolo ingranaggio di questa incredibile macchina e la grande famiglia che è lo scoutismo.

Negli ultimi due anni è nata una giovane comunità outdoor che ha iniziato a cercare spazi per esprimersi facendo escursioni e scappando dalle città e dalla società. Hai avuto modo di vivere questo fenomeno in prima persona? Cosa ne pensi? Non ancora, ma mi sembra fantastico! Anche i luoghi più selvaggi del nostro mondo stanno man mano diventando più accessibili e spero che questo porti le persone a superare sempre più le proprie barriere per abbracciare davvero le sfide della natura selvaggia. Le pressioni della vita moderna e il fatto di essere costantemente connessi attraverso la tecnologia e i telefoni fanno sì che le persone vogliano sempre più sfuggire a questi vincoli: si tratta di avere uno stato d'animo avventuroso, di uscire e scoprire di cosa siamo fatti. Questo spirito di scoperta è potente ed è in tutti noi. Il mio obiettivo è sempre quello di trasmettere alle persone competenze che permettano loro di superare i limiti, esplorare in sicurezza e vivere la magia dell'avventura.

A questo proposito, cosa significa per te essere un esploratore? Fare del nostro meglio per vivere con uno spirito calmo e coraggioso per affrontare le sfide difficili a testa alta; il cuore per compiere ogni giorno piccole

azioni concrete e gentili per le persone, sviluppando e lavorando ogni giorno su una propria solida determinazione interiore per non arrendersi mai nelle cose importanti della vita: i nostri sogni, il nostro pianeta e gli altri.

In un mondo in cui tutto è stato fatto, visto, documentato, c'è ancora un posto in cui l'uomo non è stato? Tantissimi! Più vedo il nostro pianeta e più mi rendo conto che è incredibile ed enorme. Madre Natura non manca mai di ispirarmi e di togliermi il fiato. Tuttavia, sento anche che la natura sta lottando, ed è per questo che preservare i luoghi selvaggi, gli habitat e la fauna selvatica è così importante per me. Si tratta di preservare il futuro.

C'è un luogo o un progetto che ha ancora nella sua lista di cose da fare? Ho una lunga lista di cose da fare, che sembra continuare a crescere, ma mi piacerebbe ancora rivisitare alcune delle cime non scalate in Groenlandia e condurre qualche viaggio lì. Ci sono distese enormi di vera natura selvaggia totalmente inesplorate, e questo porta con sé un senso di stupore difficile da descrivere.

Cosa ci dici della tua nuova avventura con Jack Wolfskin? Quale valore del marchio senti più vicino alla tua visione? Jack Wolfskin e io condividiamo l'impegno di mettere le persone di tutte le età nelle condizioni di uscire e trovare le loro avventure, sia a livello locale che più lontano. Spesso penso che siamo tutti un po' come l'uva: solo quando veniamo spremuti vediamo di che pasta siamo fatti. Quando si ritrova lo spirito d'avventura, che si tratti di passare una notte in solitudine o di arrampicarsi su un'alta scogliera, la natura selvaggia dà un orgoglio che il denaro non può comprare. L'aria aperta non discrimina e non giudica. La natura selvaggia è sempre rivelatrice in questo senso: è come uno specchio del nostro carattere e ha un modo incredibile di unire le persone e di darci forza. Vogliamo davvero che le persone vivano secondo il mantra "We live to Discover"!

Cosa bolle in pentola con questo nuovo partner per il 2023? Nuove attrezzature, nuove avventure, nuovi spettacoli e nuovi obiettivi. Spingendoci oltre i nostri limiti e portando con noi persone fantastiche. Che cos’altro potevate aspettarvi?

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Inseguendo i record

Qual è il segreto delle eccezionali prestazioni in alta montagna di Nicolas Hojac? L’allenamento, certamente. Ma non uno qualunque: un allenamento che ha fatto del trail running alpino l’elemento centrale e più importante. Questa disciplina infatti, come suggeriscono gli studi, aumenta la resistenza e aiuta a ridurre il consumo di energia durante la salita. Anche grazie a questa preparazione nel 2022 l’atleta svizzero Mammut è riuscito a segnare un nuovo record sulla Swiss Skyline Route, l’iconica scalata che tocca Eiger, Mönch e Jungfrau, le tre grandi cime dell'Oberland bernese che raggiungono rispettivamente 3967, 4110 e 4158 metri di altitudine. L’itinerario in genere richiede circa quattro giorni per essere completato, ma Hojac ha compiuto l’impresa con Adrian Zurbrügg in sole 13 ore e 8 minuti. Allenarsi sempre e soltanto su un terreno di alta montagna sarebbe chiaramente ideale per prepararsi a questa e ad altre imprese simili. Il problema è che le condizioni meteorologiche, i rischi elevati e la notevole quantità di tempo

richiesta non lo rendono sempre possibile. Ed è qui che il trail running si inserisce come opzione molto efficace. “Come alpinista professionista, non posso allenarmi in continuazione in alta montagna” conferma Hojac. “Le mie capacità tecniche mi consentono molto facilmente di trasferire la forma fisica che ottengo con il trail running dai sentieri al terreno di montagna.”

I vantaggi del trail running:

dai

sentieri all’alta quota

Il trail running è un allenamento rapido che può offrire grandi benefici agli atleti di montagna proprio perché sollecita il corpo in modo complesso e impegnativo, molto più di quanto accade durante la classica corsa su strada o in un bosco. Nel trail running ci sono infatti dislivelli maggiori, con salite e discese ripide e terreni differenti, con tratti di fango e sassi: tutto questo, oltre che una notevole resistenza, stimola una maggiore forza e migliori capacità di coordinazione e concentrazione.

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È il trail running alpino la chiave per raggiungere performance eccellenti in alta montagna. Dai benefici dell’allenamento all’attrezzatura essenziale, ecco l’esperienza dell’atleta Mammut Nicolas Hojac, che l’anno scorso ha segnato un nuovo record sulla Swiss Skyline Route.

Non è però soltanto la funzionalità dell’allenamento ad avere affascinato Hojac. Con il trail running, ha aggiunto l’atleta Mammut, “puoi correre in modo semplice ed efficiente, e quindi coprire distanze molto più lunghe rispetto all’hiking. Come scalatore, mi piace quando le corse ti portano dai sentieri escursionistici e un “terreno di arrampicata”. È un bel cambio di ritmo e rende il percorso un po' più impegnativo e vario.”

La sfida dell’attrezzatura: essenziale e leggera

Il trail running su terreno alpino rappresenta una sfida notevole anche sul fronte dell’attrezzatura: bisogna selezionare un equipaggiamento essenziale ma funzionale, alleggerirsi con buon senso (cioè senza lasciare a casa cose che potrebbero poi rivelarsi fondamentali) e ovviamente conoscere tutti i rischi connessi. “Il trail running su terreno alpino richiede molta esperienza. Dal momento che vuoi essere il più minimalista possibile, a volte devi fare a meno di alcune attrezzature” dice l’atleta svizzero. “Ma se non hai abbastanza vestiti con te, un improvviso cambiamento del meteo può avere gravi conseguenze.” Soprattutto le scarpe, per chi fa trail running, hanno un ruolo vitale: sono cruciali per riuscire a muoversi su terreni impegnativi rapidamente e in sicurezza. “Oltre a una buona calzata, la cosa più importante delle scarpe da trail running è la suola” commenta Hojac. Essendo il punto di contatto tra l’atleta e il terreno, è praticamente il fattore più significativo, o

quasi, sul fronte della sicurezza. “Le suole scivolose possono portare a incidenti molto gravi. Ma dovresti anche conoscere i limiti delle tue scarpe da trail running, ad esempio se il terreno è ghiacciato o se stai correndo sulla neve.”

Le nuove proposte di Mammut per il trail running

Ben consapevole delle esigenze dei corridori che amano mettersi alla prova su sentieri impegnativi e terreno alpino, Mammut ha lanciato una nuova collezione dedicata al trail running. Leggera, traspirante e resistente, è stata progettata pensando alle specifiche caratteristiche di questo sport. Tra i pezzi forti della collezione ci sono, ad esempio, la scarpa TR BOA Mid GTX, il gilet ultraleggero Aenergy TR 5 dotato di porta bastoncini e porta borraccia e i pantaloncini Aenergy TR 2-in-1 realizzati con materiali riciclati. La Aenergy TR BOA Mid GTX Women, in particolare, è la scarpa top di gamma: pensata per le medie e le lunghe distanze, ha una suola Vibram Megagrip con tecnologia Litebase, perfetta per affrontare con un peso leggero anche le condizioni più difficili, e una membrana Gore-Tex che ripara dall’acqua. È dotata inoltre di una confortevole intersuola in EVA ad alto rimbalzo e di tomaia in maglia traspirante, con sistema BOA Fit preciso e micro-regolabile. L’intera collezione Mammut per il trail running, tra l’altro, è completamente decarbonizzata, nel senso che le emissioni causate durante il processo di produzione sono state compensate e rimosse dall’atmosfera.

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Le champion du monde: Benjamin Roubiol

ODLO X-ALP TEAM ATHLETE

Sono su una corriera che va ad Arco, sto guardando i Campionati del Mondo di Trail Lungo, a Stubai, Innsbruck. In testa, c’è Andreas Reiterer: è il favorito, è una spanna sopra a chiunque altro, sta bene, è già andato vicino a quel risultato in passato e ora è lanciato per potare a termine il lavoro. Poi, qualcosa smette di funzionare, il suo passo cambia, smette di girare. Dietro combattono e lui se ne sta lì davanti, sembra un guscio vuoto, non ha più nulla. A qualche minuto da lui, dietro, c’è un giovane ragazzo francese, sconosciuto ai più: si chiama Benjamin Roubiol e, al contrario di Andreas, Benjamin sta volando, sta volando davvero. Andreas rallenta e Benjamin si avvicina. A 15 chilometri dal traguardo, dopo otto ore e mezza di gara, i due si trovano a 30 secondi di distanza, 20, 10, zero. Sull’ultima salita Benjamin sale al doppio della velocità, sta bene, l’altro è un cadavere. Benjamin, una volta raggiunto il primo potrebbe approfittarne per riprendere fiato, stargli attaccato alle caviglie e poi staccarlo in progressione, nel modo a cui ci hanno abituato gli ultrarunner francesi. Benjamin non lo fa: ne ha di più, sente che è il suo momento, e il momento delle coltellate, e allora parte, e non si ferma più. È difficile emozionarsi durante la diretta di una gara di ultrarunning: succede poco e molto lentamente. Per quanto mi riguarda, è ancora più difficile se si parla di mondiali. Ma quell’attacco, in quel momento non erano più i mondiali, era solo sport, nella sua forma più alta e astratta. Quell’attacco, visto in diretta, è stato qualcosa di talmente violento da essere difficile da spiegare, vi direi di andare a riguardarvelo, ma non sarebbe la stessa cosa. Benjamin vincerà con 8 minuti, guadagnati in 15 chilometri, e con un’azione di carattere: bel lavoro ragazzo.

Circa un mese prima mi era arrivato il solito messaggio: “Ehi Filo, vuoi intervistare l'atleta del Team Odlo X-Alp Benjamin Roubiol?” Non lo conosco, così inizio a studiare: ha la mia età, più o meno, e ha corso per lo più in Francia, ma nel suo palmarès ci sono degli exploit notevoli: 14° a CCC, 14° alla Diagonale des Fous, 21° alla Marathon du Mont Blanc. Sui social scrive in francese: io non lo parlo, non lo capisco, lo intuisco. Tra le pieghe e le increspature inizio a definire la persona, trovo degli spunti di riflessione: sono tracce, ma intuisco la direzione da prendere. Sui social parla di ambientalismo in modo molto disinibito, a tratti tagliente, esce dalla trita narrazione del mondo outdoorsy. Durante l’intervista mi risponde con la voce un po’ sommessa, lentamente. Esita molto prima di dire qualcosa, sembra dargli un peso. Nelle interviste è importante cercare di adottare il tono di voce dell’intervistato: se è calmo bisogna parlare lentamente, se spara cinquemila parole al minuto bisogna lasciarsi coinvolgere da quell’entusiasmo. Bisogna assecondare la postura, il suo modo di fare: in un’intervista c’è una gerarchia innaturale, non è un confronto alla pari, è più che altro un monologo guidato. Mentre parliamo cerco di dare a Benjamin il tempo di pensare, per farlo sentire a suo agio, ma più probabilmente lo ubriaco e basta, col mio inglese mediterraneo e assolato, o “italiano moderno”. Tra noi due c’è uno scoglio che nessuno ha messo lì, ma non possiamo fare altrimenti, così a fine intervista ho più domande di quando ho iniziato. È strano desiderare di voler conoscere più profondamente una persona, ma non poterlo fare a causa di qualcosa che non dipende da nessuno: una lingua. Non c’è niente che si possa fare per evitarlo, non basta nemmeno stu-

diarla. È molto difficile capire davvero bene una persona se si parlano due lingue diverse, pur parlando bene inglese. Le inflessioni, i piccoli dettagli di una conversazione, si perdono. Forse è la cosa affascinante, e forse è una cosa che non supereremo mai.

Come hai iniziato a correre? E cosa cerchi dallo sport, sia come esperienza che come performance? Ho iniziato a correre da bambino, qui, sulle montagne di casa, le Alpi francesi. Io sono di Cruet, vicino a Chamberry. Nel mio villaggio ogni anno si tiene una gara abbastanza famosa, e vederla mi ha fatto appassionare allo sport.

Hai gareggiato principalmente in Francia, prima su brevi distanze, poi hai allungato molto velocemente: hai fatto CCC con ottimi risultati, diverse ultra più brevi. Poi l’anno scorso ti sei lanciato su una 100 miglia, durissima per altro e tutto sommato anche poco mediatica, per quanto famosa: La Diagonale des Fous. Cosa ti ha portato lì? Sono sempre stato affascinato dalle 100 miglia e da quel genere di gare. Appena ne ho avuto la possibilità l’ho colta, ho scelto Réunion per diversi motivi, il primo è che lì ho tanti amici che ci vivono, inoltre l’idea di venire a scoprire questo luogo mi entusiasmava molto. Io studio Environmental Studies, per cui l’isola mi interessava anche da un punto di vista personale e professionale. E scoprirla e visitarla correndo mi sembrava il miglior modo di farlo, così ho deciso di intraprendere questo progetto.

Environmental studies: di che si tratta esattamente? Di base sono studi scientifici, ma con un taglio più tecnico e legato sia alle scienze fisiche, che all’economia e alle scienze sociali e umane. Si occupa di studiare l’ambien-

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te nella sua interezza mettendo in relazione tutte le cose che lo influenzano e lo regolano. Io mi sto specializzando in gestione forestale.

Ho letto un tuo post su Réunion, dicevi qualcosa del tipo “mi rendo conto di essere una stupida persona privilegiata, che si può permettere di fare un viaggio del genere avendo un impatto ambientale enorme soltanto per correre una gara”. È stato interessante detto da un atleta professionista. Le nostre azioni hanno un impatto sul clima e sulle società più deboli, così come mi rendo conto che il nostro stile di vita è dannoso: viaggiamo molto, e soprattutto verso posti coinvolti da difficoltà molto importanti che non vengono risolte dal turismo. Ogni volta che prendo un volo sono triste e mi sento in colpa, con quel post volevo scusarmi, per quello che conta. È una convinzione personale: voglio essere trasparente anche con chi mi segue sui social, l’ambiente è importante.

Pensi che gli atleti professionisti siano sotto pressione per viaggiare o sono obbligati a uscire dai loro paesi più volte all’anno avendo un impatto inutile sull’ambiente? La corsa non dovrebbe essere uno sport pulito? È interessante pensarci: è vero, il trail non ha grande impatto in termini di attrezzatura e bisogni materiali. Ma gli sponsor e gli organizzatori incoraggiano gli atleti a viaggiare molto, il che deriva dalla volontà di partecipare ai grandi circuiti e di farne parte. Questo comporta numerosi vantaggi sia in termini economici che di visibilità, e spesso gli stessi marchi sponsorizzano questi circuiti, incoraggiando i loro atleti a parteciparvi e quindi a viaggiare an-

dando in luoghi molto lontani tra loro, come dici anche tu. Per molti atleti questi circuiti sono gli obiettivi della stagione. È difficile fare altrimenti nel momento in cui la libertà degli atleti di scegliere cosa correre si riduce. Per quanto mi riguarda, forse per quello che studio, sono molto determinato e consapevole in proposito, ma questo non vale naturalmente per tutti, e bisognerebbe fare qualcosa per aumentare questa consapevolezza.

Che obiettivi hai quest’anno? Vuoi allungare la distanza a Chamonix? Sono molto attratto da UTMB, ma quest’anno correrò L’echappée Belle, che è vicina a dove vivo, la settimana successiva a Chamonix. Il weekend di UTMB farò il cameraman per il Live Streaming della gara.

Questo è interessante. In effetti ci sono diversi atleti di livello che lo fanno, penso a Seb Chaigneau. Posso chiederti perché lo fai? È un piacere per me, trovo sia affascinante vedere dall’interno una gara come quella, correndo accanto alla testa della corsa. Non è semplicissimo da fare perché si corre comunque forte, e inoltre filmando devi tenere la videocamera dritta, non è automatico.

È bello vedere gli atleti coinvolti nell’organizzazione delle gare. Non è molto frequente in Europa ma evidentemente le cose stanno cambiando. Da quanto tempo fai parte del team di Odlo X-Alp e di cosa si tratta? Da quattro anni, nel 2020 ho avuto la possibilità di entrare nel team francese Odlo X-Alp. È stata una bella opportunità per me, vorrei investire più del mio tempo nella mia professionalizzazione come atleta. Tutto è nato da una passione, ma ora sto diventando un professionista e ci

sono una serie di modi in cui vorrei farlo. Insomma, vorrei investire più tempo nella corsa e nello sport in generale, oltre a voler dedicare anche più tempo alle persone e agli sponsor che mi supportano. Recentemente abbiamo fatto un meeting che ha riunito sia gli atleti del Team Odlo X-Alp che i reparti del brand che si occupano dei prodotti e delle vendite per discutere su future collaborazioni. È stato un momento di discussione interessante, è molto stimolante partecipare al processo di progettazione e poter condividere la tua visione di atleta sui prodotti futuri.

Cosa ne pensi delle linea di abbigliamento da trail running Odlo X-Alp? Indosso l'ultima collezione di trail running Odlo X-Alp da oltre un anno. Ho davvero messo alla prova tutti i capi su percorsi impegnativi e si sono rivelati durevoli, con un buon fit e davvero comodi. La t-shirt X-Alp Performance Wool 115 è super leggera e traspirante, i pantaloncini danno un buon supporto muscolare e ti fanno sentire più sicuro in discesa. Indossare abbigliamento tecnico ad alte prestazioni non è un elemento da trascurare in quanto aiuta a metterci nella posizione migliore per raggiungere i propri obiettivi.

Manca poco più di un mese ai mondiali di trail, e tu sei parte della nazionale francese. Ti vedremo? Che distanza correrai? Sì ci sarò, sono il più giovane della nazionale, e dovrei correre la distanza lunga, la 80k.

E qual è il tuo obiettivo? Vorrei viverla come un’esperienza, vedere come va e imparare dagli atleti che hanno più esperienza di me.

Un mese dopo possiamo dire, obiettivo raggiunto.

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Sergio e la Patagonia Run

La Patagonia Run è un evento talmente importante in Patagonia che la conoscono tutti, anche chi non corre, e ha una partecipazione larghissima e anche locale. Si svolge ad aprile e conta sei distanze, da 10 chilometri a 100 miglia, che le hanno permesso di coinvolgere anche la popolazione locale, e persone che non corrono, o che praticano altri sport outdoor. Ciononostante, il livello delle gare è internazionale e la gara è tra le più ambite nel continente.

Sergio Gustavo Pereyra ha 28 anni, è argentino, e da quest’anno corre nel team di SCARPA, che nel frattempo ha ampliato la sua storica famiglia di scarpe da trail Spin, con l’aggiunta della Spin Planet. Sergio è un atleta che quando si pone un obiettivo lo sa raggiungere. La corsa è nel suo DNA e

per diventare professionista e potersi dedicare a tempo pieno al trail running ha dovuto fare molti sacrifici. Correva fin da piccolo, quando badava agli animali della sua famiglia sulle colline della Costa del Malleo, a sud di Neuquén, in Argentina.

A 12 anni aveva già iniziato a lavorare: prima in un'officina dove puliva motori, poi nella manutenzione di parchi e case. Quindi la sua famiglia si è trasferita a Junín de los Andes: durante il liceo un insegnante di educazione fisica ha scoperto le sue doti di runner, inizialmente su strada. Di giorno lavorava in un cantiere edile, di sera si allenava. Su Facebook c’è ancora un video in cui lui spingeva una carriola. “Ecco, mi miglioro nella corsa anche così”, diceva sul social network.

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È la sera della finale dei mondiali di calcio 2022, siamo in un locale argentino in centro. C’è un telo che proietta la partita e la gente è ebbra di gioia e di vino. Parlo con un tale, ad occhio non sembra un gran sportivo, tra le varie farneticazioni mi chiede di cosa mi occupo e finiamo a parlare di gare e di corsa in montagna. Lui non ne sa nulla ma dice di avere un amico che fa quel genere di cose, in Argentina, e che l’anno prima ha corso una gara molto famosa, la Patagonia Run.
BY DENIS PICCOLO
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è spagnolo, si chiama Pau Capell e corre veloce: Pau ha vinto parecchie corse, ma tutti lo ricordano per una soltanto: l’Ultra Trail du Mont Blanc.

Sergio Pereyra è un atleta veloce ma Capell è un altro livello, e arrivare dietro di lui, con un secondo posto, sarebbe già molto. Non ci pensa. Così la gara parte, e Sergio inizia a correre.

I primi chilometri passano rapidamente ma Pau ha un altro passo. All’ottantesimo chilometro, metà gara, ha 20 minuti di ritardo sul leader. Le 100 miglia sono fatte di alti e bassi e le situazioni cambiano rapidamente.

trail, adesso è solo uno che sta correndo e sta faticando, e lui sta correndo più velocemente. Sergio guarda Pau in faccia e lo vede soffrire, e allora se ne va. Taglia il traguardo in 19 ore e 25 minuti. È la sua prima vittoria in una gara internazionale, ed è a casa sua, in Argentina. Pau Capell arriverà solo 10 minuti dopo, dietro a un ragazzo semisconosciuto, con un buon palmarès ma poco più. Quelle sono le vittorie che ti fanno sognare. Dopo una LUT andata storta, Sergio si presenterà in Place de l’Amitié per correre UTMB.

Chissà cosa sta sognando.

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Theo Le Boudec

Corri da quattro anni, come hai iniziato?

Ho iniziato sul tapis roulant durante il lockdown. Passavo le mie giornate a correre nel garage dei miei genitori. Volevo scoprire un nuovo sport, mettermi alla prova con una disciplina di resistenza dopo 12 anni di calcio.

Perché le lunghe distanze? Gli atleti della tua età di solito si concentrano più sulla velocità che sulla resistenza. Ho sempre affrontato la vita in maniera diversa. Ho subito sentito che le lunghe distanze fossero qualcosa che mi apparteneva, esattamente come Kilian Jornet. Lui è il mio idolo e la persona che mi ha fatto scoprire il trail running. Tutte le volte che guardo l’UTMB i miei occhi si illuminano.

Come ti senti quando corri da solo per ore?

Mi sento libero! Ed è questa sensazione di libertà che mi rende felice. Posso correre dove voglio e quando voglio, scoprire nuovi paesaggi, scalare montagne. Quando corro da solo penso ai miei obiettivi, sono un grande sognatore. Quando corro non ho più limiti.

Hai un coach o fai tutto da solo? Ho un coach da circa 1 anno, Christophe Malardé, ex atleta del Team Salomon. È lui che allena Francois D'Haene, quindi ha molta esperienza e sa come gestirmi. Condivide con me sia la sua esperienza che la sua saggezza. Avevo bisogno di una guida e Christophe è un player molto importante nella costruzione della mia giovane carriera.

Hai iniziato l'anno con una splendida vittoria in Istria. Com'è andata la gara? Ti aspettavi questo risultato? Mi sono davvero preparato per questa gara con il desiderio di essere davanti. Il mio obiettivo era candidarmi all'UTMB, a Chamonix all'inizio di settembre. Correre al fianco di Elio Fumo, Christopher

Clemente e Harry Jones è stato semplicemente pazzesco! Mi sentivo un bambino, avevo i brividi. Quella vittoria è stata la migliore della mia carriera. Ho corso la gara perfetta, sono riuscito a gareggiare con il cuore e con la testa e ho dimostrato a me stesso di essere capace di fare cose straordinarie. Il mio anno è già un successo! Adesso il mio sogno è fare una bella gara all'UTMB e scoprire una distanza che mi esalta e incuriosisce da anni.

Da quanto tempo corri con il team Altra? Come li hai conosciuti? Faccio parte del team dall’inizio del lockdown. Mi sono unito a loro dopo la mia vittoria all'Intégrale des Causses a Millau. Altra ora mi sta aiutando a strutturare il resto della mia carriera, mettendo a mia disposizione ciò di cui ho bisogno per essere il più efficiente possibile. Sono davvero grato al brand. Il team Altra sta facendo un lavoro fantastico non solo con me ma anche con gli altri atleti: il nostro è un ottimo team élite, ne vedrete delle belle all’UTMB.

Cosa ne pensi del concetto di scarpa da trail running di Altra? I modelli Altra sono innovativi e performanti! Per me è il brand migliore per poter eccellere in qualsiasi disciplina, dalle gare su strada a quelle di ultrarunning. Mi piace soprattutto la punta larga perché fa respirare meglio il piede. Le scarpe Altra ti permettono di ottenere una tecnica di corsa che sia il più naturale possibile.

Qual è la tua scarpa preferita? E con quale gareggerai la tua prossima ultra? La mia scarpa preferita è la Mont Blanc BOA: grip perfetto, comfort e ottimo sostegno! Non mi sono mai sentito meglio con altre scarpe. Correrò l'UTMB con un prototipo, ma per il momento è un segreto!

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Mi sento libero! Ed è questa sensazione di libertà che mi rende felice. Posso correre dove voglio e quando voglio, scoprire nuovi paesaggi, scalare montagne. Quando corro da solo penso ai miei obiettivi, sono un grande sognatore. Quando corro non ho più limiti.

Anton Krupicka e il campanile di Cortina, 9 anni dopo

Io, dell’ultrarunning, non credo di sapere nulla. Parlo dell’ultrarunning vero, del passato con i suoi personaggi e dello scenario in cui si è diffuso. Ma sono anche abbastanza tranquilla nel pensiero che non sono la sola, dobbiamo riconoscere che non è una disciplina intrinseca nei nostri territori o almeno non lo è storicamente o culturalmente. Mi piace pensare che chi legge non debba per forza avere sempre delle basi di conoscenza in partenza ma che possa, dalla lettura, imparare.

Allo stesso modo ogni persona che incontriamo sul nostro cammino può insegnarci qualcosa e così è successo per me ancora una volta, a Cortina. La settimana della LUT è una storia estiva che ha qualcosa di magico: atleti da tutto il mondo corrono insieme alle 7 di mattina, bandiere gialle sono appese in Corso Italia fino a quel traguardo che aspetta tutti gli appassionati alla fine dei 20, 50, 80 o 120 chilometri. Io lì ho anche conosciuto Harald, un giornalista tedesco che ancora prima di aprire bocca ti ha già fatto capire che nello scenario dell’ultrarunning ci gira da un po’ di tempo. Puoi notare dai suoi braccialetti orgogliosamente portati al polso sinistro che icone come Tor des Geants e UTMB li ha percorsi più di una volta. Un velo di nostalgia copre i suoi racconti in tema di ultrarunning, ricordando com’è stato un tempo, la calma, il silenzio prima delle folle. Questo mi ha dato la chiave per permettermi in modo discreto di parlare con Anton, partendo dal basso e sapendo dentro di me che se non avessi il ruolo di portavoce, io quella conversazione non me la sarei affatto meritata.

Anton Krupicka probabilmente non ha bisogno di presentazioni per nessuno, però io quel probabilmente lo voglio lasciare. Ho chiesto a lui di raccontarsi come piacerebbe essere conosciuto e per cosa vuole essere ricordato ma soprattutto chi è oggi e perché è arrivato fino in Dolomiti malgrado non gareggiasse. I suoi occhi azzurri si muovono veloci mentre cerca le parole per esprimere i suoi pensieri, e i capelli non gli sfiorano più le spalle ora che li ha tagliati.

La mia prima domanda era anche la più difficile: cosa vorresti che la gente pensasse di te, chi sei tu veramente?

Lui mi ha risposto con un’altra domanda. - “A te cosa piace fare?”

Così ho pensato di partire dal particolare per arrivare poi al generale.

Perché dagli States hai viaggiato fin qui anche se non gareggi? Hahaha. Quindi ti

stai chiedendo perché sono qui? Beh, sento che sto invecchiando, ho 39 anni. Ho corso questa gara nel 2014 e l'ho vinta, avevo 30 anni. Sono a un punto della mia vita in cui sono curioso di sapere perché sono ancora in qualche modo rilevante in questo sport: corro le ultra dal 2006, quindi cosa sono, diciassette anni? Il motivo per cui sono qui oggi è che amo la montagna... E andare a correre. Dieci anni fa ero molto competitivo e volevo e vincevo le gare, ora non sono più veloce come dieci anni fa. Ho fatto una 100 miglia due anni fa, sto ancora bene ma non ne ho più bisogno per il mio ego, sono più a mio agio con me stesso, quindi non ho più bisogno di essere convalidato da un risultato. Sarò sempre appassionato di montagna e faccio un po’ di tutto anche se non eccello in nulla... hahaha. Ma correre, sciare, arrampicare, fare escursioni... Questo sarà sempre importante per me. Sono però conosciuto nella community della corsa e quindi sento l'obbligo di restituire ciò che quella community ha dato a me in precedenza. È per questo che continuo a partecipare a eventi come questo, per incontrare le persone. Ciò che mi affascina sempre è il concetto della performance umana e del superamento delle sfide da parte dell'uomo, per trovare qualcosa dentro di sé.

È stata quindi la curiosità il motivo per cui hai iniziato a correre e poi gareggiare? Sì, è stata la curiosità. Ricordo che quando ero molto giovane, anche la maratona a 12 anni è stata la stessa ragione per cui ho iniziato a correre le ultra: mi chiedevo se ce l'avrei fatta. Poi col tempo ha iniziato a trattarsi di gare, di battere altre persone, di cercare di essere il migliore per un certo periodo di tempo. Credo che non si possa competere ai massimi livelli senza una certa dose di ego per dimostrare in qualche modo il proprio valore.

E quando hai deciso di smettere di gareggiare? Per me si è trattato di un paio di cose: innanzitutto continuavo a infortunarmi e quindi non potevo correre per lunghi periodi. Ci sono stati alcuni anni prima della pandemia in cui non ho potuto correre affatto. Per un paio d'anni

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sono stato un po' amareggiato da questo sport, come se la corsa non mi volesse e quindi da parte mia non volessi nulla a che fare con essa. Ma poi maturi e capisci o che lo sport stesso è sufficiente, non hai bisogno di risultati agonistici...

Facevi la tipica vita da atleta, fatta di allenamento diete e regole? Non sono mai stato così rigido. Ho sempre cercato più che altro di rimanere in contatto con la mia passione. Non ho mai seguito un programma rigido né ho avuto un allenatore. Il risultato agonistico non è mai stato l'obiettivo principale, ma piuttosto la passione per la montagna.

Qual è la parte migliore di questa gara? Per cosa vale la pena venire fino a qui? Per me è la passione intrinseca nella cultura italiana. Gli italiani sono molto calorosi e accoglienti, a differenza della Francia, per esempio. È un ambiente tranquillo e rilassato, ma l'organizzazione della gara è di alta qualità e la regione con le Dolomiti e il panorama sono bellissimi e spettacolari. Certo, è diverso da quello che c'è negli Stati Uniti, ma sono cose diverse. Se si desidera la sfida e l’organizzazione di alta qualità di una gara come l'UTMB, ma senza l’enorme hype ed il giro attorno ad essa, allora Lavaredo è un'ottima gara.

Qual è la più grande differenza tra la community di ultra europea e quella degli Stati Uniti? Sto cercando di pensare ad una gara negli States che inizia e finisce nella chiesa della piazza del paese...hahaha! Primo: negli Stati Uniti non esistono piazze. Non è possibile occupare una città nello stesso modo in cui si può fare qui. I terreni negli Stati Uniti sono regolamentati, il governo possiede molte terre, e i cittadini possiedono molte terre private. Di conseguenza ci sono restrizioni sul numero di persone che possono partecipare a un evento, ad esempio non so quante persone corrano la 20km qui, forse un migliaio? Negli Stati Uniti si può arrivare al massimo a 500 persone, ma di solito se ne contano 200 o 300. È una cosa limitata con un numero limitato. Quindi la sensazione è diversa, è più intima, non c'è una folla così grande. È un po' più rilassato, credo. Qui

è come se la gente, anche in mezzo alla folla in gara, cercasse un risultato. In America, invece, si corre per il risultato nelle prime file forse, ma a metà gruppo non interessa niente a nessuno. Quindi, torniamo al punto di partenza. Cosa vorresti che la gente pensasse e sapesse di te. È una domanda difficile, davvero! L'unica cosa che vorrei dire è che ero una persona che una decina di anni fa era al top in questo sport, ma penso che a chiunque debba essere permesso di cambiare, evolversi e crescere. Vedo ancora persone sorprese quando corro con scarpe più pesanti, per esempio. Certo, c'è stato un periodo in cui indossavo scarpe molto minimali, ma santo cielo! Si parla di dieci, quindici anni fa. Le persone cambiano e questo dovrebbe andare bene, bisogna aspettarselo e permettere alle persone di cambiare.

Sei però molto seguito comunque! Forse è perché la gente ha capito il tuo vero valore che va ben oltre la corsa. Apprezzo che tu lo dica, ma per me sarà sempre un mistero. Non ho mai capito perché ho questa sorta di popolarità... Voglio dire, ho vinto delle gare e corso per molti chilometri ma tutto qui. Sono sempre stato quello che sono e credo che questo faccia parte dell'evoluzione del non correre più. Faccio ancora un paio di gare all'anno, ma forse la gente riesce a capire quando qualcuno sta fingendo o forzando, e io cerco di non farlo e forse la gente lo vede e lo apprezza.

E ora? E la bici? Il ciclismo è nato per me come mezzo per riabilitarmi da infortuni e per continuare a correre, anche se con minor costanza, mi piace pedalare ma soprattutto se in combinazione con la corsa. Adesso voglio tornare in Colorado perché lì sta iniziando la stagione estiva, la neve sulle montagne si sta sciogliendo e voglio fare un grande viaggio in bicicletta in cui correre sulle montagne lungo il percorso... Questo è sicuramente ciò che mi piace fare al momento. Campeggiare in bicicletta, correre sulle montagne se ce ne sono lungo il percorso. È più uno stile di vita, una sfida che mi interessa molto di più del singolo focus sulla corsa.

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Millet Up for Anything

Trail running made in France

Accelerare il ritmo, liberare il movimento, avanzare senza ostacoli su terreni sinuosi. La primavera estate 2023 vede l’ingresso di un nuovo player nel mondo del trail running: quello del marchio Millet, da oltre 100 anni al fianco di chi vive la montagna. Oggi Millet vuole continuare ad essere uno dei brand di riferimento della community verticale, vuole continuare a collaborare con guide alpine, spedizioni e professionisti dell’outdoor, ma deve allinearsi al cambiamento dei tempi, evolversi insieme alla montagna. Una montagna che cambia giorno dopo giorno.

“Millet è la montagna e la montagna sta cambiando, rispetto a quella che conoscevamo vent’anni fa [...]. Sai che cosa ci ha fatto pensare che saremmo dovuti andare anche noi verso il trail running? Ho avuto l’opportunità di partecipare ad una conferenza sui cambiamenti climatici. Erano presenti climatologi, scrittori, scienziati. Ad un certo punto qualcuno ha voluto raccontare una favola. Era

l’anno 2075 ed una giovane guida alpina di Chamonix parlava con suo padre. Quando il padre gli chiese che cosa avrebbe fatto quella mattina, il figlio rispose che aveva dei clienti e che sarebbe andato nei Bossons per fare del trail running. E il padre: «Ma come fai a portare i clienti a correre sul Ghiacciaio dei Bossons?» E il figlio semplicemente rispose: «Ma papà, non esistono più i ghiacciai.»

La reputazione del marchio Millet è sempre stata legata indissolubilmente al mondo alpinistico. Ma la sua storia, la sua lunga tradizione ed il suo know-how non pongono limiti nello sviluppo di qualsiasi prodotto dedicato agli sport outdoor. Come è stato per lo scialpinismo, il trail running rappresenta una naturale evoluzione. Oggi le nuove generazioni interagiscono con la montagna in modo diverso, e Millet vuole essere con loro, avere un ruolo in tutto questo. Una grande ragione di crescita, in grado di proiettare il brand avanti nel tempo. Ecco allora che sul mer-

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cato si fanno spazio due collezioni che saranno l’inizio di un grande lavoro, che Millet intende portare avanti e far crescere negli anni.

Si parte dalla Trilogy Sky, una collezione di capi essenziali, molto tecnici, dedicati allo skyrunning e a coloro che sono alla ricerca di un equipaggiamento con un rapporto peso/ingombro davvero minimale. Fedele al suo mantra, Millet accompagna con questa linea atleti e appassionati di sky running e di alpinismo “fast & light”, desiderosi di evolvere sul filo delle creste, nella più pura accezione della corsa alpina, dello scrambling, espressioni di quel limite in cui non è più possibile utilizzare solo piedi e gambe, ma dove, per poter salire, ci sia aiuta anche con le mani. In quanto leader, da sempre, nella produzione di zaini da montagna, questi saranno il punto focale di una strategia che vede lo Sky Vest come modello di punta. Ad accompagnarli un numero li-

mitato di capi di abbigliamento estremamente performanti ed il supporto degli atleti Sandra Sevillano, Ikram Rashalla e Sebastien Guichardaz, protagonisti della campagna Up For Anything.

Ben più ampia, e declinata ad una concezione più classica di questo sport, è la serie Intense, pensata per il trail running tradizionale e meno estremo. Una linea che vuole proporsi anche al fast hiking per arrivare, entro la primavera 2024, ad una collezione ben più completa dedicata ad un pubblico ancora più vasto. Per lanciare questa nuovissima gamma, che si basa innanzitutto su zaini, vest e belt, sono stati necessari due anni di sviluppo con la collaborazione del team Sidas Matryx, una squadra giovane e ambiziosa composta da alcuni dei più talentuosi atleti élite di Francia. La collezione include immancabili capi d’abbigliamento a formare outfit completi altamente resistenti, affidabili e adattabili.

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“Adattarsi agli imprevisti, a ciò che incontrerai durante l’uscita. Indipendentemente da condizioni meteorologiche radicalmente mutevoli o una configurazione del terreno diversa da quella che avevi previsto, i prodotti Millet della nuova gamma Trail Running non ti lasceranno mai sul ciglio della strada. La loro durata e polivalenza sono fondamentalmente intrinseche alla loro progettazione. Sei pronto ad affrontare qualsiasi evenienza. Ritrova la spontaneità!”

Grande novità, nonché parte di questa collezione Intense, la prima linea di calzature Millet per il trail running. Ideali per brevi distanze, hanno la peculiarità di essere interamente prodotte in Francia, in un connubio di eccellenze transalpine: il famoso tessuto Matryx, le suole Michelin e l’Advanced Shoe Factory 4.0 di Ardoix. Una curiosità? Millet è uno degli investitori che hanno puntato su questo impianto all’avanguardia gestito dal gruppo Chamatex, produttore del-

lo stesso tessuto Matryx. Ad appena un paio d’ore di distanza dal quartier generale di Annecy, ASF 4.0 è una struttura, inaugurata in tempi recenti, in grado di produrre calzature avvalendosi dell’intelligenza artificiale. Lo scopo è quello di creare un hub di produzione automatizzata di scarpe sportive e sfruttare i vantaggi della produzione locale. In primis una logistica semplificata, che consentirà una maggiore velocità di immissione sul mercato e maggiore reattività alle esigenze locali. In secondo luogo una maggiore flessibilità nello sviluppo della linea di prodotti, consentendo di testare nuovi modelli che potrebbero essere prodotti in volumi inferiori. Infine, una produzione che riduce al minimo l’impatto di CO2 associato alle spedizioni. Una filiera corta completamente in linea con l’approccio sociale e ambientale del brand.

“Vogliamo fare il nostro ingresso nel mondo del trail running con umiltà, senza perdere

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la nostra identità, quella che rivela la nostra vera anima, quella di brand di montagna. Impegnandoci a lavorare al meglio i nostri materiali anche nell’abbigliamento, per dare un’offerta sempre di altissimo livello tecnico e qualitativo. Nella calzatura specifica c’è ancora molto lavoro da fare, lo sappiamo e per questo siamo partiti proprio dagli zaini, il nostro prodotto di punta.”- Frédéric Fages, Global Millet Brand Manager

A degna conclusione, come ulteriore tassello che dimostra l’interesse del marchio verso questa disciplina, si aggiunge la partnership con ISF International Sky Running Federation. Prossimo passo per questo 2023 la sponsorizzazione del primo Masters Skyrunning World Championships che si terrà il 30 luglio alla Royal Ultra SkyMarathon di Ceresole Reale (Italia). Una collaborazione che si amplierà nel 2024, ribadendo ancora una volta il DNA verticale dell’azienda e l’immagine a cui si vuole legare.

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“Vogliamo fare il nostro ingresso nel mondo del trail running con umiltà, senza perdere la nostra identità, quella che rivela la nostra vera anima, quella di brand di montagna. Impegnandoci a lavorare al meglio i nostri materiali anche nell’abbigliamento, per dare un’offerta sempre di altissimo livello tecnico e qualitativo.”

Sciacche Trail Di terre di vigne e di corsari

Andrea è agronomo e arrivando a Monterosso ci tiene a sottolinearlo: «Se mi regalassero una vigna da queste parti non so se la accetterei.» Al di là dell’aspetto pittoresco dei paesini sul mare, le Cinque Terre sono un luogo ostile e inospitale.

Siamo ancora in alto, a 500 metri sul livello del mare, e scendendo dalla strada che da Levanto conduce a Monterosso attraversiamo vigne abbandonate e muretti a secco decadenti. È fine marzo e la primavera è già avanzata, e il bosco, che è più una foresta, invade buona parte della strada. La rotabile che collega Levanto a La Spezia venne costruita soltanto negli anni Sessanta, prima ci si muoveva in treno: la ferrovia litorale risale agli anni Settanta dell’Ottocento, collegando per la prima volta le Cinque Terre al resto del mondo, fino a poco prima chiuse dalle montagne da una parte e dal mare dall’altra.

Storicamente, i primi paesi sorgevano più in alto rispetto alla costa, che fino al 1300 era pericolosa a causa de-

gli attacchi dei saraceni e dei corsari. Enzo, un tempo sindaco di Vernazza, ci racconta che Volastra, che oggi si raggiunge attraverso una massacrante scalinata che risale i vigneti per 330 metri di dislivello, è in realtà più antica di Manarola, che invece dà sul mare, e che venne costruita soltanto quando gli abitanti del paese alto iniziarono a scendere dalle montagne. Al contrario di quello che si può immaginare, la storia delle Cinque Terre non è una storia di mare, tanto che alcuni paesi, come Corniglia, non hanno nemmeno un molo. La storia delle Cinque Terre ha a che fare con la terra e con l’agricoltura. Poi, con l’esplosione del turismo, le Cinque Terre sono state progressivamente abbandonate, le case si sono trasformate in seconde case, e i terrazzamenti sono stati progressivamente abbandonati. Lo Sciacchetrà, il tradizionale passito locale, e la sua vigna millenaria sono diventati più che altro prodotti di nicchia, incapaci di tenere il passo di un mercato che richiede sempre più quantità. Ma qui, dove le vigne si aggrappano al nulla e stanno a picco sul mare, e dove la coltivazione richiede fatica e sudore, la quantità non è una scelta. Oggi le Cinque Terre sono da un lato abbandonate e dall’altro sovrappopolate,

come d’altronde capita a tutti i luoghi invasi dal turismo di massa.

Il giorno dopo la gara ci troviamo nel castello di Riomaggiore, la più orientale delle Terre, alla presentazione della nuova gara che l’organizzazione di SciaccheTrail introdurrà a partire dal 2024. Siamo venuti per ascoltare le novità sulla gara ma la presentazione si trasforma in un dibattito locale sul turismo, tra sindaco, popolazione, istituzioni e antropologi, mentre gli unici atleti presenti siamo io e Andrea. È a quel punto che capisco quanto SciaccheTrail sia diventato un evento importante non solo per il trail italiano, ma anche per la vita del luogo.

Ho conosciuto Nic e la Chri, indirettamente, qualche anno fa. Di Manarola lui, di Duluth, Minnesota, lei. Nic è come la sua terra e parla diretto, lei è riservata. SciaccheTrail nasce dal loro desiderio (non solo loro) di raccontare delle Cinque Terre diverse dalla classica cartolina da Grand Tour. La gara inizia a Monterosso, la più occidentale delle Cinque Terre, e si inerpica verso le montagne, sull’Alta via. L’area ha una rete sentieristica antichissima, divisa grosso modo in tre parti: una parte superiore che passa a fil di cresta, una in mezzacosta, e in fine una bas-

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sa, che attraversa le vigne e collega i paesi sulla costa. Dalla cresta, la zona meno frequentata, si vedono il mare da un lato e l’entroterra dall’altro, e i comuni di Pignone e di Riccò. La storia dell’entroterra è legata alle Cinque Terre da una migrazione stagionale che portava verso il mare nel periodo di vendemmia, mentre oggi, questi paesi soffrono della stessa malattia di cui soffrono tutte le aree di media montagna italiane: spopolamento e isolamento. Per questo l’organizzazione di SciaccheTrail ha deciso di organizzare una nuova gara di 100k, per riportare attenzione anche qua, lontano dai marker turistici tradizionali. Ma per il momento, il percorso della gara passa ancora in alto, sulla cresta che divide quel mondo, coperto dalle montagne, da quello sulla costa, invece fin troppo visibile.

È un tratto molto corribile, e una volta presa quota si percorrono larghe forestali e morbidi single track avvolti da una vegetazione tropicale. I primi chilometri sono avvolti dalla nebbia e l’atmosfera ricorda la nevicata dell’anno precedente, se non che ora fa caldo e noi grondiamo di sudore. È una sezione molto lunga, di circa 20 chilometri, ma passa in fretta. Poi il percorso piega a destra e si ributta a capofitto verso il mare, e plana su Riomaggiore, la più orientale delle Cinque Terre. Per quanto sia panoramica e poco frequentata la parte alta, è nella parte più bassa, che da Riomaggiore torna a Monterosso, che inizia la vera SciaccheTrail. Una volta tornati sul livello del mare, il sentiero che da Riomaggiore riporta a Monterosso attraverso i paesi della litoranea è scandito da quattro massacranti salite che da ognuna delle Terre risalgono i promontori che le dividono. Sono sentieri frequentatissimi, per lo più da gruppi di escursionisti tedeschi e americani, tanto che il Parco Nazionale delle Cinque Terre ha pensato bene di imporre un ticket sulla percorrenza di alcuni settori, soprattutto i più facili. Correre su questi sentieri senza restare intasati nella folla che abitualmente li in-

vade è un’esperienza rara: le Cinque Terre sono come Venezia, stessi meccanismi, stessa affluenza. Da maggio le stazioni ferroviarie sono più affollate di Rialto, l’odore di fritto pervade i vicoli, e i paesini si riempiono di un’unica massa di persone che si muove secondo i principi della legge dei fluidi. I sentieri panoramici, come la Via dell’Amore, diventano delle file indiane infinite, tanto che il Parco, oltre al casello, ci ha imposto anche il senso unico: manca l’Autogrill, o forse c’è anche quello.

Passandoci in gara c’è movimento, ma a fine marzo è ancora un paese amabile. Dopo Riomaggiore, la prima scalinata, che risale il promontorio che la divide da Manarola, percorre in verticale terrazzamenti di vigneti. Sono 250 metri di dislivello in 500 metri lineari di gradini. Ma è la seconda scalinata, che da Manarola porta a Volastra, a fare la differenza, rendendo Volastra il paese più odiato al mondo tanto la salita è micidiale. Nei 6 chilometri successivi calo il ritmo e vengo superato da tre persone finendo in nona posizione, mangio l'ultimo gel, bevo e dopo un po’ mi riprendo, ma ho perso tempo. A Corniglia riprendo finalmente a spingere, poi ancora su e ancora giù a Vernazza. Da qui si imbocca l'ultima, infame, scalinata. Ogni volta che sembra finire riprende a salire, poi il sentiero piega a sinistra e rientra seguendo il seno della costa, da cui si vedono finalmente il paese e l'arrivo. Entro in paese, passo dietro al comune e svolto verso la spiaggia. Sul lungomare mi accorgo che tutti guardano nella direzione opposta alla mia: ho sbagliato strada, taglio il traguardo, mi butto per terra. Resto steso lì per un po’, come sono solito fare sulle linee d’arrivo. Poi riesco ad alzarmi e a trascinarmi fino a un tavolo su cui mangiare. Fa caldo e c’è il sole e mi tolgo la maglia e ho sete. Chiedo a una ragazza mi prendermi una birra, lei sta aspettando qualcuno ma mi risponde di sì.

Un settembre di due anni fa ci arriva

un messaggio dal Nic che ci invitava a SciaccheTrail per l’aprile successivo. Avremmo dovuto passare l’inverno a pestare fango alle campestri per poi venire in Liguria a prendere il sole, fare il bagno e correre in canotta. Non accadde nulla di tutto ciò: quel “noi” era diventato “io”, e di campestri non ne feci nemmeno una. Poi, quando andammo a Sciacche, ad aspettarci invece delle spiagge trovammo pioggia, vento e neve. Alla partenza pioveva di traverso, controvento, poco più in alto nevicava: poi la gara sospesa, il rientro in treno, l’ipotermia, il pomeriggio passato a bere vino con amici. Con Sciacche avevo un conto aperto: volevo la sua atmosfera, e il sole, il caldo e la disidratazione. Il primo spiraglio d’estate, quando le cime di Trento sono ancora bianche ma là sembra già agosto. Un weekend per condividere un bel momento con dei buoni amici. Ora sono qua. Dopo la gara restiamo vicino al tendone d’arrivo a mangiare e a bere birre e a prendere il sole, senza maglietta, ad aspettare gli amici che corrono ancora e a raccontarci stronzate. Mi ricordo ancora una volta perché faccio questo sport e perché corro poche gare, perché solo alcune sono così. Schiacce è diventato il momento che divide i miei inverni dalle mie primavere, e quando a ottobre inizia a piovere, anche se ormai piove a maggio, guardi il telefono e aspetti quel messaggio. Non so cosa farò l’anno prossimo, magari tornerò per fare il volontario, ma una cosa è certa: le Cinque Terre sono terre ostili e inospitali, e dannatamente dure, ma, a ripensarci, se mi regalassero una vigna da queste parti probabilmente la accetterei.

una cosa è certa: le Cinque Terre sono terre ostili e inospitali, e dannatamente dure, ma, a ripensarci, se mi regalassero una vigna da queste parti probabilmente la accetterei.

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Meg Mackenzie

Meg Mackenzie: sudafricana, 37 anni. Se volete sapere che gare ha fatto andate sulla sua pagina ITRA, o sul suo profilo atleta UTMB. Io voglio usare queste pagine per altro, per cose più importanti dei risultati. L’unica cosa che posso dire per presentarla è che la registrazione di questa intervista è una delle poche che ho tenuto anche dopo averla trascritta. Sono stati 40 minuti ben investiti, da un punto di vista umano, e sono felice di averla conosciuta. Il resto lo lasciamo a lei.

C’è ancora neve a Chamonix? Non così tanta, un po’ più su ce n’è, ma non abbastanza per sciare. Si può correre tranquillamente. Probabilmente c’è più neve nel versante italiano. Ma sulla parte sud e sul versante francese i sentieri sono puliti.

Come sei arrivata a Chamonix? Sono nata in Sudafrica, dove ho vissuto per la maggior parte della mia vita, quando ho iniziato a correre a livello competitivo ho avuto un contratto locale con Salomon, e poi sono passata a Salomon International. Ho iniziato a viaggiare molto, principalmente per le Golden Trail Series e per i Campionati del Mondo, così ho iniziato a frequentare sempre più spesso Chamonix, in estate, fino a che ho iniziato a pensare che for-

se sarebbe potuta diventare la mia casa, e ho iniziato a mettere tutte le mie emozioni e i miei pensieri in questo: spostarmi qui e portarci la mia vita.

Mi chiedo sempre come sia vivere a Chamonix. Ormai vengo lì ogni anno, ma sempre durante la settimana di UTMB, che ovviamente è bellissima per chi corre. Ma poi mi chiedo come sia il resto del tempo. Ci sono gruppi di corsa? Ci sono club? Ci sono luoghi in cui ritrovarsi? Voglio dire, a Flagstaff c’è Mother Road, a Boulder c’è Trident. Ok, a Chamonix c’è Big Mountain, ma com’è viverci? È una domanda interessante, anche perché questo è un momento di cambiamento. Ovviamente è un luogo più associato

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all’alpinismo e allo sci, ma con il cambiamento climatico e con le estati che si allungano sta diventando più accessibile per fare trail running. Allo stesso tempo UTMB sta crescendo e anche questo sport. Per queste ragioni la comunità della corsa sta crescendo velocemente, sebbene non sia ancora ai livelli di Boulder o Flagstaff, dove ci sono delle vere community. Per quanto poco, credo che la ragione sia principalmente culturale e linguistica, ma la direzione penso sia quella. Col progetto Run The Alps qualcosa sta migliorando, non necessariamente per la quotidianità degli atleti che vivono qui, ma sta richiamando persone che vengono qui per correre, e più persone vengono e più se ne portano dietro, tipo una palla di neve.

Oltre a correre alleni. Lavori con atleti internazionali o con persone di Chamonix e della zona? Ho aperto l’azienda in Sudafrica e il grosso degli atleti sono là. Abbiamo anche atleti americani e canadesi, e qualcuno dall’Inghilterra, ma nessuno di qua. Credo che sia lo scoglio linguistico di cui parlavamo prima.

C’è una differenza culturale tra il mondo anglosassone e quello europeo continentale? Pensi sia la ragione per cui il modo di vivere lo sport e la comunità è diverso?

Se guardi i media legati alla corsa sono focalizzati sugli Stati Uniti. E anche io guardo e seguo principalmente podcast e blog americani. Tutto è molto americano, ma sarei molto affascinata a scoprire cosa pensano gli europei di quei temi di cui gli americani parlano così tanto. Credo che ci sia tanta differenza e questa cosa mi affascina. Negli Stati Uniti tutto è molto focalizzato sulle ultra ma in Europa ci sono gare così importanti e atleti di cui vorrei sapere di più. In Sudafrica invece la scena è molto legata a Comrades, e credo che anche nell’immaginario collettivo sia così. Ma c’è diversa gente che sta provando a portare l’attenzione anche su altre distanze. La gara più famosa è Cape Town, che ha appena introdotto una 100 miglia, sulla via americana.

Qual è il tuo approccio al coaching e come pensi che influenzi il tuo approccio alla corsa? Mi sono allenata anni con David Roche

per sei anni, e molto di quello che so lo devo a lui. Io mi rapporto coi miei singoli atleti quotidianamente e penso che sia qualcosa che ha molto a che fare la loro vita, non solo con la corsa. Per cui cerco di applicare l’allenamento a questi aspetti. Ho un approccio olistico, e mi influenza perché penso al coaching tutto il tempo, a cosa sia meglio per i miei atleti e di conseguenza a cosa è meglio per me. Non voglio mettere troppo di quello che faccio io in loro, ma allo stesso tempo vorrei trasmettergli qualcosa: è un gioco continuo per provare a non ragionare a compartimenti stagni ma provando a dividere me da loro.

E allora qual è il tuo approccio alla corsa, non tanto come atleta ma come essere umano, e che ruolo ha nella tua vita? Uhf, ne ha tanti. Ovviamente va a fasi, ma continuo a prendere la corsa come uno strumento per crescere come persona. Mi insegna cose, mi permette di connettere idee. È il veicolo che ho per avere esperienza del mondo. Non lascio mai che la performance o le gare mi distolgano da questo, ma ovviamente è difficile bilanciare questo con le gare, con l’ego. Crescendo ho anche capito che la corsa è diventata un modo per parlare di temi che mi interessano come le donne e il loro ruolo nello sport.

Pensi che la corsa debba essere privazione? Privazione. No, non dovrebbe esserlo.

Per te la corsa è mai stata un’ossessione?

Oh sì, e ancora lo è. Penso che le persone da fuori lo dicano, che è un’ossessione; quando invece diventa più di un’ossessione mi porta in luoghi malsani: over training, infortuni. Ma a qualche livello, non posso vivere senza la corsa quindi sì è un’ossessione.

Organizzi un running camp con Run The Alps, focalizzato sulle donne e sull’inclusione: è solo per loro, e sembra un posto non solo per correre ma per parlare e per esprimersi. Sì, la mia idea era di organizzare un camp che fosse un luogo sicuro per esprimersi e condividere difficoltà e problemi. L’idea di creare un luogo per donne doveva servire a farle sentire meno

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sole, probabilmente, provando a condividere esperienze che siano strettamente femminili, in un luogo sicuro.

Apprezzo quando vedo atleti élite impegnati in temi sociali. Tu lo sei molto. Come pensi che gli atleti debbano affrontare questi temi, in modo da provare a risolverli ma senza danneggiare in qualche modo l’immagine dello sport? Oh, più domande come queste! Credo che se vogliamo dare la possibilità agli atleti di esprimersi dovrebbero sentire di avere un modo per farlo senza danneggiare lo sport e gli sponsor. Dall’altro lato noi atleti dovremmo prestare attenzione alle modalità con cui ci esprimiamo dimostrando che possiamo farlo senza danneggiare nessuno. Penso che questo sia l’obiettivo a lungo termine.

Una volta ho chiesto a un’atleta, era una delle più forti al mondo, se le aziende stanno facendo abbastanza per mettere sullo stesso piano le atlete e le donne rispetto agli uomini, e non ha voluto rispondere e ha evaso la domanda. Wow. Probabilmente non voleva danneggiare l’immagine dello sponsor. Non penso che il silenzio sia sempre una buona cosa, e se uno ha l’opportunità di parlarne in modo corretto, senza per forza accusare o attaccare qualcuno, dovrebbe farlo. Penso ci sia sempre un modo e quella dovrebbe essere la prima opzione. Dobbiamo creare uno spazio in cui le persone, le donne, possono sentirsi a loro agio a parlarne.

Il fatto che l’ultrarunning sia un po’ primitivo come sport, ma allo stesso tempo eterogeneo e variegato è positivo per le persone che hanno disturbi alimentari e aiuta a creare una zona sicura per loro?

O il fatto che sia uno sport più giovane lo rende meno attrezzato e pronto per affrontare il problema? Secondo me entrambe. Il fatto che non ci siano tanti soldi significa che c’è meno attenzione, meno ricerca, e dal punto di vista dei disturbi alimentari molte cose non le sappiamo perché non c’è molta ricerca in merito. Dall’altro lato, come hai detto tu, è uno sport fatto di appassionati e non

di interessi, ed è legato alla natura, questo lo rende più sano. Dovremmo crescere restando come siamo.

Organizzazioni molto più piccole di UTMB sono molto più avanti in termini di inclusione, soprattutto negli Stati Uniti, pensi che UTMB, in quanto gara più importante al mondo, stia facendo abbastanza? Potrebbe sembrare di no. Ci sono differenze culturali, c’è una barriera linguistica importante, le cose negli Stati Uniti sono diverse, e forse le cose comunicate a UTMB forse non sono abbastanza visibile a un pubblico internazionale. Ma forse sì, forse sono un po’ indietro.

Cosa stai preparando? Transvulcania è il mio primo obiettivo. Poi mi piacerebbe rappresentare il Sudafrica ai mondiali di Stubai, ma vorrei fare anche UTMB. Tante cose, troppe: dovrei decidere se andare ai mondiali o a UTMB. Vedremo.

Cosa pensi dei mondiali? In teoria sono una bella cosa: le persone rappresentano il loro paese, teoricamente c’è grande selezione, ci sono i più forti al mondo, in pratica no. Poi viene da chiedersi che senso abbia essere così nazionalistici oggi: io nemmeno ci vivo nel mio paese, perché mai dovrei andare in un altro paese ancora per rappresentare qualcosa… non so. Probabilmente il concetto stesso di mondiali è datato, dovremmo andare verso altre gare.

Sei da poco passata a On, cosa cambia per te? Il mio brand precedente non era la cosa migliore per me: era un’azienda di outdoor e di alpinismo e la corsa era una parte relativamente piccola. Cercavo qualcuno che si occupasse totalmente di corsa, e che fosse vicina a Chamonix e al posto in cui vivo, e che fosse in linea con le cose in cui credo, che fosse attiva sul piano sociale e su quello ambientale, il materiale mi piace e mi trovo bene. Quindi sono contenta.

Grazie, è stata una bella chiacchierata. Grazie a te per non avermi fatto le solite domande generiche.

Speriamo di vederci a Chamonix allora.

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The Basque Fever Francesco Puppi a Zegama

PHOTOS

Sono al secondo piano in una catena di ristoranti in aeroporto. Davanti a me, a qualche tavolo di distanza, c’è una grande vetrata che dà sul parcheggio illuminato dai fanali delle automobili. Poco oltre c’è l’autostrada, e infine, dall’altro lato, un centro commerciale. Non c’è niente di poetico, niente di romantico. In America lo stesso insieme di cose basterebbe a fare un film. Qui invece è tutto spento: i camion sono diversi, le distanze, gli spazi, le insegne, tutto aggrovigliato e confuso. Guardo fuori e rubo qualche minuto di corrente al ristorante. Gioca Trento-Civitanova, gara 4, finale di scudetto, finisce male. Poi mi alzo, apro il portafogli, pago.

A serata inoltrata la zona arrivi è ancora invasa di persone. Trovo un angolo tranquillo in cui mettere il sacco a pelo, ma mi mandano via, e poco dopo mi trovo steso a metà su una panchina, con altre trecento persone. Ci sono diversi homeless, alcuni hanno valige ed effetti personali da viaggiatori. Non si riesce a leggerne le vite, non si capisce cosa li abbia portati lì, ma si intuisce che sono sospesi in questa sala d’attesa da ore, mesi, forse anni. Hanno tutti una storia diversa e tutti la stessa storia, mi racconta un poliziotto: non hanno i documenti. Esco a prendere una boccata d’aria. Fuori, accanto alla porta scorrevole, c’è un tale con un borsello, appoggiato a uno di quei posaceneri alti che si trovano nelle stazioni. C’è un altro tale, con un livido sullo zigomo, gli chiede qualcosa ma il prezzo è troppo alto, allora viene da me. Torna dentro scazzato, si siede per terra, sotto allo sportello dei bagagli smarriti, beve una birra calda, parla da solo. Dormo accanto a lui, cercando di darmi un contegno: siamo stesi uno accanto all’altro, così simili e così diversi. Sono protetto da un sacco a pelo caldo, e da un letto che da qualche parte mi sta aspettando. Provo a dormire.

Era da qualche tempo che Francesco insisteva perché lo seguissi in una gara delle Golden Trail Series, il più importante circuito di gare di trail al mondo, così questa primavera la rivista ha trovato un modo per mandarmi a Zegama, nei Baschi, a seguire un evento che ogni anno ammala qualche migliaio di persone di una febbre che è sì spagnola, ma ricorda quella della taranta, febbricitante nell’etimo e nello spirito: la chiamano The basque fever, la febbre basca. Non so cosa aspettarmi, forse un po’ sì, ma percepisco che è qualcosa di tanto grande e importante, abbastanza grande che Nike ha dato lo stesso nome a un paio di scarpe, le stesse che Francesco preferisce per le sue gare. Ho la conferma del viaggio cinque giorni prima, così prendo il biglietto del primo e ultimo volo della settimana.

Zegama è un paesino di 1294 anime che per un giorno all’anno si riempie di migliaia di atleti, giornalisti, telecamere, curiosi: di un letto non se ne parla nemmeno, così imbarco la mia tenda singola e il sacco a pelo, il materassino è sacrificabile, e poi non c’è spazio. Francesco si trova già all’altro capo della rotta aerea e manda notizie dal fronte: perché a Zegama piove, non piove: diluvia ininterrottamente da gior-

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ni. I sentieri diventano scivoli di fango, le rocce dell’Aizkorri saponette. Un comunicato stampa annuncia che l’organizzazione ha modificato il percorso, ma l’e-mail è in spagnolo e non sono certo di afferrarne pienamente il contenuto, io d’altronde non mi sforzo; capirò una volta là. L’unica cosa che so è che dovrò tirare bene la tenda e pregare che regga. Incastro un passaggio con Riccardo Borgialli dall’aeroporto al paese, e una volta sistemata l’andata, organizzo il ritorno. È un programma azzardato, imbastito in fretta, con almeno otto cose e mezza che potrebbero andare storte, ma l’unico modo per scoprire come andrà è partire e prendere ciò che verrà. Nonostante tutto, sono convinto che questo sia in fondo l’unico modo possibile per scrivere di una gara di corsa in montagna, anche a costo di non parlarne affatto. L’ultrarunning, e per estensione il trail, non è correre 100 miglia in 14 ore: è dormire male, arrangiarsi, vivere in una situazione precaria. Puoi limitarti a rendicontare un risultato, a elencare i fatti così come sono avvenuti, ma ne uccideresti l’essenza. Una gara di corsa non si può raccontare.

Penso a queste cose steso per terra, con gli indigenti, sforzandomi di rallentare la mente, che va ai cento all’ora, pensando e ripassando tutti i passaggi, cercando di capire dove ha sbagliato, o cosa manca, perché di sicuro manca qualcosa. Comunque, sono stanco; corro da giorni sotto l’acqua, ho freddo, forse ho un principio di influenza: in altre parole ne ho i coglioni pieni ancora prima di arrivare, di quella pioggia. La privazione di sonno è terribile correndo, da fermi è inaccettabile. Voglio solo arrivare a Zegama, mettere giù la tenda al Parco Murgizelai e dormire fino al giorno dopo. Il parco di Murgizelai – felice di scriverlo per non pronunciarlo – si trova poco sopra al paese. Da lì, la chiesetta di Sancti Spiritu dista 7 chilometri, ed è forse il miglior punto per vedere la gara, forse un po’ ruffiano, ma senza dubbio uno dei più emblematici: ventesimo chilometro, ai piedi della rampa che porta

all’Aizkorri, la montagna che domina la valle. Del resto, Zegama non sembra un gran posto, o comunque non più bello di una qualunque valle prealpina, e da fuori non ha nessuna carta per essere una delle gare più importanti al mondo: non è un posto significativo, non è ben collegato, non è bello, non che sia nemmeno brutto, ma non si capisce perché si trovi lì. Il percorso è duro, tecnico, relativamente logico, ma nulla che non si possa trovare altrove. Eppure, come disse una volta Kurt Cobain: Zegama è Zegama.

Per quanto riguarda la corsa, i Peasi Baschi sono del tutto fuori dai radar del pubblico internazionale, nonostante abbiano una grande storia sportiva (ci passano la Vuelta a España, la Clásica San Sebastián, la Vuelta al País Basco); ciononostante, il motivo per cui Zegama-Aizkorri è ciò che è (prima o dopo il nome completo avremmo pur dovuto scriverlo) – il motivo per cui Zegama è Zegama, dicevo, è il pubblico, per lo più concentrato proprio lì, vicino a quella chiesetta ai piedi dell’Aizkorri. Lì inizia la parte decisiva, più iconica e tecnica, dove sta piovendo ininterrottamente da giorni, avvolta dalle nuvole, e dove gli atleti passeranno ricoperti di fango, trasfigurati, correndo e trascinandosi, posseduti, così presenti e assenti allo stesso tempo.

Il livello di coinvolgimento di una situazione come quella che si crea sulla cresta dell’Aizkorri, il livello di stordimento dato dal cocktail di acido lattico, frastuono, pioggia, e debito di ossigeno – quel livello di coinvolgimento è qualcosa che trascende lo sport della corsa, trascende la gara, e trascende anche lo scopo. È qualcosa di talmente alto e bellissimo da non essere più la gara, da non essere più Zegama, ma puro atto, puro teatro. Non ci sono competizione o spirito sportivo, c’è solo marcia sofferenza. Gli atleti che vincono Zegama, mi racconta Francesco, atleta Nike, non sono corridori eleganti e leggeri come Bonnet, ma atleti spigolosi e quadrati come Merillas. Se Sierre-Zinal è una salita al cielo, Zegama è

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una discesa verso la terra, di fango e di pietra, in cui prendi venti minuti dal primo in tre discese, e cadi di culo, sui polsi, e poi riprendi a correre.

«Sul primo tratto di Sancti Spiritu era fangosissimo, ma c’era una bella energia, mentre il tratto superiore era freddo e ventoso. All’inizio ho avuto abbastanza paura, a quella velocità ero meno a mio agio rispetto a tanti altri, anche se in fondo penso che sia stata la stessa cosa un po’ per tutti. La discesa dall’Aratz è poco più lunga di due chilometri e ci ho messo 17 minuti, Merillas 11’30’’: con tre discese così prendi 20 minuti dal primo, e poi è finita la gara. All’inizio ho provato a stare nel secondo gruppetto con Merillas ma sentivo di avere poco margine e non avevo la sensazione di poter cambiare passo.»

«Spesso si tende a pensare agli atleti per il loro miglior risultato: quello che ha vinto Zinal, quello che ha vinto CCC. Dimenticandosi che molto spesso sono exploit all’interno della carriera di un atleta. Inizialmente mi sono sentito sotto pressione ma poi ho cercato di mettere da parte i pensieri e concentrarmi sul mio e su quello che dovevo fare. Ma alla fine sono contento: è stato un risultato migliore dello scorso anno, e arrivare intero e con un tempo dignitoso in quelle condizioni è molto, e mi ha fatto piacere.»

«Zegama è una gara di contrasti. Contrasti tra il vecchio e il nuovo, tra un certo modo di organizzare le gare a cui si era abituati fino a una decina d’anni fa, contrapposto al livello di professionalità raggiunto negli ultimi anni, abituato al live streaming, ai fotografi e agli uffici stampa, insomma a tante cose a cui un evento come Zegama si è dovuto adattare. Ciononostante, resta una gara che mette al centro gli atleti, come forse il Giir di Mont. Attira tanto interesse, ma poi le persone vogliono andare sul percorso e tifare gli atleti e bere un sidro dopo la gara.»

«La festa continua fino alle quattro del mattino e Zegama, un paese di 1500 abitanti, per un giorno si trasforma in un posto con 15 mila persone. C’è un contrasto fra queste cose, ma crea una bella atmosfera. Non lo vedo come un evento che deturpa o inquina ciò che è Zegama gli altri 354 giorni l’anno.» Quasi certa-

mente no, o non più di qualunque altra gara. Ma come tutti gli eventi che fanno più rumore, beh, si porta appresso un irriducibile sospetto: cosa c’entra tutto questo con la montagna? 15 mila persone, bandiere e telecamere puntate su dei cavalli di 60 chili con globuli rossi grandi come olive? Cosa c’entra con il solitario spirito di ricerca dell’alpinismo? Dove ci sta portando la tanto proclamata professionalizzazione dello sport? Esiste professionalizzazione senza commercializzazione?

Guardo Francesco, e vedo una persona intelligente, colta, sensibile, ma divisa tra due fuochi. Vedo la sua passione per lo sport della corsa, per la sua storia e la sua tradizione. Una tradizione che poggia su queste gare, su Zegama, su Sierre Zinal, sul Giir di Mont. Poi vedo un atleta professionista, che vince e che perde, che batte Albon ai mondiali e che gli arriva 15 minuti dietro a Zegama. Un atleta che fa le sue gare, che indossa la maglia di una nazionale forse anacronistica (non quella, tutte le nazionali sono anacronistiche); vedo un atleta che vuole più diritti per i suoi colleghi e che si muove per rivendicarli, e che vuole meritocrazia e professionalizzazione. Una professionalizzazione che forse si scontra con la storia di uno sport che è sempre stato tutto fuorché professionale o professionalizzato. In fine, vedo una persona che prova a raccontare queste cose, e sé stessa; e lo fa con uno stupore che raramente si trova negli atleti professionisti, che invece sembrano vivere le gare come una routine. Francesco invece si stupisce ancora, come un adolescente, e prova a parlare di quello stupore dove lo facciamo tutti: su Instagram, o con un podcast: spazi aperti. Vedo una persona divisa tra due tempi che stanno provando a coesistere, proprio come Zegama. Ho conosciuto Francesco un paio d’anni fa. Dovevo intervistarlo per uno speciale che usciva per questa rivista, e tra le varie domande gli chiesi che gara sognasse la notte dopo aver spento la luce. Rispose senza esitare. Forse Zegama non è fatta per Francesco, forse non è la sua gara, troppo tecnica, troppo dura, ma in qualche modo confuso, e per qualche ragione oscura, forse Francesco è fatto per Zegama.

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Are they running fast enough?

The Speed Project LA to LV

CREW RUNAWAY MILANO RUNNERS FLORIANO MACCHIONE, GABRIELE CASACCIA, DANIELA BRAVI, LUCA PODETTI, STEFANO LIONETTI, SARA RATTI SUPPORTERS CARLO PIOLTELLI, MICHELE SARZANA PHOTOS AND VIDEOS ACHILLE MAURI, STEFANO STENO
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The Speed Project è questa cosa qui: una staffetta illegale in mezzo al deserto, dal molo di Santa Monica al cartello luminoso Welcome to Las Vegas (che – sia messo agli atti – è molto più piccolo di quanto tutti noi ci immaginassimo). Quello che succede in mezzo sono fatti tuoi. Come ci arrivi, la strada che scegli, anche. Basta che corri. Nessuno ti controllerà né ti fornirà una traccia, nessuno ti darà assistenza, non ci sono ristori o aid-station o quant’altro.

Quando poi cala la notte – da quante ore sei sveglio? Trenta? Trentadue? – ti arriva addosso tutto insieme. La strada è sempre dritta e uguale a sè stessa che non ti rendi conto del tempo e dei chilometri che passano. La lampada frontale illumina il confine irregolare tra l'asfalto e il brecciolino, i cani abbaiano ora vicini ora lontani e per fortuna non fa nemmeno tanto freddo. Anzi. Per fortuna non fa nemmeno tanto caldo come ti avevano detto. E mentre il confine tra Nevada e California si allontana – o si avvicina? Oggi non saprei dire con certezza dove fossimo, o comunque dove fossi io in quel preciso istante –sei estremamente lucido e vigile, nonostante le inesistenti ore di sonno.

Quando a settembre Luca mi parlò di The Speed Project non ero certo di aver capito bene. Quanti chilometri hai detto che sono? Cinquecentoquaranta. Ma sei serio? Era serio. Adesso so che poi sarebbero stati cinquecentoquarantotto, per la precisione.

Sì ma stai tranquillo – diceva – è una staffetta, la facciamo in sei, non verranno fuori più di novanta chilometri a testa. Rideva.

The Speed Project è questa cosa qui: una staffetta illegale in mezzo al deserto, dal molo di Santa Monica al cartello luminoso Welcome to Las Vegas (che – sia messo agli atti – è molto più piccolo di quanto tutti noi ci immaginassimo). Quello che succede in mezzo sono fatti tuoi. Come ci arrivi, la strada che scegli, anche. Basta che corri. Nessuno ti controllerà né ti fornirà una traccia, nessuno ti darà assistenza, non ci sono ristori o aid station o quant’altro.

Nel caso ti fermasse la polizia digli solo che stai correndo fino a Vegas con un gruppetto di amici, tutto qua. Sii gentile e cordiale. E ricordati che se ti arrestano poi non arrivi in tempo per il pool party a Las Vegas. Che poi a questa cosa qua non ti ci puoi nemmeno iscrivere – non c'è nemmeno un sito web – ma devi essere invitato: tra le cose che gli americani sanno fare bene una è certamente far salire l'hype. Più ti dico che non puoi partecipare liberamente a un evento, più ti verrà voglia di parteciparvi. Siamo esseri umani, siamo fatti così. E va bene così, The Speed Project non è mai stata una gara nel vero senso del termine.

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Tutto quello che dovevi fare a quel punto era correre, smettevi di essere crew e diventavi dio, per circa cinquanta minuti. Poi qualcun altro diventava dio al posto tuo e tu tornavi a essere crew: a preoccuparti della strada, di rifocillarti, di riposare per quanto possibile, a preoccuparti che dio – il dio di quel momento – fosse al sicuro.

Non porti a casa una medaglia né tantomeno un premio, non porti a casa un gilet da finisher da sfoggiare all'aperitivo mentre sorseggi il tuo Negroni Sbagliato. Io mi sono portato a casa qualcosa che faccio ancora fatica a definire e che sicuramente non riesco a incasellare in nessuna categoria. Certo, la prima parola che mi viene in mente è ultrarunning, ma la verità è che sarebbe estremamente riduttivo. A dirla tutta la parte di running è quasi la più facile, o almeno così è stato per me (ma posso immaginare che sia diverso per chiunque). Il momento in cui mi toccava correre, quel momento in cui scendevi dal camper e vedevi l'altro runner arrivare, quando ti preparavi ad abbracciarlo e battergli il cinque, quel momento lì era quello in cui spegnevi il cervello e potevi rilassarti.

Tutto quello che dovevi fare a quel punto era correre, smettevi di essere crew e diventavi dio, per circa cinquanta minuti. Poi qualcun altro diventava dio al posto tuo e tu tornavi a essere crew: a preoccuparti della strada, di rifocillarti, di riposare per quanto possibile, a preoccuparti che dio – il dio di quel momento – fosse al sicuro.

Tiriamo le somme. Sei runner, quattro uomini e due donne – così prevede la formula originale, ma puoi fare un po' come ti pare, non ci sono regole – e poi dritto fino a Las Vegas. Quei 540km (548) di cui sopra sono il percorso più sensato da fare, sempre che si possa usare tale aggettivo per qualunque cosa afferisca a TSP: per fare tutto ciò è uso noleggiare un camper che porta tutta la squadra (chi non sta correndo in quel momento) e che ti fa da base vita volante. I più arditi possono poi fare la cosiddetta Power Line, ovvero un percorso di circa cinquanta miglia più corto che però taglia nel deserto all'inizio della Death Valley, il che significa che tutta la truppa necessita di un paio di mezzi 4x4, una conoscenza approfondita dei luoghi e un budget extra. Noi che siamo persone semplici abbiamo preso la via più lunga, che poi diciamocelo: io non ero mai stato nella Death Valley e non me la sarei persa per nulla al mondo.

Quanti eravamo? Quest'anno – il decimo anno – sessantanove squadre, un po' da tutto il mondo. La nostra crew, la crew di Runaway, era la prima completamente italiana che partecipava all'evento. Per questo abbiamo scelto di essere supportati da Diadora

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Perché lo abbiamo fatto?

Ognuno avrà la sua risposta e credo che nessuna possa definirsi giusta o sbagliata. Io volevo il mio pezzetto di America. Il mio bagno (metaforico) nella West Coast con tutte le sue contraddizioni – economiche, sociali, architettoniche, paesaggistiche, tutto –così evidenti da lasciarti senza fiato. E mentre corri controvento a petto nudo nella Death Valley non ti chiedi perché lo stai facendo, lo fai e basta.

e da Alba Optics, entrambi brand italiani. In questo modo abbiamo portato un pezzo di italianità in California e poi in Nevada, con tutti gli stereotipi che ne conseguono, pizza inclusa.

Quanti cambi staffetta abbiamo fatto? Settantaquattro mi pare, forse settantacinque. Può sembrare nonsense e a suo modo pretenzioso, ma è come se ciascuno di noi abbia corso tutti i cinquecentoquarantotto chilometri da percorrere. Ricordo ogni metro, ogni svolta. Cinquantacinque ore di lucido dormiveglia – 47h 54’ di gara – durante le quali ho (abbiamo) attraversato le strade più trafficate e i sobborghi più desolati. I deserti. Il cimitero degli aeroplani. Le montagne. Tre albe. E quel tizio in quel paesino sperduto in mezzo al nulla che di notte – la prima? La seconda? – inseguiva i runner per stordirli con il taser. Lo abbiamo fatto ciascuno per suo conto e tutti insieme. Chi correva, chi guidava, chi faceva le foto, chi dormiva (non io comunque). Come una mente e un corpo

collettivi che sommavano la propria stanchezza e le proprie emozioni a quelle degli altri.

Los Angeles quasi non l'abbiamo vista, tra i preparativi e il jet lag e l'adrenalina e i mezzi pubblici pressoché inesistenti. Las Vegas invece, beh. Las Vegas non ha senso. Ed è l'unico motivo che le permette di esistere e di prosperare nella sua eterna e luminosa decadenza. Io e Michele abbiamo comprato un gigantesco gummi bear da 1kg, ed è tutto quello che mi sento di dire di Las Vegas.

Perché lo abbiamo fatto? Ognuno avrà la sua risposta e credo che nessuna possa definirsi giusta o sbagliata. Io volevo il mio pezzetto di America. Il mio bagno (metaforico) nella West Coast con tutte le sue contraddizioni – economiche, sociali, architettoniche, paesaggistiche, tutto – così evidenti da lasciarti senza fiato. E mentre corri controvento a petto nudo nella Death Valley non ti chiedi perché lo stai facendo, lo fai e basta.

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The Searchers

Sentieri Selvaggi

«A man will search his heart and soul Go searchin’ way out there His peace of mind he knows he’ll find But where, oh Lord, oh where? Ride away, ride away, ride away»

Max Steiner, The Searchers (Ride Away)

FILIPPO
RUNNERS
CAON & NOAH GRIENBERG

1. Scrivere il pezzo

L’aereo è lanciato a 350 all’ora sulla pista. Un granello di ghiaia basterebbe a farci schizzare in avanti di tre o quattromila metri, avrebbero un bel da fare per ripulire tutto. Poi il rumore delle ruote scompare e la carlinga si libera dalla forza che la trattiene a terra. Cosa diavolo sto andando a fare in Arizona? Guardo Milano dall’alto, le strade e la foschia e quel nuovo governo di schizzati. Lì sotto c’è una vita accartocciata tra burocrazia e settimane di insonnia e di incertezze.

Circa un mese prima mi trovo in un polveroso ufficio passaporti della Questura di Vicenza a spiegare a un poliziotto che devo partire, che ho bisogno del passaporto, che ci sono dei soldi in ballo e che non può saltare tutto perché la mia vita, un giorno, ha incontrato lui. Ho una lettera d’incarico per il lavoro e un uomo a Torino, all’altro capo del telefono, pronto a garantire per me.

«Quando hai detto che parti?»

«Il 26.»

«Te lo consegniamo il 25, ecco la tua ricevuta.» Sbirro del cazzo.

Suonava talmente come una presa per il culo che non mi sono fidato: tre settimane di ansia e niente caffè, almeno fino a quando l’astinenza ha iniziato a punirmi con la cefalea. Adesso quell’Italia insignificante è 30 mila piedi sotto di me, avvolta dalle nuvole, e le sue piste ciclabili, gli sbirri, i treni in ritardo e la Provincia Autonoma di Bolzano. Adesso ci sono io su questo aereo, e la rivista mi sta mandando dall’altra parte dell’oceano per scrivere un pezzo, una cosa che in un modo o nell’altro andrà pur fatta.

C’è qualcosa di romantico in questa faccenda, nello scrivere questa storia. Ma cosa sto andando a fare nel deserto? Sto andando a correre una gara o a scrivere un pezzo? O sto andando an-

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che io a cercare il Sogno Americano?

L’unica cosa che so è che l’unico psicotropo nella mia borsa è zucchero di bassa qualità in formato gel monodose infilato dentro a un paio di scarpe da corsa.

L’idea l’aveva avuta Paco un anno prima, e consisteva approssimativamente nel trovare qualcuno abbastanza fesso o abbastanza furbo da pagarci una vacanza negli Stati Uniti con la scusa di correre una gara a piedi di 100 miglia e scriverci un articolo. Due cose che in Italia in quel momento sembravamo gli unici due in grado di fare. Una truffa bella e buona mascherata da progetto editoriale, qualcosa di ancora insondato. Qualcuno

era riuscito a strappare un biglietto per il Sud America per andare a tirare due curve giù da una montagna e scriverci qualcosa di esistenziale. Ma con la corsa era tutt’altra storia, insomma, era terra inesplorata.

La nostra prima vittima sarebbe dovuta essere AriZona Beverage, un’azienda di tè freddi iperglicemici con un fatturato annuo di circa tre miliardi. Con l’Arizona, neanche a dirlo, non aveva niente a che fare, ma per noi era perfetta. Avere un cliente che non c’entra nulla con la corsa è un vantaggio non indifferente, in primo luogo perché non ti chiederà mai di rendere conto di quanto stai andando a fare. Quei fighetti del marketing, su ad Amsterdam, non sapevano nemmeno cosa

fosse l’ultrarunning. Buttammo giù una presentazione in cui gli chiedevamo ottomila dollari in cambio di un progetto editoriale ed eterna gratitudine. Ottomila dollari da dare a noi due sfigati per andare a correre una gara nel deserto, a Phoenix, Arizona.

Javelina Jundred: senza dubbio la 100 miglia col percorso meno affascinante della storia: 160 chilometri su un anello di 30 da ripetere per cinque volte. Un rave di corridori ubriachi di sole e whisky alla cannella travestiti da Freddy Mercury, la notte di Halloween, in mezzo al deserto del Sonora.

Quelli di AriZona ci risposero, ma i soldi, inspiegabilmente, non ce li hanno mai dati. Invece, per motivi

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che ancora oggi non comprendo, ce li diede Denis.

Poi le cose andarono come andarono, e non andarono bene. Ma per qualche ragione voluta dal cielo, o da qualche divinità dell’ultrarunning, adesso sono qua, su questo aereo che punta dritto verso ovest. Qualche sedile davanti a me c’è Denis, e Noah, a Los Angeles, all’altro capo di questa tratta. Sono qua, su questo aereo, magari a pezzi e in vena di pensieri melensi, e ogni cosa attorno a me mi ricorda la morte: un cimitero a bordo pista a Linate, la nuova icona di Tumblr, e Frances McDormand, in Nomadland, che guardo in aereo, e quella frase detta davanti a un fuoco nel deserto in inverno, «See you down

the road». Sono stati anni storti, ma questo è davvero troppo. Sentendo quella frase il mio cervello decide di chiudere i canali ricettivi, chiude le valvole, chiude tutto. Entro in uno stato di apatia. Voglio emozionarmi, ma è difficile, anche le cose belle lo sono. Ripenso a una cosa che mi disse mio nonno, che alla morte bisogna prepararsi per tempo, altrimenti si rischia di restare col culo scoperto.

Mi ricorda che sono giovane, perché non sono affatto pronto alla morte.

Metto gli Smashing Pumpkins un’altra volta. Quella canzone è un anno che è lì a girare su sé stessa. Ancora un po’ e la lascerò andare.

And our lives are forever changed / We will never be the same / The more you

change, the less you feel… In the resolute urgency of now.

Quando tredici ore dopo mi alzo dal sedile noto una macchia di grasso sul finestrino: avevo passato il volo con la fronte appiccicata al vetro, avevo visto l’Alberta, il Columbia River, lo Stato di Washington, l’Oregon, poi il Nevada e i laghi di sale, e Carson City. Oltre, la Sierra e Lake Tahoe, le piste di Mammoth Lakes in lontananza.

Poi l’aereo aveva virato a ovest e il mio senso geografico era diventato chirurgico: Tuolumne Meadows, l’Half Dome e la Yosemite Valley dritta sotto di me. La California. Le cime smussate di granito diventano colline, poi campi. La Central Valley, le montagne di Santa Monica, Los Angeles.

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2. California

Los Angeles non ha niente di bello. È malconcia, ma non come le città mediterranee, in cui bello e brutto coesistono. A Los Angeles c’è solo il brutto, di bello gran poco. Eppure, è bellissima. Se vai a guardare i particolari, anche senza impegnarti troppo, sembra un’accozzaglia di cose, ma nel complesso funziona tutto. Non vale la pena passarci una settimana: o qualche ora o qualche mese. In mancanza di tempo, e noi decisamente non ne abbiamo, conviene noleggiare una macchina, mettere la musica giusta e guidare. Ma guidare tanto. Dal mare alle colline, fino alle montagne, a San Bernardino. Va vista come un Monet: veloce, con un’occhiata. Fissarsi sui dettagli porta solo guai e si rischia di restarci invischiati per sempre.

See them tumbling down / Pledging their love to the ground / Lonely but free I’ll be found / Drifting along with the tumblin’ tumbleweeds.

Per respirare Los Angeles non serve andare chissà dove. Basta un parcheg-

gio a Inglewood, fuori dall’aeroporto, mentre cercate un autonoleggio, per essere completamente assorbiti da quella luce, come in un film. Non so cosa sia la cultura americana, ma c’è un universo di immagini che tutti gli americani conoscono, un vero e proprio linguaggio, una sorta di terreno comune su cui tutti sanno muoversi. Non sono luoghi comuni, ma immagini collettive: il cowboy, il viaggio, la strada. Negli Stati Uniti si ha l’impressione che ogni cosa sia un simbolo. Simboli che anche noi abbiamo imparato a decodificare, guardando i film, ascoltando la musica, leggendo qualche libro. Conosciamo l’America perché siamo immersi in quelle immagini, mangiamo il loro cibo, indossiamo i loro vestiti, parlucchiamo la loro lingua. E quando poi la vediamo scopriamo che l’America è esattamente quella roba lì.

Non si sa cosa sia, forse la luce rosa, soffusa, le palme, la spiaggia e le case sul mare. O forse quelle in seconda

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C’è qualcosa di poetico nello scattare a Santa Monica, ti fa sentire come alla fine di un percorso: è qualcosa di talmente ovvio da essere bellissimo. L’aria della mattina è calda, è fine ottobre e sembra primavera. È un giovedì qualunque e sulla spiaggia c’è chi surfa, chi va in bici, coi roller, chi corre o porta a passeggio il cane.

fila, malconce pure quelle, l’asfalto chiaro e i cavi elettrici e i muri scrostati, che la rendono vera e umana. O forse è quella sensazione di instabilità per cui il mondo potrebbe finire adesso, o domani, o dopodomani, ma intanto siamo ancora qua. Quella sensazione per cui niente è duraturo e tutto è passeggero. Los Angeles è un piano inclinato su cui nulla di quanto ci è appoggiato sopra è destinato a restarci a lungo, ma rotola via. Non so chi l’ha detto, forse più di qualcuno, ma suona bene. La sogni per tutta la vita, la conosci a memoria, l’hai vista in televisione, e nei film, l’hai letta sui libri, è familiare. L’America è poco più in là, ma poi ti ricordi che non ci sei mai stato. Ed è strano, perché saresti in grado di parlarne per ore. Non ser-

ve nemmeno vederla perché è sempre stata lì, a fianco a te.

Ad ogni modo, ci serve un’auto. Dobbiamo guidare fino al Colorado, 1300 miglia di deserto e montagne, quattro stati, due fusi orari, una settimana, tre persone: io, Denis, il mio redattore capo e fotografo per la rivista, e Noah, avvocato con una laurea in legge ad Harvard che ha lasciato East Hollywood e si è trasferito a Trento (collina est) non si sa bene per fare cosa. Sì, abbiamo decisamente bisogno di un’auto.

Da Hertz ci fanno un preventivo di 1700 dollari, da AVIS di 2800, per sette giorni. Stessa macchina, stessa compagnia, online: 800. Prendiamo le borse e camminiamo fino all’AVIS più vicino, a due chilometri di parcheggi

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da noi. Ci danno una Mitsubishi grigia targata Arizona, non è una Coupe de Ville ma è comunque una macchina, presentabile, e almeno fino a Boulder la questione è risolta. Buttiamo le borse nel bagagliaio, accendiamo la radio e ci mettiamo alla ricerca di una birra, su Venice.

I wanna tell you a story / Every man oughta know / If you want a little loving / You gotta start real slow / She’s gonna love you tonight now / If you just treat her right.

La cosa più logica da fare nelle nostre uniche ore a LA è fare delle fotografie a Santa Monica. C’è qualcosa di poetico nello scattare a Santa Monica, ti fa sentire come alla fine di un percorso: è qualcosa di talmente ovvio da esse-

re bellissimo. L’aria della mattina è calda, è fine ottobre e sembra primavera. È un giovedì qualunque e sulla spiaggia c’è chi surfa, chi va in bici, coi roller, chi corre o porta a passeggio il cane. Mi sforzo di pensare che questa non è LA, e che qui una casa costa un milione e mezzo, che con uno stipendio di 60 mila dollari l’anno sei al limite del tasso di povertà e che 70 mila persone vivono per strada. A LA il cielo si tinge di rosso ogni volta che sulla Sierra, a 300 chilometri di distanza, scoppia un incendio, e i quartieri della città restano al buio per ore. Penso ai californiani che se ne stanno andando dalla California, ritornando verso est, verso l’Arizona, il Colorado e il Texas.

Ma sono a Santa Monica e fa caldo, e la gente surfa. Chi se ne importa. Incontriamo Noah a Marina del Rey. L’ultima volta che l’ho visto è stato una settimana prima in una caffetteria hipster di Trento. Gli avevo detto qualcosa come, la prossima volta che ci vediamo sarà in California. Non ci avevo creduto molto mentre lo dicevo, e invece eccoci lì, insieme, a Marina del Rey, sul Pacifico. C’è il sole, e sono felice. C’è sempre il sole a Los Angeles. Rompiamo un muffin alla ciliegia e iniziamo a guidare verso West Hollywood. Dal mare prendiamo Venice Boulevard verso est e poi S Fairfax Ave verso nord, fino alle colline. Non date retta a chi snobba Sunset Boulevard. Se vi aspettate del bello, in senso stretto, dell’eccezionale, in senso stretto, se vi

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aspettate qualcosa di diverso dal resto della città, se pensate che sia un posto in cui vivere, lasciate perdere. Se LA non vi è piaciuta fino a lì, non sarà quella strada a farvi cambiare idea: Sunset Boulevard è come il resto della città, di eccezionale-in-senso-stretto non c’è molto, eppure continua a sembrare stupenda e io continuo a non capire cosa sia. Forse è quello che rappresenta, è il sogno, o è quella sensazione di torpore per cui nulla sembra davvero importante, per cui tanto vale surfare. È il senso di libertà, lo stesso di correre 100 miglia a torso nudo con una borraccia in mano. E basta. È per una strana inclinazione dei raggi solari che avvolgono quel pezzo di terra di quel fascino irriducibile. Ma siamo qua per correre, e per scrivere un pezzo. Hollywood è già

dietro, siamo sulla Freeway. È iniziato, pronti via, si parte, verso est. But, oh, what a wonderful feeling / Just to know that you are near / It sets my a heart a-reeling / From my toes up to my ears.

Uscire da LA è un concetto che si apre a diverse interpretazioni. Per uscire dalla città di Los Angeles, da East Hollywood è sufficiente prendere la Hollywood Freeway verso sud e poi l’Interstate 10, che da Santa Monica taglia il paese, fino alla Florida. Se invece volete uscire dalla Contea di Los Angeles, dovete continuare a guidare sulla 10 per un’altra ora, fino a Pomona, attraversando 60 chilometri di sobborghi. Ma se quello che volete è uscire dal tessuto urbano, lasciarvi alle spalle quell’amalgama di case popolata da 20

milioni di persone, una macchia di cemento grande come il Piemonte, e non vedere più nulla, niente più strade, centri commerciali e palme, se volete raggiungere il deserto, allora dovete guidare ancora fino a San Bernardino, e da lì continuare a guidare, attraversando città di autentico nulla almeno fino a Beaumont, e dopo esservi fermati a mangiare un burrito da Chipotle, guidare ancora fino a Banning. Dopo, soltanto dopo, troverete il deserto.

Tra qui e Phoenix, dove io e Noah correremo la gara, ci passano 500 chilometri di autostrada e due deserti, quelli del Mojave e del Sonora, tagliati a metà dal fiume Colorado, che determina il confine tra gli stati della California e dell’Arizona. Guidando

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senza fermarci potremmo arrivare sul posto in serata, ma non capitando spesso in zona decidiamo di fare una deviazione verso nord, a Joshua Tree.

Joshua Tree National Park venne istituito nel 1994 per essere uno dei luoghi con la più alta densità di Yucca Palm, o Joshua Tree, del paese. Si tratta di un alberello preistorico delicatissimo, tanto che è vietato toccarlo, con una forma singolare che tende al ridicolo: la corteccia ricorda quella di un albero moderno, mentre in alto assomiglia più a una palma a cui sono cresciuti dei rami. Davvero strano. La cosa singolare è che è si trova solo qui, e d’altronde è anche l’unica cosa che

si trova, ad eccezione di alcuni insignificanti cespugli di cui nessuno si interessa. Per non sbagliare, Denis li chiama tutti cactus. J Tree: cactus, cespuglio: cactus, erba: cactus. La maggior parte dei J Tree sono relativamente bassi, ma su Wikipedia si legge che possono raggiungere i 15 metri, in effetti alcuni sembrano piuttosto alti.

Se volete vederli, dall’Interstate 10 è sufficiente fare una deviazione per Morongo Valley, fotografarne un paio a bordo strada e tornare indietro. Se invece volete vederne tanti, dovete entrare nel Parco. Costa 30 dollari, ma dopo l’orario di lavoro il botteghino è chiuso e si entra gratis.

Oltre agli alberelli, nel Parco ci sono anche delle strane formazioni di granito chiamate monadnock, formatesi circa 100 milioni di anni fa. In tutto questo tempo i primi a trovargli una qualche utilità furono i membri del Sierra Club, storico Club ambientalista di San Francisco fondato da John Muir nel 1892, che negli anni Quaranta si recarono nell’area per un campeggio e pensarono di scalarle. A partire dagli anni Cinquanta J Tree divenne sempre più popolare nell’ambiente dell’arrampicata californiana e iniziò a essere frequentato da scalatori come Royal Robbins e Yvon Chouinard, affascinati dal carattere esistenziale e romantico

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del Parco. In effetti, di sera, con le stelle e il fuoco acceso, diventa una cosa che racconti. Ma fu solo a partire da fine anni Sessanta che divenne uno dei luoghi più rappresentativi della scena e un simbolo nella cultura dirtbag, attirando hipster e sportivi fricchettoni, che vi si trasferivano per vivere di nulla e passare il tempo a fumare erba e inventare quella che oggi conosciamo come arrampicata sportiva.

Oggi, scrive Cedar Wright in un articolo su Climbing Magazine, la scena dirtbag nord-americana è morta, e tra le cose che contribuirono a farla finire ci fu proprio l’introduzione di tasse e limiti di soggiorno in luoghi come

Hidden Valley Campground qui a Joshua Tree e Camp 4 in Yosemite, in cui quel movimento era nato e dove avevano vissuto leggende dell’arrampicata come John Bachar e Lynn Hill. Oggi, a Joshua Tree, i nuovi umani dell’outdoor ci vengono a scalare in giornata, e poi dormono fuori dal Parco. L’arrampicata è diventata uno sport per ricchi, come qualunque altro sport, d’altronde, e non solo in California.

Nella scena dell’ultrarunning i parchi nazionali hanno rivestito un ruolo più marginale. Essendo vietato organizzare eventi sportivi al loro interno su molti dei sentieri che li attraversano sono stati istituiti gli FKT: percorsi di particolare rilevanza su cui registrare il tempo più veloce conosciuto. L’FKT più famoso a J Tree è il Joshua Tree Traverse, un sentiero di 60 chilometri che attraversa il Parco in senso longitudinale, e i cui record sono detenuti da Dylan Bowman e da Clare Gallagher.

Noi arriviamo al tramonto, un buon momento per scattare. È il mio primo passo nel deserto ma non c’è tempo per le smancerie, il sole ci sta alle costole e noi dobbiamo fare il lavoro. Scattiamo per delle mezzore ma bisogna sforzarsi per restare concentrati. Una volta calata la luce decidiamo che è venuto davvero il momento di allacciare un paio di scarpe da corsa, così apriamo il bagagliaio e ne scegliamo un paio a caso tra i dieci che abbiamo con noi. È l’ultima corsa prima della gara. Prima di partire il mio orologio si blocca senza preavviso, lo ripristino ma sembra del tutto andato, noto che la cosa non mi destabilizza più di quanto dovrebbe: troverò una soluzione, e se non la troverò, farò senza. Ormai sono qua e mi devono sparare per non farmi correre.

C’è ancora un po’ di luce ma ogni cosa ha lo stesso colore. Corriamo sulla linea bianca a bordo strada. Prisoners of the white lines on the freeway cantava Joni Mitchell. Non c’entra nulla ma mi viene in mente, in fondo siamo un po’ tutti prigionieri di qualcosa, ma

non qui, non oggi. Siamo circondati da piante assurde e collinette con nomi altisonanti: Old Woman Rock, Giant Marbles, Skull Rock. È la vigilia della gara e, in mezzo al cielo azzurro, sopra di noi, non c’è una stella ma la scia di un Falcon 9 di SpaceX lanciato poco prima in qualche golfo sul Pacifico e che punta dritto verso est: quella è la nostra cometa, e noi siamo i tre fottuti magi.

Where have you gone, Joe DiMaggio? / Our nation turns its lonely eyes to you / Woo, woo, woo.

«Comunque non sopporto Simon & Garfunkel.»

«Non so, io non so niente di musica.» [La musica continua…]

Passiamo la notte in un Motel 6 a 29 Palms, ma prima dobbiamo rifornirci, abbiamo bisogno di zucchero per affrontare il viaggio. Arrivando avevamo visto un Walmart sulla strada, ne usciamo con due confezioni di pane da toast, un vasetto da mezzo chilo di burro di arachidi, un vasetto family size di Nutella, un pezzo di formaggio, una decina di bagel alla ciliegia, un pacco di gallette alla cioccolata, un sacchetto di Snickers, un pacchetto party size di Oreo, sei lattine di Dr. Pepper, una lattina di acqua dolce e dodici litri di acqua minerale. Nessuna traccia di AriZona Tea. Compriamo anche cinque mele, un casco di banane e tre pellicole Kodacolor 200. Cazzo, il nostro carrello fa più schifo della media, e la media fa schifo. Siamo riusciti a spendere 100 dollari da Walmart senza comprare niente di commestibile: siamo davvero pronti per affrontare il deserto.

All’inizio il deserto sembra un deserto. È grande, ma a mano a mano che si prosegue diventa più grande. La vegetazione che cambia, il J Tree, il cespuglio, il cactus, il saguaro. Poi la valle del fiume Colorado e un cartello per Phoenix. L’Arizona: sette milioni di abitanti, uno in meno della sola città di New York, per 300 mila chilometri quadrati di cactus, deserto e montagne.

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3. Senza nome

e nemmeno l’orologio, che mi aveva abbandonato nel momento peggiore e senza preavviso, mi aveva toccato più di tanto. Ero seduto in un bagno di Chipotle alla fine di un anno girato storto e a quindici ore da una gara che avevo desiderato per anni. Quattro mesi prima una zecca mi aveva fatto saltare i programmi degli ultimi sei mesi. Per colpa di quell’insetto avevo ridefinito le mie priorità, e quando ero tornato ad allenarmi avevo capito che quanto facevo era solo relativamente controllabile, per cui sarebbe stato meglio allenarmi meno e assicurarmi di arrivare in Arizona intero. Alla fine,

tutto si era infilato nell’ordine giusto, e ora ero lì, sulla Papago Freeway, in un bagno di Chipotle, e avevo tutto quello che mi serviva. Non in macchina, nella borsa o in uno zaino. Proprio lì, in quel bagno, c’era tutto ciò di cui avevo bisogno, tutto quello che avrei trovato nel deserto e che avrei portato con me. Non sapevo come sarebbe andata, per quello dovevo correrla, ma per quanto mi riguardava, per quanto ne sapevo in quel momento, ero pronto, con o senza orologio e con o senza tutto il resto. Era per quello che ero venuto in quel deserto, e questo mi bastava.

Feeling good was easy Lord when Bobbie sang the blues / And feeling good was good enough for me / Good enough for me and Bobbie McGee.

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Una volta, prima di una gara un amico disse «quando volete mollare, pensate che siete dove dovevate essere». Oggi penso che lo dicesse più a sé stesso che a noi. E ogni tanto gli capitava di riuscirci, magari dopo aver passato sei ore in una aid station sulle montagne di Los Angeles: si ricordava perché era lì, cancellava tutto e riprendeva a correre. Non so perché corriamo le 100 miglia, non mi interessa, ma so che quando lo facciamo portiamo con noi i nostri temi e le nostre paure, e continuiamo a rimuginarci per tutti i chilometri che restano da correre. Corriamo per tirare fuori il dolore, ma non ci serve. Diamo troppo credito ai sentimenti, e alla fine ci tradiscono. Svuoto la mente, vivo il momento e resto sul sentiero. Mi

sono allenato a fare questa cosa, forse è l’unica cosa su cui mi sono davvero allenato quest’anno. Voglio ascoltarmi e fidarmi delle mie sensazioni. Ci siamo soltanto io, il sasso, il serpente, e il coyote. Essere lì, correre, e basta, come uno Jedi. Vada come vada.

Venti ore dopo sono steso all’ombra di un cespuglio a fissare il cielo azzurro attraverso le foglie. Sono steso di schiena, con le ginocchia verso l’alto e la testa appoggiata alle borracce. Sto così da meno di un minuto quando una voce mi chiede «hey dude, you’re ok?» Copro il sole con la mano e riconosco in controluce la sagoma di un diavolo, con corna, coda e tutto il resto. Sono nel deserto del Sonora, steso a bordo sentiero sotto l’unico cespu-

Venti ore dopo sono steso all’ombra di un cespuglio a fissare il cielo azzurro attraverso le foglie. Sono steso di schiena, con le ginocchia verso l’alto e la testa appoggiata alle borracce. Sto così da meno di un minuto quando una voce mi chiede «hey dude, you’re ok?»

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glio nel raggio di quattro miglia, e c’è un diavolo del cazzo che mi chiede se va tutto bene. No amico, non va decisamente bene. Quel tale sta correndo 100 miglia in un vestito di spugna, e lo sta facendo dannatamente veloce, ad occhio direi a 5’ al chilometro o giù di lì. Io sono disidratato e non posso fare più di tre miglia senza crollare sotto a un cespuglio.

Avevo vomitato più o meno subito, al ventitreesimo miglio, e l’avevo fatto dopo aver mangiato l’unica cosa provata davvero in allenamento, una mela. Dopo aver vomitato avevo ripreso a correre, ma poi lo stomaco si era richiuso e le uniche calorie che ero riuscito a ingerire da lì in poi erano sotto forma di Gatorade. Avevo bevuto quattro litri di quella merda blu. Decisamente più di quan-

to faccia un giocatore di baseball in tre partite di Major League, roba da restare deficienti a vita. No, non sta andando decisamente bene, amico. In qualche modo avevo tirato avanti fino a Coyote Camp, dove mi aveva raggiunto Noah, tirando dritto mentre canticchiava Don McLean e la sua torta americana. Quel pivello senza rispetto pregherà che non lo riprenda. Per qualche ragione mi ero sentito in dovere di ragguagliare un volontario della aid station circa il mio stato di salute, probabilmente un effetto della solitudine. Il tipo per tutta risposta mi aveva offerto del Fireball, uno scadente whisky alla cannella popolare tra i sedicenni, che nelle 100 miglia dell’ovest hanno l’abitudine di offrire ai ristori. Non ci sono prove scientifiche degli effetti di uno shottino di Fireball sul sistema nervoso umano

durante una 100 miglia, ma di certo non sarei stato io a scoprirlo. Il tipo mi aveva anche incoraggiato a non ritirarmi. Già, ritirarsi: fino a quel momento non mi era nemmeno passato per la testa.

Cosa diavolo si aspetta la gente da un’ultramaratona? Non che debba essere per forza un inferno, ma neanche una cosa facile. Le gare vanno bene o male, ma vomitare, non mangiare, avere caldo e freddo sono tutte cose abbastanza normali in un’ultramaratona. Non che ci sia niente di eroico, basta essere pazienti, queste cose sono lunghe e si fa sempre a tempo a svoltare la situazione – a meno che non riusciate a reggervi in piedi o che vi abbiano sparato, naturalmente. Escluse queste limitate circostanze non mi sembra proprio il caso di ri-

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tirarsi da una gara nel deserto perché fa caldo. Come disse Davide Grazielli a un tale: «se hai caldo, ti siedi su un sasso e aspetti che ti passi». Ritirarsi non è mai stata una possibilità.

Delle successive 15 miglia fino a Rattlesnake Ranch non ricordo nulla. Se è lì che Dakota Jones mi superò, con le ginocchia alte e le gambe a un metro da terra, allora ricordo quello. In caso contrario, l’immagine successiva è alla aid station, mangiando anguria salata. Me ne resto lì qualche minuto, a fianco a uno vestito da Flintstones: ormai le 20 ore sono andate a puttane, ma ne ho 30 per finirla. Non devo fare altro che raggiungere la aid station successiva, imbottirmi di ghiaccio e continuare fino a quella dopo. Per altri 100 chilometri.

Del terzo loop ricordo solo il caldo e i cespugli, e le ombre allungate dei saguari. Mi stendo un’ultima volta qualche miglio prima di Jackass, e questa volta mi addormento. Mi sveglia cinque minuti dopo un tale di Vegas, Jim,

dice di essere un medico, dice che corre il loop in cerca di morti da resuscitare. Sembra fare al caso mio. Jim mi mette in bocca due capsule di sali, un purè di mela e cannella, un paio di caramelle GU e un gel, tutto in due minuti. Poi si mette a parlare, Cristo se parla, spara cinquemila parole al minuto: dice che viene dal Nevada, che c’è una bella comunità di runner, là, dice che a Vegas ci sono anche bei sentieri, oltre ai casinò. Ci credo proprio, amico. Continua così per mezz’ora, forse un’ora, intanto il sole tramonta, io riprendo a mangiare, e poi a correre. Alla aid station di Jackass mi infila in un sacco a pelo e chiede al capitano del ristoro, un certo Nicky Coupons, di portarmi del brodo vegetale. Non protesto. La temperatura precipita e il mondo all’esterno del sacco a pelo diventa sempre meno invitante. Oltre al brodo bollente mi riempiono le borracce di acqua e ghiaccio – ad oggi uno dei più grandi irrisolti di questo viaggio. Fratello, Nick giusto? Sono in

un sacco a pelo da spedizione a bere brodo bollente, la temperatura è scesa di venti gradi in mezz’ora, perché diavolo vorrei correre con del ghiaccio in mano? Cristo, le borracce sono talmente fredde che non riesco nemmeno a toccarle. Tanto vale ripartire. Diventa buio, attacco la frontale e mi lancio verso Rattlesnake Ranch.

La gara si svolge nel McDowell Mountain Regional Park, poco fuori dal sobborgo di Fountain Hills. La città non è degna di nota e considerando che si trova in mezzo al deserto, ipotizzo che prenda il nome da qualche pozzanghera che doveva trovarsi lì ai tempi degli indiani Yavapai, prima che le agenzie immobiliari ricoprissero tutto di cemento. La realtà supera le aspettative: Fountain Hills è una fontana che spara acqua a una media di 26 mila litri al minuto grazie a tre turbine da 450 kW. Un getto d’acqua di 90 metri su un lago artificiale nel centro di un sobborgo residenziale in

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mezzo al deserto. È la quarta fontana più alta al mondo, e si trova qui.

Il sonno è l’ultimo effetto di quella crisi lunga otto ore, ed è qualcosa che non puoi contrastare mangiando o bevendo. C’è solo un modo per combatterlo: dormire. Se la gara va bene, se ti alimenti con costanza e resti carico puoi restare sveglio anche per 35 ore. Ma se qualcosa va storto, se inizi a spegnerti, se arriva il sonno, l’unica cosa da fare per risollevare la situazione è fermarti e dormire. Non è una perdita di tempo, è più un investimento. Passo le ultime tre miglia del terzo loop a pensare se fermarmi 20 o 25 minuti. Sembra comunque il miglior modo per correre il quarto giro in modo passabile.

Mezz’ora dopo sono sveglio, sazio, e raffreddato: sono di nuovo in gara. L’orologio segna 100 chilometri. Me lo aveva sostituito il giorno prima Shelby Farrell, un’atleta che lavora per l’azienda di orologi che sponsorizza la gara, che guarda caso è la stessa del mio. È un modello diverso e non so usarlo, e non mi sembra questo il momento per imparare. Nel dubbio corro, corro in discesa e corro in salita, corro ogni metro. Mi sto giocando i quadricipiti e sto tenendo un ritmo insensato, ma voglio finire il quarto giro. Volo: traguardo, giro di boa, fuori un altro, dentro un altro, quinto giro.

Per quale ragione mi trovo qui? Voglio dire, qual è il senso di tutto questo? Non della corsa, non delle 100

miglia, ma di questa in particolare. Non sono il tipo che durante una gara si chiede chi gliel’abbia fatto fare, ma perché questa? Javelina Jundred? Qual è il senso di questa gara?

Immaginate di essere immersi nell’oscurità. Vedete soltanto i vostri piedi, uno alla volta, e un paio di metri di sentiero. Le frontali sono scariche e correte con la luce di una bicicletta in mano, che oscilla al ritmo dei vostri passi. Avete perso venti minuti per barattarla, ma ora siete lì, nell’oscurità. Dritto a quattro chilometri di distanza un faro spara dritto verso di voi. Quattro chilometri sono circa 25 minuti. La luce a mano a mano si avvicina e il rumore dei vostri passi viene progressivamente coperto da quello continuo di un gene-

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ratore diesel. Correte ancora, le ombre dei cactus vi passano a fianco. La luce si avvicina ancora e il rumore del generatore si fa più intenso, poi una strada asfalta, una chitarra, una voce: In the desert you can remember your name / Cause there ain't no one for to give you no pain. È nella mia testa, ma la musica continua: La la la la la la... Mi sono sempre immaginato a correre nel deserto con questa canzone, e ora cos’avevano messo quelli? Gli America. È l’ultimo ristoro, e non poteva essere diverso da così. La aid station è come un’isola di luce nel buio del Sonora, la musica è alta e c’è gente presa a tagliare anguria e a cantare gli America. Eccolo lì, il senso della gara: fare qualcosa di estremamente difficile circondati da

persone che non ti fanno sentire un eroe per questo. A nessuno frega un bel niente di chi sei o di cosa hai fatto, del perché ti trovi qui, se hai qualche possibilità di farcela: quelli fanno festa, e fanno anche tutto quello che è in loro potere per aiutarti ad arrivare in fondo. E basta. Per questo sono qui, per correre senza retorica, senza musica epica, cantando gli America.

La musica fissa i ricordi. Dopo averne studiato per anni le pieghe e i funzionamenti non ho ancora capito come, ma è così. C’è una distanza tra tempo cronologico, tempo psicologico e tempo musicale: viaggiano tutti su binari diversi a velocità diverse, ma una volta capito ciò, non sappiamo bene cosa farcene. Penso sia per questo che non

vale nemmeno tanto la pena dannarsi l’anima, ma lasciarsi attraversare: se quello è il momento che continuo a ricordare, di cui sento ancora la temperatura sulla pelle e l’odore nelle narici, di tutte quelle dannate 100 miglia, è perché the air was full of sound.

Le ultime miglia percorrono una stretta valle buia. Poi arriva il suono della musica e soltanto dopo la vedi. È come avere gli occhi chiusi, poi li apri e la vedi: la luce. Corro, corro veloce, corro il chilometro più veloce della gara. Quanto tempo è passato? Non lo so. Sono steso con la testa appoggiata alle borracce sotto la linea d’arrivo. Passa un po’ di tempo, non so quanto, minuti, ore. Poi mi alzo, ed eccola lì. La fibbia.

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4. Lungo la strada

Il sole aveva picchiato così forte da sciogliere il formaggio sul pavimento della tenda. Ogni cosa era avvolta da una strana melma invisibile, impossibile definirne la natura, era un misto di sabbia, sudore, gel al caramello e camembert, e anche ciò che non vi era entrato in contatto sembrava averne assorbito l’aura. Una cosa era certa: non ci sono docce o lavanderie in mezzo al deserto. La cosa più ragionevole sarebbe bruciare l’accampamento e acquistare dei vestiti nuovi da Walmart.

Abbiamo finito di correre da cinque ore, ci è passato sopra un treno e non ce ne siamo nemmeno accorti. Siamo rimasti un po’ a goderci l’hangover e l’atmosfera post gara, a raccontarci a vicenda le storie della giornata, ma ora dobbiamo toglierci di mezzo prima che il sole inizi a colpire un’altra

volta. Con ciò che resta delle nostre gambe saltiamo in macchina per l’ennesima e prendiamo la Interstate 17 su Flagstaff, verso nord.

Flagstaff si trova all’interno della Coconino National Forest, un’area di 750 mila ettari che comprende foreste di pino giallo, un paio di deserti e diverse mese. Negli ultimi anni è diventata uno dei centri più vivi nella scena della corsa statunitense, richiamando atleti professionisti da tutto il paese. Si trova si trova su un grande altopiano a 2000 metri di quota, è vicina sia al deserto che a montagne che superano i 3000 metri, è poco distante dal Grand Canyon, uno dei luoghi simbolo della corsa in Arizona, ed è circondata da foreste e da centinaia di chilometri di sentieri pianeggianti, rendendola particolarmente adatta per allenarsi. Ma se è diventata una

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delle mecche dell’ultrarunning è grazie a un gruppo di atleti che ci ha fatto base: i Coconino Cowboys. La storia dell’ultrarunning americano è scritta dai personaggi che ne hanno segnato le generazioni, come Eric Clifton, David Horton e Blake Wood per gli anni Novanta, Jurek per i primi Duemila, e poi quella di Born to Run, con Krupicka, Jenn Shelton, Hal Koerner, Dakota Jones e i fratelli Skaggs. I Coconino sono uno di quei gruppi che rappresentano, o forse hanno rappresentato, nel modo migliore la loro generazione.

Inizialmente sembrano dei rookie sfornati dal college, un gruppo di amici sfigati e dannatamente forti. In effetti vincono le gare più importanti del sud ovest e alcune corse storiche sulla costa est, Bandera, JFK 50 miler, Sonoma; ma è solo nel 2018 quando Jim Walmsley vince Western States che iniziano a essere presi davvero sul serio. Oltre a vincere, i Coconino sono il primo gruppo a comportarsi come una squadra: si presentano in blocco alle gare, si aiutano a vicenda, ma non hanno paura a sfidarsi tra di loro quando si trovano sulla stessa linea di partenza. Oggi, neanche otto anni dopo, alcuni di loro appartengono già alla storia di questo sport, altri non sono mai sbocciati, mentre altri sono apparsi e scomparsi come meteore. Ma il loro approccio ha segnato la scena dell’ultrarunning ed è stato imitato da altri atleti. Nel frattempo, i luoghi in cui bazzicavano sono diventati mete di pellegrinaggio: Pizzicletta, la pizzeria italiana sulla Route 66, Mother Road Brewing Company, e Run Flagstaff, il running store locale, che oggi è un negozio simbolo nella scena.

Ci passiamo verso le due di pomeriggio, il giorno stesso della gara, poco dopo aver pranzato in un classico diner anni Cinquanta, uno di quelli con le foto di Johnny Cash e June Carter alle pareti. Anche troppo classico, ma dopotutto avevamo bisogno di caffè e di cibo vero. In tutto quel guidare ci eravamo dimenticati

della doccia, e il disgusto si era soltanto spostato dalla tenda all’auto: il bagagliaio esplodeva di magliette sudate e il Gatorade invadeva l’aria con un odore dolciastro. Per tutto il viaggio Denis non l’aveva piantata di mangiare Oreo e le briciole si erano sparse sui tappetini. C’erano pezzi di gallette di riso ovunque, sotto i sedili, sopra ai sedili, nel porta oggetti, e vicino al freno a mano si era creata una specie di torre di bicchieri di caffè e di lattine di Dr. Pepper. Cristo, eravamo davvero impresentabili.

Dopo aver portato la nostra puzza nell’unico negozio della città in cui nessuno si sarebbe scandalizzato avevamo arrancato fino a Mother Road alla ricerca di una birra sognata così a lungo. La sogni, è vero, ma quando poi te la trovi davanti ti volteresti dall’altra parte. Poi

la bevi lo stesso, ma più per principio che altro. È il 30 ottobre e alla radio passano gli Smashing Pumpkins. Locali come questo sono diventati simboli nella nostra scena ma ci si trova chiunque, il che li rende tutto sommato ancora luoghi di nicchia. Flagstaff non è monopolizzata dall’outdoor, o almeno non del tutto, il che la rende ancora piuttosto vivibile. La città ha un sistema sentieristico urbano che attraversa i boschi all’interno della città. Comunque, o ci si passa una settimana o dopo due ore non si sa più cosa fare. Zoppichiamo fino alla macchina tra murales e edifici di mattoni e proseguiamo verso nord.

Ci lasciamo alle spalle foreste e montagne e ritroviamo il deserto. Il Colorado Plateau, altri 400 mila chilometri quadrati di nulla. Ora, il concetto di nulla in questa specifica area cambia

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notevolmente rispetto al Mojave o al Sonora. Nel Sonora ci sono i cactus, qua no, c’è solo una strana erbetta secca. Ettari ed ettari di erbetta secca tagliata all’inglese, seguiti da ettari ed ettari di terra rossa. Un campo da baseball grande quanto la Polonia. Entriamo nella riserva indiana verso il tramonto, ma non ce ne accorgiamo subito, d’altronde la Navajo Nation corrisponde a circa metà dello stato, e quello che potete trovarci all’interno non è molto diverso da ciò che la circonda: il nulla. In cinque ore di autostrada incontriamo un distributore grande come un supermercato, specializzato in sacchetti di patatine. Ne pago uno 6,04$. Non mi sembra il caso di discutere e d’altronde non abbiamo cenato. Noah, sul sedile posteriore, dorme da ore con la testa verso

il dietro e la bocca spalancata. Sembra proprio uno che ha appena corso 160 chilometri nel deserto. Denis sta per addormentarsi sul volante. Mi dice che gli manca sua figlia, che quando hai un figlio stare una settimana lontano da casa diventa insopportabile. Io gli dico che quando ero piccolo capitava che mia mamma andasse in Giappone per lavoro, che le mamme degli altri bambini non andavano in Giappone per lavoro, non ci erano neanche mai state in Giappone: l’idea mi piaceva. Per il resto, siamo alla deriva, drifting along with the tumbling tumbleweeds.

Abbiamo da poco superato il confine con lo Utah quando troviamo un motel lungo la strada. Mi sembra passata un’eternità dalla gara, ma sono passate appena venti ore. Sulla mo -

quette del motel mi sforzo di ridare un senso alla mia valigia, ma l’ordine nell’universo sembra andato definitivamente a puttane. Mi rassegno e vado a dormire.

La mattina successiva prendo in mano la situazione e do una ripulita alla Mitsubishi. Attorno a noi non c’è niente: ci sono il motel, il parcheggio, e poi non c’è nient’altro, ma almeno adesso la macchina è presentabile.

Lo Utah è una terra preistorica e i colori secondari non vi sono ancora giunti. Ti accorgi di non aver davvero mai visto un cielo blu fino a che non vedi Arches. È famoso per gli archi di granito ma la cosa che colpisce davvero è il loro colore. A Moab si ha l’impressione che ogni altra gradazione sia scomparsa dall’universo: non esistono il mattone, il verde oliva, il bluette. Esistono il rosso e il blu, e solo in piccola parte il verde degli arbusti e il giallo delle betulle, basta. Vicino ad Arches, il Colorado Plateau comprende altri cinque Parchi Nazionali: Zion, Bryce Canyon, Canyonlands, Capital Reef e Monument Valley, e quanto potete trovarci è pressoché la stessa cosa: rosso e blu, e delle montagne bianche a quattromila di chilometri di distanza, nitide come se fossero lì accanto. In effetti, i Parchi rischiano di trasformare qualunque fotografo in un paesaggista, ma non Denis. Denis scatta da troppo tempo e sa troppo bene ciò che gli serve, e non è il tipo da perdere tempo con un cielo blu, «per quello basta andare su Google». Ad ogni modo, rendere le distanze sembra un’impresa impossibile, per il resto bastano un po’ di rosso, un po’ di blu, et voilà.

I Parchi Nazionali rispondono a uno strano principio di salvaguardia: al loro interno non si può fare nulla, e oltre a pagare l’ingresso, è necessario pagare ancora per percorrere alcuni sentieri. Camminare al di fuori del sentiero indicato è proibito e d’altronde si tratta di ambienti estremamente delicati. La totale assenza dell’uomo nel paesaggio, eccezione fatta per la strada che solitamente li attraversa,

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è il principale elemento visibile di antropizzazione: la presenza umana è talmente assente da sembrare tangibile. In effetti, al di là dell’effetto sublime della distanza, i Parchi Nazionali ricordano vagamente Disneyland. Vengono per lo più visitati in macchina, percorrendo strade servite da piazzole di servizio. Va detto che le strade americane sono del tutto prive di elementi d’arredo come catarifrangenti e guardrail, rendendole meno invadenti delle nostre.

I sentieri sono tirati talmente bene da sembrare il set di un film, nulla è fuori posto e ogni sasso sembra rispondere a un ordine universale. Anche Moab ricorda il set di un film, tanto che viene la tentazione di controllare dietro agli edifici per assicurarsi che non vi siano soltanto le facciate. Per il resto non si capisce bene cosa ci sia nello Utah. Evidentemente qualcuno ci abita, per lo più mormoni, ma non si sa bene cosa facciano. Penso che per lo più aspettino. È la notte di

Halloween, il tema della serata è Hogwarts. La cameriera è una stronza e l’hamburger fa schifo – il mio, vegano, sembra talmente carne che devo concentrarmi per riuscire a ingoiarlo. Da noi questa merda è futurismo e le polpette le facciamo ancora coi ceci.

We passed upon the stair / We spoke of was and when / Although I wasn’t there / He said I was his friend / Which came as a surprise / I spoke into his eyes / I thought you died alone / A long long time ago.

Abbiamo da poco superato il confine col Colorado, stiamo facendo una pausa a Grand Junction prima di proseguire fino a chissà dove nel cuore della notte. Trovarsi in California dà una bella sensazione, il fatto stesso di sapere di trovarsi lì, o correre una corsa in Arizona, c’è qualcosa di poetico anche solo nel pronunciare la frase. Ma il Colorado. Forse il Colorado è la cosa che ho aspettato più a lungo, ciò che rappresenta davvero questo viaggio.

Avevamo attraversato il fiume Colora-

do per la prima volta a Blythe, in California. Non che in quel punto fosse un fiume gigante, ma lo era comunque abbastanza per creare qualcosa come il Grand Canyon. Poi avevamo attraversato il fiume San Juan, un suo affluente, e di nuovo il Colorado River a Moab. Ma a Glenwood Springs, dove ci troviamo ora, il Colorado River è solo un torrentello che di notte butta su una fastidiosa umidità che le porte di compensato del motel non riescono a tenere fuori. Siamo finalmente arrivati alle montagne, le dannate Rocky Mountains.

He climbed cathedral mountains, he saw silver clouds below / He saw everything as far as you can see / And they say that he got crazy once and he tried to touch the sun / And he lost a friend but kept the memory / But the Colorado Rocky Mountain high / I've seen it rainin' fire in the sky / The shadow from the starlight is softer than a lullaby / Rocky Mountain high, Colorado / Rocky Mountain high, high in Colorado.

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5. Colorado

Ci sono luoghi che per qualche allineamento astrale diventano il prototipo di quello che accadrà nel resto del mondo cinque o dieci anni dopo. La California. È come se fossero dei laboratori, un tempo se ne occupava Dio, oggi se ne occupano i californiani. Per una specifica fetta di mondo, quella della gente che va in montagna, quel laboratorio è una piccola città del Colorado chiamata Boulder.

Venne fondata nel 1859 sulle ceneri di un accampamento Arapaho, durante la corsa all’oro di Pikes Peak. Sebbene guardandola su una carta geografica oggi sembri un quartiere suburbano di Denver, la capitale dello Stato che si sta progressivamente espandendo in orizzontale inglobando tutto quello che la circonda, Boulder è una città autonoma, più o meno con gli stessi abitanti di Trento, una sua università, una squadra di football e un sito web in cui si legge: Boulder. Hip since 1858. Come Trento, Boulder è solo in parte una città di montagna: sorge lungo la Interstate

25 che divide le grandi pianure americane dalle Colorado Rockies. La sua posizione, servita da una grande città e da un aeroporto internazionale, ma vicina alle montagne e a luoghi come Eldorado Canyon, i Flatirons e Rocky Mountain National Park, tutti ricchi di sentieri e falesie, ha contribuito negli ultimi trent’anni a trasformarla in una piccola mecca dell’outdoor. Negli anni tanti atleti si sono trasferiti qui dal resto del paese, tra cui personaggi come Scott Jurek e Jon Krakauer, entrambi trasferiti qui da Seattle.

La città ha iniziato a riempirsi di negozi di biciclette, flagstore di attrezzatura da montagna, caffetterie biologiche, birrerie artigianali e locali hipster, il costo medio della vita è aumentato emarginando tutti quelli che non avevano i mezzi o l’interesse per inseguire questa gentrificazione. Oggi una casa a Boulder costa mediamente 1 milione di dollari. Si tratta di classiche monofamiliari in quartieri residenziali: giardino senza recinto, garage, carton-

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gesso, due piani, capito il genere? Roba da film, che in uno stato limitrofo costerebbe tranquillamente meno della metà. Anche secondo chi ci vive è troppo cara, tanto che dopo San Francisco, Los Angeles e Portland, è il posto più caro a ovest del fiume Mississippi.

La città si sviluppa su Pearl Street, che ricorda vagamente un centro storico europeo: pedonale, relativamente vecchia, palazzi su più piani e attività commerciali, librerie, negozi di abbigliamento tecnico, ristoranti etnici e caffetterie. Per il resto, sembra uno di quei tappeti che si vedono nelle camere dei bambini, con le strade e le case, e la biblioteca, la caserma dei pompieri, e la centrale della polizia, tutto al suo posto: Boulder è quella cosa lì. Passeggiandoci a novembre si respira un’aria di torpore collettivo, carico di un infallibile ottimismo. A Boulder si ha l’impressione che tutta l’umanità si diriga congiuntamente nella stessa direzione. Che ci sia una missione. E che tutti ne facciano parte, che in qualche modo abbiano trovato il senso della vita, e dopo i primi giorni di nevrosi inizi a crederci anche tu.

L’università non le dà nulla di bohémien. La University of Colorado è un’università di medie dimensioni ma ha una forte identità dovuta soprattutto alla squadra di track and field, i Colorado Buffaloes. C’è anche un libro, Running with the Buffaloes, che ha reso celebre Magnolia Road, una strada bianca poco distante da Boulder, in cui la squadra si allenava. Il loro merchandise in città si trova ovunque: da Safeway, nei negozietti di Pearl Street, nelle librerie, nei caffè. La squadra ha avuto anni migliori ma andiamo comunque a vedere una partita di football. Giocano contro gli Oregon Ducks, finisce 49 a 10 per i secondi, ma vale i 50 dollari del biglietto.

Poche cose condensano l’America come quattro ore di una partita di football. E non parlo del Super Bowl, ma di una partita qualunque della lega universitaria. Lo sport ne è soltan-

to un aspetto marginale, tanto che la gente arriva a partita iniziata e se ne va a metà, anche se è venuta a posta da Portland in aereo per vederla. È più che altro un rito collettivo, transgenerazionale, qualcosa a cui bisogna partecipare per mantenere viva una certa immagine di quel paese. Durante una partita accadono un sacco di cose, molte delle quali contemporaneamente all’azione, tanto che la distrazione è incoraggiata, si direbbe quasi pretesa: cheerleaders, bande, bisonti che corrono in giro per il campo – non è una metafora, liberano davvero un bisonte in campo, e come sia possibile in una città così ambientalista, questo, resta un mistero. C’è anche il giuramento dei laureati che entreranno nell’esercito, durante il quale un tale in divisa urla qualcosa dentro a un microfono: dice che quei ragazzi stanno mettendo la loro vita a servizio della democrazia americana. Attorno sono tutti ubriachi, c’è Coca Cola per terra e una strana patina appiccicosa sui sedili: è la democrazia americana che quei ragazzi porteranno nel mondo, ciò che stanno giurando di difendere, quel rito collettivo, il fottuto football americano.

In realtà, la città sembra molto distante da tutto ciò. Boulder è un concentrato di California a est delle Montagne Rocciose. Una città progressista, ambientalista, illuminata, in cui gli hippie in fuga dall’ovest sempre più ricco e borghese hanno trovato il loro spazio, per poi scoprire di aver fatto la stessa fine di ciò da cui fuggivano. Questa nascente civiltà outdoorsy che trova in Boulder la sua forma più compiuta, nell’ultimo decennio ha creato un intero lifestyle, coi suoi miti e i suoi must have. Gli alpinisti fricchettoni e un po’ raffazzonati degli anni Settanta sono andati in pensione, e i loro feticci sgarrupati oggi sono diventati status symbol di una nuova borghesia, solo un po’ più strana e hip, e col furgone camperizzato, che oggi vale quanto un appartamento. E poi il dresscode e gli accessori: la camicia a scacchi, la tazza in metallo e la bicicletta d’acciaio. Quando anche un frigorifero da cam-

peggio fa status, un movimento culturale si è trasformato in un’economia.

Society, you’re a crazy breed / I hope you’re not lonely without me.

Sono ospite di una coppia di amici di Noah, laureata in ingegneria a Stanford lei, in legge ad Harvard lui, entrambi californiani. Lei ha venduto il suo appartamento nella Silicon Valley e si è trasferita qua un anno fa. La loro giornata inizia piuttosto tardi, come la mia d’altronde. Durante la notte ha nevicato, è la prima nevicata della stagione, ma lei è comunque andata a correre con Django, il cane, e a bere il caffè da alcuni amici. C’è la sensazione che le mattinate siano eterne, che il tempo basti per prendersi cura di sé. Nessuna frenesia. La mattina Brent e Natalie hanno due velocità diverse, ma in entrambi i casi sembra che niente possa frenare il loro ottimismo. Dopo un french press si mettono a lavorare, saranno le dieci e mezza.

Cerco rifugio da Trident, una libreria con una caffetteria all’interno. Conosco il locale per via di un vecchio film su Anton Krupicka, ma ora è pieno di studenti, freelance, insegnanti. Tutti che lavorano, tutti che parlano e urlano. Qui lavorano tutti da casa, o meglio, dalla caffetteria. In generale, sembra che a Boulder il lavoro venga visto come qualcosa a cui dedicare meno tempo possibile, che sottrae tempo alla cura di sé e del proprio benessere. Danno poca importanza alla carriera, ma allo stesso tempo guadagnano tantissimo. D’altro canto, per sfuggire allo schiavismo neoliberale del luogo di lavoro, per essere padroni del proprio tempo, qui lavorano tutti da casa, con la conseguenza che nessuno smette mai davvero di lavorare. Il libero professionismo ha spazzato via diritti fondamentali come l’orario di lavoro, ma d’altronde qui sembra non preoccuparsene nessuno. L'unica differenza tra chi ha preferito Boulder a San Francisco sono le priorità nella vita. Per il resto è lo stesso.

Un caffè costa sei dollari, e il sandwich

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che prenderete dopo il quinto per placare gli spasmi della caffeina ne costa quattordici. Ogni negozio ha una caffetteria all’interno, o quantomeno una caffettiera. Fa un po’ hipster, ma crea affiliazione, senso di comunità. Niente di nuovo, ma siamo pur sempre in una cittadina del Colorado, mica a Londra. La gentrificazione starà anche consumando Boulder, la starà rendendo più finta e standardizzata, ma che poi standardizzata rispetto a cosa? Boulder assomiglia ancora e soltanto a sé stessa. È ancora la capitale di questo sport, e cambia alla stessa velocità a cui sta cambiando la sua comunità. È per questo che sono venuto in Colorado dopotutto.

Comunque, mi serve una pausa da questa città. Denis se ne è andato e assieme a lui la Mitsubishi. Quell’auto oramai era diventata davvero ridicola. Un venerdì io e Noah prendiamo la vecchia Lexus IS 300 sverniciata di Brent e ci mettiamo sulla strada per Leadville. All’auto mancano i sedili posteriori e al loro posto c’è una grande tavola di truciolato che lascia scoperta la carrozzeria interna, cavi e bulloni. I sedili anteriori sembrano stati vittima dell’attacco di un giaguaro e la gommapiuma è squarciata e le molle escono dal rivestimento. Nevica, e ovviamente anche le ruote fanno schifo, ma ormai abbiamo assorbito l’ottimismo locale e decidiamo che la strada per Leadville sarà pulita.

Leadville si trova a una quota di 3100 metri sul livello del mare ed è la città più alta degli Stati Uniti. È un vecchio centro minerario, abbandonato durante il Novecento fino a quando nei primi anni Ottanta Jim Butera e Ken Chlouber idearono Leadville 100 per arginare la crisi del paese, inventando ciò che poi è divenuta una delle più leggendarie ultramaratone americane, oltre che una delle prime. La comunità locale è molto unita, come spesso accade nei paesini di montagna, per il resto si tratta solo di una strada con edifici in stile vittoriano, un pub, un ristorante messicano e il quotidiano locale

foresta, a un’ora di macchina da qua lunque centro civilizzato, a 3000 metri. Leadville non è Aspen, o Vail, qui non ci sono impianti sciistici e in inverno fa freddo, dannatamente freddo. L’unica persona capace di vivere qui, tolto qualche messicano, è Courtney Dauwalter. A fine ottobre c’è già mezzo metro di neve e si usano le catene otto mesi l’anno. Noi ovviamente non le ab-

infossa sempre di più. Stuck in the mid dle of nowhere, bel titolo per il pezzo: bloccati in mezzo alla neve a 10 miglia dalla città più sperduta degli Stati Uniti d’America, d’inverno, due ore prima del tramonto, quattro giorni dopo aver corso una 100 miglia. Quantomeno sembra una storia da raccontare. Provo a prendere appunti sul bordo dell’Herald Democrat ma la penna è scarica,

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così mi rassegno e apro una birra. Niente gasolio, niente riscaldamento, ma Noah si ricorda di una vecchia assicurazione con AAA (da leggersi triple-A), che si era dimenticato di cancellare l’inverno precedente, tanto quando mai gli sarebbe capitato di restare bloccato in mezzo alla neve negli Stati Uniti d’America, vivendo a Trento. Il telefono squilla, poi la voce all’altro capo ci chiede se abbiamo un modo per andarcene da lì: amica, non c’è un modo, non c’è niente. L’unica possibilità resta la polizia. Ci mancavano gli sbirri, che idea del cazzo. Comunque, una cosa è certa:

«la birra deve sparire, e quella lattina

non dovrà essere qui quando lo sceriffo arriverà.»

Non sono certo di afferrare il problema, ma mi fido del senso della legge di Noah, è pur sempre un fottuto avvocato laureato ad Harvard, dopotutto. Scendo dalla macchina, chiudo gli occhi e lancio la lattina nel mezzo della natura incontaminata. Alcolizzato del cazzo. Un pessimo tiro, comunque, la lancio il più lontano possibile e quella casca un paio di metri davanti a me, poco oltre il ciglio della strada, nessun modo di raggiungerla. Non ho mai avuto una possibilità come giocatore di baseball. Nel frattempo, ci hanno trovato un carroattrezzi: niente sbirri.

Quando il tipo arriva ormai è buio e la temperatura si è abbassata di quindici gradi. Lui sembra uscito da una trasmissione su Discovery Channel, ci interroga sulle nostre intenzioni. Gli americani tendono a farlo: se sei in panne nel mezzo del nulla, il carroattrezzi, dopo essere arrivato fin lì, vi chiederà se siete disposti a pagare una sovrattassa per l’eventuale tempo in più, o se preferite essere lasciati lì, a morire o ad aspettare che qualcuno vi porti una valigetta piena di soldi per pagarlo. In ogni caso, essere abbandonati è sempre una possibilità. Potete pagare ed essere salvati, o arrangiarvi con quello che avete, nel nostro caso, delle catene vecchie e una Lexus senza gasolio.

Gli Stati Uniti sono perfetti per vivere sperduti nel mezzo del nulla o in una città immensa, le vie di mezzo, come Boulder, non funzionano. Quando sei nel deserto, o bloccato nella neve in mezzo a queste montagne, anche Starbucks ti sembra qualcosa, ti sembra un pieno. Ma i posti come Boulder, le vie di mezzo, sono troppo grandi per lasciarsi incantare da un ristorante in franchising e troppo piccoli per trovare qualcosa di più di quello. Tra questi pensieri torniamo a Leadville tre ore e mezza dopo averla lasciata, sconvolti e congelati, cercando asilo nell’unico posto della città in cui si può spendere in modo irragionevole. Passiamo la cena in silenzio, con gli occhi fissi nel piatto di curry fumante e i piedi scalzi avvolti attorno al piumino.

Chi sa se tornerò mai in questo posto. Comunque, sembra passata un’eternità da quando eravamo nel deserto. Tolti Boulder, Estes Park e poco altro, il Colorado è puro west. Le montagne sono montagne, e a Rocky Mountain National Park bisogna starci a pensare per capire che superano i 4000, ma sembrano davvero selvagge. Forse è John Denver alla radio, ma il Ponderosa Pine filtra la luce in modo diverso rispetto agli alberi europei. C’è qualcosa che le Alpi non hanno, o forse soltanto il fatto che sono a settemila miglia da casa.

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Per afferrare il vero senso di Boulder, per capire la città, il ruolo che ha avuto nella scena dell’ultrarunning, capire il senso di questo posto, mi resta ancora un’ultima cosa fare. Devo vedere ancora una persona, prima di andarmene. Devo scrivere il pezzo, dopotutto. Lo incontro in un bar del centro, dove Pearl Street è aperta al traffico e sembra una strada come le altre. Lui non ci viene spesso, una volta al mese dice, anche se abita soltanto due isolati a nord, qui è troppo caro e affollato. È tutte queste cose, ma non ci sono grandi alternative. Sono le quattro di pomeriggio, troppo tardi per il caffè e troppo presto per una birra, comunque lui opta per il primo. Ci vediamo da The Laughing Goat, una classica caffetteria hipster di Boulder.

Anton è originario del Nebraska ma vive qui ormai da tredici anni, quando vi si è trasferito per il master. È forse una delle figure più conosciute di questo sport, e rappresenta in particolare un momento della sua storia, un momento di estrema libertà e creatività, prima che le aziende

arrivassero e facessero tabula rasa di ogni cosa. Erano gli anni di Jenn Shelton, i fratelli Skaggs, Joe Grant, Dakota Jones e Hal Koerner, ma lui è quello che li condensa tutti insieme. Poi si infortunò e cercò altre strade: la bici, l’arrampicata, il giardinaggio. Anton è una delle figure più creative del mondo outdoor e uno di quelli che forse l’ha segnato più profondamente. In Italia è diventato famoso per la barba e i capelli lunghi, e perché correva a petto nudo e tagliava le suole delle scarpe: non abbiamo capito davvero mai niente di questo sport.

Passo i giorni che precedono quell’incontro pensando a cosa chiedergli, ma non mi viene in mente nulla: cosa vuoi chiedere a Anton Krupicka che non sai già? Le interviste botta e risposta stile rivista di skateboard non le legge più nessuno. Che musica ascolti, qual è il tuo trick preferito, chi se ne frega. D’altro canto, il mio inglese fa schifo e se lui non avesse voglia di parlare sarebbe finita. C’è una bella differenza tra incontrare un atleta a Chamonix tutto infiocchettato il giorno prima di UTMB e incontrarlo qui a casa sua. È

completamente diverso. Comunque, ho deciso, niente intervista.

È l’ultima sera a Boulder, c’è una luce autunnale, calda e fredda allo stesso tempo, il sole basso a filo sui Flatirons e le villette di Melody Heights avvolte dai platani arancioni. Prendo la bici di Natalie e prendo la strada verso sud, fino al centro. Me ne resto per un po’ fuori dalla caffetteria col cellulare in mano, per darmi un contegno, poi alzo lo sguardo ed eccolo lì: Anton Krupicka. Parliamo di amici in comune, amici lontani, e parliamo di Boulder, di Chamonix, di Trento. Parliamo di cosa stia diventando l’outdoor, di come stia cambiando l’ultrarunning, e questa città. È la prima volta che mi succede, gli americani non capiscono quasi mai il nostro rigetto per la commercializzazione e la spettacolarizzazione del nostro sport. Negli Stati Uniti una cosa può avere un messaggio e muovere soldi allo stesso tempo. Per noi le due cose sono inconciliabili. Lui invece lo capisce, la cosa mi commuove.

Parliamo di come Trento e Boulder siano a due stadi diversi dello stesso

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percorso. Trento è come se fosse a un livello primordiale, un sacco di gente fa sport ma manca il senso di comuni tà. A Boulder tutto questo è successo quindici anni fa, e ora si trova all’altro capo della parabola. Qui l’outdoor è stato istituzionalizzato ed è diventato omologante, e i tempi in cui vinceva Leadville e dormiva nei bagni pubbli ci prima della gara sono ormai passa ti. La Boulder di In the High Country forse è finita, ma lui non è cambiato, sembra ancora lo stesso idealista dei video di New Balance. È successo però che tutti gli altri sono diventati come lui, e lui ora va in bici con la ra gazza e se la ridacchia, consapevole che quell’onda è stato tra i primi a ca valcarla, e noi non facciamo altro che provare a inseguirla.

Non glielo dico, ma ho un suo poster appeso dietro alla porta della camera. Non una gran foto, ma Camilla me la lascia tenere. E ora sono qui, a Pearl Street, a bere un caffè con lui, e i Fla-

e li abbiamo omologati, imborghesiti e sputtanati. Non siamo gli eredi di Jim Bridwell e Gordon Ainsleigh, non di quegli stronzi di Joshua Tree, degli anni Sessanta, ma dei nostri genitori, degli anni Ottanta, siamo solo un

per me. Ho sempre avuto un debole per il cowboy, come concetto, e forse adesso un po’ più di prima. Con questa fibbia chiudo un cerchio iniziato un anno fa, e bisognava arrivare fino a qui, in qualche modo.

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1607. LEADING RELAX HOTEL MARIA 1608. RESIDENCE LASTÈ 1609. RESORT DOLCE CASA 1610. HOTEL BELLAVISTA 1611. WINE HOTEL SAN GIACOMO 1612. HOTEL ALPECHIARA 1613. HOTEL PIANDINEVE 1614. SPORT HOTEL VITTORIA 1615. ALPIN HOTEL SONNBLICK 1616. HOTEL WALDHOF 1617. HOTEL BARRAGE 1618. HOTEL VILLA GLICINI 1619. HOTEL EUROPEO 1620. BEVERLY HOTEL 1621. DOLOMEET BOUTIQUE HOTEL 1622. HOTEL CRISTINA 1623. LEFAY RESORT&SPA DOLOMITI 1624. OLYMPIC PALACE 1625. BLU HOTEL ACQUASERIA 1626. GRAND HOTEL PARADISO 1627. HOTEL GARNI SORRISO 1628. HOTEL MIRELLA 1629. JOLLY RESORT&SPA 1630. RESIDENCE CLUB 1631. CHALET LA CIASETA 1632. FAMILY HOTEL GRAN BAITA 1633. HOTEL ANDA 1634. HOTEL TERME ANTICO BAGNO 1635. WELLNESS FASSA 1636. HOTEL CASTEL PIETRA 1637. FALKENSTEINER HOTEL 1638. HOTEL RUDOLF 1639. K1 MOUNTAIN CHALET 1640. MAJESTIC HOTEL & SPA RESORT 1641. PARKHOTEL SCHÖNBLICK 1642. ROYAL HOTEL HINTERHUBER 1643. GRAND HOTEL LIBERTY 1644. GRAND HOTEL RIVA 1645. HOTEL ANTICO BORGO 1646. HOTEL EUROPA 1647. HOTEL LIDO PALACE 1648. HOTEL LUISE 1649. HOTEL PORTICI 1650. HOTEL SOLE RELAX 1651. VILLA NICOLLI 1652. HOTEL LEON D’ORO 1653. HOTEL BELLERIVE 1654. HOTEL LAURIN 1655. HOTEL SALÒ DU PARC 1656. RIVALTA LIFE STYLE HOTEL 1657. HOTEL ORSO GRIGIO 1658. HOTEL VILLA STEFANIA 1659. NATURHOTEL LEITLHOF 1660. PARKHOTEL SOLE PARADISO 1661. POST HOTEL 1662. RESIDENCE SILVIA 1663. SPORTHOTEL TYROL 1664. ZIN SENFTER RESIDENCE 1665. HOTEL LA VETTA 1666. HOTEL LADINIA 1667. RENÈ DOLOMITES BOUTIQUE 1668. X ALP HOTEL 1669. HOTEL MONTE SELLA 1670. CHRISTOPHORUS MOUNTAIN 1671. HOTEL AL SONNENHOF 1672. HOTEL CHALET CORSO 1673. HOTEL CONDOR 1674. HOTEL MAREO DOLOMITES 1675. HOTEL TERESA 1676. RESIDENCE PLAN DE CORONES 1677. SPORTHOTEL EXCLUSIVE 1678. HOTEL BAITA FIORITA 1679. HOTEL RESIDENCE 3 SIGNORI 1680. HOTEL VEDIG 1681. CHABERTON LODGE 1682. HOTEL LA TORRE 1683. RELAIS DES ALPES 1684. AGRITURISMO MASO LARCIUNEI 1685. APARTMENTS SUNELA 1686. ARTHOTEL ANTERLEGHES 1687. ASTOR SUITES B&B 1688. BIANCANEVE FAMILY HOTEL 1689. BOUTIQUE HOTEL NIVES  1690. CHALET ELISABETH 1691. GRANBAITA DOLOMITES 1692. HOTEL AARITZ 1693. HOTEL ACADIA 1694. HOTEL ALPENROYAL 1695. HOTEL ANTARES 1696. HOTEL CHALET S 1697. HOTEL CONTINENTAL 1698. HOTEL DORFER 1699. HOTEL FANES 1700. HOTEL FREINA 1701. HOTEL GARNI DOLOMIEU 1702. HOTEL GENZIANA 1703. HOTEL MIRAVALLE 1704. HOTEL OSWALD 1705. HOTEL PORTILLO DOLOMITES 1706. HOTEL SOMONT 1707. HOTEL SUN VALLEY 1708. HOTEL TYROL 1709. HOTEL WELPONER 1710. LUXURY CHALET PLAZOLA 1711. MOUNTAIN DESIGN HOTEL 1712. MOUNTAIN HOME VILLA ANNA 1713. RESIDENCE ISABELL 1714. RESIDENCE VILLA FUNTANES 1715. RESIDENCE VILLA GRAN BAITA 1716. THE LAURIN SMALL&CHARMING 1717. WELLNESS RESIDENCE VILLA 1718. RESIDENCE VILLA AL SOLE 1719. HOTEL TRE CIME SESTO 1720. ALPENWELLNESSHOTEL ST.VEIT 1721. APARTMENTS RIEGA 1722. BERGHOTEL SEXTEN 1723. CIMA DODICI B&B 1724. FAMILY RESORT RAINER 1725. HOTEL ALPENBLICK 1726. HOTEL DOLOMITENHOF 1727. HOTEL MONIKA 1728. HOTEL MONTE CROCE 1729. BAD MOOS 1730. GRAND HOTEL SESTRIERE 1731. HOTEL CRISTALLO 1732. HOTEL IL FRAITEVINO 1733. HOTEL SHACKLETON MOUNTAIN 1734. PRINCIPI DI PIEMONTE 1735. ACTIVEHOTEL DIANA 1736. ARTNATUR DOLOMITES HOTEL 1737. HOTEL WALDRAST DOLOMITI 1738. MIRABELL ALPINE GARDEN 1739. NATUR RESIDENCE 1740. SCHWARZER ADLER 1741. SENSORIA DOLOMITES 1742. DOLMITES NATURE 1743. BAD RATZES 1744. HOTEL CEVEDALE 1745. PARADIES MOUNTAIN RESORT 1746. GRAND HOTEL DELLA POSTA 1747. GRAND HOTEL BRISTOL 1748. GRAND HOTEL DES ILES 1749. HOTEL ASTORIA 1750. HOTEL LA PALMA 1751. HOTEL MILAN SPERANZA 1752. HOTEL REGINA PALACE 1753. HOTEL EDELHOF 1754. HOTEL IL CERVO 1755. CURT DI CLEMENT ECO 1756. HOTEL CENTRALE 1757. HOTEL DOSSES 1758. ALPINHOTEL VAJOLET 1759. GRAND HOTEL TREMEZZO 1760. HOTEL LENNO 1761. ALBERGO ACCADEMIA  1762. BOUTIQUE EXCLUSIVE B&B 1763. GRAND HOTEL TRENTO 1764. HOTEL AMERICA 1765. HOTEL BUONCONSIGLIO 1766. BÄRENHOTEL 1767. BERGHOTEL HOTEL 1768. HOTEL CHRISTOPH 1769. KRONPLATZ-RESORT 1770. HOTEL DU LAC 1771. HOTEL ROYAL VICTORIA 1772. HOTEL VILLA CIPRESSI 1773. GRAND HOTEL MAJESTIC 1774. HOTEL ANCORA 1775. HOTEL BELVEDERE 1776. HOTEL PALLANZA 1777. GRAND HOTEL MIRAMONTI 1778. HOTEL DELLE ALPI 1779. HOTEL RESTAURANT LILIE 1780. WELLNESS PARADISE MOENA MOENA MOENA MONTEBELLUNA ITA ITA ITA ITA

Dovremmo parlare di corsa e inve ce parliamo di regole di mercato, di influencer, di brand. Parliamo di regolamenti, di organizzazioni, di federazioni, di squadre, di gare, di risultati, di allenamento, di atleti, di fotografi, di prezzi e non parliamo mai delle persone. La comunità ac quista un senso soltanto come busso la per leggere le tendenze di mercato, e per capire cosa funziona e cosa non funziona e cosa funzionerà domani. Parliamo di queste cose e non faccia mo realmente niente di significativo, niente per cui valga la pena vivere. Misuriamo il valore di una persona per le ore che passa dietro a una scri vania e per gli assegni che stacca, e vero niente. Correre 100 miglia serve

a ridimensionarsi, a capire che tutte queste cose non ti servono granché quando hai corso 100 chilometri e hai

vanti a te. Le uniche cose che contano sono un'aquila che vola, il cielo che brucia le montagne, l'azzurro di un lago, una canzone, una frase a metà, corta, smorzata. Questo genere di

Oh, it took 300 days for the timbers to beles around. And the gables reached as high as the eagles in the sky, but it only took one -

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