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HAT, Autunno-Inverno 2013, n. 58 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita

PERIODICO DI ARTE CULTURA E MODO DI VESTIRE ABBINATO AL CAPPELLO


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55. BIENNALE D’ARTE DI VENEZIA

L’EVENTO ENCICLOPEDICO DI GIONI di Anna Maria Novelli

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assimiliano Gioni, prescelto a organizzare la antropologico ed esoterico che valorizzava sogni, fol55esima Biennale Internazionale d’Arte di lie e bisogni trascendenti. Una scelta ambiziosa per Venezia, è critico brillante e curatore rampante (il una società globale in cui è ancora difficile accettare più giovane della storia dell’esposizione lagunare). le diversità. L’adozione di schede tecniche esplicative A 40 anni ha già diretto qualificate rassegne (dalla facilitavano la corretta fruizione delle opere da parte Biennale di Berlino a quella di Gwangiu) e si augudel pubblico desideroso di essere “illuminato”. ra che in futuro, con “Documenta” di Kassel, possa Gioni così sintetizzava il suo progetto: “[…] Il eguagliare il primato di Harald Szeemann (mitico Palazzo Enciclopedico emerge come una costruziopersonaggio svizzero, purtroppo scomparso precocene complessa ma fragile, un’architettura del pensiero mente). Ha iniziato la carriera scrivendo sulla rivista tanto fantastica quanto delirante. Dopo tutto, il mo“Flash Art” e per anni ha impersonato l’alter ego dello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desidel noto artista trasgressivo Maurizio Cattelan che derio impossibile di concentrare in un unico luogo lo aveva delegato a rispondere per lui alle interviste. gli infiniti mondi dell’arte contemporanea: un comDa tempo abita a New York e dal 2010 è Associate pito che oggi appare assurdo e inebriante quanto il Director presso il New Museum. Inoltre è direttore arsogno di Auriti”. tistico della Fondazione Nicola Trussardi di Milano. Foto con Marino Auriti accanto a Il Palazzo Enci- Questa Biennale, dislocata ai Giardini di Castello e Per allestire Il Palazzo Enciclopedico (così egli clopedico del mondo; 1950 ca, modello in materiali all’Arsenale (costata 13 milioni di euro per una duraha intitolato la Biennale veneziana) si è ispirato vari, cm 335 x 213 x 213 (courtesy American Folk Art ta di 6 mesi) ha richiamato pubblico da tutto il monall’opera dell’artista italo-americano Marino Auriti Museum di New York e Biennale di Venezia) do ed ha sorpreso per la qualità delle realizzazioni. (1891-1980) che - fuggito negli anni Trenta in USA dal natio Abruzzo per Proponeva ben 150 autori (alcuni anche scomparsi) dall’inizio del secolo scampare alle rappresaglie del fascismo - nel 1955 depositò presso l’uffiscorso ad oggi, provenienti da 37 nazioni. Gli italiani erano: Yuri Ancarani cio brevetti statunitense il progetto di un museo immaginario che avrebbe (video sulle operazioni chirurgiche robotizzate), Enrico Baj (quadri irodovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità con le più grandi scoperte del nico-ideologici ottenuti con materiali eterogenei), Gianfranco Baruchello genere umano (dalla ruota al satellite) in un edificio alto 136 piani da (La Grande Biblioteca già esposta in prestigiose sedi), Rossella Biscotti costruirsi nel Mall (cuore della città) di Washington. L’impresa non si con(strutture minimali realizzate con il compostaggio dei rifiuti del carcere cretizzò (anche perché il costo sarebbe stato di circa due miliardi di dollari femminile all’isola della Giudecca), Roberto Cuoghi (Belinda, imponente dell’epoca), ma dell’utopica costruzione, che nelle intenzioni avrebbe doscultura, ispirata da forme microbiche, che gli ha fatto guadagnare una vuto rafforzare la collaborazione e la pace tra le nazioni del pianeta, era menzione speciale della giuria), Enrico David (dipinti diafani, sculturine rimasto il modello poi donato da Colette Auriti Firmani all’American Folk totemiche e arazzi decorativi che alludevano ad allestimenti di musei etArt Museum di New York. nografici), Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (video che mette sotto L’esposizione di Gioni, dunque, ha avuto un carattere enciclopedico anaccusa l’ideologia nascosta in certi giochi per bambini apparentemente indando oltre gli abusati schemi curatorianocui), Domenico Gnoli (bestiario iperli: ampia più del solito, museale finché realista a tre dimensioni), Marisa Merz si vuole, ma anche propositiva giacché (raffinata, estrosa figurazione al fempresentava l’inedito per promuovere una minile, Leone d’Oro alla carriera insieconoscenza allargata della ricerca artistime con Maria Lassnig), l’attore e regista ca con pratiche piuttosto soggettive che, Marco Paolini (serie di monologhi e diin gran parte, non avevano mai trovato scussioni su oggetti e mestieri che stanno spazio nelle grandi kermesse. Parecchi scomparendo), Diego Perrone (sculture lavori mettevano in luce la straordinamarmoree con teste aggettanti, simili a ria manualità di artisti famosi e l’orimaschere posizionate su pali in riferiginalità di altri da scoprire; di outsider, mento a passate tradizioni popolari viste borderline e naïf (compresi ergastolani “attraverso la storia del design modernie presunti malati mentali). Quindi un Tino Sehgal, performance 2013 (courtesy Marian Goodman Gallery, New York- sta italiano”), Walter Pichler (scheletrica fare artistico più isolato in un approccio Parigi; Johnen Galerie, Berlino; Galerie Jan Mot, Bruxelles; ph L. Marucci) statua di ferro con tunica di organza,

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Ojeikere, dagli anni Sessanta e per decenni catalogatore degli aspetti culturali del suo Paese: oltre mille scatti di originali ed elaborate capigliature e turbanti di donne incontrate in più luoghi (sua l’immagine di copertina di questa rivista). Coinvolgenti i video di Ryan Trecartin (“corpi postumani e smaterializzati”) e di Camille Henrot (sui miti della creazione di diverse società - Leone d’Argento); invadenti le 90 sculture aliene di Pawel Althamer; iperrealistica la bionda “vergine” moderna di Charles Ray; misteriose le contaminate sculture lignee di Jimmie Durham, evocanti i feticci e i talismani messicani. Giocoso Paul McCarthy; incombenti le “palle” di Phillida Barlow; familiare l’installazione di Rosemarie Trockel con i resti di un’infanzia d’altri tempi; nostalgica la raccolta di dagherrotipi di Linda Fregni Nagler; sperimentali le stanze con i grafici di Matt Mullican; inquietanti le impetuose vedute marine di Thierry De Cordier. Mike Kelley si proponeva in veste di collezionista totale; Cindy Sherman con una mostra nella mostra (album di fotografie acquistati nei mercatini).

Roberto Cuoghi, Belinda, 2013, esemplare unico, polistirolo, sabbia granitica, ferro, cenere, 450 x 315 x 400 cm (courtesy l’Artista, ph L. Marucci)

in posa messianica e aspetto arcaico, come quelle di civiltà perdute), Carol Rama (aggressivi e ossessivi acquarelli che esibivano istinti primordiali). Ad aprire la mostra ai “Giardini” il Libro Rosso di Carl Gustav Jung, dove il famoso psicanalista per anni aveva appuntato le sue riflessioni graficoconcettuali; il calco del volto di Breton realizzato da René Iché; i quadri astratti di Hilma af Klint; le piccole, deliziose cento sculture in creta della coppia svizzera Fischli&Weiss. Procedendo si notavano, in particolare, le lavagne disegnate durante le conferenze dall’antropologo svizzero Rudolf Steiner (inventore dell’antroposofia); la polarizzante performance ideata dal giovane inglese Tino Sehgal (il massimo rappresentante dell’arte immateriale più avanzata; attivo a Londra e Berlino, giustamente premiato con il Leone d’Oro anche per riportare l’attenzione sulla produzione artistica più innovativa); i disegni su tessuto fatti con la macchina da cucire dalla moderna Penelope Geta Bratescu (una delle figure più in vista dell’avanguardia rumena degli anni Sessanta e Settanta); la panoramica collezione di casette in legno di Oliver Croy e Oliver Elser; il filmato di Artur ´ Zmijewski in cui dei non vedenti dipingevano il mondo ad occhi spenti; le visionarie pitture di Eugene Von Bruenchenhein; le tele dorate di James Lee Byars dedicate alla Filosofia e alla Morte; le immagini che la NASA inviò nello spazio ipotizzando contatti extraterrestri nel film di Steve McQueen. Gli spazi storici dell’Arsenale, a differenza delle altre edizioni, erano strutturati in modo da evitare un allestimento meno dispersivo e sembravano ospitare tante wunderkammer. Al centro della sala d’ingresso il modello del Palazzo di Auriti, circondato dalle foto del nigeriano J. D. Okhai

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Maria Lassnig, Mother nature, 1999, olio su tela, 147 x 206 cm (collezione de BruinHeijn; courtesy e supporto aggiuntivo di Hauser & Wirth Gallery, Zurigo-Londra-New York; ph L. Marucci)

Marisa Merz, Vicino, molto vicino, 2013, tecnica mista su carta, 250 x 250 cm ca (proprietà dell’Artista; courtesy Archivio Merz, Torino; ph L. Marucci)


Ai Weiwei, Bang, 2010-2013, 886 antichi sgabelli, 11 x 12 x 6,7 m. Veduta dell’installazione, Padiglione Germania (courtesy l’Artista e Gallery neigerriemschneider, Berlino; ph L. Marucci).

Apprezzabili anche l’inglese Ed Atkins, la vietnamita Danh Vo, il messicano Damián Ortega, il tedesco Otto Piene, gli statunitensi George Condo e Duane Hanson. Buon ultimi i maestri Bruce Nauman, Dieter Roth e Walter De Maria. All’esterno l’artista-musicista islandese Ragnar Kjartansson attirava l’attenzione con la performance (ogni giorno per la durata della mostra) attuata da un gruppo di suonatori su una barca circolante, che eseguivano un nostalgico brano per ottoni appositamente composto. Nell’insieme emergevano anche opere politicamente e socialmente impegnate, mai banali o deja vu. I Padiglioni nazionali erano ben 88 con 10 prime partecipazioni, tra cui l’Angola (Leone d’Oro) e la Santa Sede (debutto un po’ deludente). In ossequio all’autonomia delle singole nazioni, interessate a proporre la produzione migliore, le esposizioni straniere erano per lo più slegate dal progetto di Gioni. Primeggiavano: Cile (composita installazione di Alfredo Jaar criticamente relazionata alla sede centrale della Biennale); Libano (video autobiografico-sentimentale di Akram Zaatari); Cina (collettiva di sette artisti dalla pittura manuale a quella digitale); Gran Bretagna (rivisitazione di momenti della storia sociopolitica e culturale britannica da parte di Jeremy Deller); USA (complesse installazioni di Sarah Sze invase da “congegni” e piccoli oggetti); Spagna (Lara Almarcegui con una ricerca sulla storica isola di Murano e sull’area abbandonata di Sacca Mattia condotta attraverso i rifiuti solidi e gli scarichi dell’industria vetraria), Olanda (sculture d’arredo di Mark Manders, uno degli artisti più rappresentativi della sua Nazione); Polonia (opera musicale per campane dai ´ decibel assordanti ed altri oggetti sonori di Konrad Smolenski); Israele (riflessione “sulla Biennale come modello utopico della connettività delle nazioni” di Gilad Ratman); Belgio (allusivi grovigli di legno di Berlinde De Bruyckere); Giappone (Koki Tanaka: dal disastro dello tsunami e di Fukushima del 2011 alla metafora della ricostruzione). La Francia e la Germania (che si erano scambiati le sedi per festeggiare il 50esimo dell’amicizia franco-tedesca) ospitavano rispettivamente l’albanese (residente a Parigi) Anri Sala (filmato 1395 Days without Red, frutto di collaborazione con il compositore A. B. Meyers, che ricostruisce la vita quotidiana degli abitanti di Sarajevo durante l’assedio della città negli anni Novanta) e una collettiva con il cinese Ai Weiwei, il tedesco Romuald Karmakar, l’africano

Santu Mofokeng, l’indiana Dayanita Singh. Inconsistente la Svizzera; di difficile lettura l’Austria, solo scenograficamente appariscenti la Corea e la Russia. Veniva notata l’assenza dell’India che ha dato forfait per mancanza del necessario supporto da parte delle autorità governative. Bartolomeo Pietromarchi, curatore del Padiglione Italia, dopo la caotica edizione di due anni fa, aveva il compito di ridare dignità alla creatività del nostro Paese. È riuscito ad attuare un progetto, dal titolo vice versa, che ha evidenziato autorevolezza e originalità. 14 gli artisti tra maestri ed emergenti che dovevano relazionarsi in coppie: Luigi Ghirri-Luca Vitone (Il paesaggio), Fabio Mauri-Francesco Arena (La Storia), Pietro Golia-Sislej Xhafa (La dialettica tra tragedia e commedia), Marcello Maloberti- Flavio Fanelli (Le tradizioni), Giulio Paolini-Marco Tirelli (L’illusione), Massimo Bartolini-Francesca Grilli (La Libertà), Gianfranco Baruchello-Elisabetta Benassi (La tensione tra frammento e sistema). A conti fatti non tutti gli abbinamenti sono risultati ottimali, ma ciascun partecipante si è presentato in maniera più che dignitosa.

Marco Tirelli, Senza titolo, 2013 (veduta parziale), tecnica mista su carta, bronzo, legno, gesso, specchio, vetro, plastilina, creta, ottone e legno bruciato, disegni e sculture di dimensioni variabili (courtesy l’Artista e Giacomo Guidi Arte Contemporanea, Roma; ph Giorgio Benni). Oltre l’ingresso, la parte centrale dell’installazione di Giulio Paolini.

Fabio Mauri, Ideologia e Natura, 1973/2013, due momenti della riedizione della performance, Padiglione Italia (courtesy Archivio Mauri, ph L. Marucci)

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LA BIENNALE FUORI DI SÉ di Loretta Morelli

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a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia 2013 era affiancata da ben 48 eventi collaterali esterni ad essa, ma approvati dal curatore. Proponevano in palazzi antichi, gallerie e musei un’ampia offerta di partecipazioni che hanno arricchito il pluralismo di voci tipico dell’edizione di quest’anno. Al riguardo il Presidente Paolo Baratta ha tenuto a precisare: “Con questo si completa il numero di soggetti che fuori dai confini della Mostra sono presenti nella città di Venezia e che concorrono, insieme a un buon numero di Paesi partecipanti non dotati di padiglione all’interno dei Giardini e dell’Arsenale, a diffondere la 55. Esposizione facendola diventare un fenomeno urbano, tale da coinvolgere ogni angolo della città”. Diamo uno sguardo alle esposizioni risultate tra le più interessanti. Il critico d’arte Germano Celant, per la Fondazione Prada di cui è direttore, ha voluto ricostruire a Ca’ Corner della Regina (in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas) la leggendaria mostra When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, allestita da Harald Szeemann, considerato uno dei più innovativi curatori. La coraggiosa operazione ha posto più di un interrogativo: se la chiave di un cambiamento, la prospettiva di una visione nuova, l’audacia necessaria per operare uno spostamento si trovassero nel passato? Sicuramente è stato un modo anche didattico per rendere visibile, a chi non era presente, una rassegna che ha ridefinito i canoni museali di allora e dei decenni seguenti; una possibilità di riflessione e indagine critica con la riproposizione di ciò che fu, mantenendo le originarie connessioni visuali e formali. Vi erano esposte quasi tutte le opere originali (Boetti, Merz, Paolini, Anselmo, Andre, Oldenburg, Nauman, Hesse, Darboven, Ruthenbeck, Boezem, Tuttle), parecchie provenienti da importanti collezioni

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Adel Abdessemed, Décor, 2011-2012, filo spinato, particolare dell’opera. Esposizione Prima Materia, Punta della Dogana, 2013 (© l’Artista; ph © Palazzo Grassi ORCH orsenigo_chemollo).

Mario Merz, Se la forma scompare, la sua radice è eterna, 1982, tubo di metallo, rete metallica, neon. Esposizione Prima Materia, Punta della Dogana, 2013 (courtesy Archivio Merz, Torino; ph. L. Marucci).

Loris Gréaud, Does the angle between two walls have a happy ending?, 2013, materiali vari. Veduta dell’installazione appositamente realizzata per la mostra Prima Materia, Punta della Dogana 2013 (© l’Artista, courtesy Galerie Lambert, Parigi e The Pace Gallery, New York; ph L. Marucci).

private e musei internazionali. Gli interventi site-specific, sono stati riallestiti direttamente o in collaborazione con gli artisti e le loro fondazioni (Beuys, Buren, Calzolari, W. De Maria, Dibbets, Jacquet, Kosuth, Kounellis, LeWitt, Sonnier, Van Elk, Weiner, Zorio). Completavano l’esposizione fotografie, video, libri, lettere, oggetti effimeri e altri materiali originali provenienti dall’archivio di Szeemann. La Fondazione Pinault, a Punta della Dogana, ha presentato Prima Materia, titolo che i curatori Caroline Bourgeois e Michael Govan hanno tratto dai manuali alchemici del Medioevo a indicare una sostanza primordiale che sottende a tutti gli opposti cercando di conciliarli. Gli ambienti monumentali e luminosi hanno ospitato ottanta capolavori della collezione creata dal 1960 ad oggi dal magnate francese. Un intervento di grande respiro, un’indagine linguistica ed estetica che ha provato a far dialogare movimenti e singoli autori che furono e sono indiscussi protagonisti del contemporaneo. Loris Gréaud, Philippe Parremo e Theaster Gates hanno progettato in loco, mentre quasi la metà delle altre opere è stata esibita per la prima volta: installazioni di Diana Thater e Ryan Trecartin & Lizzie Fitch, realizzazioni di Adel Abdessemed, Lucio Fontana, David Hammons, Sherrie Levine, quelle di alcuni nomi illustri dell’Arte Povera (i tronchi disassemblati di Giuseppe Penone, gli igloo di Mario Merz, i componimenti intellettuali di Giulio Paolini) e i dipinti di Marlene Dumas, le sculture di Thomas Schütte, il cavallo imbalsamato di Maurizio Cattelan appeso al muro. Insomma un vero e proprio viaggio senza barriere e limiti nella storia dell’arte degli ultimi cinquant’anni. Parallel Convergences alla Casa dei Tre Oci (Giudecca) è stata organizzata dalla V-A-C Foundation (istituzione no-profit moscovita) che ha messo insieme per la prima volta Pawel Althamer e Anatoly Osmolovsky - uno polacco, l’altro russo -


entrambi appartenenti alla generazione formatasi nel passaggio decisivo al postcomunismo. Nonostante le diverse forme e tecniche adottate - che andavano dalla scultura all’installazione e al video, fino alle azioni più impegnate politicamente e alle forme più partecipative della loro pratica - il dialogo è risultato fluido, ha colto le differenze, le analogie e le sovrapposizioni riguardanti, in particolare, temi intorno all’idea di corpo e alla modalità di percezione. Di Althamer (Varsavia, 1967) è stata mostrata, nella sua versione completa, la serie di video più importante, So-called Waves and Other Phenomena of the Mind 2003-2004, otto schermi che proiettavano cortometraggi montati in collaborazione con l’artista polacco Artur Zmijewski e che documentavano esperimenti personali con una serie di sostanze (hashish, LSD, funghi allucinogeni) che alterano la mente, giungendo ad esplorare anche l’ipnosi e i diversi stati psicologici che ne derivano. Per Osmolovsky (Mosca, 1969) è stata pensata una mappatura di quanto prodotto con le tecniche utilizzate dai primi anni ‘90 fino ad ora. La maggior parte dei lavori è stata esposta raramente al di fuori della Russia e testimonia i suoi studi, in tempi non sospetti, sulla partecipazione collettiva per un’arte come strumento di protesta e rivoluzione sociale. Sempre la Fondazione Pinault ha messo a disposizione di un solo autore i 5.000 mq di Palazzo Grassi. Rudolf Stingel, artista di Merano, ha cambiato la fisionomia degli spazi rivestendo pavimenti e pareti con un tappeto stampato a motivi orientali. Si camminava a passi felpati. L’impressione di sconcerto innescava un processo di riflessione esaltato da una sorta di “topografia dell’inconscio”. I riferimenti storici erano molteplici: l’Oriente e la Venezia dei XV e XVI secolo; la Mitteleuropa di Sigmund Freud; lo studio di Vienna, ricco di tappeti, dove il padre della psicanalisi riceveva i suoi clienti. In questo contesto erano collocate alcune opere di Stingel: al primo piano i quadri astratti con i loro eleganti arabeschi, al secondo quelli di ispirazione altoatesina con altari e santi in legno; in posizione d’onore il ritratto dell’amico

Rudolf Stingel, Autoritratto, particolare dell’installazione a Palazzo Grassi (courtesy Palazzo Grassi, ph L. Marucci)

Alighiero Boetti, Tavelle, 1967, terracotta refrattaria, 6 x 110 x 110 cm (collezione privata, Milano), veduta dell’installazione della mostra When Attitudes Become Form: Berna 1969/Venezia 2013 a Palazzo Ca’ Corner della Regina, Venezia. Alla parete Mario Merz, Appoggiati, 1969, vetro e mastice, 8 elementi, dimensioni complessive 70 x 400 cm (collezione Merz, Torino; courtesy Fondazione Prada; ph. L. Marucci).

Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, Toiletpaper, TP0071, novembre 2011 (Damiani Editore), esposizione Unattained Landscape - Paesaggio Incompiuto a Palazzetto Tito (© degli Autori; courtesy Fondazione Bevilacqua La Masa e Japan Foundation)

Franz West (scomparso l’anno scorso); più defilato, all’ingresso, il suo autoritratto. Alla Fondazione Bevilacqua La Masa si è tenuta Unattained Landscape - Paesaggio Incompiuto, incentrata sulla cultura del Giappone e progettata insieme alla Japan Foundation. Personalità giapponesi e internazionali, per mezzo di vari linguaggi (arti visive, film, audio, performance, letteratura, manga e design), si sono ispirati alla contemporaneità del Paese sottolineando, ognuno a suo modo, la relazione con la tradizione e l’attualità di questa Nazione, anche per le incursioni in altre culture. Il progresso continuo e il succedersi veloce di scienza e arte, che si attuano in Giappone, hanno portato i creativi coinvolti ad analizzare da punti di vista diversi la complessità della società. L’esposizione è stata concepita come percorso aperto: passando da una stanza all’altra ci si immergeva nelle esperienze più disparate a sottolineare le diverse identità che, attraverso i media utilizzati, sono riuscite a restituire un messaggio articolato con sguardi altri e particolareggiati. Assai noti i nomi scelti dai curatori Didier Faustino, Akiko Miyake e Angela Vettese: Jim O’Rourke, Maurizio Cattelan & Pierpaolo Ferrari, Rirkrit ´ Tiravanija, Marina Abramovic, Tacita Dean, Hiroya Oku, Shuji Terayama, Tomoko Yoneda, Simon Fujiwara e Meiro Koizumi. Nell’isola della Giudecca, quartiere storico e popolare della laguna, presso gli Ex Birrifici Dreher, ha trovato attuazione il progetto in fieri di Federico Lager The Immigrants: collettiva di autori appartenenti a diverse generazioni e nazionalità che hanno riflettuto sulla potenza icastica e semantica della parola “migrante”, sulle sfumature di senso, sulla capacità di suggerire mondi diversi, invitare al viaggio, all’immaginazione di un futuro e alla possibilità di lasciarsi alle spalle le frontiere socio-politiche. L’esperimento si proponeva di rileggere i concetti di limite, barriera e appartenenza. Tra i partecipanti: Alighiero Boetti con 12 forme a partire dal 10 giugno 1967, primo suo lavoro dedicato alla geografia politica, spinto dalle continue notizie di focolai di guerra riportati dalle

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cronache; Franklin Evans, attraverso l’estesa installazione flatbedfactum02, che ha fuso in un unico ambiente avvolgente dipinti e modulazioni architettoniche fatte di nastri colorati, arricchite da una serie di fotografie che mescolavano tempo, memoria e materiale visivo in una struttura divenuta esperienza e virtualità insieme; Gianni Pettena con la serie di foto Wandering Through-USA 1971-73. The Curious Mr. Pettena pensate come taccuino di appunti, schizzi di viaggio sporchi e vissuti, spaccato di un’esperienza che ha influenzato notevolmente la sua produzione successiva. Santiago Sierra ha riproposto alcuni celebri spezzoni della serie Maiali che Marc Quinn, Alison Lapper Pregnant, 2013, h 11 m, (courtesy divorano la penisola Ellenica, Italica e Fondazione Cini, ph L. Marucci) Iberica, risultato di un ciclo di performance, iniziato nel 2012, che simboleggiano le entità finanziarie europee che stanno letteralmente mangiando territori reali. L’imponente ballon-sculpture Breath campeggiava sul sagrato della Chiesa di San Giorgio, nell’omonima isola, e introduceva prepotentemente alla personale di Marc Quinn, curata da Germano Celant, presso la Fondazione Cini. La statua gonfiabile era una reinterpretazione della scultura in marmo Allison Lapper Pregnant (2005) che occupava il quarto plinto in Trafalgar Square a Londra. La mutevole immagine della don- Omar Galliani, Princess Lyu Ji’s Dream, 2013, opera site-specific nella stanza na - nata con una deformazione agli arti e cinese del Caffè Florian, Venezia (courtesy Caffè Florian, ph L. Marucci) ritratta nella fase avanzata della gravidanza - ha aperto una delle retrospettive più ampie dedicate all’artista inglese. Oltre 50 opere, 15 delle quali presentate per la prima volta, hanno trasformato gli spazi in dimora della creatività, esplorando l’arte e la vita, la bellezza e la morte, la natura e la scienza, la conservazione e il corpo umano. Si passava dai Flesh Paintings ad olio (talmente verosimili da sembrare fotografie) a The Eye of History (sculture dorate di zombie o bianche di uomini e donne menomati, con gli occhi che catturavano le immagini del mondo) al celebre Self 2011, fatto con il sangue congelato dell’autore. Il cerchio si chiudeva con Evolution: su una piccola spiaggia di sassi neri in riva alla laguna compariva un insieme di dieci feti di ibridi-alieni in marmo, Roy Lichtenstein, Expressionist Head, 1980, bronzo dimateria “che cerca di generare vita, l’immopinto, 139,7 x 113,7 x 47,7 cm, edizione di sei esemplari, (courtesy Fondazioni Lichtenstein e Vedova) bile che riproduce il mobile”.

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A queste esposizioni ne vanno aggiunte altre che meritano almeno di essere menzionate. Le stanze del vetro. Fragile (sempre alla Fondazione Cini), selezionata raccolta con più di 30 prestigiosi autori che si sono espressi attraverso il vetro: Duchamp, Hirst, Beuys, Fabro, Kounellis, Rist, Kosuth, Gilbert & George, Richter… Ai Weiwei - poliedrico artista cinese dissidente, incarcerato dal governo perché rivendica il rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione - ha allestito (curatore Maurizio Bortolotti) Disposition con due grandi installazioni nella Chiesa di Sant’Antonin e nel Zuecca Project Space. Nella prima erano posti sei parallelepipedi di metallo grezzo nei quali si potevano vedere scene di vita dell’artista in carcere; nell’altro 150 tonnellate di tondini di ferro, versione riveduta di un precedente lavoro con barre di armature recuperate dalle scuole distrutte del Sichuan durante il terremoto del 2008. La collettiva Future Generation. Art Prize @ Venezia ospitava a Palazzo Contarini-Polignac le ultime esperienze di una nuova generazione di artisti di varie nazionalità, tra cui la libanese Marwa Arsanios, le italiane Micol Assaël e Meris Angioletti, la ceca Eva Kotatkova, l’argentina Amalia Pica, l’iraniana Tala Madani, i gruppi Joao M. Gusmao + Pedro Paiva (Portogallo). Il Caffé Florian era nobilitato dall’esperto linguaggio grafico-pittorico di Omar Galliani con Princess Lyu Ji’s Dream. L’elegante Palazzo Falier era invaso, dalle pareti ai pavimenti, dalle installazioni del portoghese Pedro Cabrita Reis. A Ca’ Pesaro la Sonnabend Collection (a cura di Gabriella Belli) riproponeva opere di maestri per lo più newyorchesi (Serra, Koons e i popartisti storici), per finire con gli italiani Anselmo, Schifano, Zorio e lavori fotografici recenti di Candida Hofer, Clay Setter e Lawrence Bech. La Fondazione Vedova ai Magazzini del Sale abbinava Emilio Vedova … Cosiddetti Carnevali… e 45 opere di Roy Lichtenstein Sculptor che esploravano la terza dimensione associandola alla pittura.


55. BIENNALE D’ARTE DI VENEZIA L’EVENTO ENCICLOPEDICO DI GIONI di A. M. Novelli - pag. 3 LA BIENNALE FUORI DI SÉ di L. Morelli - pag. 6 BASILEA CAPUT MUNDI DELL’ARTE di A. M. Novelli - pag. 12 SETTIMANA DELL’ARTE A LONDRA di A. M. Novelli - pag. 15

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Inaugurato a Trento il MUSE di Renzo Piano di L. Chiumenti - pag. 19

Periodico di arte, cultura e modo di vestire abbinato al cappello edito da HAT - Via Fontecorata, 4 63834 Massa Fermana (FM) IT Tel. +39 0734 760099 serafini.renato@libero.it

LUOGHI DELL’ARTE MARIJKE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE di M. C. Crespo - pag. 20 Il Museo “Guelfo” in mostra di S. Severi - pag. 22

La direzione non risponde del contenuto degli articoli che sono di responsabilità degli autori.

GIULIANO GIULIANI TRA MATERIALITÀ E SACRALITÀ di L. Marucci - pag. 26

Anno XVIII numero 58 Autunno - Inverno 2013 Reg. Trib. di Fermo n. 4 del 04/03/1992

Il cappello nella Massoneria e i suoi simboli di R. Signoretti - pag. 30 CARLO PACI MEMORIE INEDITE: gli anni della rinascita di L. Marucci - pag. 32

Direttore Responsabile Stefania Severi Capo Redattore Maria Alessandra Ferrari alessandra_ferrari@tiscali.it

Emilio Greco La vitalità della scultura di S. Severi - pag. 40

Segretario di Redazione Ruggero Signoretti

RACCOSTA di N. Anibaldi - pag. 44 Salvadanai d’Autore Il mestiere dello scultore di N. Anibaldi - pag. 46

Stampa Manservigi – Monsano (AN) Redazione fotografica Archivio HAT

SEMPLICITÀ ED ELEGANZA DI UN COPRICAPO ESTIVO di G. R. Serafini - pag. 48

Hanno scritto in questo numero: Nanda Anibaldi Giulia Bruno Luisa Chiumenti Maria Cristina Crespo Maria Alessandra Ferrari Luciana Grillo Luciano Marucci Loretta Morelli Anna Maria Novelli Paolo Peretti Giuseppe R. Serafini Stefania Severi Ruggero Signoretti

Intervista all’Italian Saxophone Quartet di M. A. Ferrari - pag. 50 TALENTI PER LA MUSICA IN CONCORSO A FIRENZE di L. Grillo - pag. 53 CAPPELLI TUTTI A MANO di G. Bruno - pag. 54 ASCOLI PICENO FESTIVAL ALLA RIBALTA di L. Marucci - pag. 56 Maria Vittoria Maresca… fa sempre Bang! di S. Severi - pag. 62

In alto l’immagine di copertina: J. D. Okhai Ojeikere, Aja Nloso Family, 1980, stampa alla gelatina d’argento, 50 x 60 cm [courtesy André Magnin (MAGNIN-A), Parigi; con il supporto di Institut Français e A. Magnin]. A seguire altri scatti dello stesso autore.

www.hatmagazine.it www.museodelcappello.it

Le opere fotografiche sopra riprodotte, oltre all’abilità dell’artista che le ha ‘documentate’ ed esposte nella sezione internazionale “Il Palazzo Enciclopedico” della 55esima Biennale di Venezia, esibiscono la fantasia e l’innato gusto ornamentale delle donne di colore. Le acconciature - originali ed eleganti - per certi aspetti sostituiscono i cappelli dell’alta moda occidentale e consentono di mantenere l’identità africana. Nel materializzare il linguaggio del corpo, assumono forme scultoree umane, quasi monumentali.

La Cina è vicina… e la SUA pittura lo è ancora di più di S. Severi - pag. 68 PER UN VERDI DI... MARCA di P. Peretti - pag. 70 Corciano, il suo Festival e il grande Perugino di R. Signoretti - pag. 74 Memorie di viaggio LE IDENTITÀ (DIS)PERSE DEL SUDAFRICA di A. M. Novelli e L. Marucci - pag. 76

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di Nanda Anibaldi

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a Grecia dell’Attica ha il privilegio di averla creata e sperimentata. O meglio la Grecia di Atene e delle poleis filo-ateniesi. Anche se un fenomeno isolato nel tempo e nello spazio e storicamente breve, è stato il primo seme. Ma non bisogna credere che fosse un governo di popolo come lo intendiamo noi oggi. All’origine era solo del popolo del demos cioè della parte che si dedicava ad attività marittimo-mercantili in quella piccola circoscrizione territoriale. Talassocrazia. Anche se nel prosieguo, da Solone a Pericle ha subito una grossa evoluzione passando per Clistene ed Efialte, le donne i meteci gli xenos e gli schiavi ne furono esclusi. Solo in età ellenistica la donna può vantare delle rappresentanze in campo politico. La riflessione filosofica del V-IV sec. fu molto severa nei confronti della democrazia. Platone l’avversò. In quanto assume in maniera del tutto ingiustificata l’uguaglianza degli uomini e rinuncia programmaticamente al principio di competenza. L’occidente ha fatto una lunga esperienza di democrazia (l’Italia l’ha sperimenta da quasi 70 anni) che è pur sempre una forma di governo imperfetta perché poggia su equilibri delicati e instabili in quanto è l’espressione di una maggioranza e non di un’unanimità. Non è qualcosa che ci viene dato ma qualcosa che dobbiamo progettare creare costruire conquistare (talvolta in modo cruento) e che dobbiamo perfezionare e proteggere ogni giorno. Ha l’identikit del popolo che la crea e del suolo dove nasce. Non può essere esportata. Ne è la dimostrazione la difficoltà di attecchimento dove si è manifestata la cosiddetta primavera araba. Da Damasco a Bengasi. Dal 2010 ad oggi. La situazione è ancora molto fluida specialmente nelle zone di guerra (Siria) e di difficile composizione negoziale. La democrazia in quelle aree, se così sarà, si dovrà strutturare tenendo conto delle etnie e culture miste. Quella primavera sarà una stagione lunga superando il presagio che sia senza fine proprio per le difficoltà di transazione. Da Platone a J. Stuart Mill a Paul Ginsborg un fil rouge. Rispetto a

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Platone per Mill è la migliore forma di governo, tuttavia bisogna vigilarla contro l’immobilismo la stagnazione e il declino per evitare che si trasformi in una “mediocrazia” che tiene conto solo della forza del numero e non del merito. Sulla vulnerabilità è d’accordo anche Ginsborg in “La Democrazia che non c’è”. Per rivitalizzarla oggi è necessario connettere “Rappresentanza e Partecipazione - Economia e Politica - Famiglia e Istituzioni”. Il sistema delle Connessioni - sostiene Ginsborg - evita il distacco da parte dei cittadini e l’abuso di interessi individuali e di Corporazioni. Che può tradursi anche in interessi di partiti o - peggio ancora - di correnti che entrano e escono da finestre aperte. I governi di tutte le democrazie dovrebbero governare nell’interesse dei cittadini senza esclusione, proteggere le fasce più deboli e con la partecipazione più diretta di chi l’ha espressa. Sentirne il polso, le fibrillazioni per attivare terapie mirate ed efficaci. Noi da qualche anno, e specialmente in questi ultimi mesi, ci siamo mossi con governi ad usum. Con governi fantasma e per materializzare il fantasma abbiamo creato l’hybris dove c’è stato spazio per il tergiversare per temporeggiare per l’Aventino. Con la consapevolezza di prendere tempo per spostare i problemi. Una sorta di tela di Penelope nei confronti degli elettori che non possono non sentirsi lesi nella loro dignità. Temporeggiare può essere una virtù in una visione strategica sapiente per sorprendere e colpire il nemico, ma quando temporeggiare significa perdere del tempo prezioso allora non è più una virtù ma una colpa. Siamo caduti in una stagnazione di cui si parlava e bene sarebbe che non si vada verso una degenerazione che i migliori pensatori in epoche diverse hanno visto e vedono come il pericolo della democrazia che deve sempre cercare l’unità nella differenza e la ricomposizione nelle divisioni. Chissà se il cappello può accordare tutti? Omologare come una divisa? Cappello-caput. Il suo riferimento è dove alloggia il pensiero. Un punto di osservazione privilegiato ma molto pericoloso. “Quot

capita tot sententiae”.



BASILEA CAPUT MUNDI DELL’ARTE di Anna Maria Novelli

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rtBasel, la più qualificata fiera dell’arte al mondo - definita dal New York Times “le Olimpiadi dell’Arte” - ha la casa madre in Svizzera. Si tiene a giugno di ogni anno ed è giunta alla 44esima edizione. Basilea, con i suoi musei, i teatri, i concerti, l’antico centro storico, il panorama godibile dai ponti sul Reno e gli edifici avveniristici di famosi architetti, è una delle capitali della cultura più frequentate. Dal 2002 Art Basel si sposta a New York, mostrandosi in dicembre a Miami Beach e, dal 2012, anche se in formato ridotto, va pure a Hong Kong. Un moderno ed efficiente Media Center permette ai giornalisti accreditati di accedere gratuitamente alle mostre, di avere ogni giorno la documentazione aggiornata, la postazione internet e - per i corrispondenti di quotidiani, radio e televisioni - quella per trasmettere articoli e immagini. L’ultima Fiera ha offerto quanto di meglio si potesse attendere: 304 gallerie internazionali di prim’ordine provenienti da 39 paesi di 5 continenti (selezionate tra oltre 1.000 candidature da una giuria di rinomati galleristi); circa 4.000 artisti; 65.000 visitatori paganti. 17 le gallerie italiane: Invernizzi, Tucci Russo, Magazzino, Noero, Zero, dello Scudo, Kaufmann-Repetto, Vistamare (esordiente), Stein (uno degli stand di maggior richiamo), Tega, Artiaco, Massimo Minini, De Carlo, Giò Marconi, Continua, Raucci / Santamaria. Art Galleries (allestita nella sede centrale) ha mostrato opere esteticamente meno scontate. Hanno

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La nuova costruzione per ArtBasel, opera degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron (ph. L. Marucci)

Piotr Uklanski, Senza titolo (Spalancato), 2012, colorante per fibra su stoffe di juta e canapa ossidate, imbottitura di poliestere, 650 x 1067 cm (ArtBasel, sezione Unlimited; courtesy Gallerie Massimo De Carlo, Milano e Gagosian, New York; ph L. Marucci)

Walid Raad, Vedute da scomparti esterni verso gli interni, 2010-2011, installazione con strutture di legno dipinto a gesso e proiezione video in HD (ArtBasel, sezione Unlimited; courtesy Gallerie Paula Cooper, New York e Sfeir-Semler, Beirut; ph L. Marucci)

dominato quelle politicamente impegnate e avuto più visibilità gli artisti delle zone conflittuali come l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia. Il numero degli stand (soprattutto di area asiatica) è aumentato, tanto da richiedere la costruzione di un moderno annesso, attuato a tempo di record su ideazione degli architetti Herzog & de Meuron. Davano lustro all’Italia i rappresentanti dell’Arte Povera (Fabro, Kounellis, Pistoletto, Boetti, Calzolari, Penone); i transavanguardisti (Paladino, Cucchi, Clemente e N. De Maria); Pizzi Cannella e Tirelli della Nuova Scuola di Roma. E Munari, Melotti, Baruchello, Castellani, Bonalumi, Alviani, oltre ai più giovani Bartolini, Pessoli e Benassi. Unlimited, più coinvolgente del solito, includeva 79 progetti over size di respiro museale e di forte impatto visivo, realizzati da artistar internazionali e da emergenti in ascesa. Qualche nome tra i maestri: Martin Creed, Kader Attia, Thomas Demand, Oscar Tuazon, Carl Andre, Lygia Clark, Ai Weiwei, Antony Gormley, Susan Hiller, Thomas Shütte, Matt Mullican (suo il più grande dipinto mai esposto), Miroslaw Balka, Walid Raad, Theaster Gates, Alfredo Jaar, Roni Horn, Günther Förg, Sean Scully, Piotr Uklanski e i nostri Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Mario Merz. Tra le nuove leve meritano di essere segnalate: Meschac Gaba, Esther Kläs, Oscar Murillo, Amalia Pica. Tralasciando le sezioni Art Statements e Art Feature, che non offrivano un panorama esaltante


Pablo Bronstein, Marie Antoinette e Robespierre impegnati in una irritata conversazione post-coitale, performance con impianto scenico, 2013, dimensioni variabili (ArtBasel, sezione Art Galleries; courtesy Herald St. Gallery, Londra; ph L. Marucci)

degno di competere con il resto, è il caso di soffermarci su Art Parcours, curata da Florence Derieux, con 17 prestigiose installazioni per lo più sitespecific, adatte al luogo di ubicazione, questa volta il quartiere Klingental, il più culturale e creativo della città. Si facevano notare Marina Abramovic,´ Sterling Ruby, M. Craig Martin, Olaf Breuning, Danh Vo, Martin Walde, Lisa Oppenheim. Completavano il programma: conferenze, focusing su più argomenti, incontri con artisti e galleristi, proiezioni di film di e su personalità del mondo dell’arte. Per ArtBasel vengono attivati anche i musei cittadini e altri spazi. Innanzitutto le fiere satelliti che nel tempo sono cresciute. La più visitata è ancora Liste (ubicata in una labirintica fabbrica dismessa di vari piani) con tante gallerie giovani che spesso, però, non offrono proposte

Kohei Nawa, Cervo in PixCell (Mica), 2013, materiali vari, 254,7 215,5 x 189 cm (ArtBasel, sezione Unlimited; courtesy SCAI The Bathouse, Tokyo; ph L. Marucci)

Jannis Kounellis, Berlino 2012, 52 macchine da cucire, sacchi con carbone, prime pagine di 31 giornali parzialmente coperte con pezzi di stoffa cuciti su di esse, (diam) 200 x (h) 100 cm (ArtBasel, sezione Art Galleries; courtesy Kewenig Galerie, Colonia / Berlino; ph L. Marucci)

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entusiasmanti. Poi c’è Scope, che ha il vantaggio di essere abbastanza vicino a Messeplatz. Volta e Solo Project, invece, sono così lontane da scoraggiare ma, tra tante opere scontate, si può trovare qualche piacevole sorpresa. Nel tempo, purtroppo, stanno perdendo interesse, perché il pubblico, nei quattro giorni di apertura della Fiera, privilegia le esposizioni più significative allestite nei musei. La Fondazione Beyeler (situata in territorio tedesco), per l’annuale abbinamento tra un artista storico e uno contemporaneo, aveva presentato un’ampia e selezionata retrospettiva di Max Ernst associata a un’unica, rappresentativa opera di Maurizio Cattelan, Kaputt, inquietante versione ispirata a Untitled del 2007 (con un solo cavallo), formata da cinque stalloni tassidermizzati con la testa conficcata nel muro. L’artista, tra i più controversi del momento, spesso propone figure umane o animali in situazioni estreme (scolari impiccati a un albero, Papa Wojtyla colpito da un meteorite…) e commenta con humour e spirito critico gli accadimenti esistenziali e le contraddizioni sociali (vedi la scultura con il dito medio alzato davanti al Palazzo della Borsa di Milano). Per l’inaugurazione era stata organizzata una conversazione tra i critici Francesco Bonami e Massimiliano Gioni, i quali hanno raccontato la loro relazione di lavoro e di amicizia con lui, evidenziandone anche i comportamenti trasgressivi. In quella sede è stata esibita una raccolta della rivista di sole immagini Toiletpaper che egli da qualche anno pubblica insieme con il fotografo Pierpaolo Ferrari. Lo Schaulager Museum, dopo i lavori di restauro, ha riaperto con un’antologica “totale” dei video dell’inglese Steve McQueen: da Bear del 1993 (duello tra due attori) al recente Hunger (prigionia e morte dell’attivista politico Bobby Sands), premiato nel 2008 a Cannes. La Kunsthalle ha dedicato le sue mostre temporanee a Michel Auder con film e video che rivisitavano la sua attività di cameraman e regista; alla polacca Paulina Olowska che in Pavilionesque giocava sulla leggerezza della farfalla e del “fragile” padiglione in legno da lei realizzato; al collettivo messicano Torcerunquinto che in uno spazio pubblico esterno aveva lanciato un messaggio concettuale con Graffiti. Il Kunstmuseum ha puntato su The Picassos are here (opere poco conosciute del più grande artista del Novecento) e sull’americano Edward Ruscha con 60 tra foto e disegni realizzati nel 1965 su Los Angeles Apartments. Nel suggestivo Museo Tinguely, progettato da Mario Botta, esponeva la lituana (residente a New York) Zilvinas Kempinas con le sue installazioni fatte di materiali inusuali, soprattutto nastri magnetici svolti. Il Vitra Museum (struttura del californiano Frank Gehry), tra i più importanti a livello internazionale per il design, ospitava Archizines, progetto itinerante di 90 pubblicazioni che indagavano architettura e design anche di luoghi remoti come Tanzania, Cina e Cile. ArtBasel, dunque, non è solo un appuntamento riservato al mercato dell’arte, ma fa conoscere gli sviluppi delle più propositive ricerche. È museo panoramico vitale, aggiornato in diretta; un imprescindibile richiamo per addetti ai lavori e appassionati, perché ogni volta presenta cose interessanti.

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I critici d’arte Massimiliano Gioni (sx) e Francesco Bonami davanti all’opera di Maurizio Cattelan, Kaputt, 2013, Fondation Beyeler, Riehen/Basel (courtesy Fondation Beyeler, ph L. Marucci)

ArtBasel Conversations 2013, The Artist as Farmer (da sinistra): l’artista Gianfranco Baruchello, il curatore svizzero Hans Ulrich Obrist, gli artisti Fritz Haeg, Adrián Villar Rojas, Zheng Guogu e la regista francese Agnés Varda (ph L. Marucci)

Shakuntala Kulkarni, Di corpi, armature e gabbie, 2010-2012, struttura di canne intrecciate, 203.2 x 170 x 170 cm (ArtBasel, sezione Unlimited; courtesy Chemould Gallery, Mumbai; ph L. Marucci)


SETTIMANA DELL’ARTE A LONDRA di Anna Maria Novelli

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Londra la settimana tra il 14 e il 20 ottobre era caratterizzata da eventi che hanno richiamato appassionati, critici d’arte, collezionisti e manager dell’investimento da tutto il mondo. Frieze Art Fair, che anima un angolo di Regent’s Park, era l’appuntamento principe. Attiva da 11 anni, si è qualificata sempre più assumendo l’identità di una fiera seriamente selezionata, tanto da meritare uno spazio di prestigio anche a New York dove dal 2012 si sposta ogni mese di maggio. La sede centrale si configurava come una vasta collettiva di sicuro interesse culturale che faceva dimenticare l’aspetto mercantile. Negli stand erano esibite opere di indubbia qualità e spesso inedite, dei più grandi artisti di varie generazioni. Le gallerie (152 di 30 paesi) hanno fatto a gara per imporle all’attenzione. Qualche nome tra le migliori: Bonakdar, Gagosian, Goodman, Hauser & Wirth, Herald St, Lisson, Lehman Maupin, Perrotin, Stevenson, White Cube, Zwirner. Poche, purtroppo, le italiane: De Carlo, Marconi, Noero, Raucci/ Santamaria. A questo settore si aggiungeva Focus (gallerie operanti da almeno un decennio), Frame (gallerie con personali di autori da lanciare), Frieze

Scultura di Jeff Koons (Gagosian Gallery, New York; courtesy Frieze Art Fair; ph L. Marucci)

Takashi Murakami, Naked Self-Portrait with POM, 2013 (Galerie Perrotin, Parigi; courtesy Frieze Art Fair, ph L. Marucci)

Mescha Gaba, vista dell’installazione alla Stevenson Gallery di Cape Town-Johannesburg (courtesy Frieze Art Fair; ph L. Marucci)

Projects (sette stand site-specific tra cui Family Space con l’artista Angelo Plessas che coinvolgeva in performance pedagogiche, giochi creativi e screening perfino ragazzi sopra i 12 anni e intere famiglie) e Sculpture Park, lungo un godibile percorso tra il verde, questa volta con ben 21 installazioni. Particolarmente ammirate quelle di Yinka Shonibare, Elmgreen & Dragset, Oscar Murillo, Amar Kanwar, Jaume Pensa, Helen Chadwick. Da due anni è stata creata anche la sezione Masters (location a 15 minuti a piedi o raggiungibile con shuttle bus), più dichiaratamente rivolta al mercato con opere di tutte le epoche a partire da reperti romani e manufatti esotici, passando per i dipinti del Rinascimento e via via fino alle creazioni del 2000, rappresentativi di autori e movimenti che hanno fatto la storia dell’arte moderna e contemporanea. Tra le fiere satelliti, inattesa la 1:54 Contemporary African Art Fair, la prima interamente dedicata all’arte africana odierna, ordinata nella degna cornice di Somerset House (in pieno centro città). 18 gallerie soprattutto dell’Africa, ma anche di Londra, Parigi, Seattle e Italia (“Continua” di San Gimignano e

Jennifer Rubell, Portrait of the Artist [con visitatore (bambino) incorporato], 2013 (courtesy S. Friedman Gallery, Londra e Frieze Art Fair, ph L. Marucci)

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“A Palazzo” di Brescia) che, tra l’altro, hanno puntato su opere di Edson Chagas (Angola) e di J. D. Okhai Ojeikere (Nigeria), saliti alla ribalta all’ultima Biennale di Venezia; Malik Sidibé (Mali); Frédéric Bruly Bouabré (Costa d’Avorio), Chéri Samba (Congo), Aboudia (Costa d’Avorio), Mescha Gaba e Romual Hazoumé (entrambi del Benin). Alcune conversazioni con importanti interlocutori hanno fatto il punto sulle problematiche e le prospettive dell’arte africana nel continente nero e fuori. Le manifestazioni a latere di maggiore risonanza si sono avute presso la Serpentine Gallery, che offriva più di una novità, a cominciare dalla recente acquisizione della Serpentine Sackler Gallery (ex polveriera abbandonata del 1800 poco distante dalla vecchia sede), magnificamente adattata dall’architetto Zaha Hadid (indiana con studio a Londra, ben conosciuta in Italia per il MAXXI) che a fianco ha fatto edificare una aerodinamica, moderna struttura bianca, dalle forme che armonizzavano con l’ambiente naturale, adibita a incontri, conferenze e a punto di ristoro. Per la mostra inaugurale è stata allestita una coinvolgente installazione site-specific dell’argentino Adrián Villar Rojas (Rosario 1980), messosi in evidenza due anni fa con grandi sculture nel Padiglione Argentina della Biennale di Venezia e all’ultima Documenta di Kassel. Per l’occasione egli ha re-immaginato il luogo espositivo come “museo”: negli scaffali erano assemblati manufatti artistici in creta e altri materiali, resti in apparenza fossilizzati. All’ingresso un ironico elefante d’argilla screpolata tentava di sollevare

Yinka Shonibare, Wind Sculpture 1, 2013, sezione Sculpture Park (courtesy S. Friedman Gallery, Londra e Frieze Art Fair; ph L. Marucci)

Jean Michel Basquiat, senza titolo, opera su carta, Dominique Lévy Gallery, New York, sezione Masters (courtesy Frieze Art Fair, ph L. Marucci)

La nuova costruzione progettata da Zaha Hadid adiacente la Serpentine Sackler Gallery (courtesy Serpentine Gallery, ph L. Marucci)

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una trave portante dello stabile. Il tutto su un vasto pavimento di mattoni non cementati che ‘tintinnavano’ al passaggio dei visitatori. L’autore ha definito i suoi lavori “monumenti a una memoria senza nome”, “ultime opere d’arte dell’umanità”. Nello spazio attiguo si è svolta 89plus Marathon, l’ottava maratona dell’arte riservata ai creativi nati dopo la caduta del muro di Berlino (appunto il 1989), curata da Hans Ulrich Obrist e dal giovane statunitense Simon Castets. Due intense giornate con esperti di nazionalità e ambiti disciplinari diversi. Tra gli altri sono intervenuti: la famosa coppia di artisti inglesi Gilbert & George, il matematico dell’Università di Oxford Markus Du Sautoy, lo scrittore canadese Douglas Coupland, gli artisti Olafur Eliasson (danese) e Carsten Höller (svedese), il critico e curatore statunitense Kevin McGarry, la già citata Hadid. Ovviamente non mancavano gli operatori visuali delle ultime generazioni che presentavano la loro produzione con l’ausilio di proiezioni. In programma anche la proclamazione dei vincitori del Re Rebaudengo Serpentine Grants: un nuovo premio per giovani artisti. La giuria internazionale - di cui facevano parte anche Francesco Bonami, Eugenio e Patrizia Re Rebaudengo nonché Julia Peyton-Jones e Hans Ulrich Obrist - ha scelto Riccardo Paratore (nome italiano, ma nazionalità tedesca, classe 1990) con il video Belonging. Il popolo del web, invece, ha selezionato il duo americano Nico Karamyan (1992) e Tierney Finster (1991) per il video Can We Talk. Menzioni speciali per il sudafricano Haroon Gunn-Salie (1989), lo statunitense Jasper

Adrián Villa Rojas, Today we reboot the Placet (“Oggi riavviamo il nostro Pianeta”), 2013, vista parziale dell’installazione alla Serpentine Sackler Gallery, Londra (courtesy Serpentine Gallery, ph L. Marucci)


Spicero (1990) e l’argentina Amalia Ulman (1989). A ciascuno dei premiati sono andati 15mila euro per la produzione di opere che verranno esposte alla Fondazione Sandretto Re Rebaudendo nei giorni della Fiera Artissima di Torino. La presidente Sandretto ha tenuto una motivata relazione sull’iniziativa. Presso la sede istituzionale della “Serpentine” è stato reso omaggio alla nostra Marisa Merz (Leone d’Oro alla carriera alla 55esima Biennale d’Arte di Venezia). La retrospettiva ha permesso di conoscere una selezione delle sue opere pittoriche e tridimensionali dal 1960 ad oggi realizzate con tecniche artigianali e materiali domestici - che ha evidenziato la sensibilità e la raffinatezza dell’artista la quale ha operato (unica donna) nell’ambiente torinese in cui si era formata e sviluppata l’Arte Povera. Dal 2000, la “Serpentine” invita un architetto di fama mondiale a ideare un padiglione temporaneo per lo spazio antistante la

89Plus Marathon. Il matematico Markus du Sautoy in conversazione con l’allievo John Pardon (courtesy Serpentine Gallery, ph L. Marucci).

Marisa Merz, Pink and Yellow (Rosa e Giallo), non datato, materiali vari e supporto di ferro, 184 x 148 cm (© Marisa Merz, courtesy Serpentine Gallery, Londra)

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo illustra l’attività della Fondazione che presiede e le finalità del Premio

propria ala est. L’evento costituisce un’importante occasione di sperimentazione architettonica che attrae, nella stagione estiva, più di 300.000 visitatori. Quest’anno l’archistar Sou Fujimoto ha progettato una suggestiva, originale, trasparente costruzione con elementi modulari in metallo bianco e cristallo, agibile al suo interno, che interagiva con lo spazio circostante configurandosi come una nuvola. Un’area del Victoria & Albert Museum, dove sono custodite secolari testimonianze artistiche, era stata contaminata da Tomorrow, esposizione del duo Elmgreen & Dragset, che ha dialettizzato con gli spazi, le opere e gli arredi dell’antichità dando sfoggio all’abituale spirito trasgressivo, ludico-surreale. Solo grazie a queste componenti identitarie i visitatori riuscivano a individuare alcune loro combinazioni più mimetizzate. Ingresso libero, ma severamente vietato fotografare…

Sou Fujimoto, padiglione temporaneo 2013 per la Serpentine Gallery, Kensington Gardens in Hyde Park, Londra (courtesy Serpentine Gallery, ph Iwan Baan)

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atelier@vittoriocamaiani.it C.da Sole, 12/16 63020 MONTAPPONE (AP) Tel. 0734.760541 info@jommidemetrio.com

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Inaugurato a Trento il MUSE di Renzo Piano di Luisa Chiumenti

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l Muse, progettato a Trento dall’architetto Renzo Piano - di recente nominato dal Capo dello Stato senatore a vita, per i suoi grandi meriti professionali ed artistici - ha in sé tutti gli elementi più significativi di evoluzione, ambiente, innovazione, biodiversità, sperimentazione, che hanno fatto ottenere al complesso la medaglia d’oro per l’Energia. La città e l’intera regione si è unita ai numerosissimi ospiti nel partecipare con entusiasmo, come ad una grande festa trentina, a tutti gli eventi culturali legati all’inaugurazione di una mostra d’artista che ha portato le sue creazioni proprio accanto al primo accesso alla città, ossia la stazione ferroviaria. Si tratta dell’esposizione dal titolo: “Cowman of the world: Luminita Taranu”. L’artista, ispirandosi all’unione tra l’uomo e la natura su cui è impegnato l’intero spirito del Muse, ha lavorato sul concetto di evoluzione, Cowman appunto, insito nello stadio evolutivo dell’Uomomucca, “icona della fusione tra la mucca e il corpo umano, simbolo dell’unione tra natura e civiltà”. Il Muse di Renzo Piano La metamorfosi si è poi avviata verso una mutazione, che si è diffusa in vari continenti, fino a costituire diverse popolazioni; prototipo ideale di un nuovo essere, protagonista del futuro, necessario per ristabilire l’equilibrio sulla nostra terra. Sulla linea di una completa interazione fra scienza, natura e società, il nuovo Museo delle Scienze di Trento ha in effetti trasformato completamente l’idea fino ad ora legata ad un edificio museale di tale tipo, piuttosto chiuso e fermo in un allestimento tradizionale organizzato per teche e vetrine. L’edificio di Renzo Piano è infatti sorto all’insegna della luminosità, della trasparenza, aperto, accessibile e completamente sostenibile, con un basso consumo d’energia, essendo in grado di produrne attraverso un sistema di pannelli solari e pozzi geotermici che scendono a cento metri di profondità. Uno spazio di 19 mila metri quadri che richiama nel profilo i monti circostanti e all’interno quanto attiene alla molteplice e unica natura delle Alpi tridentiInterno del Museo ne mediante la fitta rete di immagini e materiale documentario anche su principi di tecnologie green. Il tutto con laboratori informativi o creativi, ma sempre interattivi, nei cinque piani dagli ampi spazi in cui, fra tavoli “sospesi” e animali “volanti”, viene raccontata l’evoluzione delle origini dell’uomo e del suo interagire con l’ambiente. Affacciato sul fiume Adige, l’edificio si affianca allo storico Palazzo delle Albere, dal 1987 Museo di Arte Moderna e Contemporanea (sede trentina del MART di Rovereto) ed è collegato con un sottopasso all’antica piazza della Fiera e al centro storico La struttura, con le sue linee esterne spezzate e trasparenti, richiama le montagne che fanno da sfondo all’intero complesso, si riflettono nello specchio d’acqua antistante e ripropongono all’interno i ghiacciai delle alte vette. Ma sempre pensando all’Universo Natura, ecco rappresentata anche una serra tropicale: dalle savane alla macchia mediterranea, con un modo del tutto inedito di fare scienza, come hanno puntualizzato il direttore del Muse Michele Lanzinger e Alberto Pacher, presidente della Pannelli esplicativi Provincia di Trento.

Esibizione di animali

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LUOGHI DELL’ARTE

MARIJKE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE di Maria Cristina Crespo

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ualcuno ha detto che quello che conta nella vita non è dove arriverai ma il viaggio che avrai compiuto. Sicuramente è questo lo spirito che ha animato gli abitanti di Calcata, come Marijke Van Der Maden. Era una ragazza olandese quando arrivò in Italia negli anni Settanta sognando il paese delle meraviglie, dell’arte e del sole. A dire la verità in quel periodo lo facevano in molti. Allora, non solo in Italia, sorgevano comunità spontanee di artisti, si credeva che un giorno al potere sarebbe stata l’Immaginazione. Si facevano raduni come all’Isola di Wight in nome della pace e dell’amore, si sperimentavano piccole e grandi utopie, stili d’arte e di vita alternativi. Negli anni Ottanta - quelli dell’edonismo reaganiano, quelli del trionfo degli yuppies sui figli dei fiori - molti giovani si resero conto di aver ceduto a una moda passeggera, a un dettame esistenziale difficile da sostenere, da conciliare con il quotidiano. Ma in Marijke la spinta a conciliare arte e vita era talmente profonda, così autentica e impellente che dura tuttora, e l’entusiasmo di pari passo, mai soggiogato e mai vinto, mai sopraffatto dalla realtà di tutti i giorni, dalle difficoltà della vita reale. Marijke è riuscita ad attuare la sua fiaba a Calcata, un paese laziale in provincia di Viterbo, assieme a molti degni compagni di strada, creando ed offrendoci eventi ogni volta magici e speciali, coinvolgendo i suoi estimatori fedeli e chiunque si trovasse a passare in quel luogo sospinto dall’interesse o dal caso. Artista, creatrice di poetici pupazzi o di arazzi cuciti con applicazioni di stoffe, animatrice di eventi da lei ideati, con l’esperienza e il passare degli anni, assieme al suo compagno Mimmo, si è trasformata in una efficace manager Presepe artistico della cultura, nume tutelare di un luogo fatato valorizzato nel tempo anche grazie alla sua opera. Marijke fu uno dei primi artisti, giunti da ogni parte dell’Italia e del mondo, a credere che quell’antico borgo, un paese adatto a partorire brancaleoni di medievale memoria, duro, inespugnabile, dal clima rigido, rimasto appartato e abbandonato per decenni, potesse rivivere e diventare luogo di aggregazione, dove poter creare ed esporre immersi nel bello e nella natura. Appena arrivata si installa in una piccolo antichissimo monolocale dove riesce a conciliare la frugalità funzionale del suo paese di provenienza con la locale atmosfera fiabesca e primitiva . Tra gli estimatori della prima ora c’è l’architetto Paolo Portoghesi, prestigioso autore di progetti postmoderni come la Moschea di Roma, che decide di vivere e lavorare qui, ampliando negli anni una dimora unica, realizzata collegando dall’interno antiche casette in tufo, con una vista mozzafiato sull’antico borgo sottostante. Indubbiamente il suo ruolo e la sua competenza hanno contribuito alla valorizzazione di Calcata, oggi cuore di un’oasi naturalistica, adagiato su una rupe tufacea a strapiombo quasi completamente circondata dal fiume Treja. Nell’antichità il sito fu un’acropoli inespugnabile, adatto a celebrare l’irraggiungibilità degli dei. Soltanto una strada e una porta permettono l’accesso al borgo, mentre alcuni scavi archeologici lungo il corso del fiume, che non lontano forma le pittoresche cascate di Monte Gelato, hanno messo in luce i resti di una città di origine falisca, Narce. Sempre con il contributo progettuale dell’architetto Portoghesi è stato di recente restaurato il castello.

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Il borgo di Calcata nella nebbia

Interno del Granarone con la mostra “Uovo d’Artista”

Lo studio di Marijke ricavato da una grotta tufacea (foto Valeria Cicogna)


I nuovi abitanti hanno deciso di comune accordo, non senza sacrifici e problemi, di chiudere completamente l’accesso alle auto e Calcata ha potuto così mantenere un aspetto intatto, inserita di diritto tra i borghi più belli d’Italia. Quella che oggi si può raccontare come una favola in realtà è frutto di un impegno decennale che ha visto nel tempo scontrarsi e accordarsi interessi e esigenze diverse, un esempio tra tutti: la lotta per non far passare i tralicci dell’elettrodotto accanto al paese. La fama di Calcata passa attraverso una nutrita filmografia, location ideale per pellicole cult, come “Nostalghia” di Andrei Tarkovskij (1983), “Amici miei” (1975), “La mazzetta” (1978) e tante altre. Sono moltissimi gli studi che gli artisti hanno ricavato nelle piccole casette medievali e nello strato sottostante, costituito di grotte etrusche usate via via come stanze, gallerie, spazi alternativi, caffè, ristoranti, cantine o negozi. In una grotta Marijke ha ricavato il suo minuscolo studio e in un’altra piccola grotta nella grotta possiamo visitare tutto l’anno il suo presepe speciale, fatto di pupazzi modellati e vestiti, ritratti dei vecchi abitanti del paese e dei nuovi abitanti, gli artisti. Così come in ambienti ipogei sono allestite le bellissime architetture di sabbia di Lughia, le sculture di Gabriele Mazzara, l’abitazione – studio “Grotta dei Segni” di Enrico Abenavoli, la “Grotta dei Germogli”, sede dell’Associazione “Viverevivi”, le gallerie di Giuseppe Salerno. L’elenco degli artisti attivi a Calcata è lungo, a partire da Giovanna Colacevich, antesignana dell’arte telematica, approdata alla Biennale di Venezia e prematuramente scomparsa, passando per Mario Carbone, regista e fotografo, la coppia Giuseppe Canali e Lucilla Frangini Ballerini, Simona Weller, scrittrice e pittrice, Giovanni Carpentieri, Giovanni Macchia, attore e performer. Alcuni hanno valorizzato gli ambienti verdi incontaminati, come nel caso dell’Opera Bosco, museo-laboratorio ideato da Costantino Morosin e Anne Demyttenaere, un percorso d’arte nella natura con opere realizzate appositamente con soli materiali naturali. Nel 2011 l’Opera Bosco ha ricevuto una menzione speciale nel Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa. Poco distante, sul Colle dell’Arte, i pali dismessi di una vecchia vigna sono stati rielaborati da artisti di diversa provenienza e tendenza. Nel 1995 Marijke ha inaugurato, dopo averne seguito e progettato i restauri, lo spazio polifunzionale più grande di Calcata, il Granarone, oggi divenuto proprietà della Provincia di Viterbo. In tutti questi anni il Granarone, ha ospitato mostre, concerti, performance, corsi d’arte, rassegne di cinema e rappresentazioni teatrali, conferenze, cene sociali e festival medievali. Grazie a questo contenitore così accogliente Calcata ed i suoi soci hanno potuto vivere momenti di cultura mai freddamente ufficiali, sempre poeticamente Marijcke versione Bosch coinvolgenti: dalla danza indiana Kathak alla sfilata delle befane, dal Festival degli Angeli al teatro di strada di Laura Kibel, la comicità di Antonio Rezza e Flavia Mastella, scambi d’arte e di mostre con artisti di altre nazionalità, trasfusioni di vita: “La Vita è Bella” era il suo messaggio nella segreteria quando Marijke non rispondeva…e sicuramente lei ha cercato di comunicarcelo con generosità. In questo piccolo paese, in passato abbandonato per paura di crolli o, chissà, di epidemie, la voglia di sperimentare e di sognare non ha sconfitto i mali del mondo ma resiste, sta lì proporre idee di cui a volte si parla (ma solo si parla), come lo sviluppo sostenibile, o la valorizzazione del turismo e della cultura, argomenti che nei tempi di crisi molte amministrazioni rispolverano, senza peraltro mai investirci abbastanza. I suoi abitanti non lo hanno reso finto riempiendolo di fiorellini e neanche snaturato con interventi invasivi. Ogni tanto litigano su quali colori dovrebbero avere i muri delle casette e di questi tempi può sembrare fantascienza…

Giovanna Leva Joglekar si esibisce al Granarone nella danza Kathak

Un’opera di Marijke

Settembre 2013: workshop di scultura Pause d’arte sul sentiero, a cura di Oriana Impei che ha realizzato Cappello di foglie. Gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma, con la loro insegnante, hanno prodotto opere in peperino di Viterbo e altre pietre locali.

Olanda, Onderbanken, Scambio d’Arte 2003. Joyce Oyen e Guido Ancion sperimentano la ceramica raku con gli artisti di Calcata

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Il Museo “Guelfo” in mostra di Stefania Severi

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ell’estate del 2013, grazie alla mostra “Dal Museo Guelfo: Mirò, Chagall, Picasso, Dalì e gli altri”, che si è tenuta nella Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (6 luglio - 3 settembre), si sono potute ammirare opere - soprattutto disegni e grafiche - dei più importati artisti del Novecento. La mostra, a cura di Silvia Cuppini, è stata promossa dalla Regione Marche, dal Comune di San Benedetto del Tronto e dal Consorzio Turistico “Riviera della Palme”. A sottolineare l’importanza dell’evento all’inaugurazione ha presenziato il Presidente della Regione, Gian Mario Spacca. Ma dov’è e come nasce il Museo Guelfo? Il Museo Guelfo nasce dallo spirito visionario dell’artista Guelfo Bianchini (Fabriano La Palazzina Azzurra di San Benedetto 1937 - Roma 1997), in arte Guelfo. Il simbolo del Museo, con sede a Fabriano, è l’orologio-volto di Jean Arp. Guelfo, formatosi presso la Scuola del Libro di Urbino e perfezionatosi nel campo dell’incisione grazie ad una borsa di studio della romana Accademia di San Luca, lasciata giovanissimo la nativa Fabriano, ma conservando ben salde e profonde colà le sue radici, ha preso a girare il mondo finendo perfino in Argentina. Ma ad attirarlo è stata soprattutto la Francia, in particolare la Provenza e Parigi, dove prese a frequentare gli atelier degli artisti e del celebre stampatore Visat. A Parigi, in quegli anni Cinquanta e Sessanta intensi di promesse, confluivano molti artisti, da Picasso a Chagall. Guelfo conobbe tutti e con loro fece amicizia. Aveva affinità soprattutto col gruppo dei Surrealisti di cui condivideva il credo. Era un tipo “curioso”, con l’ovale fortemente allungato, gentilissimo, dava una mano a stampare perché le tecniche le conosceva bene. Opera grafica di Joan Mirò (E. a. 1/5) Si faceva regalare prove di stampa, ne regalava a sua volta di sue, facendo scambi, chiedeva ai maestri che gli facessero un piccolo ritratto mentre aspettavano che il loro lavoro prendesse vita dalla matrice, grazie al foglio, all’inchiostro ed al torchio. Se ne tornava poi a Roma o a Fabriano, coi suoi ricordi, che però non relegava nel passato ma continuava a far vivere attorno a lui e a metterli in dialogo con i suoi disegni, i suoi dipinti e le sue grafiche e con quelli di tanti artisti che frequentava in Italia, primo tra tutti Giorgio de Chirico. Nel 1979 pubblica “Tic ovvero capricci a volo Giorgio De Chirico, Guelfo e gli amici volanti”. A De Chirico egli dedica le prime 42 pagine del libro, poi, nel “suo” spazio, inserisce disegni, poesie e foto, infine le opere degli “amici volanti”, alcune delle quali appositamente realizzate. E gli “amici volanti” sono, tra gli altri, Joan Mirò, Carlo Levi, Man Ray, Giulio Turcato, Oskar Kokoschka, Bacheca con una scultura in vetro di Guelfo Virgilio Guidi, Giacomo Manzù, Max Ernst, Pericle Fazzini, Guido

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Strazza. «Il Tic è la metà del suono dell’orologio, - scrive in catalogo Silvia Cuppini - ma anche una mania, una ripetizione di un gesto involontario, con il titolo Guelfo introduce la tematica del libro: l’ossessione del tempo.» Negli anni la collezione si è arricchita delle opere di tanti artisti, molti dei quali incontrati anche a Venezia, dove Guelfo ha realizzato, nella celebre “Fucina degli Angeli” di Egidio Costantini, le sue sculture in vetro. Continuava non solo a scambiare ma anche a comprare, quando voleva incoraggiare un amico artista non ancora affermato. Aveva preparato dei pieghevoli in cui aveva elencato tutti gli autori della sua collezione. Era infatti nelle sue intenzioni esporla al pubblico e cercava a tal fine uno sponsor. Purtroppo la morte prematura glielo ha impedito ed oggi sarebbe lieto nel vedere che qualcuno l’ha fatto per lui, in primo luogo la sorella Marisa, che ha messo tutto il materiale a disposizione. “Bisogna rifare il mondo dal museo” scriveva Guelfo, che sosteneva che la fruizione dell’arte fosse un ottimo balsamo per lo spirito ed uno stimolo all’intelligenza. Amava che le sue opere fossero visibili a tutti, per questo si era dedicato in particolare alla vetrata che, essendo prevalentemente nelle chiese (Cattedrale e Chiesa di San Giuseppe Lavoratore a Fabriano) è a disposizione di tutti. Voleva che tutti potessero ammirare la sua collezione ed era prodigo nell’invitare amici o semplici conoscenti o addirittura sconosciuti che incontrava per via ed accoglieva senza il minimo riserbo. Nella mostra di San Benedetto, allestita da Roberto Bua, è stata quindi esposta una parte selezionata della collezione di cui fanno parte anche incisioni di Bellmer, Cézanne, Dubuffet, Goya, Matisse, Savinio, Monachesi… Una sezione raccoglieva alcuni ritratti di Guelfo eseguiti da maestri quali Dalì, De Chirico, Clerici, Chagall, Masson, Kokoschka, Man Ray e R. Tommasi Ferroni. Avvicinarsi all’arte vuol dire stimolare soprattutto la fantasia e l’immaginazione, di questo Guelfo era convinto, al punto da suggerire come “entrare” in un museo: «Il museo ospita corvi e volficani / Che s’incontrano di sera nella foresta / Per avventure strane con le falene vaganti. / Gli alberi e le montagne in coro e in ombra / Assistono con sospensione e paura mentre / Il cielo emana figure vaganti».

L’allestimento “orizzontale” con grafiche di Mafai, Savinio, Folon

Tempera di Sante Monachesi

Bacheca con i ritratti di Guelfo eseguiti da vari artisti

Il pittore Sandro Trotti in visita alla mostra (si individuano opere seriali di Mirò, Goya, De Vita, Dova e Man Ray)

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Mar Sport nasce nel 1980 per iniziativa dei fratelli Alberto, Renata e Renzo Marzialetti. L’azienda artigiana a conduzione famigliare si specializza nella confezione di cappelli da cacciapesca e la produzione viene distribuita quasi interamente nei negozi di articoli sportivi. Col passare degli anni senza mai una battuta d’arresto e con una continua e attenta ricerca innovativa dei materiali la ditta si è notevolmente evoluta. Nel 1996 per opera di Germano, Simone e Catia la Mar sport cambia radicalmente la lavorazione precedente. Oggi produce cappelli, sciarpe e guanti ed ogni tipo di accessorio per abbigliamento, in tutti i generi di tessuti e di maglia ed in ogni modello, sia da adulto che da bambino e ragazzo, da città, da montagna e per il tempo libero. L’esperienza maturata nel corso dei decenni come azienda manufatturiera, l’aver stretto collaborazioni importanti con firme dell’alta moda italiana li ha persuasi a creare un proprio brand che riassumesse le qualità del nostro Made in Italy in cui sono rappresentanti da sempre. Gli articoli che compongono la loro collezione sono realizzati con tessuti e filati attentamente selezionati da tessiture italiane e particolare attenzione è dedicata alla progettazione dove le tendenze moda sono mirate curate ed enfatizzate. Una continua ricerca di mercato per esplorare il futuro.



GIULIANO GIULIANI TRA MATERIALITÀ E SACRALITÀ a cura di Luciano Marucci

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ome critico dei periodici “Juliet”, “Segno”, “Flash Art” e “Arte e Critica”, specializzati in arte contemporanea, pubblico inchieste su tematiche interdisciplinari, reportage di eventi espositivi europei e statunitensi, interviste con i protagonisti della scena artistica italiana e straniera, recensioni di mostre. Poiché mi pare doveroso rivolgere l’attenzione anche a operatori visuali della mia regione (le Marche) che conducono esperienze piuttosto interessanti, nello spazio concessomi da questa rivista di cultura varia, cerco di rappresentarne una mappatura in una visione tutt’altro che localistica. Spero così di dare loro più visibilità e di incoraggiarli a procedere con impegno. Ovviamente tralascio quelli che hanno già avuto migliori riconoscimenti. Nei numeri precedenti ho dedicato servizi ai pittori Terenzio Eusebi, Benedetto Bustini e Arnaldo Marcolini. Ora propongo lo scultore Giuliano Giuliani attraverso la lunga intervista che segue, in cui ho cercato di approfondire soprattutto gli aspetti strutturali che caratterizzano la sua cifra stilistica. E ho concepito il dialogo con intento pedagogico per far comprendere meglio le ragioni della sua ricerca. Aggiungo solo che Giuliani ha definito la sua identità praticando la scultura con abilità manuale di antica memoria, che gli consente di ottenere la massima leggerezza e di esternare il senso sacrale di una motivata poetica. Così il suo appassionato e sapiente lavoro controcorrente ha il merito di restituire attualità a una tecnica espressiva considerata anacronistica da quanti privilegiano altri linguaggi.

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Giuliani nello ‘scafandro’ da lavoro (ph Ignacio Maria Coccia)

Giuliano, quando hai deciso di praticare la scultura utilizzando il travertino? Sono nato in una cava di travertino, ho corso e giocato sulle pietre, calpestando e vivendo piazze e case di una città di travertino. Come non sentirsi in simbiosi con questa materia? Alle elementari la maestra Matilde mi faceva disegnare, mentre gli altri bambini facevano i compiti, poi appendeva i disegni alle pareti: la mia prima mostra. In seguito, nella Sezione Grafica dell’Istituto d’Arte, disegnavamo tanto, ma non sapevo bene se stessi facendo delle cose artistiche e di qualità. Quando ho preso a scolpire con una certa disciplina (non come facevo occasionalmente da sempre), le risposte sono arrivate da sole. Scegli il materiale in base a un progetto più o meno definito? Nella maggior parte dei casi sì.

L’artista all’opera a Colle San Marco di Ascoli Piceno dove vive e lavora, settembre 2013 (ph L. Marucci)

Valle, 2011, travertino, 120 x 100 x 30 cm (proprietà dell’Artista, ph Ignacio Maria Coccia)

L’ideazione ti viene anche dalla sua morfologia? Forse è accaduto, mentre è importante il contrario, cioè trovare la pietra in base al progetto o all’idea, alla struttura morfologica con le sue peculiarità di compattezza, resistenza, porosità, durezza, ecc. Ogni giacimento è diverso e a volte, anche a distanza di pochi metri, la struttura della massa e il colore cambiano. Quali sono i tuoi maestri di ieri e di oggi? Oggi guardo soprattutto i giovani e giovanissimi, i quali metterebbero in discussione l’utilizzo di una materia come il travertino e a me pongono uno stimolo per un fare e un uso completamente nuovo della stessa, ma per concretizzare ciò occorre tanta concentrazione e lavoro. Da sempre sono attratto da Michelangelo, Martini, Brancusi, anche


Alle superiori ho scelto l’Istituto per Geometri, poi abbandonato per l’Istituto d’Arte. Diplomato, ho frequentato il DAMS di Bologna, anch’esso lasciato per la Sezione Scultura dell’Accademia di Belle Arti.

se il mio interesse per loro non è esclusivamente formale. Per l’attualità sono interessato a tutti gli scultori inglesi. Nel tuo caso la sapienza artigianale è fondamentale? È necessaria e importante per il mio tipo di lavoro, ma spero di andare oltre. L’isolamento a Colle San Marco di Ascoli giova alla qualità dell’opera? All’Arte è stata tolta la sua natura, la spontaneità e semplicità necessarie per raggiungere profondità e intensità. Il mondo dell’arte è colmo di strategie, malizie e furbizie che allontanano i più, temendo di non trovare verità. In un certo senso come la politica. Allora credo che la qualità della mia opera sia aiutata dalla scelta di vivere e lavorare nell’isolamento di San Marco, congiunto a un costante aggiornamento su quanto accade nel mondo dell’arte. Ho inseguito questo progetto in modo più o meno inconscio. Per sostanziare l’oggetto artistico dove attingi le informazioni culturali? Ovunque: libri cataloghi mostre. Nel processo costruttivo come entra la contemporaneità? La contemporaneità è un fatto culturale. Vi entra in forma di inadeguatezza e di insoddisfazione del risultato; nel totale rifiuto del già visto, del già fatto; nella conoscenza delle esperienze del passato e del presente. La mia contemporaneità è il mio anacronismo.

Come si è evoluto il tuo discorso plastico? Molto lentamente. Essere scultori ad Ascoli era praticamente impossibile e sentivo in me delle profonde insoddisfazioni. Pur avendo tenuto, diciannovenne, la prima personale con dodici sculture in travertino di medie dimensioni (antropomorfe ed astratte), non riuscivo a distaccarmi dall’aspetto provinciale, dalla semplicità e bellezza dei luoghi dove sono cresciuto che non mi permettevano di ipotizzare un facile percorso plastico. Però il travertino si confermava materia di elezione, quindi continuavo a scolpire, ma anche a occuparmi di vigne e campagna con mio zio, fino a quando, sommata l’ultima delusione (concorso monumento mancato), ho deciso di intraprendeL’Angelo, 2009, travertino, 171 x 120 x 180 cm (collezione Arte Con- re, per un decennio, un’attività commerciale temporanea Musei Vaticani, ph dell’Artista) con due cugini. Intanto seguivo le esperienze degli scultori italiani contemporanei (miei coetanei). Lasciata l’Azienda per un incarico all’Istituto Statale d’Arte di Urbino, ho preso piena coscienza di come sarebbe stata la mia scultura futura: bianca leggera vuota. Possiedi già tutti i segreti del mestiere? Non conosco quelli legati alle nuove tecnologie, ma in tanti anni di manualità, credo di saperne abbastanza, anche se il lavoro e il tempo insegnano nuove possibilità e dell’Arte credo di sapere poco.

Per sfruttare al massimo le potenzialità sensibili dei materiali, limiti le contaminazioni degli additivi? Per alcuni lavori è indispensabile che la materia resti pura, per altri gli additivi aggiungono e aiutano la definizione.

La sottrazione della materia fino al limite estremo è in funzione dell’essenzialità e della leggerezza estetica, ma anche della sublimazione e della trascendenza? La tua domanda è già una bella risposta.

Ti bastano i sottili cromatismi delle pietre? Assolutamente no.

Le rotture accidentali in corso d’opera sono tutte riparabili…? Non necessariamente. Quando “la casualità risponde a domande non poste” (John Cage), si lascia volutamente la rottura. In altri casi sono quasi tutte riparabili.

Allora usi i colori artificiali? Il senso esplosivo del colore prevede un intento rivoluzionario e sognatore. Ho aggiunto resine colorate alle sculture in forma sperimentale, però alla fine sono quasi sempre tornato alla naturalezza della colorazione della pietra, non ce l’ho fatta ma continuo a sperare. In sintesi, quale è stata la tua formazione scolastica?

Ramio, 2007, travertino, 90 x 54 x 28 cm (collezione Anna Castelli, Senigallia; ph Domenico Oddi)

Grazie all’esperienza e alla passione, del corpo della materia salvi la pelle che comunica il messaggio artistico rafforzato dal tuo vissuto!? Credo sia così.

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Quindi le realizzazioni derivano dalla dialettica tra due identità: quella personale che vuole affermarsi attraverso l’atto creativo e l’altra del materiale che sa resistere agli interventi esterni. Esatto! L’abilità tecnica evidenziata dall’intima relazione tra pieno e vuoto esalta certamente la percezione strutturale dell’opera e colpisce l’osservatore. Hai l’orgoglio di esibirla? Non penso di esibirmi, soprattutto in questo periodo nel quale attraverso un momento di ripensamenti e crisi e, quindi, dovrei sperimentare molto; forse cambiare tante cose e fare a meno del mio saper fare. Anzi, sarebbe meglio non saper fare nulla… Il lungo tempo richiesto dall’esecuzione non rallenta l’avanzamento della ricerca, se non altro dal lato linguistico? Credo proprio di sì, ma mentre lavoro ho tempo di pensare, di generare altre idee e magari di superarle e migliorare il risultato. Nemmeno la fase del lavoro fisico più faticoso può essere delegata? Lo sgrosso a volte mi pesa, a volte mi rilassa, ma può essere delegato. Ho degli amici desiderosi di imparare a lavorare la pietra che mi aiutano; diversamente non saprei come fare. L’esasperata manualità, che rimanda all’antico mestiere della scultura e si discosta dalle nuove tecnologie, sottende un’intenzionalità etica? L’etica è fatta di esempi. Mio padre mi raccontava che da bambino la sua famiglia possedeva la tessera dei poveri. La maestra supplicava i genitori di lasciargli frequentare la scuola perché era molto dotato ma, a dieci anni, indossando le scarpe della mamma, andava già a lavorare nelle cave (distribuiva da bere agli operai). A quattordici era un abile scalpellino (mi indicava croci di chiese e cornici fatte da giovanissimo). Dopo la guerra tentò l’apertura di cave lungo il costone di Piagge San Marco, poi approdò per primo sul pianoro (mia madre tutti i giorni, percorrendo a piedi la mulattiera, portava il pranzo a lui, a mio zio e agli operai). Seguirono altre cave. Allora tutta l’estrazione veniva fatta a mano. Fino agli anni Ottanta abbiamo esportato in mezza Europa. Anche il travertino del nostro Ospedale civile e tutto quello per il recupero della Fortezza di Civitella del Tronto provengono dalla nostra cava. Poi la crisi e le problematiche ambientali hanno costretto alla chiusura (anche se oggi sono visitate più le cave che i boschi). Ecco, l’intenzionalità etica sta in questo esempio: un lavoro fatto di assoluta caparbietà, intelligenza, passione, sforzi inauditi, sacrifici oggi impensabili, con tanti uomini e donne che hanno reso ricca l’Italia. Il desiderio del raggiungimento della meta sono cresciuti con me. Come non coinvolgere nella mia ricerca, il corpo, la cava, la pietra ricalcando uno stilema del fare per meritare? Anche se non approdassi a nulla, l’alzata di polvere mi appaga.

Nicchia, 2011, 131 x 95 x 33 cm (proprietà dell’Artista, ph Giulio Chiurchioni)

Mi pare che, per scelta o per assecondare le potenzialità sensibili della pietra grezza e in formazione, la tua attività non segua una programmazione, ma tragga ispirazione da più parti. Funziona più o meno così e forse è il mio cruccio. Ti assoggetti volentieri alle caratteristiche intrinseche della massa che affronti? Le scelgo in base al progetto. In genere i soggetti da ri-cavare nascono dalla necessità di esternare l’immagine interiore e di riconsiderare valori umani!? Credo che all’arte vada restituita la centralità etica ed educativa. Per questo c’è bisogno anche del bello. Io non so se riuscirò nell’obiettivo, ma è mio desiderio essere di aiuto per migliorare la società con il mio lavoro. Lo spazio e il silenzio che abitano le tue sculture hanno consapevoli legami con l’architettura e una valenza metafisica? Alcune hanno una valenza architettonica, in particolare decostruttivista; altre, mi auguro, metafisica.

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Veste, 2011, travertino, 86 x 56 x 12 cm (proprietà dell’Artista, ph Giulio Chiurchioni)


I riferimenti alla Natura sono imprescindibili? Sono molto presenti. Si manifestano nel desiderio e nella speranza di ottenere una forma legata alla tradizione, ma dalla valenza originale. Mi piace condividere con la storica dell’arte Anna Ottani Cavina la considerazione che le valli, le colline e le montagne sono un “vettore potente di creatività, luoghi di esotica trascendenza, arena dello spirito dove sperimentare la discesa dell’io”. …Come la vedi e la rappresenti? Per me la natura è essenza di creatività. Possiamo vederla secondo il concetto riportato dai dizionari, dove Dio è creatore del tutto e l’uomo suo imitatore. La montagna si forma sulle leggi geologiche e casuali; la scultura si delinea attraverso una geometria periferica e una necessità centrale.

con la scultura il gesto (quasi sempre ampio e curvo) con il quale tracciare, ma, mentre nella scultura esso produce solidità, se pur fragile, nel disegno rende sempre flessibile la fisicità dell’immagine. Indubbiamente l’intera produzione svela la tua storia legata al luogo in cui agisci. Quanto hanno influito sul tuo percorso creativo le memorie del suggestivo cantiere artigianale ereditato, sedimentate anche nelle stratificazioni geologiche? Molto, se non tutto. Vorresti far rivivere l’ambiente anche con l’istituzione di una scuola per giovani? È quanto ho tentato di fare nel tempo, ma la burocrazia, rispetto a un luogo protetto da tutto, compreso l’abbandono, rende la cosa troppo difficile. Impensabili anche i più bei progetti.

Ricorri volentieri all’evocazione atPrima e Indifesa, 2013, travertino 80 x 70 x 50 cm (proprietà dell’Artista, traverso l’oggettualità informale? Come definiresti la sacralità che ph L. Marucci) Non sempre e non in modo razionale. cerchi di far emergere dagli artefatti? La sacralità che è dentro di noi chiede luce e mani pulite, anche a chi I titoli tendono a indirizzare la lettura soggettiva delle opere si occupa del suo aspetto laico. Da giovani tutto ciò che toccavamo era specie quando prevalgono l’aspetto aniconico e la metafora? sacro o arte. Perciò, per rendere tali “le cose”, è necessario restare puri Tendono a indirizzare la lettura verso molte vie e forme, anche ironiche e onesti. o di incrocio. Alcuni rimandano a un ricordo; altri a una dedica, a un di più. Non c’è il rischio che la sacralità religiosa possa essere enfaChe rapporto c’è tra la tua opera tridimensionale e i disegni? È la prima che influenza i lavori sul supporto cartaceo o viceversa? Inizio col disegno, ma soprattutto con piccolissimi schizzi (di due-tre centimetri) nei quali intravvedo già grandi sculture, anche quelle non realizzabili. Il disegno ha diverse specifiche funzioni: è fine a se stesso, esercizio evocativo, tensione progettuale, scandaglio filosofico, missione impossibile… In particolare, nella cosciente difficoltà del suo uso originale, io genero un approccio progettuale autodistruttivo per eliminare, dimenticare l’idea iniziale e permettere a un’altra di sostituirsi ad essa.

tizzata per soddisfare la committenza degli arredi nei luoghi di culto? L’oggetto d’arredo diviene arte se vi è libertà di esecuzione a prescindere dalla sua funzione. Con questo presupposto ho partecipato a concorsi nazionali. Ne ho vinti due per arredi sacri in chiese nuove, le quali, per delle vicissitudini, non si realizzeranno. Ho aderito anche alla richiesta di collaborazione per quella progettata dall’architetto Mario Botta, ma è tutto fermo. Nella Chiesa di San Pietro Martire di Ascoli, invece, ho potuto collocare un ambone e un fonte battesimale.

Suppongo che la flessibilità dell’opera su carta compensi la rigidità della scultura. La bellezza della scultura sta nella sua eterna rigidità. Masse all’apparenza inanimate vivono del loro stato immobile; si nutrono di se stesse; ospitano la vita. Il dinamismo interromperebbe lo stato puro Caravaggio, 2011, travertino, 81 x 154 x 42 cm. Sullo sfondo la cava di famiglia oggi dismessa dello “stare”. Il disegno condivide (proprietà dell’Artista, ph L. Marucci)

Vuoi dimostrare che pure la pietra ha un’anima che va immortalata…? Certamente. E, se non ce l’ha, vorrei dargliela. La fragilità del manufatto artistico ha un significato simbolico? Esprime la precarietà dell’esistenza? Sì, è una costante, cosciente dimensione spirituale… Spero di riuscire a dare un’interpretazione sovrannaturale a ciò che non ce l’ha…

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Il cappello nella Massoneria e i suoi simboli di Ruggero Signoretti

I

l cappello ha, in tutte le culture, complessi significati simbolici. Esso individua il ruolo della persona che lo indossa e pertanto ne stabilisce la gerarchia all’interno della società. In molti casi è assimilabile alla corona le cui punte costituiscono altrettanti punti di collegamento con l’Entità Superiore. Il cappello a tricorno, la mitria vescovile e il cappello del mago, in particolare, sono strettamente collegati alla simbologia della corona. Interessante è il ruolo del cappello nella Massoneria, dove indica il raggiungimento della piena conoscenza. È questo che simboleggia il cappello che deve sempre indossare il Maestro massone all’interno della “Camera di mezzo”, cioè la Loggia dei Maestri. Il Maestro, che ha raggiunto l’apice dell’iniziazione e della conoscenza, coprendo col cappello i capelli, manifesta che egli non deve ricevere più nulla da ciò che è fuori di lui. Tale concetto è collegato alla simbologia dei capelli, ampiamente studiata da Henri Allaix. I capelli, secondo lo studioso che ha comparato al riguardo diverse culture, sono considerati organi recettori riceventi, mentre gli altri peli del corpo sarebbero recettori emittenti. In base a tali premesse, il Maestro massone indossa il cappello in quanto è giunto al più alto livello di percezione. Probabilmente il cappello del Massone sostituisce anche la Corona, che coincide col Kether che è la prima Sefira dei Cabalisti, e rimanda alle corone di foglie che ornavano il capo degli adepti dei misteri antichi. Il cappello, nello specifico, deve anche ricordare, a chi lo indossa, che non deve comandare arbitrariamente ma deve guidare i sottoposti tenendo conto delle loro aspettative più alte. Ma com’è il cappello del Maestro? Lo indossa un Maestro del 32° Grado in USA, come mostra una foto visibile tramite Internet. In USA, infatti, la Massoneria è ampiamente e liberamente diffusa. Tutti i padri fondatori di quel paese erano massoni a cominciare da Giorgio Washington. Il che è storicamente spiegabile, infatti gli USA nascono da così varie etnie che ser- Washington DC, La Casa del Tempio, sede del Supremo Consiglio del 33° e ultimo grado viva un nucleo unificante sovranazionale e sovra culturale, e la Massoneria dell’Antico e Riconosciuto Rito Scozzese della Massoneria fornì l’ideale strumento di aggregazione e di coesione. A Washington DC sorge pertanto la Casa del Tempio, sede del Supremo Consiglio del 33° e ultimo Grado dell’Antico e Riconosciuto Rito Scozzese della Massoneria. È un luogo che, quando non vi si svolgono cerimonie, è aperto al pubblico per le visite e per la consultazione della ricca biblioteca. Il cappello del Maestro è a tamburello, più o meno rigido, nero e ornato con fregi simbolici. È viola per le cerimonie di lutto. I fregi, per lo più dorati, sono costituiti da simboli massonici e dalla presenza del numero che segnala il Grado raggiunto dal Maestro che lo indossa. Una riflessione al margine va fatta a proposito della “Camera di mezzo” che indica il luogo fisico dove i Maestri si riuniscono, ma indica anche il Cappello dei Fratelli del 32º Grado del Rito luogo ideale dove il Maestro deve consistere, il luogo tra la morte e la vita, il Scozzese (Maestro del Segreto Reale) con luogo cioè del cambiamento dove si muore alle cose del mondo per rinascel’aquila bipenne e il motto Spes mea in Deo est («La mia speranza è in Dio»), re a quelle dello spirito. Nella simbologia massonica, espressa dal simbolo simbolo del 32º Grado del compasso sopra la squadra ed una stella a cinque punte nel mezzo, il Maestro è in quell’ “invariabile mezzo” costituito dalla stella. È interessante a questo punto sottolineare che, nell’odierna letteratura di genere fantasy, molti sono gli elementi tratti dall’esoterismo, dalla magia, dalla Massoneria e dagli antichi miti, da quelli classici agli egizi, dai celtici ai siberiani. Basti citare, per collegarci al nostro discorso, al cappello parlante nella saga di Harry Potter, il Sorting Hat, il cappello magico che, posto sul capo degli apprendisti maghi, indica in quale sezione di studio dovevano incamminarsi; in pratica il cappello esterna la volontà e le inclinazioni profonde di chi lo indossa. E come non vedere dei riferimenti, in chiave simbolica, tra la Camera di Mezzo e la Terra di Mezzo, la terra creata dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien, anche se gli studiosi riallacciano l’espressione all’inglese antico. È indubbio che la Terra di Mezzo è anch’essa in quel “mezzo” tra realtà e fantasia, tra mondo degli uomini e mondo degli dei e dei maghi.

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Compagnia Accessori

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CARLO PACI

MEMORIE INEDITE: gli anni della rinascita a cura di Luciano Marucci

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ubblichiamo la seconda parte dell’intervista al giornalista Carlo Paci a cura di Luciano Marucci. La prima, dal titolo “Memorie inedite tra Guerra e Resistenza”, uscita su questa rivista (n. 57, primavera-estate 2013), oltre all’introduzione dell’intero servizio e alla documentazione fotografica, comprende i seguenti capitoli: “AnteFatti”, “La renitenza alla leva”, “Dalla Resistenza alla duplice Liberazione”, “Il percorso ideologico”. Il relativo PDF può essere visionato all’indirizzo http://www.lucianomarucci.it/cms/documenti/pdf2/DeviazioniHatMemoriePaci(I)2013.pdf Luciano Marucci: Carlo, riprendiamo il percorso delle tue movimentate vicende personali in rapporto all’attività pubblica ma, prima di andare oltre il periodo della guerra, desidererei una considerazione sui valori della Resistenza dopo quasi 70 anni. Carlo Paci: Innanzitutto vorrei ricordare che il 4 aprile 1973 la Provincia di Ascoli Piceno è stata insignita della Medaglia d’Oro al Valor Militare per i sacrifici delle sue popolazioni e per l’attività partigiana con questa motivazione:

«Fedele ai valori già espressi nel corso dell’epopea risorgimentale, le popolazioni picene opposero strenua ed accanita resistenza all’oppressione delle forze germaniche insediatesi col tradimento nel territorio nazionale in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943. Già il 12 settembre l’insurrezione degli ascolani si unì alla reazione del locale presidio militare come risposta all’intimazione di resa da parte di unità tedesche dando inizio a moti di ribellione che durarono fino alla liberazione dell’ intera provincia. In nove mesi di dura e aspra lotta emersero fulgidi episodi quali il combattimento sostenuto da forze partigiane a Colle San Marco, in cui dal 3 al 5 ottobre caddero trenta giovani cittadini, gli scontri in Castel di Croce, Pozza, Fermo, Montefortino, Umito, Montemonaco e nella zona costiera. I duecentosettantotto caduti in combattimento o fucilati, il gran numero di feriti e deportati, gli arresti e le distruzioni tra un regime di terrore instaurato dalle forze di occupazione, diedero il segno di quanto valore ed eroismo sappiano esprimere

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genti tradizionalmente pacifiche, quali quelle ascolane, per amore della libertà e della giustizia, a difesa della Patria, contro la prepotenza e l’oppressione. Provincia d’Ascoli Piceno, 9 settembre 1943 - 20 giugno 1944.»

Il 12 aprile 2001 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha concesso la Medaglia d’Oro al Valor Militare per attività partigiane anche al gonfalone della città di Ascoli. Parlare oggi di Resistenza è come riesumare una dimenticata pagina della nostra storia. Non tanto a causa della crisi economica o per la recessione che un giorno si dice superata e un altro no, ma per la carenza ideologica e passionale di quello che rappresentò la scelta armata contro il nazifascismo. Quella spontanea, irresistibile volontà di giovani ed anziani di imbracciare un’arma per cacciare i responsabili di morte e i loro complici “repubblichini“. Ma sarebbe del tutto anacronistico ripensare Il primo manifesto affisso ad Ascoli liberata il 18 giugno 1944 (Secondo Balena, alle sequenze delle azioni di lotta in Bandenkrieg nel Piceno, Asculum Ed., 1985) montagna o agli angoli dei caseggiati urbani. Sono ormai, queste, immagini di ricordi dei non molti che, ancora, possono raccontare le gesta di gloria che ieri non furono altro che estrinsecazione di un coraggio a volte perfino incosciente. Quello che però aleggiava sulla Resistenza non era solo retaggio patriottico, ma la consapevolezza che ci si batteva per riconquistare finalmente la libertà e, di conseguenza, il verbo democratico. Oggi la Resistenza - purtroppo - è divenuta un monotono appuntamento 18 giugno 1944. In Piazza del Popolo gli ascolani esultano per la ritrovata libertà (N. G. celebrativo, quasi sempre ammanTeodori, 200 anni di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, AP, 1976). tato di demagogia! A sentir citare la


Ferretti e da Augusto Tesei. Feci amiparola Resistenza si ha quasi l’imcizia con brillanti giovani ai loro pripressione di una provocazione per mi comizi, dai fratelli Renzo e Vittol’establishment della politica italiario Roiati a Secondo Balena, a Guido na. Chi ha vissuto in prima persona o Vittori, Vincenzo Bracciolani, Giulio solo occasionalmente ha partecipato Franchi, Franco Giordani e altri. alla lotta armata viene “sopportato” Trovo occasione per segnalare che ad dalla società come capitò agli ultimi Ascoli vinse la monarchia dimostrando Garibaldini... Coloro che si sentono Le “Casermette” semidistrutte dall’attacco dei nazi-fascisti (Nunzio Giulio Teodori, 200 anni così l’atmosfera conservatrice e postancora vicini allo spirito della Resifascista della città che, nel tempo, stenza hanno l’impressione di essere di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, Ascoli Piceno, 1976) non ha perso queste tendenze politiche. E pensare che Ascoli, con tanto di oggetti estranei, mentre nell’intimo pensante usano ripetersi la famosa frase Medaglia d’Oro, figura tra le prime città della Resistenza Italiana! del Procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli (Mani Pulite): “Resistere, resistere, resistere come su Come era avvenuta la ricostruuna irrinunciabile linea del Piave”. zione? Eppure, proprio in questa fase di grave Dopo la Liberazione il prefetto Paolo crisi della comunità italiana, i principi Petrone aveva nominato commissario che animarono la Resistenza dovrebl’avvocato socialista e antifascista Stebero tornare concretamente nel loro fano Piavi, che però restò in carica solo adamantino valore, sbarrare la corruun mese (20 luglio-22 agosto 1944). Il zione, superare le ingiustizie sociali, primo sindaco di Ascoli fu l’avvocato lavorare per l’interesse comune e non Serafino Orlini della DC che governò solo personale, fare dell’onestà e della fino al 1960. La consistenza dei partiti trasparenza la lente di ingrandimento era la seguente: prima la DC, seguita di una ripresa morale, economica, soda PSI, PRI e PCI. Si può dire che da ciale e patriottica. Questo può essere un Le Officine del Gas dopo i danni subìti a causa della guerra (Archivio Storico Iconografico tale Giunta, dove erano presenti gli inpensiero irrealizzabile, lontano dalla Comunale di Ascoli Piceno) gegneri Gioacchino Di Diego ed Enrico realtà, ma sono proprio i pensieri utoTassi, con il sostegno degli onorevoli Renato Tozzi Condivi, Amor Tartufoli pici che riescono - nella loro imprevedibilità - giganti per grandi imprese. e del ministro Umberto Tupini, iniziò la fase detta della Ricostruzione, che Insomma, per la ripresa del Paese, occorre impegnarsi a riportare sul tavolo di fatto era la Costruzione dei grandi servizi che mancavano, a cominciare progettuale il dettato dello spirito resistenziale. dall’Acquedotto del Pescara (in città ancora le donne si rifornivano d’acqua attingendola dalle fontane con le conche di rame). L’illuminazione era scarIl dopoguerra sa, mancavano case e abitazioni popolari. Fu proprio l’edilizia a dare il via alla crescita della città anche sul piano del lavoro. Quando, terminata la guerra, sei arrivato ad Ascoli Piceno, Rifacciamo il nuovo quadro che sortì da quegli anni. In primo luogo il sucome ti è apparsa la città? peramento della crisi idrica secondo le esigenze abitative, il completamento A parte i pesanti danni provocati dai tedeschi, esattamente come nel 1936, del Palazzo di Giustizia, l’istituzione della Scuola Allievi Ufficiali, l’edificaquando per un lutto di mia madre, la conobbi per la prima volta. Strade zione del nuovo Ospedale, le sconnesse, palazzi bassi, poca prospettive urbanistiche con il gente in giro, misere vetrine, Piano Regolatore “Benevolomodesta condizione sociale. Zani”, l’ingresso nella CASMEZ Eppure non venivo da una me(Cassa per il Mezzogiorno che tropoli, ma da Ancona. Unica però ha fallito come modello sorpresa, l’architettonica eledi politica industriale) che riganza di Piazza del Popolo, chiamò illusoriamente tante con una raggiera di anguste forze dall’agricoltura (sempre vie chiamate rue. L’inserimenpiù abbandonata), il sorgere di to nella comunità ascolana nuove periferie (dal Quartiere fu facile anche perché avevo Luciani a Monticelli, Montefatto i primi incontri nella severde e Monterocco), la riquazione del mio partito, il PRI, lificazione di Borgo Solestà e in pieno fermento in quanto di San Marcello. Per fortuna si era in campagna elettorale ci fu il salvataggio dalla ceper il referendum istituzionale. mentificazione di buona parte Fui accolto dal sereno, storico Manifestazione del 1° Maggio 1945 in Piazza del Popolo di Ascoli Piceno. La partigiana Antonietta Albanese del centro storico e del Colle mazziniano, ragionier Amedeo con la bandiera (Giovanna Forlini-Paola Fanesi, La parola impertinente, Otium Edizioni, 2007).

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San Marco che invece ebbe sviluppo ordinato in un quadro di potenziamento delle strutture naturali per il relax all’aperto e dello sport. Il tutto unito a una iniziale politica turistica. Purtroppo non siamo mai riusciti a ottenere la rete ferroviaria AscoliAntrodoco, sogno tuttora insoddisfatto dell’Ascoli-Roma. Successivamente la realizzazione della superstrada Ascoli-Mare diede modo di superare l’isolamento della città. Ma ci volle la prima partita nel campionato di serie A perché, dopo 2.000 anni di storia, l’Italia conoscesse finalmente Ascoli Piceno! In questo contesto quali erano i personaggi e le istituzioni determinanti in senso politico e sociale? I partiti come si ridefinirono? È difficile ricordare il complesso quadro partitico del dopoguerra. All’interno della DC si svilupparono continui contrasti tra gli ex popolari e i tambroniani. Eppoi tra questi ultimi e i forlaniani. Nel settore amministrativo non mancarono negative situazioni di crisi tra la dissidenza del gruppo Aldo Laganà, Emilio Pavoni, Alvaro Cocci che fece cadere la Giunta Orlini con la conseguente nomina del Commissario Prefettizio. Dal dopoguerra abbiamo eletto 17 sindaci, ma nominati 4 commissari, che non sono pochi. Un’altra scissione si ebbe col MAC (Movimento Ascolano Cristiano), protagonisti Mario Mariani, Dante Risponi e Bartolomeo Damiani con successivo nuovo commissario… Nel partito le cose non sono state mai tranquille. Si ricordano congressi rumorosi dove maggioranze saltavano anche con metodi non proprio trasparenti. Si vuole che in uno di questi venne addirittura sostituita l’urna con i voti con altra eguale ma con voti diversi. Un episodio di cinismo politico si registrò a Palazzo Gallo nel corso di una seduta del comitato provinciale, presente il contestato presidente Fernando Tambroni. Tutti i suoi fan lo abbandonarono, lasciandolo isolato

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Primi lavori dopo la liberazione: si ricostruisce il ponticello sul Castellano a Porta Vescovo (Nunzio Giulio Teodori, 200 anni di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, Ascoli Piceno, 1976)

1947. Ricostruzione del Ponte di Porta Cartara (Luca Luna, Novecento ascolano. Un secolo di vita cittadina, Librati Editore, 2010).

Il Ponte di Cecco (detto “del Diavolo”) in ricostruzione (Archivio Storico Iconografico Comunale di Ascoli Piceno).

e togliendolo dalle liste elettorali, ma per non far scomparire il cognome Tambroni venne candidato un suo nipote. Chi scrive fu presente alla riunione, nascosto dietro la tenda della porta d’ingresso con il tacito benestare di Gigi Aleandri, simpatico e abbondante factotum di sezione. Le cronache registrarono la nuova maggioranza: Walter Tulli, segretario (che divenne governatore delle Marche); Vittorio Zambrini, segretario amministrativo; Gualtiero Nepi (in seguito due volte sottosegretario), Serafino Fiocchi e altri dirigenti. Tra i primi politici di spicco Renato Tozzi Condivi (poi sottosegretario), persona pacata e in buona parte tranquilla, assai religiosa tanto da essere ipotizzato spesso come ispirato. Il senatore Amor Tartufoli, invece, era sanguigno, plateale, decisionale. Dimostrava il suo modo d’essere visitando i Comuni e nell’accogliere le richieste dei sindaci. A garanzia del suo impegno gettava il cappello in terra, dicendo alla folla che sarebbe tornato a riprenderlo “a problemi risolti”. Non avendo depositi di Borsalino, era il suo segretario a riprenderlo a fine comizio… Da giovane era stato vivace segretario del Partito Popolare (l’ironizzato Pipì) e aveva affrontato una durissima e acida polemica con il colonnello Franco Zannoni che lo sfidò a duello immediato. Era il 1922. Amor, che nemmeno da bambino aveva giocato con spade e fuciletti, pensò bene di allontanarsi e si trasferì a Milano dove sposò una coltivatrice di seme-bachi per la seta. Fu il suo futuro: conoscitore del settore, ne divenne brillante e concreto imprenditore. Proseguiamo nel panorama delle maggiori forze partitiche dal dopoguerra. È un po’ come zigzagare nel ricordo soggettivo e non sui testi storici ufficiali che proprio non riportano certe episodiche. Passiamo al PSI. Anche in questo partito il dibattito interno non mancò, ma si è quasi sempre trattato di scontri ideologici, pur se con rari personalismi. All’inizio fu in piena alleanza


Gianfranco Silvestri e il docente universitario Gianni Ferrante, approdato alla sinistra. Scomparso di recente, senatore per più legislature parlamentari, gli va riconosciuta una costante, intelligente e proficua attività di concreto sostegno di Ascoli, del Piceno e delle Marche. Più pesante la scissione col PRI scivolato nel berlusconismo, con accredito alla repubblicana Luciana Sbarbati, divenuta deputata europea nel 1999.

Rinvenimento, nei pressi del Tribunale, dei resti di un edificio romano con il pavimento a mosaico (Nunzio Giulio Teodori, 200 anni di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, Ascoli Piceno, 1976)

Dal punto di vista etico quali erano i comportamenti dei protagonisti all’interno delle istituzioni? Ormai le collettività politiche erano modeste, ben lungi dalla passione, dalla dedizione ideologica come all’indomani della fine della guerra e della Resistenza, delle lotte per la conquista della libertà e della Repubblica, quando ci si dedicava alle esigenze pubbliche e morali col sincero obiettivo di realizzare una nuova società per un mondo nuovo. Anche allora ci furono i soliti furbi, gli approfittatori, i ladri, in parole crude, ma in proporzioni ben minori di oggi (e meno protetti da troppe istituzioni) in cui sembriamo tutti tessitori di un peccato originale del malaffare. Di quel periodo ricordi qualche episodio curioso? Fine degli anni Sessanta. Un’auto blu arriva e si ferma dinanzi l’Arengo. Ne esce il ministro Tupini che, secondo la prassi dei parlamentari, si getta alla ricerca di mani da stringere, ma trova solo una persona che sembra attendere qualcuno. Stessa prassi: lo abbraccia con foga amicale e con un esplosivo “Caro amico”. Non l’avesse mai fatto! L’abbracciato si divincola e, quasi fosse stretto dalle spire mortali di un boa, urla: “Tu chi sei? Chi ti conosce? Pussa via!”. È Aldo Loreti, col volto più luciferino della voce. Ma forse è solo un aneddoto...

Verso la normalizzazione Il mosaico romano con la testa a doppio volto dopo il restauro [Giuliano De Marinis e Gianfranco Paci (a cura di) Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo, Provincia di AP - Assessorato alla Cultura, 2000]

politica con il “frontismo” PCI-PSI e arrivò al centro sinistra perdendo via via tranches di iscritti (PSIUP, PSDI) con esposizione di dirigenti appassionati di politica, e a un certo punto anche di potere. È giusto ricordare Francesco Marchegiani, Peppino Cesari, Michele Magli, Gioacchino Fioravanti, Carlo Azzanesi, Tonino D’Isidoro, fino al 1985 il solerte e gran mediatore Gaetano Recchi (che fu concreto governatore delle Marche). Grazie agli uomini del PSI, ad Ascoli fu aperta la Facoltà di Architettura, sezione distaccata dell’Università di Camerino. Altra citazione si deve al PSDI per la presenza costante… che caratterizzò la sua politica principale, quella amministrativa, condotta in primo piano dal segretario di partito e consigliere comunale Aldo Loreti che, dopo essere stato assessore del centro sinistra, in occasione di una delle tante crisi del gruppo democristiano, divenne primo sindaco di sinistra (PSDI, PSI, PCI, PSIUP, PRI) per pochi mesi. Non si pensi che all’interno dei saragattiani sia stata tutta pace, a cominciare dalla conquista della segreteria di federazione (Aldo Amici-Loreti) con le sfortunate uscite congressuali del pubblicista Antonio Paoletti, antiloretiano conclamato che accusava il segretario di politica del potere esageratamente familista... Un episodio clamoroso fu quello detto “della bicicletta”, perché ad un certo punto si voleva eleggere un unico segretario per i due tronconi socialisti (PSI e PSDI). I nenniani di Azzanesi abboccarono e alla conta vinse Loreti. Infine anche il PRI ha conosciuto una spaccatura tra il seguace mazziniano

Quando era iniziata la tua professione giornalistica? In aggiunta a quanto ho detto nell’intervista precedente, ti preciso che, saltuariamente, avevo cominciato a scrivere per «Il Resto del Carlino» nel 1947’48 e divenni collaboratore fisso nel 1953. Il ruolo mi consentì di conoscere il direttore Enzo Biagi e le sue direttive per rimanere sempre vicino ai lettori. Nell’aprile 1957 venni richiesto da «Il Messaggero», guarda caso perché avevano letto il mio satirico «Corriere della Pera»! Nel 1967 da pubblicista diventai professionista e, dopo qualche anno, venni nominato capo servizio. Pensionato nel 1987, vi restai ancora per due anni come collaboratore, poi passai consulente editoriale a «La Gazzetta» e al «Corriere Adriatico», dove tuttora scrivo. Fin dagli esordi come giornalista avevi un particolare interesse per le attività creative, dal cinema d’autore alle nuove esperienze pittoriche. Hai addirittura cercato di esprimerti anche attraverso il linguaggio artistico… La professione del giornalista non è più quella che ai primi del Novecento veniva definita “il mestiere dei saltafossi”. Ma la cronaca, pur nella sua ripetitiva formalità, non toglie che il giornalista - se lo ritiene e lo sente - non possa spaziare in maniera più che didascalica nelle arti visive, la musica e quant’altro si può classificare come cultura. Ecco il motivo per cui, una volta assunto da Il Messaggero, ho cercato di fare spazio anche agli eventi culturali della città, agli artisti locali e ad altre evenienze che, fuori dalla cronaca, venivano a determinarsi. Personalmente, oltre ad interessarmi di arte contemporanea, ho trovato il tempo per compilare un libro composto da fotomontaggi d’ispirazione umoristica. E ho avuto la fortunata occasione di esternare una certa

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mia inventiva che mi ha fatto vincere due concorsi nazionali: uno per il manifesto della prima edizione del 1955 della Quintana; successivamente per il famoso Carnevale in piazza. Nel primo caso, con la determinante collaborazione dello scomparso pittore professor Nino Anastasi, fu posta al centro del manifesto, a fondo giallo, l’immagine grigio-pietra (risalente ad età medievale) dell’alto rilievo di due duellanti, tuttora presente sulla parete di un edificio di corso Mazzini. Nel secondo, invece, trasformammo la pavimentazione di Piazza del Popolo in una scacchiera arlecchinesca che dava immediato il senso dello spirito del Carnevale. Il primo è rimasto in archivio all’Ente Quintana; l’altro è ancora base di manifesti, simbolo del rinomato appuntamento ludico ascolano. Nel periodo in cui lavoravi saltuariamente per il Genio Civile ci fu il fortunato ritrovamento del famoso mosaico romano. Puoi raccontare come avvenne? Eravamo alla fine degli anni Quaranta. Per venire incontro alla rumorosa richiesta di lavoro e combattere la disoccupazione, il ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita si inventò i Cantieri di Lavoro. Come ho accennato, ero già collaboratore de «Il Resto del Carlino», diretto da Alvaro Agostini, principe dei giornalisti e maestro per tutti noi. Per arrotondare la paga, avevo chiesto e ottenuto la direzione di un cantiere. A partire da un minino di 20 operai si formavano gruppi impegnati, da uno a tre mesi, in qualunque lavoro di utilità pubblica, anche il più inutile…, purché non alimentassero le fila dei violenti protestatari o peggio. A me diedero il compito di rimuovere il voluminoso terriccio alle spalle del costruendo Palazzo di Giustizia. Un giorno, correndo, venne da me un operaio e mi fece vedere un piccolo tassello di colore blu. Mi disse che ce n’era una quantità. Mi portai sul posto e già gli spalatori avevano scoperto una parte dell’evidente

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Ascoli Piceno, 7 maggio 1953. Il Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi, all’Arengo, con il Sindaco Serafino Orlini (Archivio Storico Iconografico Comunale di AP).

L’acquedotto del Pescara, la più grande opera pubblica realizzata ad Ascoli dopo l’unità d’Italia, iniziata nel 1936 e attivata in città nel 1955 (Nunzio Giulio Teodori, 200 anni di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, Ascoli Piceno, 1976)

16 ottobre 1955. Paci con il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi in visita alla Pinacoteca Civica (Archivio C. Paci).

mosaico romano (il sottosuolo del nostro centro storico riserva spesso tali sorprese). Per vedere meglio, vi feci gettare sopra dell’acqua. Bloccai i lavori e calmai gli operai che volevano distruggere quanto trovato per il timore che il cantiere venisse chiuso. Diedi immediatamente l’ordine di delimitare l’intera area. Misi di guardia, a turno, tre fidati operai, e invitai sul posto il presidente della “Brigata Amici dell’Arte”, avvocato Nunzio Giulio Teodori, che, a sua volta, avvertì Giulio Franchi, vice sindaco con delega al turismo. Seguì la fase burocratica: avviso alla Soprintendenza, transennatura e - molto più tardi - la rimozione dell’intero mosaico, diviso in due parti, data l’ampiezza della sua superficie. Durante la fase di recupero si scoprirono le basi della villa in cui era il pavimento in mosaico. Il reperto policromo, dai bellissimi colori, dall’elegante disegno geometrico e con al centro un motivo a rosone con dentro un misterioso emblema a doppio volto (visto da un lato è un vecchio satiro calvo e barbuto; dalla parte opposta è un giovane dalla folta capigliatura), rappresentò uno dei più spettacolari ritrovamenti di opere musive nelle Marche. Risale all’epoca imperiale, forse ai primi decenni del I secolo d. C. Alla soddisfazione personale della scoperta e del salvataggio di così preziosa testimonianza archeologica, seguì la delusione per la sua scarsa valorizzazione culturale e turistica. Oggi, però, è il pezzo più ammirato del Museo Archeologico di Ascoli Le recenti ricorrenze del 25 Aprile e del Primo Maggio cosa ti hanno evocato? Ricordo, in particolare, il 25 Aprile 1972. I socialisti di Ascoli avevano invitato l’allora Onorevole Sandro Pertini per la cerimonia. Il futuro Presidente della Repubblica era al secondo mandato della Presidenza della Camera dei Deputati. Io ero corrispondente dell’ANSA, che mi aveva messo in allarme. Pertini stava conducendo una delle sue focose polemiche sulla Resistenza - stavolta con il Vaticano -


e avrebbe parlato del 25 Aprile anche in risposta a un notissimo cardinale. Dovevo stargli alle calcagna per ottenere il suo testo. Parlò in Piazza del Popolo, mentre la giornata, col sole che dardeggiava contro il travertino del Palazzo dei Capitani, aveva creato un’afa che pesava sui presenti, i quali, piano piano, abbandonavano la piazza per rifugiarsi sotto i portici, compresi gli accompagnatori del Presidente. Pertini imperterrito, infervorato nel ricordo della Resistenza e polemico con… i prelati, resisteva come una salamandra umana. Si erano fatte le 13,30 ed io mi precipitai verso l’oratore che era rosso paonazzo e in un bagno di sudore. Mi toccò il cuore, ma egli, come niente fosse, mi chiese di trovare un locale dove sedersi “all’ombra”, perché voleva dettarmi il testo. Era presente il neo sindaco Antonio Orlini che ci accompagnò in Arengo e ci fece accomodare nella sua stanza. Salutandoci, pregò un commesso di rimanere in servizio. E qui venne il bello. Pertini, con la sua cadenza ligure, cominciò a buttar giù un comunicato e per almeno sette-otto volte ricominciò da capo, dopo lunghe pause. Erano le 14,30 quando di colpo mi fece: “Caro ragazzo, ma tu non hai fame? Io sì e allora andiamocene!”. Leggendo l’interrogativo sul mio volto, concluse: “Per lo scritto non ti crucciare, scrivi quello che cazzo ti pare…”. E così terminò l’incontro. Per l’ANSA mi arrangiai a buttar giù quattro righe in termini pacati. Forse si concluse così anche la polemica di Pertini con il Vaticano… Oggi è il primo maggio e si celebra la Festa del Lavoro. Con tanta disoccupazione, con la

Manifesto progettato dal pittore Nino Anastasi e da Carlo Paci per la prima edizione della Quintana moderna del 1955, utilizzato anche successivamente (Archivio Ente Quintana, Ascoli Piceno)

Ottobre 1965. Il Presidente del Consiglio Aldo Moro a Colle San Marco per l’inaugurazione del monumento (arch. Enrico Teodori, scultore Valeriano Trubbiani) ai partigiani caduti il 2-3 ottobre 1943. Riconoscibili tra le autorità civili e militari: (a dx di Moro) il Presidente della Provincia Giovanni Ramazzotti e il Ministro del Turismo e dello Spettacolo On.le Achille Corona; (accanto al Generale dell’Esercito) l’On.le Renato Tozzi-Condivi (N. G. Teodori, 200 anni di vita ascolana attraverso le immagini, Cassa di Risparmio, Ascoli Piceno, 1976).

Il manifesto di Anastasi e Paci con Piazza del Popolo ‘vestita’ da Arlecchino. Dal 1982, e per molti anni, ha annunciato l’inizio del Carnevale Ascolano (Luca Luna, Carnevale di Ascoli Piceno, D’Auria Editrice, 1999).

recessione, eccetera, sembra una contraddizione in termini parlare di “festa”, ma non è nemmeno giusto che si intoni il de profundis, senza un briciolo di speranza per il futuro. Basta confrontarci con l’Ascoli del Primo Maggio post-bellico del 1945. Pochissimi si recarono sulla Fortezza, luogo a memoria d’uomo deputato come sede dei festeggiamenti. I sindacati erano in corso di riorganizzazione e si optò per una manifestazione unica per la Liberazione, i partigiani e la riconquista della democrazia. Si tenne al Ventidio Basso: Renato Tozzi Condivi parlò per la DC, Danilo De Cocci per il CLN, Guido Fioravanti per il PCI (rimasto noto per l’invito ai socialisti “Fusiamoci!”). Tutto andò liscio anche se, per lunghi tratti, manifestarono verbalmente il loro dramma gruppi (ed erano tanti!) di senza lavoro e privi di ogni aiuto. La città si presentava con tutte le sue ferite lasciate dai tedeschi in fuga: ponti, Casermette, Officina gas, trasformatori cabina UNES. Per entrare ad Ascoli isolata, si usavano le prime passerelle in legno. E nacque il nuovo mestiere di “aiuto carretti e carrozzelle con cavalli”: poiché per scendere o risalire dal fiume s’erano costruiti erti sentieri in terra battuta, dove necessitava l’intervento di forti braccia per superare l’ostacolo. Ecco i neo forzuti all’opera: poche lire per la spinta o il

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14 aprile 1973. Nella Pinacoteca Civica Paci incontra il Presidente della Repubblica Giovanni Leone ad Ascoli per costatare gli ingenti danni causati dal terremoto del 26 novembre 1972 (Archivio C. Paci).

“cagna-merce” (l’aiuto contro qualche prodotto come verdure, uova, farina, fagioli, eccetera). Malgrado la natura agricola del territorio, la fame era di… casa, se non avevi moneta per il fiorente mercato nero. Comprese le sigarette di “contrabbando”, vendute in via Trieste a 200/300 lire il pacchetto. Ma lo spirito di ripresa non venne mai meno. Nel 1946 era potentissimo l’unico sindacato, la CGIL di Giuseppe Di Vittorio. Poi la prima scissione con la CISL e la UIL: la sinistra sempre alla Fortezza, i cislini al Marino, la UIL con scampagnate in diversi centri. Allegria familiare, comizi, gastronomia da campo, grandi bevute, balli e qualche scazzottata! Intanto la città e il territorio si ricostruivano anche moralmente e politicamente. Purtroppo, chi è senza lavoro e soffre la fame, finisce per non apprezzare i valori ideali della democrazia. È sacrosantamente vero. Ma speriamo di arrivare al superamento della crisi e di ritrovare la filosofia della mente e non quella della pancia.

La militanza politica

...In che direzione si è evoluta dopo la militanza nel Partito Repubblicano rappresentato da Ugo La Malfa? Breve periodo iniziale nel Partito d’Azione, poi, pienamente convinto dalla politica di Ugo La Malfa, alla vigilia del referendum istituzionale, ritenni ovvio iscrivermi al PRI. Per anni, oltre a La Malfa, seguii Giovanni Conti, Bruno Visentini, Giovanni Spadolini, Enrico Ermelli. I repubblicani godevano di stima e considerazione per cui anche prima del centrosinistra venivano accolti nelle giunte comunali e provinciali. Io mi appassionai e mi dedicai moltissimo al partito fino a divenirne segretario provinciale ed essere nominato membro della Giunta Provinciale Amministrativa e consigliere degli IRCR (Sanità e Assistenza), presidente della prima Scuola Infermieri; coadiutore amministrativo del nuovo Ospedale Mazzoni. Mi occupai anche di sindacalismo: cofondatore con Gastone Ciotti della UIL nel Piceno e segretario provinciale. Ma, ancor prima che il governo divenisse un feudo berlusconiano, il PRI non rispondeva più alla fraternità mazziniana, fatta soprattutto di doveri da rispettare. Oggi voto per il centro sinistra, turandomi… mezzo naso! A proposito della frequentazione dei rappresentanti nazionali del PRI, mi piace ricordare un episodio insolito. Poiché nutrivo grande stima per l’On.le Oronzo Reale di cui ero diventato amico, spesso mi recavo a Roma per salutarlo e rivedere i due segretari personali ascolani (prima l’ex senatore Gianni Ferrante, poi il dirigente bancario Gianfranco Silvestri). Una volta - Reale era Ministro della Giustizia - avendo io necessità della toilette, il Guardasigilli mi annunciò con enfasi: “Ti apro il bagno del Duce!”. E prese da un cassetto la riservata… chiave di quel particolare luogo di decenza personale. Entrai quasi con sospetto, con il timore di vedere Mussolini assiso in trono… L’ambiente aveva dell’assurdo: tutto nero, dal pavimento alle pareti totalmente ricoperte da grosse mattonelle lucide. Nero anche il lavandino di ceramica, il piano di appoggio sovrastante; nero un mobiletto di servizio. Non basta: neri il water e la tavoletta, il porta scopino. Non nascondo che provai emozione unita a soddisfazione: mi ero seduto sul “cacatore” del Duce. Quando uscii avevo ancora il volto attonito, come dopo aver visto al circo la donna cannone, mentre Reale e i suoi collaboratori sorridevano sotto i baffi…

Riflessioni sul Presente

A quell’epoca avevi già un’ideologia politica ben definita? Sì. L’ideologia mazziniana mi era stata già inculcata da mio padre. Ero antifascista, come alcuni miei amici di Ancona, già dai primi anni Quaranta.

Passando all’attualità, ritieni che per riportare alla normalità la situazione sociale e politica dell’Italia ci sarebbe bisogno di

Ascoli Piceno, 31 maggio 1981. Carlo Paci intervista il segretario nazionale del PCI Enrico Berlinguer nella sede locale del partito (Archivio C. Paci).

Ascoli Piceno, settembre 1981. Paci con il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini (Archivio C. Paci).

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Quindi il tuo lavoro in una certa misura procede con immutato entusiasmo!? Certamente! E con entusiasmo immutato cerco di essere ancora utile alla comunità, onorando la professione anche come ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche.

un’altra esemplare azione di resistenza? Sì, la resistenza contro la corruzione! Ma oggi da chi potrebbe essere ‘liberato’ il nostro Paese? Da gente perbene, seria e competente: democratica! Bisogna resistere, andare avanti e risorgere nuovamente.

In fondo la pratica giornalistica di ora, sebbene esercitata da casa, ti consente di essere presente quotidianamente nella vita della città... Oggi con l’informatica si può fare tutto. Il giornalista non è mai isolato; eppoi io sono, per vecchia e nuova abitudine, come Nero Wolf che ordinava per telefono anche i fiammiferi, informandosi, però, sulla marca e sul prezzo…

In generale il giornalismo di oggi partecipa responsabilmente al mantenimento della libertà e della democrazia conquistate a caro prezzo? Il giornalismo, comunque espresso, avrà sempre una sensibile ricaduta sulla società; positiva se l’operatore della comunicazione sarà serio, sincero, onesto e libero. Ascoli Piceno, 31 ottobre 1981. Paci con il Presidente della Repubblica Sandro Pertini (Archivio C. Paci).

Un tuo pensiero sull’appartenenza alla Storia e sul valore dei ricordi personali legati agli accadimenti del passato. Siamo tutti cittadini nella storia, ma i ricordi di chi ha un intenso passato sono tasselli anche di una storia minore, pur necessaria per non lasciare al buio il futuro.

Entriamo brevemente nella sfera più intima. Rivisitando il tuo passato alquanto nomadico, cosa provi oggi a causa della ridotta mobilità fisica? Prima cosa sapersi adattare senza perdere la pazienza e non sprofondare nel nullismo della compassione e della depressione. Ottima cura fare sempre progetti senza legarli all’età e allo stato fisico. Insomma: sentirsi e dimostrarsi vivi.

Ascoli Piceno, maggio 1990. Paci saluta l’On.le Achille Occhetto (segretario nazionale del PDS); accanto a lui Monica Acciarri (segretaria del comitato ascolano del partito), al centro l’Avv. Francesco Marozzi (vice presidente del Consiglio Regionale Marche) e il senatore Gianni Ferrante (Archivio C. Paci).

Ne consegue che il dialogo con il territorio ha anche una funzione terapeutica. Sì, e con positivi, costruttivi effetti.

Hai mai pubblicato queste tue memorie? Mai. Auguri di buon lavoro! E buon servizio pubblico! Chiedo venia per i troppi e insistiti riferimenti personali…! Grazie per aver risposto puntualmente alle numerose domande. Sono rimasto sorpreso di come sia vivo in te il ricordo di un passato che indubbiamente ha segnato la tua esistenza. maggio-ottobre 2012

2a parte - fine

1990. CP con Giulio Andreotti e Amos Ciabattoni, segretario della sezione ascolana DC (Archivio C. Paci).

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Emilio Greco - La vitalità della scultura di Stefania Severi

“E

milio Greco - La vitalità della scultura” è il titolo della mostra (29 giugno - 29 settembre 2013) al Palazzo dè Mayo di Chieti, sede degli uffici della Fondazione Carichieti, organizzata in occasione del centenario della nascita del grande artista. Emilio Greco è nato a Catania nel 1913 ed è morto a Roma nel 1995. Di famiglia molto povera, lasciata la scuola, entrò a lavorare nella bottega di uno scultore di monumenti funerari. Passava tutto il tempo a disegnare, scolpire e modellare. A 20 anni esponeva per la prima volta i suoi disegni al Circolo Artistico di Catania. Entrato all’Accademia di Belle Arti di Palermo si diplomava nel 1934 dopo il servizio militare. Iniziavano le prime commissioni e le partecipazioni a mostre nazionali, tra cui la IV Quadriennale del 1943, intervallate da varie chiamate alle armi. Nel 1943 si trasferiva a Roma dove lavorava come disegnatore, prima presso lo spolettificio del Regio Esercito, poi, con l’arrivo degli Alleati, presso la Croce Rossa. Si dedicava soprattutto ai ritratti, che esponeva in varie circostanze. Ottenuto uno studio nell’ex Accademia Germanica di Villa Massimo, sequestrata provvisoriamente ai tedeschi, vi rimase a lungo, per poi trasferirsi definitivamente, agli inizi degli anni Sessanta, nella casa-studio di Via Cortina d’Ampezzo. Nel 1947, col comunista “Fronte della Gioventù”, cui facevano parte altri artisti come l’amico siciliano Saro Mirabella e l’amico marchigiano Sante Monachesi, soggiornava a Parigi. L’attività espositiva si andava intensificando e nel 1948, in occasione delle Olimpiadi di Londra, la sua scultura “Lottatore”, fu esposta alla Tate Gallery. Dagli anni Cinquanta è un susseguirsi ininterrotto di appuntamenti espositivi in Italia e all’estero, di premi e di traguardi importati, di cui si segnalano i più significativi. Nel 1953 vinceva il concorso per il monumento a Pinocchio a Collodi (inaugurato nel 1956). Nel 1955 otteneva la cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli dove sarebbe rimasto fino al 1967. Nel 1956 alla XXVIII Biennale di Venezia vinceva il Gran Premio della scultura. Tra il 1960 e il 1961 lavorava agli altorilievi nella chiesa di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio (Firenze), capolavoro dell’architetto Giovanni Michelucci. Tra il 1960 e il 1970 realizzava le porte del Duomo di Orvieto. Tra il 1964 e il 1967 realizzava il Monumento a Giovanni XXIII nella basilica di San Pietro in Vaticano. In occasione di sue mostre all’estero, alcuni grandi musei gli hanno offerto di entrare stabilmente nelle loro collezioni. È il caso dei musei russi “Puskin” di Mosca ed “Ermitage” di San Pietroburgo e dello

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Lottatore, 1947, Bronzo, cm 30 h, Museo dell’Opera del Duomo – Museo Emilio Greco, Orvieto

Grande Figura Accoccolata n.2, 1968, Bronzo, cm 140 h, Museo dell’Opera del Duomo Museo Emilio Greco, Orvieto

Memoria dell’Estate, 1979, Bronzo, cm 230 h, Museo dell’Opera del Duomo – Museo Emilio Greco, Orvieto

Hakone Open-Air Musem del Giappone. In Italia sue opere entravano in vari musei tra i quali la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e si aprivano il Museo Greco ad Orvieto (1991), il Museo Greco a Sabaudia e il Museo Greco a Catania (1994), mentre gli Archivi Emilio Greco trovavano sede nel Complesso di San Salvatore in Lauro a Roma. Sul suo lavoro hanno scritto i più importati critici da Carlo Ludovico Ragghianti a Fortunato Bellonzi. Di lui ha scritto anche molto il corregionale amico Leonardo Sciascia. Il ripercorrere, sia pure brevemente, la vita di questo artista, ha inteso sottolineare come essa sia stata caratterizzata da importanti traguardi artistici, premi internazionali e critiche illustri. Pur tuttavia l’opera di Emilio Greco rimane appannaggio di un numero relativamente piccolo di estimatori. Ciò perché, nella storia dell’arte di più recente stesura, Greco, e con lui tanti altri artisti, che si sono dedicati alla pittura ed alla scultura con intelligenza e perizia, non compaiono o sono considerati accademici e superati. Sottolinea le cause di questo fenomeno aberrante Gabriele Simongini, curatore della mostra, nel suo saggio in catalogo “Emilio Greco, il poeta della scultura”: «Si sta riscrivendo, con ben poco pudore, la storia dell’Arte del Novecento, trascurando figure quanto mai rilevanti ma estranee allo sregolato sistema finanziario che domina il mondo artistico…». Ben venga dunque la mostra di Chieti che, unitamente alla mostra al Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto (22 giugno - 3 novembre 2013), focalizzata sull’opera sacra dell’artista, ne rinverdisce doverosamente la memoria. Bello il catalogo edito da Allemandi, comune alle due manifestazioni, che contiene saggi, oltre che di Simongini, di Elisabetta Cristallini, Francesco Buranelli, Alessandra Cannistrà e Antonella Greco, figlia dell’arista e Presidente degli Archivi Emilio Greco. Ma perché oggi Emilio Greco va ancora visto ed ammirato? Perché è artista che, ponendo umanisticamente l’accento sull’uomo, ne ha reso la forma e lo spirito, articolando volumi e superfici in un linguaggio tutto peculiare che, pur variamente attingendo soprattutto alla scultura greca, alla ritrattistica etrusco-romana ed alla statuaria gotica, risulta, in ultima analisi, assolutamente personale. In lui realtà e idealizzazione sono armonicamente bilanciate in una ricerca d’assoluto, e questo assoluto, da scultore, lo ha ricercato nel corpo umano. Come infatti scrive Simongini nel suo saggio: «Emilio Greco è stato un cantore della bellezza laicamente sacrale del corpo umano».


TIRABASSO SERAFINO

L’Azienda Tirabasso Serafino ha conseguito la certificazione UNI EN ISO 9001:2008 A seguito delle risultanze dell’audit la Commissione tecnica RINA Service S.p.a ha deliberato il 28 Febbraio 2013 scorso che il Sistema Gestione Qualità risulta conforme ai requisiti della Normativa. Un valore aggiunto per l’azienda del Fermano che ha adottato il Sistema di Gestione Qualità al fine di conseguire, conservare e migliorare le proprie prestazioni e le capacità organizzative. Raggiungere e mantenere i più alti livelli di standard qualitativi, significa dunque rispondere ad una domanda che mai come oggi si è fatta più viva e richiesta in più ambiti: nei prodotti come nei servizi, nelle procedure decisionali come in quelle amministrative. Un modello organizzativo ancora più efficiente, l’ottimizzazione degli iter operativi, la definizione di responsabilità, ruoli professionali e flussi di lavoro, costituiscono i punti di riferimento che consentiranno di garantire servizi e prestazioni destinati ad aumentare ancor più la soddisfazione della clientela. Un importante vantaggio competitivo che, oltre a trasmettere affidabilità e fiducia, pone l’Azienda Tirabasso Serafino tra le poche nel settore che attualmente in Italia hanno conseguito lo stesso traguardo.




RACCOSTA di Nanda Anibaldi

O

vvero Vincenzo Raccosta. Una via una contrada un numero civico possono aggiungere qualcosa di più ad un nome e ad un cognome? Bisogna scavare. Entrare nella casa. Scoprirne i segreti. Sapere cosa fa abitualmente. Conoscere i suoi sogni e le sue proiezioni. Parlarci guardarlo da vicino leggere i suoi imbarazzi, intuire le sue vanità cogliere la sua soddisfazione che gli deriva dalla voglia di aggregarsi e spendersi per qualcosa in cui credere; fare da propulsore in tempi sospetti, rischiare di suo investire in proprio. Comunque abita a Casale Raccosta - via Raccosta, 738 - Sant’Elpidio a Mare - Casette d’Ete - FM. è riuscito anche a dare il suo cognome alla via. Un’identificazione di tutto rispetto. Campagna aperta strada brecciata fila di alberi e ulivi a contorno. Il casale è di un settecento rurale. L’aia, quella di “c’era una volta”. Quando ci si pulivano le pannocchie di granoturco e a lavoro finito ci si ballava al suono degli organetti. Non è difficile immaginarlo neppure oggi vista l’integrità del manufatto. Lui, Vincenzo, ci vive con la vecchia madre e con le sue oche di cui è allevatore. Si fanno sentire, interloquiscono non solo tra di loro ma anche con gli ospiti che sono numerosi in particolari occasioni. Come nella rassegna d’arte ARTE NATURALMENTE 2013 che nasce nel 2011 ed ha una cadenza biennale. Ventotto gli espositori tra scultori pittori grafici fotografi installatori. L’adunata il 3 agosto scorso e per i visitatori fino al 18. Le oche sempre lì, non se ne vanno né sono messe in quarantena per l’evento. Fanno parte del paesaggio e sono anche belle a vedersi con quel collo lungo e arcuato. Vincenzo non prova alcun imbarazzo tra tutta quella gente che si muove con disinvoltura e con la consapevolezza ciascuno di essere un protagonista. Anzi esprime la sua soddisfazione e innegabilmente la sua generosità. Si sente ed è a casa e sa che le sue oche gli permettono anche questo. Lui è tra gli espositori a pieno titolo. Dipinge anche quello che vede o quello che mangia come l’olio su tela “L’abbondanza”. Una sorta d’ingenuità concettuale che tuttavia non gli impedirebbe di collocarsi nell’iperrealismo se si potesse fotografare un pasto abbondante non ancora digerito. Mecenate o sponsor? Per qualcuno la distinzione è d’obbligo per altri no. Se di diaframma vogliamo parlare la differenza è solo semantica. Da Cilnio Mecenate - protettore delle lettere e delle arti, influente consigliere e sostenitore del regime imperiale di Augusto - passando per il Rinascimento italiano tra cui l’esempio più illustre Cosimo il Vecchio e quindi il nipote Lorenzo - politico scrittore mecenate umanista sul versante laico mentre sul versante ecclesiastico Alessandro VI Borgia - originario di Valencia - che portò a Roma il gusto dell’arte catalana con Pinturicchio come suo interprete ideale; Giulio II, uno dei più celebri papi del Rinascimento con

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Vincenzo Raccosta, L’abbondanza, olio su tela, 70x80 cm

Giampiero Castellucci, Senza titolo, tecnica mista, 100x70 cm


progetti artistico-urbanistici molto importanti anche per l’altisonanza dei nomi (Bramante Michelangelo Raffaello); Leone X nato Medici che in occasione del suo soggiorno a Firenze(1515) avvia il proprio programma di mecenatismo artistico. Con la celebrazione del suo esponente più in vista la famiglia Medici celebra se stessa, la sua dinastia. Celebra il passato il presente gettando le basi per il futuro. Quel futuro che a Firenze ha avuto la sua massima espansione in quantità e bellezza. Ma non solo. Ha attraversato la spina dorsale raggiungendo per terminazioni laterali le nicchie più nascoste e più schive ed è arrivato fino a noi. A questo presente che esprime una massificata confusione per una sorta di permissivismo politico ma anche punte di spicco che non possono confondersi con l’indistinto. Così interpretiamo Vittorio Amadio che per le sue molteplici esperienze, compresa quella fisica del mondo, il suo acrilico “Art in Blues 42714” è atomo che attraversa lo spazio guidato da una razionalità all’interno; è materia animata che percorre il siderio per raggiungere l’obiettivo. Così leggiamo la “Passio” dello scultore Arnoldo Anibaldi che in quel suo bassorilievo - fusione rame e oro -, esprime il suo travaglio non tanto nel volto, che già guarda verso la speranza del cielo, ma nella tensione del corpo e nei vacuoli della materia che fa da catalizzatore. Morbido il modellato, colorato da quei tagli che solcano la miscela della materia di cui è fatto. L’artista non si può separare dall’uomo. Dalla sua professione. Da quello che fa. Da quello che vede. Ogni parte s’insinua nell’altra per essere tutt’uno. Così quel “Senza titolo” di Giampiero Castellucci. Volti che osservano dall’alto una città che si stende nel piano con possibilità di ampliamento. Una città come lui la vorrebbe? Vivibile da cui non è assente il pericolo? Case che si staccano e distinguono ed altre che si confondono e si fondono con il colore quale fiume che corre scavando il suo letto. Così l’idea che vede e non l’obiettivo in “Cinetica dell’armonia” di Giorgio Cutini che è uno dei fondatori del Manifesto “Passaggio di Frontiera” (1995) insieme a Mario Giacomelli. Fuoco sfocato. Evanescente. Che viene dalla difficoltà di un inconscio che pure c’è ma che raramente affiora. Presente / assente. Fantasma che si materializza per poi scomparire. Come “Intermezzo” di Maurizio Governatori. Vaso con fiori recisi - appassiti - che piegano lo stelo e il capo per trovare nuove collocazioni. Un intermezzo tra la vita e la morte. Intervallo per rinascere in altre forme in altri colori dentro un’essenzialità spaziale/temporale. Per nominarne solo alcuni presenti nel casolare Raccosta, il nuovo mecenate rurale. Una velocissima campionatura per un mecenate d’eccezione che corre da solo. Per evitare questa estemporaneità solitaria bisognerebbe dar vita a una “Impresa Culturale” incrementando il confronto tra economia e politica con una ricaduta economico-occupazionale soprattutto per il territorio di riferimento. Per dare maggiore forza alle risorse da attingere nella collettività. È cambiato il clima, sono cambiati gli operatori ma l’obiettivo è sempre lo stesso. Promuovere l’arte tutelarne la bellezza e la funzione sociale che ne deriva sempre con un ritorno per chi fa opera di mecenatismo. Pare che Virgilio scrisse le Georgiche su invito di Cilnio Mecenate che si faceva interprete del programma di risanamento morale, di pace e di lavoro formulato da Augusto cui realmente stava a cuore la ripresa dell’agricoltura. Niente è a fondo perduto. La strada è di andata e ritorno.

Vittorio Amadio, Art in Blues 42714, 2013, acrilico su tela, 100x100 cm

Arnoldo Anibaldi, Passio, 2013, bassorilievo, fusione rame e oro, 66x46 cm

Giorgio Cutini, Cinetica dell’armonia, fotografia

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Salvadanai d’Autore Il mestiere dello scultore di Nanda Anibaldi

I

l significato ci sta tutto. Anche nell’accezione di attività manuale contrapposta ad Arte quando per mestiere si vuole solo intendere un’attività artigiana. Ci sta anche quando l’etimo ministerium s’incrocia con mysterium. Quel mistero che appartiene pure all’arte. Che lo scultore rivela dall’aggettanza, dal togliere e dall’aggiungere, dal modellare. E lo fa con la mano toccando continuamente la materia che deve corrispondergli. Alzando e abbassando le quote. Enfatizzando le forme e i volumi. Catturando il colore dentro la forma con un gioco sapiente di vuoto e di pieno. Arnoldo Anibaldi non fa eccezione. Il suo punto di partenza Monte Urano. Il suo punto di osservazione Firenze in quanto allievo all’Accademia di Belle Arti dal 1966. L’approdo, di nuovo al suo paese d’origine come sede di stabilità da dove ripartire e tornare. Tornare e ripartire. Curioso e attento fin nei minimi dettagli, è difficile che inciampi in una caditoia. Il mondo che osserva lo tocca non solo con gli occhi. Togliere. Aggiungere. Toccare. Modellare. Plasmare. Dare alla materia sorda una forma. Sottoporla alla mano che preme perché dia una risposta. Perché l’idea assuma un volto fuori dalla maschera. Perché assuma la sembianza. Ecco che il mistero si svela e il mestiere-mistero assume la sacralità dell’arte. Non più un altare vuoto. Pieno di forme di figure di colori di prospettive. Di campiture. Di riflessi. Di ori. Che nella personale di Arnoldo Anibaldi rapiscono la mente e il pensiero. Personale concentrata nello spazio-atelier della sua abitazione in centro storico per prendere poi altre direzioni. Per sentire il polso di chi nel paese ci abita. Per chi lo vede camminare ogni giorno. Per chi lo sente parlare appassionatamente. La passione e l’ironia sono i suoi punti di forza. La passione con cui scalda anche l’argomento più banale e l’ironia con cui spezza, attraversandola, ogni seriosità. Un approccio monotematico per le forme scelte. Diciotto salvadanai su cui l’Anibaldi ha impresso il suo pittorilievo. Farfalle pesci totem facce bi-tridimensionali su fondi variegati. Una sapiente miscellanea alchemica. Quell’aggettanza te la senti addosso. Diventa cellula. Varrebbe la pena di toccarla. Il pittorilievo ti scatta tra i polpastrelli. Ecco il mestiere. L’arte e l’artigianalità si coniugano strette a comporre una fitta rete. Una ragnatela impreziosita dal colore e scandita dal rilievo. A corredo, due tele che ripropongono il tema del volo impresso su alcune di quelle superfici convesse. La stessa tecnica. Lo stesso risultato amplificato. Guidato dalla superficie piana e più estesa. Scolpire-modellare-togliere-aggiungere. Sovrapporre. Stratificare. è il mestiere di quell’artigiano-artista che è lo scultore. Che usa poco il pennello come prolungamento della mano ma più la mano stessa perché la materia risponda al suo interrogativo.

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Arnoldo Anibaldi nel suo atelier con la nipote Viola

Bifacciale nero bianco

Uccelli in volo


Onda, bassorilievo in legno dorato e mosaico, 130x95 cm

Gatto, argento, rame e resina, 40x40x25 cm

Farfalle

Colomba, argento, rame e resina, 15x30x12 cm

NOTE BIOGRAFICHE Arnoldo Anibaldi nasce a Monte Urano (AP) dove attualmente vive e svolge la sua attività. Dopo il diploma, nel 1966 va a Firenze a studiare all’Accademia di Belle Arti con il maestro Antonio Berti. In questo periodo così carico di fermenti politici e sociali forma insieme a Sandro Chia, Mario Agostini, Mario Daniele, il gruppo sperimentale “L’Accademia” per accogliere nella pittura, nella scultura, nell’arte in genere le nuove prorompenti istanze. La prima importante affermazione è nel 1975 quando espone nella sezione “Nuova Generazione” alla Quadriennale di Roma. Successivamente si classifica secondo al Concorso Internazionale “Città di Marino”. Di seguito partecipa all’Expò d’Arte di Bari e all’Arte Fiera di Bologna. Al suo attivo numerose personali tra disegno, grafica, scultura e innumerevoli collettive in Italia e all’estero. Ultime importanti esposizioni in Germania (Monaco), in Spagna (Barcellona), al Festival di Spoleto, alla Galleria Mentana di Firenze. La sua affermazione è inoltre sottolineata nella pubblicazione “Le Marche e il XX secolo. Atlante degli Artisti”, Federico Motta Editore (nov. 2006). I suoi lavori sono presenti in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Contatti: tel. 0734 842379 - mobile 328 9126187 www.arnoldoanibaldi.com arnoldo.anibaldi@virgilio.it

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SEMPLICITÀ ED ELEGANZA DI UN COPRICAPO ESTIVO di Giuseppe R. Serafini

L

a classica e italianissima paglietta, di rinomanza mondiale - molto di moda specialmente fra il diciannovesimo e ventesimo secolo - dopo gli Anni Venti, a causa della sua struttura troppo rigida, andò in disuso e venne man mano sostituita da modelli realizzati con materiali più morbidi e flessuosi. Mentre il venerdì nero (24 ottobre 1929) degli Stati Uniti scatenava la grande crisi economica mondiale, in Italia l’industria dei cappelli di paglia, pur avendo subìto una flessione tanto da sembrare che la moda estiva prediligesse il “look dei capelli” ai cappelli, stava registrando importanti segnali di ripresa. Il Comitato Italiano per l’Arte e per l’Industrie dell’Abbigliamento (C.I.A.) dal canto suo si assunse l’arduo compito di presentare e giustificare una nuova moda dei copricapo in armonia con la linea disinvolta degli abiti Ecco come si presentava la folla nelle tribune dell’ippodromo di Miami, in Florida, una delle villeggiature invernali d’America (da “Bollettino R”, op. cit.) e, in relazione al risveglio nazionale e internazionale, diede inizio a una massiccia propaganda indiretta su tutti i media per un piano di rilancio soprattutto di una paglietta semirigida che avvolgesse la testa con la stessa plasticità del feltro. Mediante l’appoggio dell’ufficio stampa del Partito Nazionale Fascista furono diffusi alla stampa quotidiana brevi articoli di varietà. In collaborazione con la Federazione Cinema si affissero, all’interno e all’esterno delle sale, manifesti con i più noti attori dello schermo che indossavano cappelli di paglia. Articoli illustrati apparvero nei più letti periodici italiani (“Domenica del Corriere”, “Il Piccolo”, “La Tribuna”, “La Gazzetta del Popolo”, “Il Lavoro Fascista”, “Il Popolo d’Italia”, “L’Illustrazione”) e su testate francesi, tedesche, inglesi. Anche attraverso l’Eiar (la radio dell’epoca) furono mandate in onda conversazioni sui nuovi cappelli alla moda. Alfredo Smith, ex governatore di Il miliardario Browmann, re Ecco qualche esempio tra marzo e luglio del 1930. New York, rivale di Hoover degli alberghi americani La ripresa del cappello di paglia in America e in Europa è favorita dagli stessi negozianti Se le nostre informazioni provenienti dall’America del Nord e dalle principali nazioni europee non sono errate, ed esse si ripetono e si controllano vicendevolmente, la stagione 1930 segnerà una decisa ripresa del cappello di paglia. Intensissima si svolge già in America, sotto tutte le forme di pubblicità, il lancio del cappello di paglia, e nel soggiorno balneare di Palm Beach, in Florida, rifugio, durante l’inverno, di tutta l’alta società nord-americana, il cappello di paglia ha trionfato con un successo senza precedenti. E gli stessi negozianti di cappelli favoriscono la ripresa e l’incoraggiano sotto tutte le forme perché nella rinnovata voga di questo copricapo vedono un mezzo sicuro e redditizio Frank O. Craig, personalità della per animare il loro negozio durante i noti periodi di calma della fine di stagione di primavera riviera floridiana e dei mesi estivi.

Mr. Smalley, presidente del golf-club di Chicago

(“Bollettino R”, 20 marzo 1930, editore C.I.A)

Un primato italiano: il cappello di paglia Un ritorno che non ha soltanto un grande valore estetico, pratico ed igienico, ma anche e sopratutto per il nostro paese un grandissimo valore economico, è stato decretato quest’anno dall’Olimpo dell’eleganza e della moda: il ritorno del cappello di paglia. Nato in Italia, divenuto in Toscana e in altre regioni uno dei prodotti industriali più proficui, perchè di più vasta esportazione, da tempo il cappello di paglia era stato relegato in soffitta, in omaggio alla moda oltremontana delle chiome e delle... zucche al vento. Ora la moda lo rimette sul treno, con tutti gli onori, e lo impone sui mercati mondiali e di preferenza su quelli inglesi e americani, dove l’uso del cappello di paglia incontra il più largo favore. (“L’Illustrazione Fascista”, Anno VIII, 29 giugno 1930)

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Un gruppo di studenti inglesi, entusiasti del loro cappello di paglia



Intervista all’Italian Saxophone Quartet di Maria Alessandra Ferrari

I

suoni trovano musicisti capaci di aggregarli, di comporli e disporli secondo ritmi nascosti. Nell’Italian Saxophone Quartet, formazione cameristica di saxofoni compatta ed intraprendente, l’operazione avviene in modo fruttuoso dal 1982. Intendiamoci, la vita quartettistica non è agevole e l’ascoltatore sagace ne è conscio. Maturità musicale, agilità e vigore d’intelletto necessari per percorrere quel cammino artistico, sono appannaggio di pochi. Oltre all’impegno personale, poi, è decisivo che ciascuno dei quattro possieda una virtù, rara e perciò preziosa: l’ironia. Sulla bontà della scelta di unire le vostre considerevoli doti solistiche in un quartetto, non nasce alcun dubbio. Ma qual è la qualità essenziale affinché una formazione musicale sia, per oltre vent’anni, compatta ed intraprendente… Mario: La curiosità , il mettersi sempre in gioco, ma anche tanta, tanta pazienza ! Marco: Intenso lavoro innanzitutto e, come poi sovente amiamo scrivere nel curriculum…. “un felice clima di intesa umana e professionale”, con l’obiettivo comune di continuare a crescere musicalmente e professionalmente. Massimo: Il desiderio di progredire, di rinnovare i propri stimoli e di alzare lo sguardo verso nuovi orizzonti. Federico: Suonare bene è una bella terapia, è una carezza sull’anima. Nel nostro caso, cerchiamo di avere nuove visioni, riuscendo ad essere sempre propositivi e felici di ciò che facciamo. Nei vostri programmi si trovano allineati compositori, opere, periodi e stili molto differenti tra loro. Qual è il vostro principio ispiratore? È restato uguale o si è modificato nel tempo? Mario: Siamo in viaggio, la metafora è sempre presente, il panorama cambia così come i gusti e le abitudini. Il mio principio ispiratore? La bellezza. Marco: Inizialmente la scelta dei brani era condizionata da una esigenza “quasi esclusiva” di far conoscere il repertorio originale per quartetto di saxofoni, mentre ora l’obiettivo si è ampliato, sia nel voler mettere in risalto le potenzialità espressive dello strumento che nel voler creare empatia comunicativa con il pubblico. Massimo: Le scelte sono in continua evoluzione. Sulle novità stilistiche come sulle composizioni che vanno ad esaltare le potenzialità espressive dello strumento. Da qui la scelta, che si basa sull’estetica musicale ma non esula dalla trasmissione di emozioni e sensazioni che la musica produce. Federico: Sono un entusiasta, amo suonare tutto. Dai brani impegnativi, sia classici che contemporanei, alle trascrizioni di vario genere. Anzi, mi auguro che in futuro le possibilità di integrare con nuovi stili e nuovi generi rappresenti una opportunità crescente. Reputo fondamentale essere “propositivi” e contemplare, nell’offerta del repertorio, anche brani che siano richiesti dai diversi pubblici. È arduo stare insieme nelle lunghe tournée? Federico: Spesso la fatica dei viaggi, spostamenti, aeroporti, auto, packing and unpacking di valigie, ci

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rende un po’ isterici, ma i momenti di spensieratezza sono presenti e ci si abbandona ad una sorta di cameratismo militare. Ci si diverte poi in discorsi che vanno da argomenti elevati ad altri ugualmente profondi (nel senso “verso il basso”!). Massimo: Ci sopportiamo allegramente da decenni e questo ci aiuta a superare momenti di stanchezza, stress e tensione. Ognuno ha le sue manie, le sue abitudini che conoscendoci da tanto tempo riusciamo a condividere. Marco: Data la spiccata ironia e “sdrammatizzante” modalità di affrontare il quotidiano viaggiare dei miei compagni, che è per fortuna estremamente contagiosa (e si contrappone alla mia indole ansiogena), la condivisione nelle trasferte è per me sempre piacevole e leggera… Concedetemi quindi un messaggio ai miei compagni: “thank you, I love you guys”… Mario: La condivisione è una opportunità, un regalo… sorrisi, ma anche incazzature… vengono esaltati alla quarta potenza! Se devo dire una cosa che sopporto male (essendo un po’ uno spirito libero) è l’ansia da orario che è conseguenza di un planning molto denso. La scena su cui si è svolto un concerto davvero appagante… Marco: Mosca, concerto al Cremlino 2010. Dopo un viaggio allucinante, con disavventure negli aeroporti, la preoccupazione di non arrivare in tempo per il concerto e vedere quindi sfumato il desiderio di suonare in quel luogo speciale, improvvisamente, una volta sulla scena, si è aperto un mondo di emozioni. Massimo: Ricordo con grande piacere ed emozione il concerto nell’Isola di Kodiac, in Alaska, quando all’uscita dal teatro un coro di giovani ci dedicava una emozionante interpretazione di “Santa Lucia”. Scoprii dopo che si trattava di giovani impegnati in un percorso di recupero attraverso la musica vocale e strumentale, guidati da un sacerdote ortodosso che proveniva dall’Abruzzo. Fummo invitati a cena nella loro comunità e la serata continuò con un altro concerto che coinvolse anche noi. Mario: Il primo e il prossimo. Dovendo però descrivere un concerto appagante sceglierei la magia del Duomo di Milano. La gratificazione di suonare, quali solisti, in un posto sacro pieno di energie. Concerto appagante, che a distanza di cinque anni non è stato ancora pagato..! Federico: A trent’ anni di distanza dalla fondazione del gruppo mi risulta difficile rispondere. Esaltando un concerto particolare non renderei giustizia a tutti gli altri. La scena appagante direi che è sempre l’ultima, poiché con stupore e meraviglia penso al percorso fatto insieme: è questa la sfida che siamo riusciti a vincere. Dopodiché posso dire che se, da un lato, suonare in una sala di grande prestigio gratifica il mio ego, in realtà ora gioisco di altre cose: il rapporto intimo col suono, lo spazio, il contatto col pubblico, il far musica come momento di libertà assoluta. Dove si trova, intorno al mondo, l’ascoltatore consapevole, non frivolo… Massimo: Non trovo una collocazione geografica o culturale che rappresenti il fruitore ideale di musica. Ogni persona possiede delle antenne ricettive che le fanno percepire la musica in maniera emozionale, ma anche intellettuale. Ad ognuno le sue orecchie… Marco: In apparenza nei paesi dell’est o anglosassoni, ma tuttavia credo che il messaggio musicale arrivi a tutti coloro siano predisposti a percepire, caratteristica ahimè oggi sempre più rara a trovarsi, a prescindere dalla collocazione geografica. Mario: Non penso a una cultura prominente rispetto ad un’altra. Dovendo comunque scegliere, prediligo l’ascoltatore che ha un orecchio emozionale piuttosto che intellettuale. Ricordo a questo proposito l’emozione del concerto fatto nel carcere di San Vittore di Milano quando alla fine un ragazzo con-

Mario Marzi, sax tenore

Federico Mondelci, sax soprano

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dannato all’ergastolo mi disse “grazie per avermi fatto evadere, mi avete trasportato in mille luoghi”. Federico: L’ascoltatore consapevole e non frivolo, per rispondere alla domanda, è ovunque e rimane una questione individuale. Sicuramente l’educazione svolge un ruolo importante, laddove vengono proposti modelli educativi che prevedono ascolto e pratica musicale, si sviluppano interesse e sensibilità. I paesi dell’est e del nord Europa sono esempi eccellenti. Tuttavia il panorama sta cambiando, la musica europea suscita una forte attrattiva in oriente e anche in Sudamerica dove, ad esempio, il “Sistema” di Abreu sperimentato in Venezuela, si pone come esempio illuminante di educazione sociale attraverso la musica. Il punto più alto raggiunto dal quartetto, su cui misurare, in futuro, il termometro della vostra esistenza musicale Marco: Stage Internazionale del Saxofono di Fermo del 2010, nell’esecuzione di “Pagine” di Salvatore Sciarrino. L’incontro e il lavoro fatto con il compositore, la presenza dei tanti ragazzi saxofonisti provenienti da tutta Italia desiderosi di apprendere ed ascoltare, il folto e sempre caloroso pubblico presente negli anni a questo evento, hanno creato un’alchimia tale da permettere un’esecuzione unica, a parer mio, sia dal punto di vista strumentale che musicale: mai eravamo arrivati a questa intensità emotiva e di complicità in una esibizione. Massimo: La mia scelta cade su una delle prime tournée americane. Eravamo a Los Angeles e dovevamo interpretare il quartetto scritto per noi da Joe Harnell, uno dei più celebri compositori americani di colonne sonore. Ricordo la concentrazione intensa e il desiderio di suonare al meglio davanti al compositore, che rimase estremamente soddisfatto dell’esecuzione, gratificando con parole indimenticabili il quartetto. Diventammo amici e amava sempre raccontarci gli aneddoti dei famosi attori italo-americani con i quali aveva lavorato. Mario: Potrei citare centinaia di luoghi e palcoscenici prestigiosi al di sopra di ogni sospetto. Non ho però dubbi. stavolta: l’esecuzione dell’Arte della Fuga di Bach eseguita assieme al quartetto d’archi, opera musicale assoluta, che ho sempre desiderato interpretare e che rappresenta lo zenit della nostra esperienza. Federico: Sicuramente quando il lavoro di interprete si plasma alla presenza del compositore. Ricordo, ad esempio, il Festival Pontino negli anni ‘90, con Herni Pousseur, uno dei grani maestri del ‘900, con il quale abbiamo lavorato il suo “Vue Sur Les Jardins Interdits”. Al lavoro fatto insieme, compositore a fianco degli interpreti, è seguita l’esecuzione pubblica. Il maestro si è espresso nei nostri confronti confidandoci, con emozione, di aver ascoltato la migliore interpretazione, tra le tante, della sua opera. L’amicizia tra voi procede di pari passo con il numero dei concerti? Una laconica confessione sull’attaccamento che vi unisce o sul desiderio di strozzarvi a vicenda. Federico: Si, siamo uniti nel disaccordo totale su tutto, da come gestire le cose a come organizzare un viaggio! È, tuttavia, una condizione che non mi spaventa, quello che conta è il risultato. Restare insieme per così tanto tempo è la sfida vinta. Mario: La condivisione impone le regole…(vedi alla pagina gioie e dolori). Diciamo che la volontà di stare insieme e di condividere le nostre peculiarità al servizio della musica da camera, oltrepassano gli individualismi e le difficoltà di questa meravigliosa avventura. Alla fine rimane sempre un bel regalo. Marco: Dopo più di vent’anni di carriera vissuta insieme, le condivisioni non sono avvenute soltanto dal punto di vista musicale e professionale, ma anche da quello umano e caratteriale. Quindi oggi la conoscenza reciproca è un valore aggiunto, che ci permette di vivere le situazioni musicali nel rispetto delle individualità e di condividere quindi , nel miglior modo possibile le straordinarie occasioni che molto spesso abbiamo. Massimo: È un’amicizia di lunga data, che in questi anni ha subìto anche delle trasformazioni: dalla spensieratezza di ragazzi ventenni e avventurosi siamo passati ad una maturità (solo apparente). Tale

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Marco Gerboni, sax contralto

Massimo Mazzoni, sax baritono


maturità ci aiuta a leggere e a interpretare, oltre che le pagine musicali, anche gli episodi della vita comune. Il desiderio di strozzarci viene mitigato dal piacere di stare insieme. Una buona e fresca birra. aiuta sempre. C’è posto per il cappello, nell’Italian Saxophone Quartet? Federico: Sempre ! Mario: Ovviamente si…. “No hat, no game!” A patto di svuotare un po’ il trolley! Marco: Why not?! Massimo: Si, tra tutti una preferenza per il Panama… L’Italian Saxophone Quartet è composto da Federico Mondelci al sax soprano, Marco Gerboni al contralto, Mario Marzi al sax tenore e Massimo Mazzoni al sax baritono. In più di mille concerti, in Francia, Germania, Spagna, Svezia, Grecia, Giappone, Stati Uniti, Libano e Russia, il quartetto ha diffuso il repertorio classico e contemporaneo del saxofono. In Italia il quartetto ha effettuato concerti per le più importanti istituzioni musicali ed ha inciso un cd di musica contemporanea per l’etichetta Pentaphon. Negli anni 1984 e 1985 il gruppo ha vinto il primo premio assoluto al Concorso Internazionale “Premio Ancona”, presieduto da Goffredo Petrassi, riportando anche il premio speciale per l’interpretazione del repertorio contemporaneo. L’ensemble si è esibito di recente, in veste solistica, con l’Orchestra Sinfonica Malipiero, proponendo musiche di P.M.Dubois e A.Piazzolla. Inoltre, ha collaborato insieme al Quartetto d’archi Fonè, alla realizzazione di un’inedita elaborazione dell’Arte della Fuga di J.S.Bach per doppio quartetto, che è stata presentata al XXII Festival Internazionale di Musica da Camera di Asolo. In occasione del recente tour negli U.S.A., è stato pubblicato un CD contenente musiche per quartetto di saxofoni e pianoforte.

TALENTI PER LA MUSICA IN CONCORSO A FIRENZE di Luciana Grillo

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a conclusione dell’VIII edizione del Concorso Nazionale “Talenti femminile, l’affermazione dei diritti umani per tutti, l’abbattimento per la Musica” ha confermato – se ancora ce ne fosse stato bisogno dell’ignoranza e della povertà. Oggi, in Italia, si contano 140 club e circa – che si tratta di un concorso innovativo che, da sedici anni, mette a 6000 socie. La Presidente Nazionale viene eletta dalle delegate dei club e confronto gli studenti più bravi di Conservatori e Licei Musicali italiani. resta in carica per due anni; guida l’Unione Italiana proponendo idee e Sono ammessi tutti gli strumenti ed anche la voce, il che rende complesprogetti, in stretta connessione con la Federazione Europea. Fra i service sa l’organizzazione delle selezioni per la necessaria “storici” del Soroptimist International d’Italia, trocompresenza di tanti giurati. Comunque, regione viamo sia questo Concorso, che per così dire chiuper regione, si selezionano i migliori musicisti che de il biennio di presidenza, esaltando il valore della poi, in una località scelta di volta in volta dalle socie Musica e dello Studio, che il Corso di Formazione del Soroptimist International d’Italia, si mettono alla presso SDA Bocconi offerto, quasi da trent’anni a gioprova, eseguono anche brani obbligatori indicati dalvani donne laureate; inoltre, il Soroptimist elargisce la responsabile nazionale Claudia Termini, si sfidano un Premio di studio ad una ricercatrice che abbia lain semifinale e successivamente, i prescelti, nella vorato su temi legati al mondo femminile ed un altro prova finale. a persona che abbia dimostrato sensibilità e impegno Il 28 settembre, nella prestigiosa cornice del vicini ai principi e alle finalità dell’associazione. Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze, i quattro Ma torniamo al 28 settembre, alla serata di giovanissimi musicisti premiati si sono infine esibiti Premiazione che ha attribuito il I Premio ad un giodavanti ad un pubblico competente e appassionato, vane e motivato sassofonista, Jacopo Taddei, capace costituito prevalentemente da socie del Soroptimist, di trarre suoni vellutati dallo strumento, di interpreprovenienti da ogni città d’Italia, che hanno setare i brani con straordinaria padronanza e maturità, guito con interesse le performances. La Presidente di esprimere forza interiore ed invidiabile grinta. È Jacopo Taddei Nazionale Flavia Pozzolini, con palpabile emozione, ha premiato questi un ragazzo determinato, nasconde gli occhi vivaci sotto un ciuffo arrufragazzi, augurando loro tanto successo, e nel contempo ha invitato i club fato, sorride con una qualche timidezza, mi dice, in un’intervista “volanitaliani ad organizzare concerti per loro. te”, che da grande vorrà fare il solista o il direttore d’orchestra, che – per Ma cos’è il Soroptimist? e perché si occupa di musica? poter studiare – ha già lasciato la Toscana per le Marche e che si appresta Il Soroptimist è nato negli USA nel lontano 1921, in Italia nel 1928, a ad un nuovo trasloco perché ora l’attende Milano. E intanto, si accende Milano. È una organizzazione mondiale di donne impegnate nel monnello sguardo il pensiero del mare che ama e delle vele gonfie di vento. do del lavoro, decise a promuovere l’avanzamento della condizione Ad maiora, Jacopo!

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CAPPELLI TUTTI A MANO di Giulia Bruno

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a storica modisteria “Gallia e Peter” offre a Milano cappelli metropolitani, feltri, berretti, calotte realizzati rigorosamente a mano, frutto di cura, passione ed esperienza di più di cento anni di artigianato. “È una tradizione iniziata nel 1904 dalla mia bisnonna Angela”, racconta Laura Marelli, erede di quattro generazioni di abilissime modiste. Allora, a Torino, i coniugi Angela e Filippo Gallia si occupavano della cappelleria - modisteria che si fregiava dello Stemma Reale concesso da Vittorio Emanuele III, essendo diventata la “Fornitrice della Real Casa “. Il marchio “Mode Gallia” continuò fino al 1930, quando Mariuccia, primogenita intraprendente e determinata, sposò il figlio della modista milanese Cornelia Peter e si trasferì nella città lombarda, fondando in via Montenapoleone una propria modisteria, la “Gallia e Peter”. Lì si forma e lavora anche Laura, l’attuale titolare, fino a quando decide di lasciare il grande laboratorio di famiglia, per trasferirsi in uno spazio più Laura Marelli al lavoro raccolto in via Moscova, mantenendo due fidate lavoranti. C’è differenza tra cappelleria e modisteria? È importante cogliere da subito la differenza tra cappelleria - negozio aperto al pubblico in cui si trovano cappelli maschili e femminili, già confezionati, prodotti in serie da fabbriche specializzate - e la modisteria, luogo in cui laboratorio e negozio sono complementari, il servizio all’acquirente è prioritario, non esiste uno stile della “casa”. La cliente diventa protagonista assoluta dell’attenzione della modista che ne interpreta desideri ed esigenze, costruendo un cappello solo per lei. La modista può lavorare su un unico capo anche più di dieci ore, senza contare il tempo passato per la scelta del modello e le prove. E il lavoro è svolto tutto rigorosamente a mano. Le modalità di lavoro sono cambiate nel tempo? In oltre quarant’anni di lavoro, abbiamo seguito i mutamenti del gusto e anche la nostra

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manualità si è evoluta; sempre uguali sono rimaste le tecniche di base e gli strumenti che usiamo, i ferretti speciali o i minuscoli ferri da stiro: alcuni appartenevano alla bisnonna Angela. Non facciamo uso di tecnologie avanzate, inutili per i nostri prodotti, limitati e di nicchia. Recentemente, però, abbiamo cominciato ad usare una forbice elettrica. Quali sono gli aspetti specifici della vostra bottega? Il Laboratorio è caratteristico per la sua disponibilità. Sparita la produzione per la modisteria, adattiamo il materiale alle esigenze di lavorazione: per esempio, per realizzare accostamenti particolari, tingiamo o verniciamo a mano i tessuti oppure andiamo alla ricerca di strane penne esotiche. Sono scelte dettate da tradizioni molto vecchie, quando la passione nel saper fare il cappello perfetto era l’essenza del lavoro. Ci occupiamo personalmente di ogni aspetto del prodotto, che deve essere d’altissima qualità, accompagnato da un impeccabile servizio alla persona. È la mentalità dell’artigianato italiano, nato tale, erede di un’orgogliosa tradizione familiare.

I giovani sono attratti da questo tipo di lavoro artigianale? Anche se oggi si nota una certa ripresa del lavoro artigianale nella maggior parte dei giovani che frequentano stages semestrali presso questo Laboratorio, è raro trovare l’atteggiamento dell’artigiano di una volta. L’ambizione può essere grande ma una diversa cultura, anche a livello universitario, scarso guadagno e difficoltà reali spingono verso prospettive differenti. Nel mondo del cappello e della modisteria esistono sistemi di lavoro più redditizi, con investimenti di marketing e comunicazione, magari all’estero. I prototipi dei cappelli di Laura Marelli, alcuni ispirati alle opere d’arte dei maestri del Futurismo, sono richiesti per le sfilate dei più importanti stilisti italiani e internazionali e per la presentazione di famosi marchi di bellezza. D’altra parte, quando si nomina la bottega artiCopertina del periodico femminile “Novità” (n. 25, 1953) con giana “Gallia e Peter”, si pensa semplicemente cappello “Gallia e Peter” al cappello di grande qualità.


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ASCOLI PICENO FESTIVAL ALLA RIBALTA a cura di Luciano Marucci

I

n questi ultimi anni sono proliferati festival di ogni genere. Ben vengano quelli artistici, quando hanno seri intenti propositivi e informativi, anche perché possono contrastare, almeno in parte, le pervasive tendenze materialistiche del quotidiano. Certamente eventi del genere non hanno vita facile, specie se non godono di autonomia finanziaria che permette di attuare programmi competitivi e continuativi in grado di incentivare la ricerca e di svolgere un’efficace azione educativa. Oggi, poi, la recessione penalizza la cultura tagliando alle istituzioni del settore perfino i finanziamenti necessari al loro mantenimento. Non investire su di essa vuol dire privarsi di un rilevante capitale sociale oltre che di un fattore di cambiamento per costruire un mondo migliore. Tra l’altro, per attuare progetti significativi, occorre una struttura non burocratica, formata di persone competenti e motivate, capaci di assicurare un’organizzazione efficiente. Queste considerazioni sono scaturite in occasione del recente Festival “Settembre in Musica”, manifestazione della città del capoluogo piceno, che resiste da 17 edizioni nonostante l’assenza di un ente pubblico che la sostenga con convinzione e la vulnerabilità del volontariato di cui si avvale. Anzi ha il coraggio di proseguire il suo percorso, dimostrando che si può fare cultura con il massimo risparmio e senza spreco di danaro pubblico. Il Festival, con la sua formula consolidata e flessibile, assicura l’alta qualità dell’offerta e prevede diverse iniziative ben relazionate alla realtà dei luoghi in cui va in scena. Così riesce a democratizzare l’arte musicale e a ridurre la distanza tra centro e periferie. Nello stesso tempo persegue valori ‘glocal’ dove la dimensione globale interagisce con quella locale ibridando il linguaggio con l’idioma. Purtroppo questo esempio di mecenatismo collettivo, a causa della scarsità di fondi che non permette di accreditare la stampa, non ha ancora la visibilità che meriterebbe. E ciò non consente di far conoscere a una più vasta platea modalità operative che potrebbero indicare vie alternative. Da qui il nostro spontaneo contributo

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promozionale, basato sulle dichiarazioni dei più attivi propugnatori del Festival, che permettono di conoscere meglio ragioni fondanti e sviluppi. Michael Flaksman, direttore artistico dell’ “Ascoli Piceno Festival”

Il direttore artistico Michael Flaksman (ph Luciano Marucci)

Maestro, quali le motivazioni che la inducono a dedicarsi con impegno alla direzione artistica del Festival ascolano, peraltro senza percepire compensi? La bellezza della città. Andando per il centro storico vedo il tesoro architettonico che lo caratterizza. Le strade ogni giorno sembrano assumere un nuovo fascino e mi meraviglio. Ad Ascoli anche le tradizioni culinarie meritano considera-

Concerto dell’Ottetto nella Sala della Vittoria della Pinacoteca: (da sx) Susanne Rabenschlag, Robert Kowalski, Teruyoshi Shirata, Francesco Lovato, Karin Wolf, Rachel Kuipers, Stefan Knust, Jonathan Flaksman (ph Luciano Marucci)

zione! Per quanto riguarda il mio compenso, per la verità non mi opporrei se me lo dessero, ma so che dovrò avere ancora pazienza. Diciassette anni non bastano…

ˇ ´ (ph Luciano Marucci) La violoncellista croato-tedesca Jelena Ocic

Suppongo che, al di là dell’affezione per Ascoli, sia stimolato a proseguire anche dai rapporti interpersonali? Certamente! È già un regalo soggiornare nella vostra straordinaria città, ma l’aspetto più prezioso è nei cuori degli ascolani quando incontrano la grande musica. Questo ha un valore superiore e sento di aver acquisito magnifiche amicizie


parlando la lingua della musica. A parte la scelta degli interpreti affermati, l’appuntamento è anche un’occasione per lanciare i giovani talenti? Sì, però devo chiarire: l’“Ascoli Piceno Festival” in prima forma è un festival di musica da camera, non di solisti. Quando invito giovani dotati - e ciò accade spesso - li coinvolgo subito nella musica da camera che è un’arte di comunicazione. La cosa li rende rapidamente più maturi. E la loro carriera potrà giovarsene, dal momento che imparano a relazionarsi musicalmente tra di loro ma anche con il pubblico.

molto più ampio di amanti della musica. Il gran numero di concerti di alta classe che offriamo con “Settembre in Musica” non esiste né a Roma, né a Milano. Ma “Ascoli Piceno Festival” rimane una specie di segreto, soprattutto per le amministrazioni pubbliche che possono raccogliere tanto profitto con un investimento veramente modesto.

Il repertorio di ogni anno tende a privilegiare composizioni propositive destinate all’élite evitando le partiture troppo storicizzate che soddisfano principalmente il gusto comune? Vogliamo offrire musica per quasi tutti i gusti. Al centro della programmazione c’è quella da Nel pianificare i prestigiosi concerti, Il violinista giapponese Teruyoshi Shirata e il pianista Federico Lovato camera, ma non proponiamo solo musica oltre che dall’autorevolezza di musi- (ph Luciano Marucci) classica. La nostra musica, pur essendo seria e importante, è democratica cista, è agevolato dalle conoscenze personali in ambito ine ben fatta! ternazionale? I contenuti sono fondamentali, ma anche l’aspetto pedagogiNaturalmente! La mia più importante funzione come direttore artistico è di co e i consensi sono utili per richiamare il pubblico. scegliere, invitare e impiegare, in un adatto repertorio, degli artisti giovani Il pubblico è curioso. Emanuela Antolini ad ogni concerto fa la guida all’ae non. Il programma dei principali concerti viene deciso molto tempo priscolto e sa indirizzare gli spettatori su aspetti storici e musicali che forse ma degli appuntamenti. Faccio un mélange delle diverse personalità, delle da soli non saprebbero scoprire. A volte teniamo anche delle conferenze, loro capacità tecniche e artistiche, formando così un network di interpreti per esempio sulla “Musica Nuova”; altre volte, per stimolare l’interesse, di varie nazionalità ed età per l’esecuzione di ciascun brano. I miei viaggi, presentiamo uno strumento poco conosciuto. Quest’anno abbiamo aperto come concertista e membro di giuria nei concorsi musicali internazionali, con i corni: corni più voce, più altri strumenti e in quartetto. Tali iniziative mi permettono di ascoltare e conoscere un numero generoso di eccellenti hanno una funzione didattica utile, ma principalmente vogliamo che i nomusicisti. stri frequentatori provino piacere nell’ascoltare la buona musica. Cosa vorrebbe dalla struttura organizzativa per far crescere Il grande pubblico è più attratto dalle performance dei bravi ulteriormente la manifestazione? interpreti o dalle qualità delle composizioni? Tutti si aspetterebbero che io rispondessi “soldi”, ma non è così. Abbiamo I due aspetti non si possono separare. un urgente bisogno di persone che sappiano promuovere gli eventi culturali e che siano disposte a lavorare volontariamente, come tutti noi orgaGina Quattrini, presidente dell’ “Ascoli Piceno Festival“ nizzatori. Il Festival ha l’ambizione di essere apprezzato e goduto in tutta la Nazione e perfino fuori. Quanti già conoscono l’ “Ascoli Piceno Festival” Per essere competitivi e ottenere più ampi riconoscimenti trovano che ha le potenzialità per contribuire allo sviluppo della vita intelper gli ambiziosi programmi di Settembre in Musica oclettuale e del turismo culturale. Quindi potrebbe essere coinvolto un circolo corrono certamente una efficiente struttura organizzativa e

Claudia Schmidt e Chiara Capriotti (violino), Jonathan Flaksman (violoncello), Rumen Cvetkov (viola) (ph Luciano Marucci)

Il russo Konstantin Bogino al piano e il M° Flaksman al violoncello (ph Gianni Alessandrini)

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finanziamenti adeguati, capaci Luisa Danieli, curatrice della sedi assicurare dignitosa contizione “Percorsi Piceni” nuità. Le istituzioni partecipaL’importanza della sezione no con convinzione all’affer“Percorsi Piceni” all’interno mazione del Festival? di Settembre in Musica è La nostra organizzazione, basata senz’altro una novità apprezesclusivamente sul lavoro volontario zabile, sia per l’associazione di poche persone, è riuscita a ragdi musica e storia locale, sia giungere i risultati positivi che oggi per il coinvolgimento culturale vediamo per l’enorme impegno di al(da sx) Marco Fiorentini (violino), José Gallardo (pianoforte), Brandon Christensen di luoghi periferici. L’iniziativa cuni associati e per l’aiuto che questi (violino), Jelena Ocic ˇ ´ (violoncello) (ph Gianni Alessandrini) trova consensi? Andrebbe estesono stati capaci di ottenere da parte sa maggiormente? di molti simpatizzanti. Le istituzioni che credono in noi sono, in primis, Il programma di “Percorsi Piceni” - iniziato alcuni anni fa in collala Fondazione Carisap che ci sostiene regolarmente con contributi econoborazione con la sezione locale di “Italia Nostra” e il suo presidente mici e con la concessione dell’Auditorium. Altrettanto possiamo dire per Professor Gaetano Rinaldi - vede una costante crescita, tanto - io credo l’Amministrazione comunale che, oltre a un sostegno economico, ci offre - da incidere positivamente sull’affluenza di pubblico anche nei concerti servizi e location gratuite. serali. Per questo motivo ogni anno cerchiamo di trovare un tema intorno a cui organizzare i “Percorsi”, non in forma sistematica e rigida ma tale da rappresentare un interesse e costruire un discorso programmatico non pesante. Essi, infatti, avvicinano all’ascolto della musica da camera anche coloro che non sono abituati a farlo e hanno prevalentemente interessi di tipo storico-artistico o di costume e tradizioni locali. L’iniziativa potrebbe sicuramente crescere, avvalendosi di contatti e relazioni con il resto del territorio italiano ed estero, senza snaturare il programma complessivo del Festival in un giusto equilibrio con i concerti serali che, per l’importanza delle opere eseguite e la presenza di artisti di alto livello, richiede un grosso impeL’Orchestra giovanile svizzera “Birseck-Dorneck” con gli allievi delle scuole a indirizzo gno organizzativo da parte dei pochi musicale e il coro “Cento Torri” di Ascoli Piceno (ph Gianni Alessandrini) volontari dell’Associazione.

La composita formula adottata fin dall’inizio è in sintonia con la crisi economica in atto, ma il volontariato, per sua natura precario, fino a quando potrà resistere? Questo è il problema: i volontari attivi al momento sono quasi tutti avanti con l’età e liberi dal lavoro professionale. Ancora non siamo riusciti a coinvolgere dei giovani. Ciò è comprensibile dal momento che non è praticabile alcuna forma di remunerazione. Non si intravedono, quindi, grandi possibilità che possano assicurare il turn over. A tutti noi dispiacerebbe immensamente veder morire una così bella realtà che ci accompagna per tutto il mese di settembre.

Pensate che, oltre agli occasionali sponsor, possano esIl decentramento è di difficile attuazione? sere attivate sinergie, più o meno locali, che garantiscano Implica un maggiore impegno per la scelta dei luoghi dove suonare la stabilità e diano una maggiore ufficialità alla manife(acustica, temperatura...), degli arredi (luci, pedane, sedie...), per il trastazione? sferimento in sicurezza degli strumenti musicali, oltre al superamento Finora non ci siamo riusciti ed è proprio quello che ci manca. Se avessimo dell’iniziale diffidenza delle amministrazioni locali o dei privati che non un bugdet che ci permettesse una campagna di comunicazione che vada sempre sanno come operiamo e, in oltre il mero ambito locale e potesse questi tempi di crisi, sono più restii a attrarre spettatori da località nuove, contribuire alle spese, se pur minime. forse potremmo suscitare maggiore Quando, però, si vincono queste difinteresse per sponsor più significativi. ficoltà, abbiamo la sorpresa di eventi Siamo convinti che la qualità dei noanche più belli del previsto, perché sostri concerti e dei nostri “Percorsi” sia stenuti dall’entusiasmo di chi ospita e assolutamente buona, pari a quella di si sente gratificato per la scelta dell’Aseventi di grande richiamo. Purtroppo sociazione. I luoghi che proponiamo non abbiamo mai avuto la possibilità spesso sono a noi vicini ma non li codi curare l’aspetto promozionale e non nosciamo e con la musica magica dei è prevedibile che si possa fare con la I cornisti Daniel Lienhard, Sebastian Schindler e Peter Bromig del Quartetto Dauprat nostri maestri riescono a suscitare di crisi in atto. della Svizzera (ph Gianni Alessandrini)

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nuovo emozioni, a raccontare vecchie storie, a vivere di nuova vita.

definito la sua formula? La formula del Festival residenziale, alla quale la nostra rassegna si ispira, credo sia ancora valida. Mi piacerebbe che fosse potenziata la parte riguardante l’inserimento di orchestre giovanili che si fondono nel tessuto musicale delle scuole della città. Potrebbe essere questa un’importante sfida per le prossime edizioni.

Emanuela Antolini, responsabile dei programmi educativi Quali sono le iniziative più originali del Festival ascolano rispetto alle altre manifestazioni musicali italiane? Credo molto nelle iniziative che si rivolgono ai giovani e giovanissimi e in questi ultimi anni diverse sono state le occasioni di portare il Festival all’interno della istituzioni scolastiche prevedendo una partecipazione attiva degli studenti.

Concerto dei Percorsi Piceni nel Monastero delle Concezioniste con gli interpreti Susanne Rabenschlag e Xhafer Xhaféri (violino), Vladimir Mendelssohn (viola), Rosanna Cauti e Brandon Christensen (violino) al termine dell’esecuzione dell’unica composizione da camera di Giuseppe Verdi (ph Gianni Alessandrini)

La cittadinanza come risponde alla concentrazione di concerti nel mese di settembre? In questa ultima edizione si è assistito a un forte incremento di pubblico, ma soprattutto ho avuto l’impressione, a volte tangibile, di un autentico affetto da parte dei frequentatori dei nostri concerti. Cosa può aver determinato l’acLa docente Emanuela Antolini e il M° Flaksman si congedano dal pubblico cresciuta frequentazione? dopo l’ultimo concerto del Festival (ph Gianni Alessandrini) Voglio sperare che sia stata la qualità dell’offerta musicale e, in modo particolare, la varietà delle proposte. Si è passati da serate incentrate sui grandi capolavori della musica cameristica al tango argentino, alle incursioni nella musica del Novecento con opere importanti ma poco eseguite e conosciute. Per attrarre più gente si potrebbe spettacolarizzare il Festival? Non credo che si possa “spettacolarizzare” un festival di musica cameristica. Abbiamo cercato, invece, di trovare altre opportunità oltre la musica, socializzando l’esperienza del concerto con uno spazio per la conversazione e la convivialità. Senza dubbio l’aspetto educativo - che io stesso avevo sollecitato - è fondamentale. Con le sue “lezioni all’ascolto” cosa cerca di focalizzare? Nelle introduzioni ai concerti, con una breve guida all’ascolto cerco di incuriosire e stimolare a una fruizione più partecipata e consapevole. Sono anche convinta che bastino pochi dettagli per cogliere il senso complessivo di una pagina o di un autore, così tendo ad essere quanto più possibile sintetica, al fine di non togliere troppo spazio alla musica. Nel corso delle serate sono stata piacevolmente stupita nell’osservare quanto il livello dell’ascolto sia qualitativamente migliorato. Ritiene che la rassegna abbia ormai

L’Associazione culturale “Ascoli Piceno Festival”, tra settembre e ottobre, organizza da 17 anni, nel capoluogo piceno e dintorni, il Festival Internazionale di musica da camera “Settembre in Musica”. La manifestazione, che si avvale esclusivamente del volontariato, non ha scopi di lucro. Intento principale: promuovere l’arricchimento culturale, il turismo nelle Marche e l’integrazione tra cittadini non solo europei. Il direttore artistico Michael Flaksman (statunitense di nascita, tedesco di adozione) ha ideato un festival residenziale che coinvolge interpreti di varie nazionalità, affermati o emergenti. Né lui né gli altri percepiscono compensi, ma solo il rimborso spese di viaggio e sono ospitati da famiglie del luogo. La formula continua a riscuotere successo. I musicisti partecipano volentieri anche perché possono godere di un buon clima, delle bellezze paesaggistiche e artistiche del territorio, nonché delle eccellenze enogastronomiche. Inoltre hanno la possibilità di stabilire nuove relazioni e di confrontarsi sulle modalità esecutive e le problematiche dell’ambito musicale. Nelle tre-quattro settimane della rassegna - quasi ogni giorno - è programmato un concerto pomeridiano o serale. L’ingresso è a prezzo contenuto; libero per i giovani fino a 20 anni; scontato per diverse categorie. Nel corso di una serata viene consegnato il Premio “Una Vita per la Musica” (con medaglia del Presidente della Repubblica) a personalità che si sono distinte in Italia e all’estero. L’aspetto educativo è particolarmente curato, sia attraverso la guida all’ascolto da parte di un’esperta docente di musica, sia all’interno delle scuole medie ad indirizzo musicale. Ogni anno, tenendo conto delle esperienze e delle esigenze dell’ambiente, vengono introdotte delle qualificanti novità. Il Festival comprende anche la sezione “Percorsi Piceni” che propone concerti gratuiti in ville o in luoghi di valore architettonico e naturalistico. Anna Maria Novelli

Copertina della brochure di “Settembre in Musica” 2013

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Maria Vittoria Maresca… fa sempre Bang! di Stefania Severi

“B

ang!”, la scritta, irregolare ed inserita entro una cornice mistilinea ad angoli, rimanda ai fumetti, allo scoppio di un proiettile, per fortuna però qui la deflagrazione è nel campo della moda, è uno “scoppio” di colori, di stoffe, di creatività… “Bang!” è, a Roma, il nome di una storica boutique in Via della Penna, aperta nel 1968 da Maria Vittoria Maresca che tutt’oggi la dirige. Qui tutto è firmato da lei ed è inconfondibilmente suo. Certamente si serve di sarte, ricamatrici, magliaie, modiste e lavoranti varie per realizzare vestiti, golf, cappelli, borse, scarpe e cinture. Qui la cliente si veste dalla testa ai piedi, compresa la bigiotteria che è, come dichiara Maria Vittoria, tutta francese. “Bang!” è l’unico negozio a non fare saldi e a non praticare sconti. Qui l’abbigliamento non “passa” di moda ma fa la moda. Introdotti da piccole vetrine, si entra nella boutique attraverso una grossa porta nera, a bugnati a punta di diamante, e ci si trova in un salotto carico di tutto. Un mobile tipo credenza, con sopra un’ampia specchiera, campeggia su un lato. A fronte è un divano in pelle, alcune poltrone e tavolini di varia forma. Il tutto è nero ma quel nero serve solo per creare una sorta di fondo ai colori che vi si riversano a pioggia sopra. Infatti, da appendiabiti di diverse fogge piovono vestiti, cinture, borse, cappelli e collane, mentre, sull’ampio tavolo presso il divano, è una ricca collezione di libri d’arte. Maria Vittoria la trovate assisa regalmente su una delle sue poltrone, spesso al telefono con clienti, fornitori e collaboratori. Estate e inverno indossa immancabilmente una delle sue celebri gonne. Queste sue gonne, in tutti i tessuti, dalla seta alla maglia di lana, sono sempre ampie e sempre ricamate. Sono tutti “pezzi unici” e, come lei giustamente sottolinea, basta abbinarle ad una camicia o ad un golfino in cachemir per essere perfettamente vestiti in ogni occasione. Maria Vittoria da sempre si è dedicata alla moda, avendo fin da ragazza lavorato con la madre Filomena, detta Nella, celebre sarta che vestiva tutta la Roma che contava anteguerra, compresa Mafalda di Savoia. Nella da ragazza aveva lavorato a Parigi da Madame Hanna, capo della sartoria di Chanel. Sua zia Marlene, sorella di Nella, era una celebre modista che aveva l’atelier in Via Francesco Crispi. Anche lei da giovane aveva svolto un severo apprendistato presso Cleo Romagnoli, la più celebre modista di Roma, con atelier in Via Gregoriana. Marlene era diventata così brava da diventare socia della Romagnoli.

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Maria Vittoria non organizza sfilate. L’ultima sua sfilata, in URSS nel 2000, è rimasta nella storia. Aveva fatto sfilare l’abito “Omaggio alla Perestroika”, uno splendido abito da sera rosso, con una ampia gonna a ruota con, lungo il bordo, applicati numerosi simboli “falce e martello” in tessuto dorato. La foto di quell’abito aveva fatto il giro del mondo e, “sdrammatizzando” il simbolo, aveva contribuito alla distensione tra i due blocchi mondiali. Maria Vittoria ha anche disegnato per gli elicotteri Augusta, compreso un set di valigie (1986-’87). Ma quando ha dovuto scegliere se rimanere un’artista della moda o diventare una imprenditrice ed entrare nel giro dell’alta moda, ha preferito rimanere un’artista. Ha fatto vestiti anche per i film di Pupi Avati e dei Fratelli Taviani. Ha vestito Laura Antonelli, Liv Ulmann, Bo Derek, Mia Martini, Elda Ferri, Anna Maria Clementelli, Anna Falchi, Valentina Cortese… E tutte le sue clienti sono da lei seguite con la massima cura, ed esse la ricambiano affidandosi a lei, certe del suo gusto e del suo intuito e sicure di ottenere sempre l’abito “giusto”. Ad esempio, per la storica dell’arte Marisa Vescovo disegnò un vestito appositamente ispirato a Leger da indossare in occasione dell’inaugurazione della mostra dedicata al celebre artista nella Galleria Brigherasio di Torino. Nel 1993 è uscito uno splendido volume sulle sue creazioni, curato da Aldo Ricci e edito da Massimo Riposati: “Maria Vittoria”. Ed adesso c’è in cantiere l’ipotesi di una mostra al Victoria and Albert Museum di Londra. Maria Vittoria confida nei suoi fedeli e bravissimi lavoranti, soprattutto donne, alcuni dei quali la affiancano da quasi cinquant’anni. Spera che tante meravigliose capacità possano trasmettersi alle giovani generazioni. Purtroppo, però, non è ottimista al riguardo, perché, come sostiene, tutto si sta “imbarbarendo”, in primo luogo il gusto, tanto che con lo stesso abito si va al tennis ed al teatro. Ma lei continua con l’entusiasmo di sempre, lavorando per una clientela esclusiva. Cosa pensa Maria Vittoria dei cappelli? Lei ne è innamorata, anche perché, come ricorda, è cresciuta tra i feltri. Vende cappelli estivi e invernali, sportivi ed eleganti, ma sostiene che le donne d’oggi sanno poco indossarli. Inoltre, afferma un po’ sconsolata, mancano in Italia quelle occasioni, come le corse di Ascot in Inghilterra, dove indossarli, farne sfoggio e rinverdirne l’uso. Maria Vittoria la incontrate sempre nella sua boutique, pronta a mostravi una delle sue celebri gonne. Ecco l’ultima: di seta nera, tutta ricamata a mano con fiori a perline… è il lavoro raffinatissimo di una sua anziana ricamatrice, non viene dalla Cina, è quel famoso made in Italy che tutti ci invidiano ma che non sappiamo preservare. (Le foto che accompagnano l’articolo, con Maria Vittoria Maresca e le sue creazioni, sono state scattate nel luglio 2013 nella boutique “Bang!”)

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È

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La Cina è vicina… e la SUA pittura lo è ancora di più di Stefania Severi

L

a Cina è vicina… ce ne accorgiamo ogni giorno controllando i cartellini dei prodotti che acquistiamo. Ma, al di là di pochi oggetti “folcloristici”, se non leggessimo le etichette, faremmo fatica a individuare in quell’oggetto un prodotto cinese. La globalizzazione e la occidentalizzazione è totale. Il fenomeno si registra anche in campo culturale, nella cinematografia, ad esempio, e soprattutto nella pittura. Rari sono gli artisti contemporanei cinesi che si riallacciano alla loro tradizione, se pure rinnovandola, come è il caso di Xu Longsen. Molti, invece, guardano all’Occidente, studiano nelle accademie occidentali, frequentano i musei occidentali e dipingono all’occidentale. Pur tuttavia è indubbiamente cinese il loro sentire e la maggior parte dei loro soggetti. Dall’Occidente hanno preso la tecnica dell’olio e dell’acrilico, estranea alla loro cultura che da sempre preferisce gli inchiostri; la pittura ad olio è arrivata infatti in Cina cento anni fa. Il fenomeno è stato ampiamente documentato dalla mostra “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo” (Roma, Complesso del Vittoriano, 4 - 27 settembre 2013). L’esposizione, promossa dalla Fondazione China Wuhan Rongbaozhai e dall’Istituto d’Arte Internazionale Meilidao Cina Pechino, a cura di Claudio Strinati e di Nicolina Bianchi, con il progetto di Maurizio Fallace e dell’artista Ma Lin, è stata voluta e realizzata da “Comunicare Organizzando” con la collaborazione del periodico “Segni d’Arte”. Undici gli artisti espositori, presenti con un numero di opere tale da poterne cogliere le peculiarità: Xin Dong Wang, Leng Jiun, Ma Lin, Xu Mangyao, Luo Min, Pang Maokun, Guo Runwen, Zhu Xiaoguo, Liu Xin, Wang Xinyao, Chen Zijun. Si tratta di maestri ampiamente conosciuti, e non solo nel loro paese, tra i quali alcuni anche docenti, ricercatori e direttori di Accademie, Musei e Fondazioni. Questi artisti provengono prevalentemente dalla

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Inaugurazione della mostra

Chen Zijun, Piume, 2009, olio su tela, 80x80 cm


Provincia di Hubei, dinamico centro di studi e ricerche artistico-culturali. Sono, come sottolinea Nicolina Bianchi, «Maestri che ben si integrano nel più ampio concetto del ‘realismo figurativo universalè, e ci coinvolgono nelle suggestive luci e nelle particolari atmosfere della ritrattistica e del paesaggio, interpretati nell’equilibrio cromatico e formale di una propria raffinatezza tecnica di virtualità e simbologie». La via del realismo, del resto, trova connessioni precise anche con la stagione della rivoluzione culturale. «Nella trasformazione sociale - scrive Yang Xiaayan la pittura contemporanea cinese ha sempre la missione gloriosa di rappresentare la realtà cinese». A riguardare a questi dipinti, tutti caratterizzati da eccezionale bravura tecnica, emergono le varie suggestioni che ogni maestro ha interiorizzato, chi prediligendo il ritratto chi il paesaggio. E se Guo Runwen, grande ritrattista, sembra riguardare indietro al grande Vermeer, c’è chi, come Luo Min, ha introiettato la pittura di paesaggio del tardo ottocento, come si evince dalle sue vedute di Roma. Xin Dongwang guarda all’Iperrealismo pop e Chen Zijun è chiaramente affascinata dalle peculiarità pittoriche del nostro pittore Sandro Trotti, che non a caso da anni tiene corsi di specializzazione pittorica a docenti di varie accademie cinesi, compresa quella di Pechino. Ma Lin, tra gli organizzatori dell’evento, artista che ha studiato in Italia e vive attualmente a Roma, col dipinto “Dialogo Roma–Pechino”, ha ben definito le peculiarità di tale dialogo. è da sottolineare che questi maestri sono ottimamente quotati sul mercato internazionale, segno evidente non solo del riconoscimento della loro bravura ma anche di un desiderio diffuso di “bella” pittura. è certo che da noi la “bella” pittura viene bollata come accademica ed anacronistica e le grandi istituzioni, a partire dalla Biennale di Venezia, offrono spazio alle espressioni più variegate che non hanno alcun riferimento né con la pittura né con la scultura. Se dovrà essere la Cina, con la forza del suo impatto economicoculturale, a far riscoprire all’Occidente la “bella” pittura che un tempo gli apparteneva, ben venga la Cina.

Ma Lin, Dialogo Roma–Pechino, 2009, acrilico su tela, 130x110 cm

Guo Runwen, Nastro per capelli rosso, 2012, olio su tela, 135x80 cm

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PER UN VERDI DI... MARCA di Paolo Peretti

L

’anno del bicentenario di Giuseppe Verdi, suscitati dal precedente Nabucco - fu acnato a Roncole di Busseto (Parma) il 10 colta trionfalmente dal pubblico, formato ottobre 1813, sta ormai volgendo al terminon solo dai senigalliesi ma anche da nune; ma l’illustre festeggiato è un genio tropmerosi avventori ‘stranieri’ intervenuti per po grande perché, dopo la ricorrenza, possa la Fiera. su di lui calare il sipario! Il 2013 ha visto È vero però che, fuori dalle Marche, Verdi svolgersi - sul piano internazionale, nazioebbe a che fare con molti marchigiani nale e locale - numerose manifestazioni e illustri del suo tempo. Basti menzionare iniziative, che però hanno per lo più manFrancesco Basili (Loreto 1767-Roma 1850), tenuto un tono celebrativo di circostanza e, Lauro Rossi (Macerata 1810-Cremona solo in pochi casi, si sono distinte per l’ori1885), Filippo Marchetti (Bolognola 1831ginalità degli interventi culturali, la novità Roma 1902) e Alessandro Lanari (San degli apporti scientifici o la qualità degli Marcello di Jesi 1787-Firenze 1852), solo spettacoli artistici ad esse collegati. Anche per citare tre noti compositori (i primi le Marche, naturalmente, hanno pagato il due, direttori del Conservatorio di Milano: loro tributo al rito collettivo della memoria Basili, all’epoca del ‘fattaccio’ della non verdiana: dalla conferenza accademica, al ammissione di Verdi in quell’istituto muclassico concerto bandistico all’aperto, al sicale; Rossi più tardi, che sarà poi anche karaoke su “Va pensiero”, al modernissimo direttore del Conservatorio di Napoli al poflash mob in piazza... Qui prendiamo lo sto di Verdi, che aveva rifiutato l’incarico) e spunto da quanto è recentemente avvenuun impresario teatrale di prima grandezza to a Pollenza, ameno borgo dell’entroterra (Lanari, appunto, detto ‘Il Napoleone degli Copertina del libro, stampato a Pollenza per il bicentenario della nascita maceratese che può assurgere a simbolo di Verdi, con il monumento dedicato al musicista, opera dello scultore impresari’) alla cui iniziativa dobbiamo della frammentata identità territoriale e Vittorio Morelli (1913-‘14) Attila e Macbeth. Per non dire dei canculturale della nostra regione. Ma prima è tanti. È bene ricordare subito che il primo opportuno accennare a quelli che furono, diretti (uno solo?) ovvero Alfredo nella Traviata veneziana del 6 marzo 1853 fu il tenore fermano mediati (più di quelli che si potrebbe immaginare), i rapporti di Verdi Lodovico Graziani (1820-1885); e, tra gli interpreti della ‘prima’ russa con le Marche. de La forza del destino (San Pietroburgo, 10 novembre 1862), figuraA differenza di alcune regioni dell’Italia del nord (Emilia Romagna, vano ben tre marchigiani: il baritono Francesco Graziani, fratello del Lombardia, Veneto, Liguria) che, per motivi geografici e storici, videro precedente, nel ruolo di Don Carlos di Vargas; il baritono-basso vissal’assidua presenza del compositore e suoi costanti rapporti con la loro no Gianfrancesco Angelini Rota (Padre guardiano) e, infine, il basso realtà socio-economica e culturale, le Marche hanno avuto un’imporCesare Boccolini di Senigallia nel ruolo secondario di un Granatiere. tanza marginale per Verdi, minore anche di altre regioni del centro-sud Oltre a questi, comunque, altri valenti cantanti marchigiani (una quincome Lazio e Campania, per la capacità d’attrazione di capitali della dicina in tutto, e non sono certo pochi), risultarono i ‘creatori’, cioè musica come Roma e Napoli. È positivamente accertato che egli nelle primi interpreti assoluti dei ruoli vocali di altrettanti personaggi nelle Marche è stato - almeno fino a prova contraria - solo a Senigallia, per la ‘prime’ di opere verdiane. Naturalmente si considerano solo le ‘prime’, seconda rappresentazione assoluta dei Lombardi alla prima crociata, altrimenti l’elenco sarebbe lunghissimo. Se quelli sopra accennati sono avvenuta in quel teatro il 29 luglio 1843, durante l’allora celebre Fiera stati - per così dire - gli incontri marchigiani professionali di Verdi, estiva che annualmente si svolgeva nella città rivierasca marchigiana pochi forse sanno che una delle persone più vicine e care al Maestro (la più importante dello Stato Pontificio). Nell’occasione Verdi trascorquand’era già vecchio, ormai più interessato alle opere filantropiche se a Senigallia la seconda metà del mese di luglio, e non certo a fare che alla musica, fu il dottor Emilio Cesaroni, nativo di Camerino. bagni (eppure l’illustre musicologo Massimo Mila l’ha ipotizzato!), Questi, dal 1895, esercitò la condotta chirurgica a Villanova d’Arda, perché era tenuto da contratto a concertare e dirigere personalmente dove Verdi già da tempo prodigava risorse economiche per l’ospedale l’opera; la quale - sull’onda degli entusiasmi popolari e patriottici già da lui fondato e tuttora funzionante. Non per nulla, infatti, tra le lettere

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scritte dal Maestro neche dell’istituto filangli ultimi anni, molte tropico milanese fu a sono indirizzate al sua volta benefattore. Cesaroni, che fu anVeniamo ora a che il suo medico di Pollenza, che - a buon fiducia. E, a proposito diritto - è stata defidi lettere, non si può nita “Città verdiana certo dimenticare che, delle Marche” in una tra i primi e più attivi recentissima pubblicadivulgatori scientifici zione, presentata neldell’epistolario verla stessa località il 12 diano, va annoverato ottobre scorso (Pietro l’archivista Alessandro Molini-Fabio Sileoni, Luzio (Sanseverino Pollenza, Città verMarche 1857-Mantova diana delle Marche, 1946), che, in colla- Tela con i medaglioni dei cantanti Nicola Benedetti e Antonio Pelagalli Rossetti (autore Giuseppe Fammilume, 1928), esposta Comune di Pollenza, nella “Sala degli intervalli” del Teatro Verdi borazione con il musi2013). Questo interescologo cremonese Gaetano Cesàri, curò la fondamentale edizione dei sante volumetto, scritto ‘a quattro mani’ da un appassionato cultore di Copialettere di Giuseppe Verdi, stampati a Milano nel 1913 in occasioVerdi, nonché collezionista di memorie verdiane, di Corridonia (Molini) ne del primo centenario verdiano. e da un giovane storico locale (Sileoni), è stato realizzato per celebrare, Un cenno sommario anche ai compositori marchigiani delle generaattraverso il contributo di un’originale ricerca (in ciò sta il suo indiscuzioni successive che, fin dentro al Novecento, generalmente in occasiotibile pregio), il bicentenario della nascita del Compositore. Nelle sue ne delle periodiche ricorrenze dei vari anniversari verdiani di nascita pagine si dà conto delle varie realtà verdiane di Pollenza. Innanzitutto e morte, si sono dedicati a rievocarne efficacemente la figura e l’opera del monumento a Verdi, posto nella piazza centrale della città, di cui, in attraverso discorsi, conferenze, scritti, ecc. occasione del bicentenario verdiano, è stato Tra questi nostri ‘apostoli’ verdiani vaninaugurato il moderno restauro, opportunano ricordati almeno Bruno Barilli (Fano mente voluto dall’Amministrazione comu1880-Roma 1952), Domenico Alaleona nale con un congruo contributo della locale (Montegiorgio 1881-1928) e Giovanni Società Operaia di Mutuo Soccorso. Tebaldini. Quest’ultimo, benché nato a Bisogna subito dire che esso è l’unico moBrescia nel 1864, fu marchigiano d’adonumento delle Marche a Verdi innalzato in zione (dopo aver diretto per un quarto di uno spazio aperto: gli altri non sono che episecolo la Cappella musicale del Santuario grafi e medaglioni a rilievo o dipinti dedicati di Loreto, morì a San Benedetto del Tronto al Bussetano presenti nei foyer o sulle volte nel 1952); conobbe personalmente Verdi e delle sale di vari teatri storici marchigiani. lo frequentò presso la Villa di Sant’Agata È costituito da un busto bronzeo raffiguquando, dal 1897, tenne la direzione del rante il compositore, collocato su una stele vicino Conservatorio di Parma; possedeva marmorea sulla quale sono incisi i titoli di anche preziosi autografi verdiani, uno solo tutte le opere verdiane. La sua costruzione fu dei quali è rimasto nelle Marche: si tratta di decretata dal Comune di Pollenza nell’anno una lettera oggi conservata nella Biblioteca del primo centenario verdiano e realizzato, comunale “Mozzi Borgetti” di Macerata nel corso dell’anno successivo, dallo scultoIl tenore Paolo Pelagalli Rossetti (sul rapporto Verdi-Tebaldini si veda Anna re anconetano Vittorio Morelli (1886-1968). Maria Novelli-Luciano Marucci, Idealità convergenti, Ascoli Piceno, In un primo tempo il monumento fu posto appena fuori le mura cittaD’Auria Editore, 2001). dine, davanti alla Porta già detta “del Colle”, in uno spazio che allora Tranne qualche lettera - come quella appena citata - di proprietà pubveniva allestito a giardino pubblico. Nell’aprile del 1928, su istanza blica o privata, sono rari altri cimeli verdiani nei musei marchigiani: formalmente espressa già molti anni prima da alcuni cittadini, esso va qui segnalato, per la specializzazione di questa rivista dedicata al fu definitivamente spostato nella piazza centrale, davanti al loggiato cappello, il cilindro di Verdi, conservato, insieme con il bastone, presso dell’ottocentesco Teatro comunale, anch’esso intitolato a Verdi dopo la il Museo “Gigli” di Recanati. Questi oggetti, già esistenti nella Casa di moderna riapertura del 2001 (un capitolo del libro è ad esso dedicato). Riposo per Musicisti di Milano fondata da Verdi, furono successivamenQuale posto più consono e degno? Il posteriore ‘accentramento’ del mote donati in segno di riconoscenza al grande tenore Beniamino Gigli, numento nel cuore pulsante della vita cittadina sta a indicare quanto a

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Pollenza fosse - e ancora sia - vivo il seguendo con puntiglio ogni voce e ‘culto’ verdiano. Infatti anche la banpersonaggio: quindi anche il nostro da cittadina, riorganizzata nel primo Paolo-Bardolfo il quale, rievocando Novecento (pure di essa, nel libro, è l’incontro con il Grande Vecchio, ha delineata una breve storia), si fregia raccontato a chi lo ha poi consegnato del nome di Verdi. alla memoria scritta alcuni aneddoti Oltre a monumento banda e teatro, relativi alle prove ed esecuzioni scaPollenza può vantare di aver dato i ligere dell’opera. Congratulandosi natali a tre cantanti verdiani: a ciacon lui, Verdi gli avrebbe indirizzato, scuno di essi il nostro libro dedica all’indomani della ‘prima’, un biattenzione, ripercorrendone vita e glietto gratulatorio così scherzosacarriera artistica. Il primo è Nicola mente concepito: “Ringraziamenti al Benedetti (1821-1875), un apprezzabravo Bardolfo e al suo naso”, mento basso profondo che ebbe una briltre, dopo la terza rappresentazione, gli lante carriera internazionale. Verdi lo avrebbe detto: “A te nasone Pelagalli conobbe e lo stimò, chiamandolo a non addio ma arrivederci” (infatti, di sostenere la parte di Banco nella ‘prilì a un paio di mesi, i due si sarebbero ma’ del Macbeth (Firenze, Teatro alla Teatro “Verdi” di Pollenza con la volta decorata da Annibale Brugnoli (1882) rivisti al Teatro Costanzi per la ripresa Pergola, 14 marzo 1847). Ma, proprio romana dell’opera). L’insistenza sul in questa occasione, sorse una controversia tra il compositore e il canparticolare anatomico è giustificata dal libretto stesso del Falstaff, in tante, che si rifiutava - per motivi di decoro personale - di sostenere il cui Arrigo Boito descrive il naso “ardentissimo” del beone Bardolfo, che ruolo dello spettro di... se stesso, ovvero dell’ombra di Banco che compafunge addirittura “da lanterna” nella notte; e quello di Paolo Pelagalli, re, ma al solo Macbeth, durante il banchetto del secondo atto. Pare che che da un ritratto che abbiamo sembra regolare, doveva essere stato opVerdi, sempre molto attento anche agli aspetti drammaturgici e scenici portunamente caricato dal trucco teatrale! delle proprie opere, si sia giustamente indignato con il cantante. Della Così, dunque, le Marche dei cento teatri e degli ancor più numerosi polemica resta traccia, benché non si faccia esplicitamente il nome del campanili si sono riappropriate del ‘loro’ Verdi nell’anno 2013. Dal Benedetti, in una lettera all’editore Ricordi del 21 gennaio 1847, in cui caso di Pollenza, che - con qualche aspetto di unicità (il monumento) Verdi scrisse: “[...] Mi spiace che chi farà la parte di Banco non voglia pure ambisce a rappresentare emblematicamente il rapporto di ciascufar l’Ombra! E perché?... I cantanti devona realtà particolare con un mito totalno essere scritturati per cantare ed agire: mente italiano, attraverso quelle ‘glorie’ d’altronde queste convenienze è tempo locali in cui troppe volte però si consuma di abbandonarle. Sarebbe una cosa moangustamente l’identità marchigiana, struosa che un altro facesse l’Ombra, poidobbiamo giungere infine a cogliere il ché Banco deve conservare precisamente valore universale dell’arte verdiana. Cosa la sua figura anche quando è ombra”. rappresentano oggi, nel mondo (se è vero Alla fine il dissidio si compose, e tutto si che, dopo Il flauto magico mozartiano, svolse secondo il copione teatrale. La traviata è l’opera più rappresentata Gli altri due cantanti appartennero alla sulle scene mondiali), la musica di Verdi stessa famiglia. Antonio Pelagalli Rossetti e le sue immortali creazioni? Perché esse (nato nel 1849), già allievo a Macerata risuonano ancora, oltre le epoche e le del maestro Domenico Concordia, sin mode, e ancora commuovono gli ascoldagli esordi della sua carriera, fu ottimo tatori sotto il cielo dell’uno e dell’altro interprete di ruoli tenorili principali in emisfero? Tentiamo una risposta: perché opere di Verdi (Battaglia di Legnano, Verdi ha saputo cantare, senza temere le Ernani, Trovatore, Traviata, Aida, ecc.). contraddizioni, i molteplici sentimenIl più giovane fratello Paolo (1857-1933), ti, anche quelli più estremi, dell’animo anch’egli tenore, ebbe la ventura di imperumano; ma con l’intima e radicata consonare Bardolfo nel Falstaff alla ‘prima’ vinzione che, alla fine, a trionfare semdella Scala, il 9 febbraio 1893. Un ancora pre, anche sull’ineluttabilità della morte, gagliardo Verdi ottantenne, coadiuvato dal è - ancor più ineluttabilmente - “quell’amaestro Edoardo Mascheroni, presenziò a mor ch’è palpito dell’universo intero” gran parte delle prove (una sessantina), Ritratto di G. Verdi in un’acquaforte di Carlo Chessa con dedica a G. Tebaldini (Traviata, atto I).

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Corciano, il suo Festival e il grande Perugino di Ruggero Signoretti

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orciano è un piccolo borgo medioevale presso Perugia dove si organizzano da anni intense attività culturali che animano il centro storico nel mese di agosto. L’Agosto Corcianese è alla 49ª edizione, risalendo la prima al 1965. I settori in cui si articola il Festival sono: le arti visive, il teatro, il Concorso Internazionale di Composizione Originale per Banda e i concerti ad esso collegati, gli incontri culturali, le rievocazioni in costume della storia medievale di Corciano. Per il settore arti visive spiccava questa volta la Mostra “Con oro e colori preziosi e buoni. Perugino a Corciano 1513-2013. I 500 anni della Pala dell’Assunta”. Era infatti il 18 dicembre 1512 quando il parroco e il sindaco del castello di Corciano, dopo aver raccolto parte dei fondi necessari, grazie soprattutto a lasciti testamentari, si recarono a Perugia per stipulare un contratto con Pietro Vannucci (Città della Pieve 1450 ca - Fontignano 1523), meglio noto come il Perugino, per realizzare la Pala per l’altare maggiore della chiesa parrocchiale intitolata alla Vergine Assunta in cielo. Sul contratto, vergato dal notaio Felice di Antonio, il Perugino si impegna ad eseguire l’opera in otto mesi e di utilizzare “oro e colori preziosi e buoni”. Ne avrebbe avuto 100 fiorini. La Pala, ad olio e tempera su tavola, con tavola centrale di cm 256 x 150 e con una predella alta cm 33, da allora non ha mai lasciato la sua sede. In occasione della ricorrenza, nella chiesa, un’installazione virtuale riproponeva lo stato originario del dipinto, prima che gli interventi storici successivi ne modificassero la struttura portante. In oltre, nella chiesa-museo di San Francesco, erano in mostra repertori documentari su Perugino e sui restauri della pala corcianese. L’evento è stato

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Perugino, Pala di Corciano (tavola centrale), 1513, Corciano, Chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta

Perugino, Cristo sul sarcofago (cimasa della Pala dei Decemviri), 1513, olio e tempera su tavola, 87x 90 cm, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria


curato da Tiziana Biganti e Alessandra Tiroli. Un’altra mostra attualizzava il Perugino: “Malizie sul Perugino. Artisti oggi, 500 anni dopo la Pala di Corciano”. La mostra, curata da Antonio Carlo Ponti e Massimo Duranti, con la collaborazione di Francesca Duranti e Andrea Baffoni, era allestita in vari spazi del centro storico. È stata una edizione “speciale” del Premio Corciano di Pittura e Scultura che ha due sezioni, ambedue ad invito, per artisti affermati e per giovani under 35. Le opere (tele, sculture, fotografie, installazioni) avevano tutte un richiamo immaginario e libero al Perugino, al suo stile e alla Pala di Corciano. Per il settore musica è stato bandito il 29° Concorso Internazionale di Composizione Originale per Banda. Inoltre sono stati organizzati vari concerti, tra i quali alcuni d’organo, eseguiti sull’organo Morettini, un magnifico strumento di 150 anni, che si trova sempre nella chiesa di Santa Maria Assunta. E ancora spettacoli di poesia, proiezioni di film, presentazioni di libri (per lo più legati all’Umbria) e “salotti”, con personalità che hanno scelto l’Umbria per vivere e ritemprarsi, diventando ambasciatori del “cuore verde” d’Italia. Di particolare fascino sono state le rievocazioni storiche. Corciano già nel 1217 era un libero comune e fino al 1500 molto fiorente. Così, nell’immutato scenario del centro storico e nei costumi dei sec. XVI e XVII, si sono svolte Serenate di Menestrelli, la Processione del Lume, il Corteo del Gonfalone e il Palio degli Arcieri. Lungo le mura del Castello e ai piedi del Torrione di Porta Santa Maria è stato organizzato un “campo medioevale” che presentava la vita ed i lavori che si svolgevano alla fine del Medioevo. Ciò che contraddistingue il Festival di Corciano da altri consimili è la qualità delle proposte e la costanza nel tempo, segno che il tutto non è demandato allo spirito ed alla buona volontà di pochi, ma che è la totalità della popolazione di Corciano a volere il suo festival; ci crede, ci investe e… il ritorno non è mai mancato.

Perugino, Sant’Ercolano (predella della Polittico di San Pietro), 1496-1500, olio e tempera su tavola, 28 x 32 cm, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Corciano, Porta Santa Maria

Corciano, le torri del borgo

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Memorie di viaggio

LE IDENTITÀ (DIS)PERSE DEL SUDAFRICA di Luciano Marucci e Anna Maria Novelli

I

l 12 luglio 1998 voliamo verso il Sudafrica. “Il mondo in un solo Paese”, si legge nei depliant promozionali e la realtà non tradisce le aspettative. Ci accolgono paesaggi di ogni morfologia e per tutti i gusti: dal deserto alla savana, dai canyon alle lagune, dalle montagne boscose alle coste battute dalle onde furiose dell’Oceano. Il tutto emozionato dalla storia travagliata di un ibrido campionario umano e da fauna e flora ricche e diversificate (gli animali vanno dall’elefante al toporagno pigmeo con 290 specie di mammiferi e 800 di uccelli; le varietà floreali sono ben 24.000). Il Sudafrica è l’unico stato al mondo con tre capitali: Pretoria, sede del Governo e residenza del Presidente; Cape Town dove opera il Parlamento; Bloemfontein sede del potere giudiziario. In molti luoghi il benessere è così diffuso, rispetto ad altre nazioni del Continente, che a volte sembra di stare in America, anche se nelle periferie regna la povertà più nera. Ma andiamo a conoscere da vicino questo intrigante Paese. Dopo un volo di circa 12 ore atterriamo a Johannesburg e affittiamo due pulmini. Il viaggio - organizzato dall’associazione romana “Avventure nel Mondo” - è autogestito e prevede la guida dei partecipanti. Ci preoccupa tenere la sinistra, ma tra i compagni troviamo due esperti ‘autisti’ e volentieri lasciamo a loro la fatica di trasportarci nelle due settimane di tour. Poiché il gruppo è formato in maggioranza da giovani un po’ esigenti, visto che i prezzi sono accessibili, ogni tanto, derogando dall’abituale frugalità, facciamo colazione

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Elefante verso una pozza d’acqua

Coppia di rinoceronti al pascolo

Zebra curiosa

Leonesse in cerca di prede al tramonto

all’Holiday Inn come dei borghesi e non ci priviamo di ristoranti raffinati dai menu ricercati, alberghi di classe o stanze in signorili case private. Prima tappa Johannesburg-Sabie. I ricchi vanno in vacanza nella zona caratterizzata da ameni fiumi, laghi, country club e campi da golf. È inverno, finché non si alza il sole che porta la temperatura a 20-22 gradi, occorre coprirsi bene. Ci fermiamo alle cascate di “Long Creek” (“Lungo corso d’acqua”), “Horsetail” (“Coda di cavallo”) e “Bridal Veil” (“Velo da sposa”). Niente di eccezionale, se paragonate alle “Vittoria”. Migliori due vedute del Blyde River Canyon: “Pinnacle” (grande spaccatura e panorama su una fitta foresta) e “God’s Window” (“La finestra di Dio”, rocce spoglie in mezzo a un verde accecante). Raggiungiamo Phalaborwa e, dopo un po’, entriamo nel Kruger National Park, rinomato per il gran numero di animali con savana piuttosto secca e spoglia; terra rossastra; molte piste asfaltate. Pernottiamo al Satara Rest Camp, con bungalow spartani ma puliti, posizionati in un punto strategico per l’avvistamento dei Big Five (elefante, leone, leopardo, rinoceronte e bufalo). Sfidando l’aria gelida, in camion ci avventuriamo nel safari notturno, ma non siamo particolarmente fortunati. Di giorno, però, incontriamo mandrie di bufali, gazzelle di Thomson e springbok (simbolo del Sudafrica prima della caduta dell’apartheid) fino alla nausea, impala, kudu, eland, waterbuck, orici, giraffe, zebre, leoni, ippopotami, facoceri, rinoceronti, elefanti. A un certo


punto abbiamo una sorpresa terrorizzante: un gigantesco pachiderma con tanto di zanne si avvicina alla nostra vettura agitando le orecchie per iniziare la carica. Riusciamo a schivarlo poco prima che arrivi sulla strada. Invece un’auto di inglesi, che transita in senso opposto, con padre, madre (alla guida) e tre ragazzini, sbanda finendo sul lato scosceso. Ci fermiamo e tre giovani amici riescono a prelevare i piccoli mettendoli in salvo nel nostro pulmino; qualche altro aiuta a rimettere sulla carreggiata il mezzo mentre l’elefante, che è a pochissimi metri, al rombo del motore si allontana… Restiamo un altro giorno nel “Kruger” percorrendo nuove piste. Troviamo parecchi leoni, un leopardo, due ghepardi e ancora tanti erbivori, specie lungo l’Olifant river. Ai margini di una strada assistiamo a un fatto curioso: su una carriola sgangherata, abbandonata da operai, c’è un sacchetto di carta con materiale da costruzione; una leonessa annusa, lo addenta, ne fa uscire il contenuto polveroso e, senza mollarlo, come fosse un pezzo di carne, si avvia verso altri predator. Un altro felino afferra un bastone e lo porta con sé. Nei pressi un

Raro incontro con il leopardo

Giraffe siamesi…

Coccodrillo mimetizzato

bucero dal becco giallo (yellowbilled hornbill) si esibisce su un albero semispoglio facendosi fotografare a distanza ravvicinata. Il programma ci porta nel piccolo stato di Swaziland, la Svizzera africana. La capitale, Mbabane, è moderna, piuttosto frequentata per il suo casinò, ma conserva ancora qualche tucul. Il mercato di Manzini ci permette di immergerci nel tessuto locale. I manufatti non sono per turisti, però troviamo ugualmente qualche artcraft originale. Nel Mkuze Park scorgiamo altri animali e facciamo soprattutto birdwatching (aironi, tucani, marabù, serpentari, buceri…). Dormiamo nel confortevole Malala Lodge. Trascorriamo parte della mattinata in un altro mercato, poi ci addentriamo nel Hluhluwe Park e scopriamo due rari rinoceronti bianchi mentre si dissetano presso una piccola pozza. Nel Parco acquatico Santa Lucia risaliamo in battello il fiume Umfolozi tra coccodrilli, ippopotami, aquile pescatrici. A terra i gabbiani ghermiscono il cibo pure dalle nostre mani. Siamo a Durban, la più grande città del Sudafrica (3,5 milioni di

Danza di giovani indigeni

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abitanti): porto importante, centro turistico tra i più ricercati per l’estensione delle sue spiagge e il clima temperato. Al nono giorno di viaggio dobbiamo riconsegnare i mezzi di trasporto per portarci by air a Port Elisabeth. All’arrivo prendiamo altri pulmini anch’essi quasi nuovi. Partiamo per Tsitsikamma Bay dove assistiamo allo spettacolo delle onde fragorose che innalzano scomposte colonne di schiuma. L’oceano tempestoso mostra un insolito colore blu intenso. Percorriamo il ponte sospeso; imbocchiamo la Garden Route e ci fermiamo a Plettenberg Bay, Knysna, George, Wilderness. In direzione di Oudtshoorn ci imbattiamo in stupendi esemplari di struzzi giganteschi (neri e grigi). Tappa di trasferimento tra aperti paesaggi, terre coltivate o rocciose e aride. A Mossel Bay, con un giro in battello, avvistiamo le balene, ma sono troppo lontane per darci le emozioni che ci aspettavamo; camminiamo su scogli dove stazionano cormorani e timidi pinguini. Pernottiamo in un B&B dotato di tutti i confort: villa con panorama sconfinato, grande prato dove sonnecchiano due cani giapponesi, stanze eleganti, bagni ognuno con sanitari e suppellettili di colore diverso, padrona di casa gentile e sprintosa… Al mattino eccoci al Southernmost point (il punto più meridionale dell’Africa) di Cape Agulhas, dove le acque dei due oceani (Indiano e Atlantico) si scontrano. Davanti alla targa-monumento scattiamo la rituale foto-ricordo di gruppo. Altro pernottamento in B&B familiare. La giornata successiva è dedicata a Hermanus, Walker Bay (ancora per avvistare le balene, purtroppo sempre lontane), Betti’s Bay e alla Wine Road (per ammirare i vigneti e assaggiare i vini a Stellenbosch). Proseguiamo per Cape Town. Nel pomeriggio si rompe il motorino di

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Bucero in osservazione

Elegante esemplare di struzzo gigante

Scimmia a difesa del suo territorio

avviamento del nostro pulmino, ma presto arriva l’Europecar che ripara il guasto. Città del Capo è una delle capitali più affascinanti. Il centro, denominato City Bowl (conca cittadina), si trova in un’ampia depressione tra rilievi alti più di 1.000 metri. Vecchi edifici coesistono con moderni grattacieli. Qui è racchiusa la storia del Sudafrica: lo sbarco dei coloni olandesi, il primo discorso post-apartheid di Nelson Mandela. Con la funicolare approdiamo a Table Mountain. La giornata è insolitamente chiara; l’agglomerato urbano, la collina Lion’s Head, la baia, l’oceano ci appaiono in una visione irreale. Rintracciamo un’anziana donna che, dietro pagamento, può aiutarci a entrare nel ghetto dove abita. La ospitiamo a bordo dell’auto, ben visibile accanto al guidatore, facendo credere che le abbiamo dato un passaggio. Quindi ci permette di guardare intorno senza farci allontanare. Scattiamo qualche foto. Qualcuno ci invita a entrare nella sua casetta, ma non azzardiamo perché la gentilezza potrebbe trasformarsi in rapina o altro.... Il giorno successivo visitiamo altri luoghi della città: Two Oceans Aquarium, Green Market, il quartiere malese di Bo-Kaar con le caratteristiche case a colori sgargianti (giallo, arancio, verde, rosa, azzurro) situato alle falde di Signal Hill, collina nota per il Noon Gun, il cannone che spara a mezzogiorno e in altre speciali occasioni. Arriviamo pure ai pittoreschi promontori di Cape Point (Punta del Capo) e Cape of Good Hope (Capo di Buona Speranza, in passato erroneamente considerato la punta estrema del Continente nero). Non ci priviamo di una cena al ristorante “Mama Africa”, dove gli spericolati ordinano carne di selvaggina locale (kudu, zebra, coccodrillo, struzzo, serpente); mentre i prudenti si accontentano


di acquistare scatolette con quelle esotiche carni conservate da portare come souvenir agli amici italiani. Giorno della partenza (26 luglio): aeroporto per la riconsegna dei pulmini e volo di ritorno per Jo’burgFrancoforte-Roma. Impressioni e Riflessioni Sono passati 15 anni dal nostro viaggio in Sudafrica, eppure non c’è stato bisogno di consultare il diario perché le forti emozioni sono rimaste impresse nella memoria e, nel rivedere le diapositive, è stato come tornare in quella geografia. La rete delle comunicazioni stradali consentiva trasferimenti scorrevoli e tappe anche lunghe senza mai lasciare l’asfalto che, però, non ci aspettavamo di trovare anche all’interno del Kruger Park. Inizialmente rimpiangevamo il primitivismo dei parchi di Kenya, Tanzania, Zambia, Namibia, Botswana. Strada facendo, invece, si apprezzava la scarsità di polvere e di gravi inconvenienti alle autovetture. La stessa impressione si aveva con i servizi turistici e le strutture ricettive (ottime in tutto il Paese) che rendevano meno pesante il soggiorno: dagli alberghi anche non lussuosi ai B&B, dai bungalow ai camping, ai parcheggi per motorhome. Avevamo notato tanta efficienza fin dal momento in cui ci erano stati consegnati i pulmini. Si capiva che a monte c’era stato l’addestramento dei colonizzatori che con la loro azione razionalizzante, per sfruttare le risorse territoriali (giacimenti di oro, diamanti, platino e di molti altri minerali; fiorente agricoltura con frutteti, vigneti e quindi vini pregiati; allevamenti di animali da carne…), si erano impadroniti del Paese introducendo abitudini e regole occidentali che avevano snaturato l’identità degli indigeni. Nei centri urbani la conduzione degli

Energica donna multicolore

Bambino davanti alla sua misera capanna

Negozio di tutto un po’

esercizi pubblici faceva pensare ai più progrediti paesi del Nord Europa. Non a caso erano gestiti da tedeschi, francesi, inglesi, olandesi. I luoghi naturali più suggestivi erano stati invasi da sfarzose ville con alti muri di cinta ‘ornati’ di filo spinato elettrificato; grandi cani da guardia e cartelli con la scritta “Security Guard” per scoraggiare i malviventi. Ciò provava che non c’era sicurezza e che gli effetti dell’apartheid (parola olandese composta da apart/separato e theid/quartiere) erano ancora presenti. La popolazione nera emarginata nei ghetti di periferia - un tempo detti “bantustan”, oggi “township”- viveva ancora in condizioni subumane nelle fatiscenti baracche dove scarseggiavano servizi primari come acqua e luce. Lottava per superare gravi problemi e nutriva risentimento verso i bianchi che all’epoca dell’esasperata segregazione razziale li avevano privati dei diritti civili fondamentali. Negli ultimi decenni, poi, si erano aggiunti i crimini legati alla droga, la diffusione dell’AIDS e di altre malattie. La miseria, accentuata dall’alto tasso di disoccupazione (allora intorno al 45%, al 1° agosto 2013 al 25,6), ha dato origine a furti e delitti (a Johannesburg da una decina al giorno alla fine degli anni Novanta, si è giunti a una ventina). Per procurarsi le armi, i neri assaltavano perfino le armerie delle forze dell’ordine. Così l’eccessivo arricchimento di alcuni e l’estrema indigenza di altri hanno fatto esplodere gravi e irreversibili conflitti sociali. Tutto questo faceva riflettere sulle conseguenze delle eccessive differenze di classe e sulle disuguaglianze che costringevano anche coloro che le avevano provocate ad isolarsi in abitazioni-bunker. Da parte degli hijackers (rapinatori a mano armata di coltello o pistola) erano frequenti le aggressioni a chi viaggiava in auto. Il venerdì

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pomeriggio gli ospedali all’entrata preparavano addirittura un certo numero di barelle per accogliere feriti e morti provocati nel weekend dall’uso eccessivo di alcool. Al riguardo in un sito web si legge: Volete un breve riepilogo sulle norme minime di sicurezza da adottare vivendo a Johannesburg? Quando state per entrare o per uscire con l’auto dal cancello o dal garage di casa assicuratevi sempre di non avere persone sospette intorno a voi. Tenete sempre abbassate le Aereo della South African Airline per Port Elisabeth sicure delle vostre portiere. Non tenete i finestrini aperti. Agli stop fermatevi sempre qualche metro prima della macchina che avete di fronte a voi, in modo che, se vi state accorgendo di essere assaliti, potete tentare di scartare le altre auto e fuggire. Dopo il tramonto, in certe zone della città una regola non scritta sancisce che ai semafori rossi non ci si ferma più di tanto, si rallenta e si passa comunque, con cautela. Nell’anno del nostro viaggio ne erano trascorsi 37 da quando l’ONU aveva dichiarato l’apartheid “crimine dell’Umanità”, ma appena quattro dalle prime elezioni demo- Mercato di Manzini cratiche multirazziali e la “Rainbow Nation” (la Nazione Arcobaleno, cioè con persone di diverso colore) stentava a decollare come patria

Murales celebrativo di una scuola superiore

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“Hair Cut Salon”: bottega di barbiere

della pacifica convivenza. Da qui il mito di Nelson Mandela (27 anni di prigionia; Premio Nobel per la Pace 1993; dal 1994 al 1999 presidente) che ancora resiste, nonostante la sua figura sia divenuta puramente simbolica. Egli diceva: Ho lottato contro il dominio bianco e contro il dominio nero. Ho coltivato l’ideale di una società libera e democratica nella quale tutti possano vivere uniti in armonia, con uguali possibilità. Questo è un ideale per il quale spero di vivere. In verità aveva saputo gestire la transizione dall’apartheid alla democrazia e dalle sue lotte era derivata la conquista del libero utilizzo da parte dei negri di scuole, ospedali, luoghi pubblici (bar, ristoranti) o mezzi di trasporto. Conquiste elementari indubbiamente importanti, ma che oggi, a fronte di tante altre esigenze, appaiono ancora insufficienti. In questi ultimi tempi la drammatica questione del Paese è stata riportata all’attenzione del mondo culturale, sia pure in termini metaforici e poetici, dall’artista di fama mondiale William Kentridge di Johannesburg attraverso la sua opera multimediale. Anche il critico sudafricano Okwui Enwezor, oggi direttore della Haus Kunst di Monaco di Baviera, ha affrontato l’argomento ricercando ed esponendo una vasta


Veduta panoramica di Città del Capo da Table Mountain

documentazione che coniuga l’aspetto estetico con quello di denuncia della situazione sudafricana. Attualmente la mostra è aperta al PAC (Padiglione Arte Contemporanea) di Milano e comprende il lavoro di una settantina di fotografi, registi ed artisti (tra cui Kentridge) che hanno raccontato per immagini la memoria storica della moderna identità sudafricana a testimonianza di uno dei periodi più tragici del ventesimo secolo, dalla

salita al potere del Partito Nazionale Afrikaner (1948) alla conseguente apartheid che, però, proprio grazie al pensiero e all’azione di Mandela, ha trasformato il Sudafrica da Paese coloniale - dove predominava la segregazione razziale e la spietatezza nei confronti di africani, meticci e asiatici - a realtà in cui si perseguono ideali basati sul dialogo e il confronto. (reportage fotografico di L. Marucci)

Paesaggio vulcanico della costa meridionale

Cormorani al sole

Il gruppo di “Avventure nel Mondo” all’incontro degli Oceani (Indiano e Atlantico)

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FERRUCCIO VECCHI

U

n'azienda che affonda solide radici nella tradizione artigianale tramandata da tre generazioni, in grado di coniugare la sapienza del passato con l'innovazione e la ricerca, sempre pronta ad intercettare le richieste del mercato in continua e rapida evoluzione. Il Factory Store, brillantissima operazione di Marketing, con la sua eterogeneità di prodotti eccellenti crea pluralità di suggestioni in ogni cliente che sceglie di immergersi in una affascinante esperienza di shopping carica di glamour. Avvolti da un'atmosfera chic, si possono trovare oltre ai materiali tradizionali come la paglia, una moltitudine di inserti ed applicazioni che vanno dai tessuti ai filati pregiati, alla pelle, perline, merletti o pizzi: il tutto per impreziosire cappelli, accessori e borse dall'inconfondibile gusto italiano. Non mancano poi, in questo viaggio degno della penna di Truman Capote, sciarpe dalle fantasie policrome e raffinati bijoux in ambra, madreperla e quarzo. Una menzione speciale infine per le cinture di pelle: accessori di alta qualità realizzati interamente a mano, con lavorazioni particolari e di alta qualità.

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tadaostudio.com

ATUM srl Via Carlo Crivelli, 7 63834 Massa Fermana (FM) www.ferrucciovecchi.com


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