HAT - Primavera - Estate 2016 n. 63 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita
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LA MAESTRA Di Nanda Anibaldi
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a quelle parti non ci si può sbagliare. La maestra è lei. A diciotto anni è già acculturata, quando l’alfabetizzazione era per pochi. Specialmente in quei paesi dell’entroterra marchigiano dove si privilegiava il lavoro manuale. Dove importante era saper usare la mani. Quando la cultura era frutto di esperienza e di tradizione. Il figlio imparava dal padre che aveva imparato dal nonno. Una sapiente filiera di competenze e di affetti acquisiti sul campo. Studiare ai primi del novecento era un privilegio e per la cultura contadina una perdita di tempo. Servivano soprattutto braccia-lavoro sia per i campi che per le botteghe artigiane. Lavoro che non s’imparava sui libri ma in trincea. Lei, la maestra, ha rappresentato un’eccezione. Figlia del sindaco socialista Giuseppe Natali (1872-1958) massacrato dai fascisti, nel 1922 fu confinata a Roccafluvione e poi per sua richiesta trasferita ad Appezzana, frazione di Loro Piceno, per essere più vicina a Macerata dove ha frequentato e dove si è laureata nella facoltà di giurisprudenza. Anche qui difficile da raggiungere per mancanza di strade e di mezzi. Non si è fermata. Non si è fatta disarcionare. Ha messo in moto ogni possibile strategia pur di raggiungere l’obiettivo. Spirito indomito e illuminato, Ada Natali la chiamano la maestra dei poveri ai quali si dedica per sollevarli dall’indigenza e dal bisogno materiale ma anche per un’emancipazione culturale. Allora ci volevano i mezzi economici per studiare quindi essere poveri significava essere esclusi. La maestra Ada, insieme alla grammatica e alla sintassi, insegna loro la libertà ma soprattutto il modo per conquistarla.
La Maestra Ada Natali (1898-1990)
L’on. Boldrini in visita al cimitero di Massa Fermana
La Boldrini osserva come si realizza una treccia per confezionare cappelli di paglia
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L’on. Laura Boldrini e l’imprenditore Paolo Marzialetti
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Ecco perché la maestra è lei da quelle parti. Senza rivali. Ma non le bastano le parole, il suo esempio è totale. Nelle consultazioni amministrative del marzo 1946 viene eletta prima sindaca del suo paese natale, ruolo istituzionale di solito affidato agli uomini. Si proietta verso i più poveri, i più bisognosi, i più deboli e verso l’infanzia. Fa anche scelte difficili. Aliena oggetti di poco valore per sostenere il restauro della preziosa Natività del Pagani e per questo viene denunciata e poi scagionata. Non usa solo le parole né le lettere dell’alfabeto per comporle, rischia in proprio. Come partigiana partecipa alle lotte di Pian di Pieca e S. Ginesio e quelle parole le servono per agire. Per insegnare come si difende la propria libertà e quella degli altri. Nel 1948 viene eletta deputata comunista, unica nelle Marche. Maestra-sindaca-partigiana-deputata. Quattro -A- per quattro mansioni diverse che comunque s’intersecano tra di loro con una interpolazione osmotica che nell’agire nessuna delle quattro si riconosce più. L’una sostiene l’altra per essere tutt’uno al femminile. La Presidente della Camera Laura Boldrini, presente alla onorificenza che la città di Massa Fermana ha voluto tributare alla Natali, sottolinea “perché chiamarla sindaco quando la si potrebbe chiamare sindaca che al femminile è l’attestazione dell’essere donna?” Un’attestazione di genere che non vuole essere discriminatorio ma piuttosto il giusto riappropriarsi di ciò che le appartiene. Un paese in fibrillazione sia per lei, la maestra, sia per la marchigianissima Presidente che assolve con sapienza ed eleganza il suo prestigioso incarico, interagendo sempre con equilibrio alle inevitabili diatribe che si accendono sulle sue scelte, diatribe che sono dentro la democrazia che si esercita nell’esercizio della parola concessa a tutti. Nella prima parte della giornata, vissuta come se si trattasse di un evento propriamente commemorativo, la Boldrini rende omaggio alla prima sindaca donna d’Italia della quale nello scorso anno sono stati celebrati i 25 anni dalla morte. Nel corso del pomeriggio, a causa dei lavori di ristrutturazione del Museo del Cappello di paglia di Massa Fermana, la visita si è
limitata al solo Museo del Cappello nel vicino paese di Montappone. La Presidente ha voluto poi recarsi in alcune aziende del DISTRETTO e con grande ammirazione ha apprezzato molto quella manifattura artigianale (Made in Italy) che si colloca tra il Design e l’arte per diventare in questo territorio industriale un’eccellenza da mettere in mostra. Qui l’on. Laura Boldrini, terza carica della Repubblica Italiana, ha potuto esprimere anche la sua femminilità indossando splendidi cappelli. Non poteva certo mancare un momento conviviale che si è consumato a Montappone in tarda serata. Su proposta degli imprenditori del DISTRETTO il sindaco di Massa Fermana e tutta l’amministrazione comunale hanno invitato a cena la PRESIDENTE che ha espresso ancora il suo fascino di donna indossando alcuni dei magnifici cappelli in gesto di ringraziamento indirizzato agli imprenditori per il dono da loro fatto. Durante la serata non sono mancate analisi e riflessioni anche sulla qualità di vita del Comprensorio che alla Boldrini è sembrata di buon livello. Una Kermesse di grande caratura anche per la popolazione di Massa e dintorni, che si è sentita al centro dell’attenzione mediatica. Chissà che cosa avrebbe detto Ada negli ultimi anni della sua vita quando, ormai ritiratasi dagli obblighi politico/sociali, accudiva una colonia di gatti. Chissà se avrebbe gioito vedendosi così acclamata e osannata. Chissà se tutto questo si possa fare mentre si è in vita. Cent’anni prima magari, piuttosto che cent’anni dopo.
L’on. indossa i cappelli che ha ricevuto in dono dagli imprenditori del distretto
La Presidente della Camera Boldrini con i titolari del cappellificio SORBATTI
L’on. consegna una medaglia di riconoscimento all’imprenditore Serafino Tirabasso 5
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IL PREMIO
di Nanda Anibaldi
è
il titolo di un libro. E’ il titolo di un film. E’ comunque un riconoscimento. Nei confronti di chi opera in modo originale. Creativo. Di chi rischia in proprio. Di chi ci mette la firma. O meglio la faccia. Un premio a chi si è distinto. Nel campo della medicina. Della ricerca. Nello sport. Nella moda. Nel commercio. Nell’arte. Un riconoscimento che fa sempre discutere. Gli amici e i nemici. I detrattori. I gelosi. Gli invidiosi. Quelli che ti vogliono bene. Tranne gli indifferenti che per la verità ne sono pochi. E benché indifferenti per costituzione o almeno pare, escono comunque fuori al momento opportuno o inopportuno. Neppure al M° scultore Arnoldo Anibaldi può essere risparmiato tutto questo. Una carriera brillante. Un curriculum interessante e di grande caratura. A Monte Urano nasce, vive e svolge la sua attività. La sua formazione all’Accademia d’arte di Firenze e poi insegnante di modellato, grafica e scultura nei Licei Artistici. La prima importante affermazione è del 1975 quando espone nella sezione NUOVA GENERAZIONE alla QUADRIENNALE di Roma. Successivamente si classifica secondo al CONCORSO INTERNAZIONALE CITTA’ DI MARINO. Numerose le personali e collettive in Italia e all’estero. Solo per numerarne alcune, in Germania Augsburg e Monaco, in Spagna Barcellona. Altra importante affermazione nel dicembre 2008 a Palazzo Matteo Mattei (Sede universitaria della facoltà d’ingegneria-Fermo) una Personale “Facce dall’Europa e dal Mondo” nella ricorrenza del trentennale CENTRO ALTI STUDI EUROPEI - C.A.S.E Una bella kermesse tra Relazioni, Punti di vista, Memorie e Immagini che hanno dato forma e colore alle parole. Presenti la segretaria generale del CENTRO Bianca Tosco Iacopini, Marco Pacetti -Magnifico Rettore dell’ Universita’ Politecnica delle Marche e Presidente del C.A.S.E.- David O.Clark M.A. Università di Oxford, Luigi Vittorio Ferraris docente di Relazioni Internazionali, vice presidente del C.A.S.E., Giuseppe Ciavarini, Direttore onorario generale Commissione Europea e docente Studi Politici-Parigi, Enrico Vinci consigliere C.A.S.E. e Segretario Generale Parlamento Europeo. Si chiede sempre scusa a quelli che non vengono nominati ma ne sono tanti e tutti di alto livello, almeno dal punto di vista del ruolo o dell’incarico loro affidato. Ma non finisce qui.
Barbara Anibaldi riceve il premio per conto del padre Arnoldo, dalle mani del figlio di Salvador Dalì 8
Proprio di recente, nel mese di Aprile 2016, due grandi affermazioni. L’Anibaldi è presente nel CATALOGO di Vittorio Sgarbi MAESTRI ITALIANI edito da EA con una scultura -ONDA- che è la testata del suo letto personale. In ottobre sarà presente sul terzo volume con L’ALBERO DELLA VITA, in legno dorato e patinato. L’altra affermazione è il premio INTERNAZIONALE TIEPOLO in cui l’artista Anibaldi è fra i 100 scelti tra 800 artisti da tutto il mondo. La premiazione a Milano il 21 aprile 2016 nel Palazzo Clerici – Sala Pirelli. L’EDITRICE ASS-EA recita “IL RICONOSCIMENTO PER POCHI ARTISTI AL MONDO”. Il prestigioso catalogo verrà distribuito in Italia a galleristi, collezionisti, mercanti d’arte ed è consultabile sul web. Che dire? Che l’ospite d’onore sia stato l’artista Jose Van Roy Dalì, figlio di Salvador, non è particolare da poco.
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L’EDITORIALE di Nanda Anibaldi
ARS. Se la radice è la stessa, l’artista e l’artigiano convivono in un genoma che si esprime intersecandosi nella storia del suo tempo, assimilandola, assorbendola per contribuire a crearla. Il futuro sul presente. Il presente sul passato. Ma con una separazione indebita abbiamo collocato l’artista nei musei e l’ artigiano nelle botteghe. Eppure anche i più grandi artisti si sono sporcati le mani. Lo stesso Michelangelo ha dovuto imparare i segreti degli scalpellini perché dal marmo fuoriuscisse la forma chiusa nella materia. Non bastano l’intuizione e l’idea, le mani devono ubbidire a quell’intuizione e a quell’idea e per questo bisogna conoscere il segreto dei mestieri . L’errore sta nel separare. Nel creare steccati. Il sapere è unico. Lo facciamo per comodità di analisi o per posizionarci pensando che il luogo scelto sia il migliore? Lo facciamo pensando di far brillare di più il nostro IO. Una sorta di egoità che s’impone e che inevitabilmente crea dissapori e dissensi. Quando è Arte - quando cioè riusciamo a creare connessioni nuove sul già esistente - la separazione è pretestuosa. Si può discutere sulle varie forme, si può anche dissentire ma non si può negare.
Come è sterile polemica discutere su Arte antica e Arte moderna. Serve solo a svilire e a negare la Storia. Serve solo ai critici per affermare quell’Egoità. Quell’IO ipertrofico che, più che difendere o negare alcuni canoni,vuole imporre e difendere se stesso. Una delle più recenti polemiche è tra l’Arte antica è l’Arte concettuale che è fondata soprattutto sul pensiero, sulla relazione tra immagine e parola. Dove l’idea e la riflessione subentrano al manufatto sottraendo l’Arte medesima ai vincoli formali e culturali che ne avevano costituito la tradizione. Per contro una risposta autorevole: siamo e sempre saremo un fiero baluardo a difesa dell’arte di tradizione. Quella che, senza giri di parole, ha ancora bisogno di essere creata e non solo pensata. (Sandro Serradifalco editore E A - i Maestri italiani 2016 di Vittorio Sgarbi). 9
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FOLKLORE MARCHIGIANO La lavorazione della paglia
di Giuseppe Linfozzi (Da Il popolo d’Italia, 3 luglio 1930) Introduzione di Ubaldo Santarelli
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hecchè se ne dica, anche il matrimonio ha i suoi bei lati una limpida impostazione democratica e antifascista, unita a positivi. Pochi, ma li ha: per esempio, dà la possibilità di profonda formazione cristiana”, secondo lo spirito del motto di portare a … casa (in senso metaforico e non!) parenti, più o quel foglio: “Noi seminiamo, la patria raccoglierà”. meno stretti, del coniuge. Nel mio piccolo, tra i tanti parenti, Mi pare interessante citare il brano di un articolo critto per quel che ho acquisito con il matrimonio, c’è lo zio giornale da ziu Pippì nell’aprile 1944, una vera Silvio, fratello del padre di mia moglie. e propria lezione di storia incredibilmente Silvio è nato a Falerone, da dove nel 1954 attuale: “Vorremmo fare una domanda al si è trasferito a Torino, per contribuire clero, ai cattolici collaborazionisti di ieri, agli come tecnico alle fortune della FIAT a.M. amanti di quieto vivere, del minor rischio, (ante Marchionne). Da allora vive (ora da del tran tran di tutti i giorni che si esaurisce pensionato) nel capoluogo piemontese con in una barzelletta o in una sforbiciata: che un occhio, un orecchio e un quarto di cuore cosa si è ottenuto dal fascismo? Il Crocefisso (gli altri tre quarti li riserva alla moglie e alle nelle scuole, la Conciliazione, dei cappellani due figlie!) costantemente rivolti alle cose della GIL e della Milizia, un po’ di catechismo marchigiane, privilegiando ovviamente quelle nelle scuole, un tantino di Azione Cattolica faleronesi. (ma ben circoscritta tra le quattro mura Per questo, appena me se ne offre della parrocchia …). Ma a che cosa è servito l’opportunità, faccio avere allo zio Silvio tutto questo?... La vita politica è stata forse notizie, scritti e immagini sulla sua terra più morale?... Se lottare si deve - e si deve d’origine. Recentemente gli ho mandato il testo lottare per sopravvivere - si lotti oggi contro il completo della “Veglia” in cui la Contrada di mondo marcio che tramonta e non domani, Cav. Giuseppe Linfozzi (1899-1975) San Paolino, in occasione dell’ultima edizione contro le forze vive che sorgono.” della Contesa de la ‘Nzegna, raccontava le fasi della lavorazione Quando, dopo la Liberazione, la pubblicazione del giornale si della paglia, che fino a qualche decennio fa caratterizzava interruppe, ziu Pippì, nel congedo, scrisse: “Ideato e lanciato l’economia faleronese, e non solo. In contraccambio, lo zio Silvio in un momento di esultanza il 26 luglio 1943, questo bollettino mi ha fatto avere un articolo apparso il 3 luglio 1930 (si badi ebbe discreta fortuna, grazie soprattutto alla collaborazione di bene) su Il Popolo d’Italia. Il pezzo, intitolato, guarda caso, La amici fidati che si assunsero il rischio di curarne la copia e la lavorazione della paglia, è firmato da Giuseppe Linfozzi. Questi diffusione, ben oltre la cerchia del paese, della provincia, della per tutto il foltissimo clan familiare di zio regione.” Silvio (e, quindi, anche per me, per … Tra gli “amici fidati” ziu Pippì annoverava diritto matrimoniale) è ziu Pippì. anche la sorella Emilia Linfozzi (1910Nato a Monte Vidon Corrado nel 1899 1992), la zia Emilia (da me regolarmente e vissuto per qualche tempo anche a acquisita … secondo il rito di santa Falerone, ziu Pippì si trasferì a Torino romana chiesa) altra marchigiana DOC per intraprendere la carriera di ufficiale di Monte Vidon Corrado e di Falerone, dell’esercito. In Piemonte, però, egli non trapiantata in Piemonte, per tutti la mitica si segnalò solo per le sue qualità militari. impiegata alla Olivetti di Ivrea, ed eroina Ho scoperto, leggendo il volumetto di della Resistenza, come ho potuto leggere memorie autobiografiche Scorci ignorati in un suo dattiloscritto (certamente con di vita strambinese di trent’anni fa Foto d’epoca. Monte Vidon Corrado, scorcio del centro storico l’ausilio di una Olivetti, ma non so di quale con la chiesa di San Vito Martire (stampato nell’aprile 1973) e alcuni … lettera) di 12 fittissime pagine, datato ritagli di giornali del 1973 (procuratimi da zio Silvio), che ziu dicembre 1945, che inizia così: “Avendo trascorso l’infanzia Pippì (morto nel 1975) partecipò fattivamente, in prima fila, alla nel periodo della guerra mondiale, quando le cose si vedono Resistenza piemontese, curando tra l’altro, il primo giornale della molto più grandi della realtà, da allora ho associato il nome lotta partigiana canavesana (che aveva come testata “Libertas”, di tedesco a quello del nemico, e col volgere degli anni e dello poi trasformata in “Lo Spillino”), “portando nei suoi articoli studio questa impressione mai si è cancellata dalla mia mente.
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[…] La morte di molti uomini da me conosciuti sul fronte albanese nel ‘39/’40 a cui il mio dispetto contro colui che aveva nutrito gli italiani di troppe e sole chiacchiere. […] L’animo era più che preparato e nel 25 luglio ’43 l’attesa finalmente maturò l’azione. Ero donna e poco potevo fare, ma quel poco lo feci. Si trattava di divulgare l’idea di patriottismo vero, della libertà, della lotta contro il nemico.” Ma è ora di leggere l’articolo, datato 1930, scritto dall’ex sindaco di Strambino (paese in provincia di Torino), il Cav. Giuseppe Linfozzi, per noi semplicemente ziu Pippì, che aveva il cuore traboccante, come altri faleronesi … in esilio più o meno volontario in regioni lontane, di amore viscerale per questo lembo di terra fermana. Quasi una specie di Eden … Non perduto, ma, purtroppo, lontano! 1907- Strambino- piazza del Municipio
L’industria della paglia, per la stagione in cui siamo e per la crisi I centri della casalinga industria che attraversa (parrebbe un controsenso ed è una realtà), è Come e da quando l’industria della paglia e del cappello si sia all’ordine del giorno in Italia: ne parlano un poco tutti. Non sarà assisa in quel lembo della provincia di Ascoli Piceno che si insinua dunque superfluo se ne parliamo anche noi pei nostri lettori, ai nella provincia di Macerata formando quasi un isolotto, non si quali, lo diciamo subito, non intendiamo affatto propinare un sa con precisione: sono secoli che questa modesta e semplice bel sermone sul dovere di aiutare questa industria nazionale, popolazione lavora ed esporta il suo prodotto caratteristico. sulla eleganza o meno di un candido lobbia o sull’aria sbarazzina Ma il prodotto, intendiamoci, non il mestiere, perché questo, d’una paglietta a sghimbescio. I lettori leggano pure con tutta fatto singolare, segna nettamente i confini dei paesi citati: tranquillità, poiché non li attende né un rimbrotto, né un dove cessano i confini cessa la lavorazione della paglia, tanto consiglio e nemmeno la possibilità di …prendere cappello; che se un abitante di questi centri emigra in un altro, sia liberissimi come sono, e li lasciamo, d’andare a capo scoperto pure vicino, smette senz’altro il consueto lavoro. Un’industria o coperto, di ostentare un pesantissimo feltro o una quindi prettamente locale e che per essere scevra da ogni leggera “cappellina”, d’andare anche magari senza infiltrazione, conserva quel carattere di folklore che la niente in testa e ripararsi dai raggi del sole con rende simpaticamente interessante. l’ombrellino variopinto della propria metà. Come tutti sanno, le Marche non hanno pianure, Vogliamo condurre invece il lettore (col tolte quelle dei fiumi, che sono di proporzioni pensiero, che il tragitto sarebbe troppo abbastanza modeste e qualche tratto lungo il bel lungo!) in un angolo a torto obliato delle litorale adriatico; sono tutte saliscendi, tutte una Marche, terra di poeti, di musicisti e pittori fioritura di colline più o meno elevate, più o meno sommi, e terra anche dove l’industria della verdeggianti, tutte però belle. paglia- la modestissima industria della paglia I paesi, la maggior parte almeno, sono posti in alto, su prospera da secoli e dove, accanto alla produzione queste colline, motivo per cui è possibile da uno delle più moderne macchine, esiste ancora qualunque godere dei panorami stupendi una produzione casalinga tipicamente che vanno quasi da un capo all’altro della folkloristica. Di solito quando si dice regione e anche oltre. paglia si dice Toscana; noi invece diremo Falerone, Monte Vidon Corrado, per una volta tanto, Marche; e parleremo Montappone e Massa Fermana d’un luogo poco noto ai profani ma molto appartengono a questa categoria ed caratteristico ed operoso e, appunto per hanno il privilegio d’essere i più elevati questo meritevole d’esser conosciuto: della zona e di godere quindi d’una Uomo con paglietta all’inizio degli anni 30 Falerone, Monte Vidon Corrado, visuale amplissima che si stende dagli Montappone, Massa Fermana. Chi li ha mai sentiti nominare Appennini al mare, dal lontano M. Conero al Gran Sasso d’Italia. questi paesi? Forse nessuno dei lettori, a meno che tra questi Pensi il lettore quale panorama meraviglioso, specialmente non vi sia qualche marchigiano, il quale è senza dubbio portato nelle notti serene quando all’intorno le decine e decine di a vedere sotto ogni cappello di paglia un amico della sua regione paesi si popolano di luci e quando colle luci - in occasione della e una eco amata del lontano cantuccio nostalgico. Madonna di Loreto, per esempio - da tutti i casolari dei contadini si accendono enormi falò. Spettacolo stupendo, reso ancor più 11
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suggestivo, se visto da vicino, dalla gentile usanza di recitare preci attorno a questi fuochi, dallo sparo di mortaretti e dalle voci che corrono da una casa all’altra, ripercorse ed ampliate dall’eco di cento dirupi e cento conche. Ma non divaghiamo. La caratteristica del terreno può forse aver contribuito in qualche modo a rendere, nei tempi remoti, specialità del luogo la lavorazione della paglia; il poco rendimento e le difficoltà anche nello smercio e la lontananza da un grande centro devono poi aver dissuaso gli altri dal rubare il mestiere. Comunque sia, ripetiamo, l’industria è nettamente circoscritta ai paesi citati. La macchina, come altrove e come per tante altre industrie, va soppiantando anche qui l’opera dell’uomo: ma noi la lasceremo da parte, limitando il nostro interessamento al lato folkloristico. Chi va, per esempio, da Porto S. Giorgio verso Amandola, vale a dire dal mare verso il monte, seguendo la verdissima vallata del Tenna, arrivato alla stazione di Falerone ha una prima prova d’essere arrivato nella terra del cappello: si imbatterà subito in persone- donne, uomini e adolescenti- con un mazzetto di paglia sotto il braccio sinistro, e un qualcosa tra le mani che pende e che si allunga lentamente per quanto svelto sia il movimento delle dita: è la treccia, l’embrione diciamo così del cappello, della sporta, del tappeto, ecc. Siamo dunque già ai margini di questo caratteristico angolo marchigiano. Inoltriamoci per poter osservare meglio e più dappresso questa occupazione nuova per noi. Siamo al piano: saliamo in alto, seguendo le ombreggianti e tortuose strade che si arrampicano fino ai paesi. Tralasciamo per ora le fabbriche ed entriamo in una qualunque delle ospitalissime case dall’uscio spalancato - i contadini nelle Marche vivono tutti in aperta campagna, accanto al podere che coltivano (vige la mezzadria) e non raggruppati al centro come altrove - oppure sediamoci su qualche aia all’ombra d’una pianta: la stagione ci permetterà di seguire questa lavorazione proprio dai primi passi. Il taglio del grano in primo luogo. Questo è fatto a mano con apposite falci, poiché la falciatrice meccanica rovinerebbe la paglia; del resto, il terreno è così scosceso e la proprietà così spezzettata che non si potrebbe fare diversamente. La mietitura costituisce la fase più bella e più suggestiva dell’annata. Dalla nostra aia possiamo comodamente seguire il lavoro di più squadre sparse un poco in ogni dove, nei campi sottostanti e in quelli dei colli opposti e laterali. Sono uomini, donne, vecchi, giovani curvi sotto i dardi del sole, accecati dal riverbero e dal sudore. Eppure si elevano e s’incrociano canti da ogni parte: ono canzoni, stornelli, duetti: il marchigiano è gioviale e nella mietitura, come del resto in tutti i lavori campestri, questa giovialità trova l’espressione maggiore e migliore nel canto. I covoni vengono riuniti sullo stesso campo in mucchi, in “cavalletti”, e su ognuno di questi viene infissa una croce di canna sormontata da un ramoscello di olivo benedetto. Riportato a casa dopo qualche giorno, il grano non passa subito alla trebbiatrice, ma subisce una scelta, la “capatura”, cioè si infilzano i covoni su dei bastoni appuntiti infissi al suolo e si scelgono gli steli migliori; si tagliano quindi le spighe - la “cerratura”- e la paglia si lega a “fascetti“, che si mettono poi a essiccare al sole avanti alle case. Dopo la battitura cominciano le 12
vere cure per la paglia. Questa va prima mondata, cioè liberata dalla parte più bassa dello stelo e da quella specie di guaina che ricopre fino ad un certo punto la parte superiore; va, per dirla col termine locale “ ‘rcapata”. L’operazione, seppure assai noiosa, è semplicissima e vien fatta anche dai bambini. Basta
1930 - Piane di Falerone - Stazione Ferroviaria
piegare da una parte e dall’altra nell’ultimo nodo il gambo e tirare: nella destra rimarrà lo scarto, nella sinistra la paglia: per la lavorazione si utilizza cioè quella parte dello stelo che va dalla spiga al primo nodo. Ma non è ancor pronta per essere lavorata. Occorre suddividerla a seconda della finezza dello stelo, e qui subentra la macchina, una macchina molto semplice, formata da una decina di piatti con fori di diverse dimensioni, sormontati da un tubo e sovrapposti ad altrettanti armadietti: il movimento accelerato dei piatti suddivide la paglia secondo le diverse grossezze. Se ne fanno così dei mazzi che si legano con giungo e sul giungo si incidono le “arre“, le misure. Ed è finito: basta metterla in un cassone chiuso ermeticamente per sbiancarla ancora a base di esalazioni di zolfo acceso e indi bagnarla per renderla più soffice. Possiamo ora lasciare l’aia ed entrare in casa, in cucina: saremo
Mietitura - Le dita della mano sx sono sono guarnite di cannelli di latta per proteggerle dalla falciatura sottomano
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Cavalletti di grano sul campo
accolti gentilmente, essendo il marchigiano molto ospitale, ed assaggeremo così (altra specialità del luogo) il noto vino “cotto“ che ricorda da vicino quello più famoso dei Castelli romani. Uno sguardo d’assieme ci consente di renderci conto delle diverse lavorazioni. Ecco il rampollo mocciosetto o la frugola spaurita, che, autodidatta, apprende le prime nozioni del mestiere con la treccia a tre paglie: la treccia, credo, che conoscono tutti in tutto il mondo e che...serve a niente. Ce n’è uno invece, più grandicello, nell’angolo che serio serio muove le sue manine impacciate attorno a sette paglie: il secondo passo il “triccì“, cioè piccola treccia, usata per i cappelli da uomo... quando è ben fatta, e i grandi la fanno perfetta e sono sveltissimi. Ecco il capo famiglia e i figli maggiori che muovono sveltamente le dita (pollice, indice e medio delle due mani) attorno ad una vera selva di paglie: tredici! Sono le trecce buone a “tout faire”: cappelli per signora, sporte, tappeti, guide, ecc. Accanto alla finestra, seduta su una sedia o su un gradino, la madre o la figlia maggiore: un ago grosso con del filo di canapa e, tra le ginocchia, un cappello a falde larghissime o una specie di tappeto o che so io: la cucitura. Semplicità e abilità Qui l’abilità è massima, lettori miei. Come si possa fare a cucire così in fretta, ad infilare giusta giusta una paglia per volta non saprei dirvelo; è destrezza, è abitudine, è occhio. Cioè, occhio fino ad un certo punto, perché tante volte non guardano quasi il lavoro e tante volte il lavoro, anche quel lavoro, si fa alla fiochissima luce d’un piccolo lume a petrolio. Ed ecco infine accanto al focolare, nell’angolo delle... scope, una bambina grandicella con le forbici in mano che “spurga“ le trecce, cioè recide le estremità delle paglie che restano fuori, al di sotto, sia quando ne aggiunge una, sia quando una, al termine, si mette a riposo; non si procede oltre se le trecce non sono prima “spurgate”. Ai piedi della donna che cuce, delle forme cilindriche di legno (termine fisso di riferimento delle teste umane, e sia detto senza malignità), di diverse dimensioni, sulle quali si misurano i cappelli, che vengono poi “lisciati“ con la “mazzetta“, un rettangolo di legno durissimo e levigatissimo. Incastrato al muro un arnese misterioso che ha al centro altre due forme combacianti e regolabili nella pressione: il “torcetto“, il quale
“capatura”
“ ‘rcapatura ”
non ha niente a che fare col “torcetto“ nostro, di tutt’altra pasta e di ben altro uso. In quello vi si passa la treccia, si gira adagio o in fretta, come volete, e il movimento delle forme vi restituirà dall’altra parte una treccia morbida ed uguale, priva d’ogni gibbosità e d’ogni difetto; fa insomma da rullo compressore. Possiamo uscire, perché la lavorazione finisce normalmente qui per completarsi e perfezionarsi nelle fabbriche, che ci daranno poi il prodotto variato e finito, ma ancora una cosa. Abbiamo vista la lavorazione in cucina: con l’immaginazione potremmo vederla identica, nell’inverno, nelle stalle dove i vicini si riuniscono e dove, tra il pettegolezzo delle “comari”, le discussioni pacifiche dei “compari” e i primi approcci dei giovani, essa si svolge alla luce fioca del solito lumicino a petrolio e al caldo naturalissimo e non costoso di qualche coppia di pacifici ruminanti. E la luce elettrica, diranno i lettori, non la conoscono nelle Marche? Eh, certo che la conoscono; ma, vivendo i contadini sparsi per le campagne, ci andrà del tempo prima che le società riescano a tirare tante linee da allacciare tutte le case coloniche. Quando la stagione lo consente o durante il giorno, la lavorazione della paglia può comodamente osservarsi anche fuori, davanti alle case, per le vie del paese, per le strade di campagna. E’ difficile - caratteristica locale che, come detto, cessa ai confini di questi paesi - vedere una persona del popolo, sia donna che uomo, andare in giro con le mani in mano: tutti vanno con la paglia sotto il braccio e la treccia tra le dita. Del resto è un lavoro che si può fare anche guardando altrove, anche parlando, anche leggendo gli avvisi... dell’agente delle imposte: le mani lavorano per proprio conto e non si sbagliano. Lavoro di pazienza, ma poco redditizio però; il che dimostra che la pazienza non è sempre premiata come merita, almeno in questo mondo. Ed ora che abbiamo visto minutamente il lato folkloristico della lavorazione della paglia, possiamo curiosare nelle fabbriche, in una Torchietto 13
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qualunque delle molte esistenti. La macchina sta eliminando poco alla volta parte di questo caratteristico lavoro; ci vorrà però del tempo prima che lo elimini del tutto. Ad ogni modo noi siamo capitati ancora in tempo per vederlo completo. Dall’antico al moderno Una categoria che è scomparsa definitivamente è quella dei venditori ambulanti. Sì, ve ne sono di quelli che vanno anche oggigiorno col carretto da un mercato all’altro - e non è difficile vederne anche in Piemonte - ma il vero venditore ambulante, che va a piedi, è ormai scomparso col diffondersi dei moderni mezzi di locomozione. Raccontano gli anziani che i loro vecchi - di questi vecchi ne vivono ancora - col capace e caratteristico sacco in spalla sorretto da un lungo bastone, giravano per i paesi, a piedi, per vendere il prodotto fatto dalla propria famiglia e da qualche lavorante nelle quindici e più ore lavorative giornaliere, spingendosi (ripetiamo, amico lettore, a piedi!) anche sino a Roma!... Questo si chiama guadagnarsi la vita onestamente ! Ed anche il Paradiso! … Ed eccoci in una fabbrica, eccoci dove il modesto e primitivo lavoro degli umili riceve l’ultimo tocco; ecco da dove il prodotto esce veramente finito per spandersi per il mondo, soprattutto orientale. Poco da dire. Un salone enorme raccoglie decine e decine di macchine a pedale e elettriche molto simili alle comuni macchine dei panni: è il salone delle cucitrici. Molte famiglie d’artigiani hanno una o più macchine in casa; ma è qui, nelle fabbriche, dove proprio la lavorazione è completa. Un rumore assordante, un odore caratteristico di truciolo, d’olio e di petrolio: ferve il lavoro. Un canto ora sommesso ora forte, ora singolo ora collettivo: è la simpatica anima marchigiana che non si smentisce mai. Sono i canti dell’amore, sono i canti della patria. Appresso un salone più tranquillo: mucchi di cappelli, di nastri, di trine, di fodere: è il reparto guarnitrici, le lavoratrici dell’ago. Poi la tintoria, le presse a caldo, le aree soleggiate dove essiccano trecce e cappelli, i magazzini: reparti tutti riservati agli uomini. In queste fabbriche, e ce ne sono moltissime tra grandi e piccine (oltre l’artigianato) in ognuno dei quattro paesi, la lavorazione della paglia è completa. E siccome la paglia è costosa, è sorto il surrogato: il truciolo. E siccome inoltre per molti la paglia ed il truciolo sono troppo modesti, è venuto il panama. Anche questi, importate da fuori le materie prime, gregge, vengono lavorati su vastissima scala. Ma questi paesi, domanderà ora il lettore, quanti abitanti hanno? Pochi: diecimila circa tra tutti e quattro. E tutti fanno cappelli? anche i poppanti? Mio Dio, i poppanti proprio no, ma è un fatto che cominciano presto laggiù a pasticciare trecce, prima ancora quasi dell’A.B.C. sui banchi delle elementari. Del resto, si tratta d’una lavorazione facile e migliaia e migliaia di cappelli escono finiti ogni giorno dai focolari e dalle fabbriche: ne escono tanti, che non riescono nemmeno a venderli tutti, ed ecco la crisi. Ed ora, amico lettore, che mi hai seguito fin qui, possiamo fare il cammino a ritroso e tornarcene quassù anche senza cappello, lasciandomi almeno l’illusione d’aver fatto cosa gradita nel condurti in quei piccoli centri solatii ed obliati, che tra il verde intenso degli ulivi e l’alito delle brezze, ripetono per ogni dove col loro modesto prodotto l’eco nostalgica della semplice e gioconda anima marchigiana.
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Veglia nelle stalle
Trecciaiolo
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SULLE ALI DELL’IPPOGRIFO di Stefania Severi
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ltro che aeroplano! Vuoi mettere dedicati all’Ariosto. A rendere la mostra l’ippogrifo! Ci monti su e lui ti particolarmente fascinosa è in oltre la porta ovunque tu voglia. Il primo a Villa stessa che, anche in assenza di descriverlo è stato Ludovico Ariosto, riferimenti precisi, evoca gli ambienti nel Canto IV dell’Orlando furioso. ed i giardini descritti dall’Ariosto. Era il veicolo di locomozione del Del resto non va dimenticato che il mago Atlante, ma lo cavalcarono committente della Villa, il Cardinale anche Ruggero, quando andò a salvare Ippolito II d’Este, da ragazzino era Angelica, e Astolfo, per andare sulla vissuto a Ferrara dove l’Ariosto Luna a recuperare il senno di Orlando. era poeta di corte e quindi aveva Già perché proprio il più nobile e certamente ascoltato in anteprima i valoroso dei paladini, accortosi che la versi del poema. sua amata Angelica se ne era andata La mostra è divisa in varie sezioni. con un nuovo innamorato, era uscito Nella prima troviamo, oltre alle prime di senno! tre edizioni dell’Orlando furioso Ma com’era l’ippogrifo? Lasciamo (1516, 1521, 1532), varie immagini che sia l’Ariosto stesso a dircelo dell’Ariosto. Purtroppo è andato e ci accorgiamo subito che la sua Jean Auguste Dominique Ingres, Ruggiero libera Angelica, perduto il ritratto che gli aveva fatto descrizione è così precisa e colorita 1841, olio su tela, cm 54 x 46, Montauban, Musée Ingres il grande Tiziano, ritratto che tuttavia da consentirci di immaginare subito deve aver dato spunto a molte incisioni l’animale: «Non è finto il destrier, ma naturale, / ch’una giumenta successive. Né mancano pittori che hanno realizzato dipinti sulla generò d’un Grifo: / simile al padre avea la piuma e l’ale, / li piedi sua figura che, per antonomasia, è quella del letterato elegante, anteriori, il capo e il grifo; / in tutte l’altre membra parea quale / in tutti i sensi. Magro e sobriamente vestito in nero ce lo presenta era la madre, e chiamasi ippogrifo; / che nei monti Rifei vengon, Massimiliano Lodi nel suo dipinto La lettura da parte dell’Ariosto ma rari, / molto di là dagli agghiacciati mari.» delle proprie composizioni poetiche nell’ambiente della corte A riconoscere le qualità “pittoriche” della scrittura dell’Ariosto sono stati studiosi di tutti i tempi, fin da quando l’Orlando fu pubblicato la prima volta. Era il 1516 e, celebrandosi quest’anno i 500 anni dell’evento, riprendiamo questo testo bellissimo, amato da tutte le classi sociali ed in tutte le epoche, salvo forse in quella contemporanea. A riportare l’attenzione sull’Orlando ci pensa una bella mostra allestita a Tivoli, nella splendida Villa d’Este: “I voli dell’Ariosto. L’Orlando furioso e le arti” (15 giugno - 30 ottobre 2016). La mostra, promossa dal Polo Museale del Lazio e a cura di Marina Cogotti, Vincenzo Farinella e Monica Preti, presenta dipinti, incisioni, sculture, arazzi, vasellame, filmati e foto, tutti sul tema dell’Orlando, a dimostrare la sua fortuna attraverso i secoli. Particolarmente interessante è il catalogo della mostra (Edizioni Officina Libraria) i cui contenuti si estendono ben oltre i materiali esposti, Massimiliano Lodi, Ludovico Ariosto legge l’Orlando furioso alla presenza della corte estense illustrando anche alcuni celebri cicli di affreschi 1860, olio su tela, cm 123,5 x 167, Ferrara, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea 15
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ferrarese (1860). La sezione 2 è dedicata Mulas visibili nella mostra. Nel 1975 lo spettacolo fu riproposto alla fortuna dell’Orlando nel 1500 in televisione con sceneggiatura e costumi di Pier Luigi Pizzi. In e presenta soprattutto stampe e mostra sono alcuni dei disegni originali di Pizzi. L’esposizione ceramiche che documentano le si completa con alcuni elementi, tra cui un grande albero e dei interpretazioni, sia celebrative sia cavalli, di quel “vecchio” spettacolo televisivo. caricaturali, dei vari personaggi. Nel corso dell’estate sono previsti nella Villa eventi e concerti Nelle sezioni 3 e 4 sono gli omaggi legati all’epoca di Ariosto ed al fantastico mondo del suo poema, all’Ariosto di artisti dal 1600 al tra cui uno spettacolo di Pupi siciliani che da sempre hanno Coppa con raffigurazione di 1800. Spiccano: Marfisa, 1535-1540 c., maiolica tre disegni di Jeandipinta, Casteldurante, Ǿ cm 22, Faenza, Museo InternazioHonoré Fragonard nale delle Ceramiche facenti parte di una serie di circa 180 fogli realizzati per una edizione illustrata del poema, mai realizzata (1780 circa); i paesaggi romantici di Giuseppe Bisi, Massimo d’Azeglio e Giuseppe Bezzuoli, in cui i personaggi sono comparse rispetto al vero protagonista che è il paesaggio. Nella sezione 5 sono le visioni del Furioso nell’Ottocento francese. Infatti in Francia il poema è giunto tradotto fin dal 1500 ed ha sempre avuto grande fortuna. Spiccano le interpretazioni di Jean-Auguste-Dominique Ingres e Eugène Delacroix, ma soprattutto i magnifici disegni di Gustave Doré, per l’edizione illustrata del Roland furieux (Paris, Hachette, 1879). Una Massimo Taparelli d’Azeglio, Paese d’invenzione coll’episodio dell’ombra di Argalia che appare a vera scoperta è una scultura in bronzo, dello Ferraù, 1834, olio su tela, cm 120 x 167, Brescia, Musei Civici d’arte e di storia stesso Doré, con Ruggero sull’ippogrifo che, quasi sospeso sulla sua lancia, trafigge il mostro che ha rapito Angelica. l’Orlando nel loro repertorio. E grazie alla mostra, ai cavalli di E veniamo alla parte “contemporanea” della mostra in cui Pier Luigi Pizzi, alla musica ed agli spettacoli e grazie soprattutto troviamo il celebre Orlando furioso messo in scena da Luca alla splendida Villa d’Este, Tivoli si trasforma quest’estate Ronconi. Lo spettacolo, presentato al festival di Spoleto nel nell’isola di Alcina. Andiamoci sulle ali dell’ippogrifo. 1969, è stato riproposto poco dopo sulla piazza del Duomo di Milano ed è stato in tale occasione immortalato dalle foto di Ugo
Gustave Doré, Disegno preparatorio per l’edizione illustrata del Roland furieux (Paris, Hachette, 1879), penna e inchiostro su carta, mm 190 x 192, Strasburgo, Musée d’art moderne et contemporain 16
Tivoli, Villa d’Este: alcuni degli elementi scenografici utilizzati da Pier Luigi Pizzi per l’Orlando furioso per la televisione (1975)
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La ditta Sorbatti, in virtù del suo retaggio familiare e professionale nel settore del cappello, si è evoluta nell’odierna realtà come industria affidabile e dinamica. Fa dell’innovazione tecnologica e della qualità dei prodotti il proprio fiore all’occhiello. Crea e cura nei minimi dettagli i prototipi personalizzati per la promozione dei brand aziendali forniti dai clienti, anche i più esigenti. La vita aziendale della Sorbatti srl si svolge attualmente in tre luoghi: Montappone, via Leopardi 18 Qui si trova l’opificio industriale, uno stabilimento di produzione di 1800 mq proprio nel cuore del distretto. L’Azienda produce cappelli e berretti di qualità come feltri, panama originali, coppole e altro. Tutto il processo produttivo è seguito con cura, dalla selezione delle materie prime all’imballaggio. Strada Provinciale Montapponese Sorbatti Outlet, punto vendita al pubblico di cappelli, berretti in tessuto, paglia, feltro e accessori di produzione propria. Online Store Vendita online a privati e rivenditori su www.sorbatti.it Monte Vidon Corrado C.da Vallemarina (Z.ind.) Magazzino di 2500 mq per lo stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti commercializzati. SORBATTI srl via G. Leopardi, 18 63835 Montappone (FM) - ITALIA tel. 0039 0734760982
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IMMERSI NELL’ANTICA ROMA A colloquio con un Vexillifer della Legio II Parthica
di Ruggero Signoretti
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l 21 aprile, giorno natale di Roma, si svolge, nell’area del Circo Massimo, Campidoglio e Fori Imperiali, una insolita parata e per alcune ore si torna ai fasti dell’Antica Roma. Sfilano drappelli di militi, personaggi del popolo, patrizi, matrone, senatori, schiavi… Ad organizzare l’evento è il Gruppo Storico Romano che, costituitosi nel 2009, ha inteso riaccendere l’interesse sul passato eroico della Caput Mundi. Così nel 2016 si è giunti alla XIV edizione dei festeggiamenti. Il gruppo non è solo in questo evento, che comporta anche laboratori aperti al pubblico e conferenze, ma si avvale del contributo di altre associazioni consimili che sono numerose e non sono solo italiane. Vi partecipano anche Bulgari (Legio III Scythia), Polacchi (Legio X Gemina), Rumeni (Associazione Valea Dacilor), Spagnoli (Legio I Vernacula) e Tedeschi (GSC Artocria). Infatti anche l’Antica Roma era interculturale, ed i gruppi provengono proprio da quei paesi che erano parte dell’Impero. Ciò che caratterizza queste manifestazioni è che si tratta di vere e proprie ricostruzioni storicamente documentate, nulla è inventato o approssimato. Il Gruppo Storico Romano ha in tal senso firmato un protocollo d’intesa con Roma Capitale. Ai vari eventi organizzati lungo l’anno, i cittadini ed in particolari gli alunni delle scuole, vengono invitati a documentarsi sugli usi e sui costumi antichi, dalla medicina alla cosmesi, dalla scuola all’alimentazione. Tra i tanti gruppi incontriamo i soldati della Legio II Parthica Severiana, che viene da Albano Laziale, l’unica Legione ad essere stata per oltre un secolo “Guardia del Corpo Legionaria” degli imperatori, da Settimio Severo a Massenzio. Questa associazione è nata nel 2004 su impulso del Dott. Giuseppe Chiarucci, per trent’anni Direttore dei Musei Civici di Albano e studioso dell’imperatore Settimio Severo e della legione da lui istituita. Albano, caso unico in Italia, è costruita sui resti di un accampamento legionario, i Castra Albana, i cui scavi continuano ancor oggi sotto la direzione dell’Istituto Archeologico Germanico. Chiarucci, oltre ad aver allestito un museo dedicato alla Legione, ha costituito anche il gruppo di rievocazione storica e di archeologia sperimentale. Pertanto questo gruppo ha da sempre profonde radici storico-scientifiche. Oggi è l’unico gruppo che opera esattamente dove la Legio ha avuto origine. Spiega Roberto Alessandrini, Vexillifer della Legione: «Come archeologia sperimentale, nel campo materiale viene ricostruito tutto ciò che si usa in legno ed in cuoio, come scudi (scuta), tracolle (baltei), cinture (cingula), giavellotti (pila), sandali militari (caligae). Nel campo immateriale, l’archeologia sperimentale si esplica nella ricerca delle tecniche di combattimento ottimali del legionario romano, sia singolo che, soprattutto, in formazione.»
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Tutti gli appartenenti al gruppo si rendono utili nella realizzazione dei vari componenti, ma certamente chi lavora il ferro o il cuoio è avvantaggiato. Ma i fabbri sono rari e pertanto il gruppo si rivolge a ditte specializzate per elmi, gladi e loriche, cioè le parti in metallo. Roberto Alessandrini ha realizzato da solo le sue caligae, con suole chiodate e lacci in cuoio, che resistono già da otto anni «Sono un buon esempio di archeologia sperimentale», sottolinea orgoglioso. Ed è giustamente orgoglioso anche dell’interesse che il gruppo suscita presso le scuole: «Il nostro è sicuramente un metodo vivo di insegnamento, stimolante per i bambini e per i ragazzi, che si sentono immersi per un paio d’ore in un mondo che non pensavano di poter rivivere; questo stimola molto la loro curiosità e quindi l’apprendimento; e non solo i ragazzi si appassionano, ma anche i genitori, che in qualche caso si sono pure iscritti al nostro gruppo. Trovo che in questa epoca, in cui tutto diventa virtuale e si comunica sempre più con telefonini e computer, questo contatto vivo e personale sia importante per ricondurre i giovani ad una comunicazione più diretta e più reale». L’associazione è anche molto attenta alla preparazione culturale ed alla promozione di studi su Settimio Severo ed il suo entourage. Il romanzo storico “La Legione II Partica di Settimio Severo. I motivi di una scelta” di Romano Del Valli cerca di spiegare perché Severo avesse scelto proprio tale Legione per la difesa personale. Nel dramma teatrale “Diritto di sangue ai confini dell’Impero”, interpretato dagli stessi appartenenti al gruppo, il tema è la concessione ai legionari del diritto di contrarre matrimonio legittimo anche durante il servizio militare, permettendo a moglie e figli di acquisire la cittadinanza romana e il diritto all’eredità. Il dramma “Apeluthesan”, del regista e scrittore Lucio Castagneri, dedicato a due gladiatrici, ha messo in luce la presenza delle donne in tale terribile attività che proprio Settimio Severo vietò loro. Il gruppo ha in oltre rinnovato il “Circolo di Giulia Domna”, la brillante e colta moglie di Settimio Severo, che aveva istituito un circolo letterario e scientifico. Ne fanno parte, oltre ad Alessandrini, Castagneri e Romano Del Valli, latinisti come Arduino Maiuri, ed altre personalità del mondo della cultura. Afferma ancora Alessandrini: «E’ nostra intenzione, attraverso l’approfondimento del periodo severiano e la produzione di opere che lo riguardano, di portare alla comune conoscenza quanto di importante e di fondamentale per la storia successiva è
stato fatto allora, facendo più luce su un periodo poco conosciuto e poco indagato e restituendo il giusto onore ad uno dei più grandi imperatori della storia di Roma.»
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Siamo fratelli
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LA STORIA DI RINALDO DI MERCENARIO DA MONTEVERDE SIGNORE DI FERMO NEL SEC. XIV di Francesca Luciani
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olti non sanno ancora bene la storia di Rinaldo da Monteverde, anche se tuttora il suo nome è sinonimo di terrore e dittatura. Io che ho avuto la fortuna (o la sfortuna, secondo alcuni anziani del luogo) di aver vissuto ove un tempo sorgeva il suo castello e dove la sua famiglia aveva i possedimenti da generazioni, mi son presa la briga di andarla a scoprire tra vecchi libri, nei meandri della biblioteca comunale di Fermo, e ricucire così la vita di un condottiero ghibellino di cui ho sempre sentito raccontare in modo troppo vago. Il testo di F.E. Mecchi che ne parla è della metà dell’800, ma si rifà ad un manoscritto del XIV secolo. Tutto ebbe inizio il 09 settembre 1377 quando, a mezzogiorno, il Palazzo dei Priori Fermo popolo fermano portò in trionfo Rinaldo di Mercenario da Monteverde, percorrendo la città da piazza S. Martino a Porta San Giuliano; il giorno precedente, infatti, il tiranno fermano aveva saccheggiato Sant’Elpidio a Mare con l’ausilio dei mercenari inglesi e tedeschi trafugandone la sacra Spina della corona del Redentore, regalata nel 1272 da Filippo III, re di Francia, al beato Clemente Briotti. In realtà il crudele Rinaldo, con la scusa di riportare quella terra sotto la Santa Sede, aveva vendicato il padre, anch’esso tiranno di Fermo, ucciso da un elpidiense il 20 febbraio 1340. Il dittatore viene descritto tanto brutto quanto spietato: “(avea) Fronte bassa oltre il convenevole, occhi grossi ed appannati, naso dilatato e carnoso, guance piene e scolorate, mento grande e scrignuto; questo era l’aspetto del Signore di Fermo”. Quel glorioso giorno di settembre, dunque, Rinaldo entrando trionfante in città, incrocia lo sguardo della bellissima Isabella, figlia del conte Gualtiero da Servigliano. Questi fu uno dei capi ghibellini distintosi per la conquista di Osimo nel 1322. La splendida fanciulla, in quello stesso istante, aveva ammaliato anche un altro uomo, il giovane Ippolito di Vanni, coraggioso guerriero sprovvisto di ascendenze aristocratiche, benché allevato dal nobile Pietro Paccaroni. Proprio in quel mentre giunge da Venezia il cugino di lei, Ermanno, che, conoscendo Ippolito, gli confida di vergognarsi di essere
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fermano per via di quel terribile despota. E, inneggiando alla libertà del popolo fermano, racconta che, dopo la morte di G. Visconti D’Oleggio, Fermo tornò sotto la dominazione della Santa Sede; ma il 31 dicembre 1375 il popolo cacciò il Cardinale Santangelo ad Ancona ed uccise il podestà. Richiamò i fuoriusciti ghibellini e tra questi Rinaldo a cui poi diede il potere. Anche la città di Ascoli, il 27 febbraio1376, incitata dai Fiorentini, si ribellò al proprio podestà costringendolo ad asserragliarsi; ma Rinaldo, a capo di 10.000 uomini, lo espugnò e, non soddisfatto, assediò anche Ripatransone, fedele alla Chiesa, guastandone tutta la campagna e decapitando i suoi oppositori sulla pubblica piazza. Il dittatore tolse anche Macerata al rettore pontificio, sconfiggendo l’esercito del Varano nelle pianure della Rancia. Inesorabilmente Rinaldo stava sottomettendo ai propri servigi tutto il circondario. Ermanno vuole sconfiggere il tiranno e prega Ippolito di intervenire al suo fianco quando sarà il momento. Ippolito, che non vede da tempo fra Bartolomeo esule dal territorio fermano, va a trovarlo a Recanati e gli confessa le sue pene d’amore per Isabella. Il frate promette di aiutarlo e gli dà una lettera da portare ad Angelo Calvucci, per convincerlo a far rappacificare gli anconetani e i veneziani. Infatti, in seguito alla scomunica di Rinaldo da parte del papa Gregorio XI, fu ordinato agli anconetani di riprendere Fermo ed Ascoli Piceno. Ma i Fermani fecero sequestrare i beni anconetani conservati a Venezia e ricattarono così gli anconetani se solo avessero osato muoversi contro di loro. Il buon frate ebbe la meglio riuscendo
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a convincere gli anconetani e i veneziani i quali, sotto la guida del valoroso Ermanno, si accinsero a liberare Fermo dal tiranno. Intanto Rinaldo aveva rafforzato il proprio stato, imparentandosi con Bartolomeo ed Onofrio da San Severino, signori potentissimi e avendo ucciso il 27 maggio1378 tutti quelli che sospettava suoi oppositori. Questo nuovo misfatto scosse gli animi assonnati dei Fermani; il territorio circostante era in fermento: gli elpidiensi il 20 marzo1379 si affiancarono alle truppe di Ermanno con ben 500 cavalli. Intanto Isabella si accorge di amare Ippolito; i due incontratisi fortuitamente alla vigilia della grande battaglia, si promisero eterno amore.
Girfalco Fermo
Il 15 agosto 1379 Luchina, spietata moglie di Rinaldo, fa decapitare il padre di Ermanno sul Girfalco, solo perché, dopo averlo imprigionato, aveva visto la bella figlia chiederne la grazia al dittatore. Ermanno gridò vendetta e, convinti i Fermani a riottenere la libertà, assediò prima la casa di Rinaldo, presso S. Zenone, e poi, fece strage dei mercenari stranieri nella roccaforte del Girfalco ove la famiglia dominante si era asserragliata. Il Girfalco che era stato eretto come fortezza nella prima metà del XIII secolo; venne distrutto totalmente nel 1446. Rinaldo riuscì a sfuggire ad Ermanno; si rifugiò a Montegiorgio da Corrado Lando, fratello di Lucio di Svevia. Quest’ultimo l’avrebbe poi portato con sé in Puglia, nella missione con altri 10.000 cavalieri. Tornato dal meridione, il 30 settembre Rinaldo si recò a Fermo scortato da 300 cavalieri per tentare di liberare i familiari ancora assediati. Ma i Fermani, forti dell’ausilio delle truppe anconetane e recanatesi, e guidati dal fiorentino G. Conti, lo sconfissero. Il 4 febbraio 1380 fecero l’accordo: il popolo liberò Luchina e gli altri assediati a condizione che la famiglia dell’ex tiranno andasse in esilio nella tenuta di Monteverde. Una volta liberata, Fermo nominò come proprio patrono l’apostolo Bartolomeo a cui si era appellata nel giorno dello scontro. Ippolito, in seguito al valore dimostrato in battaglia, venne nominato cavaliere e, grazie all’intercessione di fra Bartolomeo, riuscì a sposare Isabella. Rinaldo, intanto, da Monteverde invade MonSanPietro Morico, violando l’accordo con i suoi ex sudditi.
Il 22 febbraio i Fermani gli intimano di lasciare il paesino; allora Rinaldo, con 60 cavalieri, tende loro un tranello: con il suo stemma raffigurante il leone rampante, attira un gruppo cavalieri fermani fino al Tenna, ove ne prende in ostaggio 40; quindi li reca prigionieri a Montegiorgio fino a quando, il 6 aprile, non viene pagato un cospicuo riscatto. A quel punto i Fermani, stanchi dei numerosi delitti e soprusi, poiché avevano stretto un’alleanza con i comuni di Ascoli, Ancona e Recanati, insorsero con efferata violenza. A Rinaldo non rimase che rinchiudersi nel castello di Montefalcone Appennino. La notte del 31maggio1380, dopo aver corrotto le sentinelle con una cospicua somma di denaro, le truppe di Ermanno riuscirono a penetrare nel castello ove Rinaldo stava dormendo tra sogni inquieti e fu lo stesso Ermanno a prenderlo prigioniero. Dopo due giorni, in piazza S. Martino, Rinaldo e i due figli legittimi Mercenario e Luchino, vennero pubblicamente decapitati; scolpite le teste nella pietra, furono esposte nella piazza su “colonne infami” con scritto “Rinaldo Mercenario da Monteverde, fu tiranno pessimo e crudele”. Luchina viene graziata per intercessione del suo lontano parente Visconti e liberata il 18 luglio. Dopo tre anni di spietata dittatura e di regime del terrore, i Fermani tornarono ad essere un popolo libero. Il Papa concesse alla città di restare libera ed indipendente per 12 anni. Il 6 maggio1419 le colonne infami sulle quali svettavano le tre teste scolpite furono tolte dalla piazza. La testa del tiranno fu posta sotto ai piedi della statua di San Bartolomeo dove, ancora oggi, in una nicchia nel muro esterno della chiesa della Pietà, giace simbolicamente. Statua di San Bartolomeo
Rinaldo fu il figlio naturale di Mercenario da Monteverde. Non si conosce l’esatta data di nascita né si dispone di notizie per gran parte della sua vita; le attestazioni documentarie si concentrano infatti sugli anni in cui fu signore di Fermo, dal 1376 al 1379. 23
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ANCHE IN AMERICA... di Emanuela Franzin
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er lungo tempo il cinema americano è stato identificato col Le storie e i soggetti risultano scarni e ripetitivi; in essi la giustiWestern come concentrato delle virtù americane quali il mito zia, il coraggio e la lealtà degli americani trionfano sempre. della nascita della nazione e il In questa situazione viene esatema del coraggio e della bontà sperato il ruolo dell’individuanei rapporti umani e sociali. lismo e dell’uomo singolo che Una vera e propria apologia dei riesce a fronteggiare vittoriosavalori che è rientrata totalmente mente qualsiasi situazione nenella letteratura cinematogragativa. Quel mito, più di ogni fica americana degli anni ‘30. altro, viene personificato da un L’autore più rappresentativo in uomo “tutto d’un pezzo” e da tal senso, è stato indubbiamenun volto pacifico ma portatore te il regista John Ford che ha di una filosofia che pacifica non interpretato il semplice “ameriera affatto. canismo” come vero e proprio Quest’uomo è stato John Waynazionalismo. ne. “Ombre rosse” (1939), Erano gli anni dell’amministra“Sfida infernale” (1946), L’uozione di Roosevelt e il cinema mo che uccise Liberty Valance” Western divenne attraverso il (1961) e molte altre pellicole riJohn Ford canale che gli è proprio, cioè propongono i temi cui abbiamo quello del divertimento e del consumismo, uno strumento imfatto riferimento, dove John Wayne si presenta come esempio di portante di propaganda ideologica, di modelli, di comportamenvirtù americana, personaggio positivo che propone non solo per to, di principi morali e sociali. gli Stati Uniti ma anche per l’Europa Da un lato venivano rappresentati i un esempio unico di “pratico di vita”. buoni, i soldati dell’esercito ameriGli abiti militari che John Wayne incano; dall’altro i cattivi, gli indiani dossa rappresentano la difesa di quei dell’ovest capaci dei peggiori atti di valori e di quei principi sani di vita di violenza, privi di scrupoli e di valori cui abbiamo parlato. Il suo cappello di ogni genere, dediti unicamente alla cow-boy è calato leggermente alla guerra e privi di cultura e di sulla fronte in modo da non lasciare tradizioni. intravedere le intenzioni dello sguarNessun accenno viene fatto nel cido che deve rimanere misterioso e nema di John Ford alle legittime e impenetrabile; un cappello dicevaumane motivazioni degli indiani mo, impolverato, “vissuto”, consumache si vedevano espropriati milito, che esprime forse l’elemento più tarmente, secondo la legge del più umano e familiare del personaggio-atforte, di una terra che era di loro tore Wayne. Esso diventa espressione appartenenza. caratteristica del cow-boy americano: I personaggi e gli ambienti del film capo di abbigliamento essenziale a di John Ford sono elementi che raprappresentare tale sorta di film. Napresentano una realtà schematica, sce come difesa dalla calura e dal sole non problematica e ricca di luoghi ma diventa vitale compagno dal quale comuni; i suoi personaggi diventanon separarsi mai durante le lunghe no stereotipati e ricorrenti. cavalcate tra i canyons americani. John Wayne 24
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PAIMAR Paimar ad oggi è un marchio di riferimento per la produzione di cappelli artigianali da uomo, donna e bambino. L’azienda, nata nel 1975 nel cuore delle Marche, realizza copricapo e accessori moda in tessuto, paglia, feltro, pelle, maglia ed affini. Il design e la ricerca sono interni all’azienda e la produzione viene effettuata nel distretto produttivo di Montappone, con una manodopera altamente qualificata. Realizza inoltre in licenza anche il marchio Barnum. Paimar distribuisce i propri prodotti anche sui mercati internazionali, rivolgendosi al segmento del lusso e collaborando con molte griffe ed aziende di confezioni per l’abbigliamento. Si fregia del marchio Marche Eccellenza Artigiana dal 2011, riconoscimento con cui la Regione Marche ha voluto valorizzare, promuovere e tutelare la tradizione degli antichi mestieri artigiani.
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Fotografo: Beatrice Livi
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Via G.E. Alessandrini, 4 - 63835 MONTAPPONE (FM) ITALY Tel. 0734.760487 info@paimar.com
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METAFISICA DEL PAESAGGIO
Dal 22 aprile al 22 maggio 2016 presso i Musei civici di Palazzo Buonaccorsi si è svolta la mostra “Metafisica del Paesaggio” organizzata dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Macerata in collaborazione con il Comune di Macerata. L’allestimento espositivo è stato curato dall’Arch. Sauro Pennesi, Vicepresidente dell’Ordine, autore anche del pregevole catalogo insieme al Prof. Roberto Cresti. Hanno esposto gli artisti: Ubaldo Bartolini, Arnoldo Ciarrocchi, Renato Gatta, Paolo Gubinelli, Carlo Iacomucci, Giuseppe Mainini, Riccardo Piccardoni, Sandro Polzinetti, Francesco Roviello. La mostra ha voluto dare un contributo ai modi di interpretazione/rappresentazione del paesaggio, percorrendo le strade parallele della pittura, della fotografia e della scultura. Successivamente gli architetti hanno promosso una riflessione sulla complessità delle trasformazioni territoriali, sul recupero e sulla tutela del paesaggio con un convegno “Paesaggio in trasformazione” tenutosi il 29 aprile 2016, presso Auditorium S. Paolo di Macerata.
di Sauro Pennesi
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’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Macerata, oltre alle funzioni istituzionali proprie di un Ente di diritto pubblico, si propone di svolgere una presenza attiva sul territorio maceratese con mostre, convegni, dibattiti. Avviare una discussione sull’architettura e il paesaggio è l’obiettivo della mostra. Le opere che sostanziano la mostra, esposte nelle sale di arte contemporanea del Buonaccorsi, sono realizzate da artisti nati e cresciuti nel territorio provinciale o maceratesi d’adozione. Ognuno ha assimilato i tratti del nostro paesaggio e, partendo dalla realtà della natura, dai suoi reali rapporti e leggi, ha creato un’altra realtà, con accostamenti fantastici, segni più o meno astratti, nuovi suggestivi significati.
Sauro Pennesi e Enzo Fusari 28
L’artista, sia esso pittore, fotografo o scultore, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, converge verso una prospettiva più ampia e universale attraverso lo svelamento di significati nascosti o (comunque) di non immediata percezione. Anche l’architetto parte dagli aspetti ritenuti più autentici e fondamentali della realtà, dall’analisi di tutti gli elementi del paesaggio, dai segni lasciati sul territorio dal lavoro secolare dell’uomo, per giungere ad una sintesi che faccia di quel paesaggio un elemento vivo, dove l’opera dell’uomo possa continuare, senza rinnegare o distruggere quanto costruito precedentemente.
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L’architetto è ben cosciente che il paesaggio, (compresi taluni manufatti realizzati dall’uomo ed i relativi contesti di appartenenza), è la grande ricchezza d’Italia e fonte della sua identità e considera la pianificazione paesaggistica, come sancita dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, uno strumento fondamentale di tutela del paesaggio e governo del territorio. Da molti anni gli architetti si oppongono al consumo irrazionale del suolo, a favore del recupero delle aree dismesse e della rigenerazione urbana; con una frase semplice ma efficace potremmo dire: ricostruire il (mal)costruito, limitare l’uso del suolo, tutelare il paesaggio. In questa ampia missione si colloca il compito di promuovere una cultura del paesaggio, con particolare riguardo al ruolo che esso svolge nei nostri insediamenti maceratesi e marchigiani, spesso perfettamente integrati nel territorio fino a costituirne un tratto identitario. Un’armonia paesaggistica costruita pazientemente nel corso dei secoli, che negli ultimi cinquant’anni ha subito, soprattutto nella zona costiera, una trasformazione repentina con danni irreparabili. Al degrado del paesaggio lungo le vallate, in special modo, appunto, lungo l’area costiera, si contrappone l’integrità di buona parte delle aree collinari e montane. Le foto di Sandro Polzinetti e Renato Gatta ci restituiscono tutta l’armonia, la poesia, la vita vera, sana, di questi luoghi. E forse, per essi, è giunto il momento del riscatto economico: la tecnologia permette di lavorare anche su un cucuzzolo, essere aggiornati su tutto e contemporaneamente spedire, in pochi secondi, il proprio lavoro in qualsiasi parte del mondo. Ecco, se i nostri figli riusciranno a rendere effettiva questa “correzione di produzione”, avremo un paese, l’Italia, che avrà un PIL contenuto ma ben distribuito! Per noi architetti, il paesaggio “svolge importanti funzioni d’interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” (Convenzione europea del paesaggio, Firenze 2000). Perciò parliamo di “paesaggio in trasformazione”, purché sia salvaguardato, gestito e pianificato (in modo adeguato). Infine, visto l’odierno e progressivo ritorno alla campagna, all’amore per la coltivazione della terra, al piacere di sentirsi in armonia con la natura ed il paesaggio da parte di molti giovani, vorrei concludere questa breve presentazione con un passo tratto da ‘Il Giornale’ del 6.1.06, sul “Manifesto del terzo paesaggio” di Gilles Clément: io ho un giardino, metto le mani nella terra, so che cosa vuol dire lavorarci. E l’orto, che offre nutrimento, è il giardino per eccellenza: il piacere di raccogliere quel che si è seminato si avvicina a una certa idea di felicità. Proprio sul giardinaggio ho stabilito le mie teorie e la mia pratica di paesaggista. Tradizionalmente il giardiniere è chi coltiva un giardino, ne segue lo sviluppo nel tempo. Deve conoscere piante e animali, essere un sapiente, a volte un mago. Non pretendo di esserlo, ma credo che quella sapienza vada rivalutata.
Gilles Clément 29
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METAFISICA DEL PAESAGGIO di Roberto Cresti
C
ol pensiero a tale precedente mi piace rilevare che l’iniziativa dell’Ordine degli architetti pianificatori, paesaggisti e conservatori della provincia di Macerata presenta un analogo orientamento di coscienza e di metodo. Essa recepisce, come punto di partenza per un dialogo tra pari, l’impressione metafisica del paesaggio che si riscontra nell’opera di artisti attivi tra il XX e il XXI secolo, i quali hanno impiegato mezzi espressivi diversi (dall’incisione alla fotografia, dalla scultura alla pittura), ma sempre volti a dare forma al territorio maceratese: dalla riva del Mare Adriatico fino ai Monti Sibillini. Si tratta di impressioni ‘costruttive’, che nascono da un nesso fra interiorità e esteriorità, pensiero e dati recati dai sensi, come ‘infanzie’ o proiezioni immaginative dovute a un non infondato né effimero desiderio: ‘ponti giapponesi’ e ‘sostanze umane’ d’una medesima comunità svolgentesi nel tempo. Vediamole.
La mostra L’apertura è per Giuseppe Mainini, maestro dell’incisione, nelle cui acqueforti si sviluppa una concomitanRoberto Cresti za fra le istanze espressive del nostro più maturo Ottocento, riferibili alla scuola fiorentina fiorita attorno a Giovanni Fattori (con la quale, in precedenza, un altro maceratese, Gualtiero Baynes, aveva avuto, in pittura, fertilissimi rapporti), e quelle del classicismo simbolista di un Max Klinger, che ebbero parte nella formazione della pittura metafisica di Giorgio de Chirico, la quale esercitò una influenza decisiva sulla architettura italiana degli anni ’20-’30 del secolo scorso, specialmente sui progetti di Giovanni Muzio e, a tratti, di Gio Ponti. Mainini è davvero un campione della veduta sia urbana che naturale (la prima sintesi fra le due s’ebbe nei ‘tratti’ divisionisti e si deve a Gaetano Previati) cosicché fra Macerata e il suo circondario non è quasi soluzione di continuità e le proporzioni, nel loro naturalismo apparente, sono poste in un ordine intimamente ‘costruito’, che include, col medesimo peso, l’abside di San Giuliano e un’arnia delle api. Lo stesso dicasi per i corpi di borghesi e contadini nei rispettivi ambienti. Ovunque il mite occhio lenticolare di Mainini sa rappresentare il soggetto e da esso astrarre senza concedere troppo all’uno come all’altro ufficio, cogliendo particolari minutissimi come valori frazionari che fanno capo a un intero di magica trasparenza. Altre trasparenze, non meno stabili e sottili, sono proprie del fotografo Renato Gatta, che, fosse un pittore, se ne cercherebbero i maestri nella Europa del Nord, in specie nelle Fiandre del XIV-XV secolo, e, per filiazione da quelle, nella pittura veneziana che, attraverso Piero della Francesca, culmina nei paesaggi di Giovanni Bellini, artista presente nelle Marche con la sua Pala di Pesaro (pietra angolare dell’opera di Giorgione e Tiziano). Nei paesaggi di Gatta pare di riascoltare le parole che Roberto Longhi riservava a quelli di Bellini ovvero: «un incunearsi molle di zone triangolari o una sovrapposizione di fasce orizzontali dalla terra al cielo» ove i paesi «abbacinarono coi loro specchi candidi di volumi in luce il fondo bruno dei boschi». Gatta è capace di rendere anche i climi stagionali con costante leggerezza di effetti, si tratti di brume, di neve o di riflessi di sole; e se, nella pittura contemporanea di tutti i paesi, l’attrazione per il paesaggio permane e ha sempre legami e debiti con la fotografia, nel suo caso il rapporto rovesciato e le pendenze saldate con una inquadratura, ottenuta quasi per ‘velature’, che addolcisce lo sguardo. Francesco Roviello è uno scultore che ha alle spalle un lungo percorso creativo, cominciato come allievo e collaboratore di Floriano Bodini all’Accademia di Belle Arti di Carrara e poi in Germania. La sua origine campana e la passione 30
Giuseppe Mainini 1898-1981
Renato Gatta
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istintiva per l’Italia antica l’hanno portato ad approfondire il legame con la terra come con una Grande Madre che può generare le forme plastiche più diverse (mi vengono in mente le considerazioni di Rainer Maria Rilke sulle mani ‘pariture’ di Auguste Rodin). L’interesse elettivo per Arturo Martini (alimentato dal confronto anche con l’opera di Fritz Wotruba) ha poi contribuito a dare rigore alla sua scelta, espandendone gli estremi in rapporto alla spazio naturale, concepito come una ‘quarta dimensione’ entro cui ogni scultura respira, centrata su se stessa e ridiffusa in tutte le direzioni. La stele (in terracotta o in legno) si è prestata bene allo sviluppo di tale poetica e in essa pare di vedere, in sintesi estrema, la casa rurale, l’albero e persino il monte come archetipi di una ascesa al cielo che lo scultore ha sempre associato, vivendo fra la Toscana e le Marche, alla catena degli Appennini. Si tratta delle figure ideali e reali di tutta la sua opera, che egli ha riplasmato e arricchito trascorrendo, di recente, alcuni periodi di lavoro in Serbia, in Asia Minore e in Cina. Gli Appennini costituiscono il riferimento principale anche delle immagini fotogafiche di Sandro Polzinetti, il quale appare qui una sorta di cronista empatico della zona più alta dei Monti Sibillini, ove si trova la vetta che dà loro il nome e il Lago di Pilato. Chiunque vi sia stato, sa che tale zona è ricca di quello che, nelle ricerche di Lucien Lévy-Bruhl, viene nominato come mana ovvero l’energia prorompente dalla terra, che plasma il paesaggio in senso sia geografico Francesco Roviello che umano. Leggende narrano di magici eventi correlati all’antico regime matriarcale (Sibilla deriva da Cibele, la Gran Madre anatolica) e di corti d’Amore dall’irresistibile amplesso, ma chi si sia posto in cammino, magari da Foce di Monte Monaco verso le cime o sia arrivato al rifugio Sibilla, sa che l’effetto prevalente è quello della vertigine e della smaterializzazione, in specie quando si procede lungo le creste, che paiono groppe di draghi o di enormi squali pietrificati, d’inverno ulteriormente sedate dalla neve. Ma a primavera si sentirà il garrulo fluire della Fonte Matta fra l’erba e le prime fioriture cremisi. Polzinetti sa cogliere questi dati ambientali: queste estreme pendici marchigiane – che sono forse le malchiuse porte di mondi oltre il terrestre –, da cui, nei giorni sereni, si dispiega uno scenario luminoso fino al Conero. Con i mezzi della pittura, le stesse suggestioni appaiono nei dipinti di Ubaldo Bartolini, che nella luce hanno il loro motivo conduttore. Essi suscitano memorie ottocentesche di Arnold Böcklin (da dipinti come Tempesta sul mare, 1878-1880; Fotografia di Sandro Polzinetti oppure Sorgente in una gola montana, 1881) e dei Tedeschi-Romani in genere, filtrate però da uno spirito più lieve e, a tratti, persino ‘ingenuo’ (traspare anche qualcosa di Ottone Rosai), che intende creare una sorta di postuma infanzia dello sguardo. I riferimenti più vicini potrebbero essere, sempre con lo stesso filtro, a certi paesaggi di Riccardo Tommasi Ferroni (Anfiteatro di Sutri, 1980), che si innestano su un tradizione novecentesca riferibile a Pietro Annigoni, nei quali l’eco böckliniana assume un carattere di irrealtà che, più che nella visione della Italia antica, mette nell’allusione all’incubo nucleare, generante nature e figure non più umane. Qualcosa di quell’inquietudine è anche in Bartolini, che, nei suoi paesaggi, la risolve con un’accensione di chiarezza verticale vista da terra o da anfratti rocciosi, in un bagliore ch’è il principio o più probabilmente la fine accecante di tutte le cose. Analoga inquietudine, pur altrimenti vissuta e campita, si avverte in Riccardo Piccardoni, artefice di una ripresa di temi e di modi che furono tipici, negli anni ’20-’30 del secolo passato, della Nuova Oggettività tedesca, in specie, di George Grosz, Heinrich Maria Davringhausen, Reinhold Nägele e Rudolf Schlichter. Sorse allora, dopo l’epocale svolta della Grande guerra, la coscienza della meccanizzazione del mondo già annunciata da Walter Rathenau in un celebre saggio del 1912, e, in particolare, dell’ormai inevitabile mescolanza e sovrapposizione fra industria e natura (il Bauhaus cercò di porvi un rimedio non sempre compreso Sgarbi con Ubaldo Bartolini 31
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vacillanti, i sentimenti stravolti e codai suoi stessi artefici). Tale evento si lorati, riconducendoli alle sue nostalriscontra nei paesaggi di Piccardoni gie campestri con una stratificazione come una ostruzione della vista opdinamica quanto estatica di materiali. pure una sua canalizzazione in fatali L’attimo di un «oceano senza sponde» condotte di cemento armato, in un (per usare l’espressione riferita da Bill contesto comunque claustrofobico, Viola al Global Village) appare, in ogni che, in un caso, reca qui tracce di sua prova, sul triplice vetro dell’elmetHieronymus Bosch, assunte attraverto indossato dal suddetto palombaro, so l’Entrata di Cristo a Bruxelles di del quale, tuttavia, egli a volte si priva James Ensor (1888). Anche fra questi e, tornato in superficie, «s’immilla» monti azzurri siamo al limite di un’anell’aria con la levità d’un «fanciullino» pocalisse tumulante, che assume gli pascoliano. algidi tratti della fantascienza (ne diede già allarmata descrizione un alpiPiù orizzontale, eppure invalicabile, nista come Dino Buzzati ne Il grande ancorché ridotto allo stato quasi anodiritratto, 1960), un genere letterario no, è il paesaggio immaginato da Paolo che, diceva Hannah Arendt, spesso Gubinelli. La sua matrice appare nel costituisce un sismografo psichico «di celeberrimo Inizio del colore (1820) massa» . di William J. M. Turner, un acquarello Non stupisce così che l’occupazione Riccardo Piccardoni che consta di poche semplici stesure di industriale della natura possa sortire colore per designare il cielo e la terra. Ma l’essenzialità non è effetti eguali e contrari nella pittura di Carlo Iacomucci, ove la solo morfologica (vengono in mente comunque le dune vicino nostalgia per la ‘buona terra’ si sposa alla coscienza dell’impossial mare e la loro quasi inesistente vegetazione in certi punti delbilità di un effettivo ritorno a essa. Spinto da un fluire di sensaziola costa adriatica marchigiana) è anche culturale: il riferimento ni e di memorie, che egli dichiara provenire dalla sua infanzia e appena accennato appare alla pittura di segno e gesto del tempo adolescenza trascorse in un ambiente rurale; oltre che dalla lundell’Informale, con vari ammiccamenti (dai tagli di Lucio Fonga pratica dell’incisione e dal contatto con un immaginario pop, tana alla grafia senz’alfabeto di Cy Twombly e Gastone Novelli, con tutti i possibili intermedi, come nel caso viciniore di Magdalo Mussio), ma vi appare, forse, qualcosa anche dal remotissimo Limitare di un campo di grano (1887) di Vincent van Gogh.
Carlo Iacomucci
pur straniato dall’originario contesto metropolitano e portato, con lunghe bave e filamenti massmediali, fino alla morfologia del paesaggio marchigiano, Iacomucci pare indossare lo scafandro di un noto palombaro disegnato dal poeta Corrado Govoni in clima liberty-futurista, e immergersi nell’oceano della comunicazione contemporanea, di cui coglie i segni semplificati, gli umori 32
Questi lavori di Gubinelli, solo in apparenza semplici, sono convergenti stenografie dell’impressione e della memoria, e inducono a ricordare quanto, quasi un secolo fa, Ardengo Soffici sosteneva dichiarando che la pittura si sarebbe fatta, in futuro, per minime tracce capaci di evocare un universo di memorie. Evidentemente c’era del vero. E a tale gusto non risulta estraneo anche un certo modus operandi di alcuni architetti moderni, che scarniscono antichi stili per scopi comunque estetici. Da ultimo viene Arnoldo Ciarrocchi, che ultimo chiaramente non è, ed anzi la sua posizione si motiva onde fare da argine finale alla nostra sequenza come per garantirle di stare in piedi Paolo Gubinelli e di serrare i ranghi.
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Ho trattato il legame del pittore col territorio delle Marche in un saggio di dieci anni fa e non ho cambiato opinione circa la sua perdurante ‘freschezza’, che era già stata colta da un critico-poeta di qualità come Raffaele Carrieri, un poco dimenticato. Vorrei quindi ricordare, non le mie, bensì le parole di quest’ultimo: «C’è in ciascuno dei fogli di Ciarrocchi un sottile diffuso pigolio, il nitore di certi grilli mattinieri che ho sentito nella campagna marchigiana. E la stessa luce sgombra, carica e pulita […]. Che giusto tepore mentale, che soavità di intrecci, che bellissima luce italica intorno a queste casupole da un soldo, fra questi spini e alberelli, in un paese di collina dove mi piacerebbe infilarmi come un grillo […]» . Carrieri proveniva dallo stesso milieu culturale milanese di Edoardo Persico, e di Persico era stato amico stretto, condividendone, in tempo reale, l’intima tensione fra pittura primitivista e chiarista e le dinamiche sviluppate, in parallelo, dalla architettura d’orientamento razionalista.
Arnoldo Ciarrocchi
Vita nuova Ecco le diverse impressioni ‘costruttive’, che attendono di essere ‘messe in piedi’. Ad esse vorrei aggiungerne una, che è soltanto un mio desiderio (e perciò non impegna chi mi ha cortesemente invitato a prendere parte all’iniziativa che qui introduco), quella da un lato di curare subito tutto ciò che versa in condizione di progressivo sfacelo (p. es. gli scarti del sistema industriale: strutture e infrastrutture dismesse) nella prospettiva indicata, alla fine del secolo scorso, da Friedensreich Hundertwasser dall’altro di tener conto che esiste un’ecologia culturale non meno importante di quella naturale, secondo la nozione di «città-continua» di Aldo Rossi. L’una e l’altra dovrebbero essere acquisite, soprattutto, in termini di coscienza sociale moderna, con un atteggiamento, in ogni senso, riformatore, che promuova una rinascita della sensibilità e delle attività individuali – in specie nel campo delle arti, ma non solo in esso –, unica garanzia di un rinnovamento che nasca in sintonia con le dinamiche profonde dell’epoca, di cui gli artisti sono portatori privilegiati per intuizione di stati d’animo collettivi. Un’idea questa oggi ripresa da Juhani Pallasmaa, per il quale, nell’architettura, si dovrebbero unire la funzionalità e il piacere sensoriale a una «incarnazione immaginativa» della nostra «memoria e capacità concettuale» . È dunque indispensabile un nesso fra il ‘luogo’ e il ‘tempo vissuto’, che orienti il ‘costruire’ secondo una specifica coscienza territoriale. L’invito è a non essere ‘costruiti’, bensì ‘abitati’ dall’umano che si vuol costruire. Questi credo siano il contenuto e la tacita richiesta che appaiono dalla presente mostra. La trama del rapporto fra il territorio maceratese e una nuova ‘infanzia’ è imbastita. Tocca ora a chi di dovere avanzare progetti degni della sempre riformabile coscienza moderna. E chissà che, col tempo, apporti non s’abbiano anche da chi giunge qui venendo da molto lontano. A chi scrive basta, per il momento, lasciarsi alle spalle le polemiche, ed essere, in quest’occasione, e forse in altre a venire, come Elsie di Sherwood Anderson, la quale: «Voleva evadere dalla sua vita per entrare in una vita nuova e più dolce, ch’ella presentiva nascosta in qualche angolo dei campi».
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IL GIARDINO DI NINFA E’ “il più bello del Mondo” di Ruggero Signoretti
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l giardino di Ninfa è un meraviglioso “monumento naturale” di otto ettari con oltre un migliaio di piante. Sorge nel comune di Cisterna di Latina, presso Sermoneta. E’ un giardino “all’inglese”, iniziato da Gelasio Caetani nel 1921 e ampliato dalla nipote Lelia. Oggi è della Fondazione Roffredo Caetani di Sermoneta, che lo cura e l’apre al pubblico in specifici periodi dell’anno. L’ambiente naturalistico è talmente prezioso e delicato che vi si può accedere solo con prenotazione e in visita guidata. Nel 1976 attorno a Ninfa è stata istituita un’oasi del WWF a sostegno della flora e della fauna che la bonifica della palude aveva portato alla scomparsa e da allora nella zona si sono registrati arrivi di germani reali, aironi, pavoncelle e alcune specie di rapaci. Nel 2000 tutta l’area è stata dichiarata “monumento naturalistico”. Ma come nasce questo giardino? Ninfa è una località di origine romana il cui nome deriva forse da un tempio dedicato alle ninfe. Nella seconda metà dell’VIII secolo fu donata al pontefice e dall’epoca passò dal Papato a vari signorotti: i Frangipane, i Conti, gli Annibaldi ed i Colonna. Con la salita al soglio pontificio di Bonifacio VIII Caetani, i beni dei Colonna furono confiscati e nel 1297 Pietro Caetani acquistò Ninfa per 200 mila fiorini d’oro. Fu questo per Ninfa un periodo di grande prosperità: le mura, lunghe circa 1400 metri, vennero rinforzate con torri; il castello fu ingrandito e fu realizzata una torre; fu ampliato il palazzo comunale e vennero costruiti nuovi mulini e due ospedali. Numerose erano anche le case, le botteghe e le chiese, circa 14, tra le quali la principale Santa Maria Maggiore. In questa chiesa, a tre navate, c’erano numerosi affreschi di cui rimane una lieve traccia, altri sono stati recentemente staccati e sono ora conservati nel castello di Sermoneta. Il borgo è caratterizzato da un laghetto sorgivo da cui scaturisce il fiume Ninfa che, proprio nel borgo, aveva tre ponti di cui il più antico di epoca romana. Oggi il corso del fiume Ninfa, poco a sud del giardino, è stato deviato in un collettore. Dopo un periodo in cui passò ad altri signori, nel 1369 Onorato I Caetani l’acquistò nuovamente, saldò i debiti accumulati dai suoi predecessori e restaurò la cinta muraria. Poiché Onorato era appoggiato dal papa avignonese Clemente VII, il papa di Roma Urbano VI lo scomunicò. Ne derivò una lotta violentissima con l’assedio di Ninfa che, nel 1381, venne completamente saccheggiata e distrutta a tal punto che dopo non fu più ricostruita. Il feudo rimase comunque sempre dei Caetani. All’inizio vi abitarono pochissimi contadini, che di lì a poco la lasciarono per l’avanzamento della palude e della malaria. Rimase parte del castello, che nel 1400 fu utilizzato come prigione. Nel 1500 il cardinale Nicolò III Caetani fece costruire, dall’architetto Francesco Capriani, un giardino: due viali e due nicchie dalle quali 34
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fuoriusciva acqua che poi sfociava nel fiume per dar vita ad un allevamento di trote. Ancor oggi nel fiume Ninfa vive una particolare qualità di trote. Anche se il giardino, poco dopo la morte del cardinale (1585), cadde in rovina, era emersa quella che sarebbe stata la destinazione finale del luogo. Dovevano passare più di 230 anni perché il giardino divenisse, grazie a Gelasio, una realtà. Nel 1921 Gelasio restaurò alcuni ruderi del vecchio municipio per farne una residenza estiva, iniziò la bonifica e, sotto la guida della madre, Ada Wilbraham, iniziò a piantare varie specie botaniche, adatte all’ambiente molto umido e dal particolare microclima. Il giardino fu ampliato dal figlio Roffredo, da sua moglie Marguerite Chapin e dalla loro figlia Leila. Leila, senza eredi ed ultima di un casato di più di 700 anni, prima di morire diede vita, in omaggio al padre, alla Fondazione Roffredo Caetani di Sermoneta. Ma entriamo in questo splendido giardino al quale le rovine, sparse qua e là e coperte di verde, contribuiscono a creare un’atmosfera romantica. E romantico è tutto il giardino del tipo “all’inglese”, caratterizzato da alberi, cespugli e fiori che sembrano nascere spontanei nei vari angoli e lungo i sentieri. In realtà nulla è spontaneo e tutto è rigorosamente predisposto così che i colori della vegetazione, nei vari periodi dell’anno, rispondano a precisi criteri armonici. Non a caso Ferdinand Gregorovius così scriveva nelle sue Passeggiate romane: «Ecco Ninfa, ecco le favolose rovine di una città che con le sue mura, torri, chiese, conventi e abitati giace mezzo sommersa nella palude, sepolta sotto l’edera foltissima. In verità questa località è più graziosa della stessa Pompei, le cui case s’innalzano rigide come mummie tratte fuori dalle ceneri vulcaniche.» Ed in tempi più recenti The New York Times, ha definito il giardino “il più bello al mondo”. Ecco alcune delle piante che rendono stupendo questo giardino: l’acero e il noce americani, l’acero rosa giapponese, il faggio rosso, il pino argentato, vari roseti, l’albero della nebbia con le infiorescenze a piumino rosa, melograni nani, ortensie rampicanti, gelsomini, glicini, cipressi, banani, bambù, papiri, magnolie, un pino dell’Himalaya ed uno messicano, una acacia sudamericana… Se oggi è possibile godere di tanta bellezza è certamente merito di Lelia Caetani (1913-1977), che divideva il suo tempo tra l’Inghilterra, dove viveva il marito Lord Hubert Howard, e Ninfa, dove si ritirava per seguire i lavori del giardino e per dipingere. Leila era infatti una brava pittrice ed ha lasciato un nutrito numero di opere recentemente catalogate da Azzurra Piattella e Lydia Palumbo Scalzi. E tra i dipinti, molti dei quali ad acquerello, Ninfa è soggetto prediletto. Ed è stata certamente la sua sensibilità artistica, pittorica in particolare, a suggerirle i tanti accordi cromatici che ancor oggi sono l’elemento che più contraddistingue questo splendido giardino. Non a caso Lelia volle che sulla sua tomba fosse scritto “pittrice e giardiniera”. 35
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Produzione Axis A caratterizzare la produzione l’attenta ricerca sul fronte stilistico, la selezione di materie prime, l’artigianalità del “Made in Italy”, per un mix perfetto tra design e praticità. Design, sviluppo e produzione Ricerca tendenze moda. In questa prima fase vengono delineate le tematiche, i modelli, i colori, i materiali e gli accessori/decorazioni, che la stagione corrente propone. La ricerca si espande fino ad ottenere risultati soddisfacenti, in grado di generare idee originali e innovative. - Progettazione della collezione: Dopo aver selezionato accuratamente, il materiale acquisito durante la fase della ricerca, si procede con la progettazione della collezione vera e propria. Si iniziano ad abbozzare i primi disegni effettuati a mano libera o attraverso supporti informatici, per proseguire successivamente con gli abbinamenti dei materiali e degli accessori/decorazioni. Si specificano le stampe, i ricami, i punti maglia, le lavorazioni particolari e le varianti colore specifiche. Il tutto viene correlato da schede tecniche dettagliate, con tutte le informazioni relative al prodotto. - Realizzazione cartamodelli e prototipi: Nel reparto modelleria vengono realizzati i cartamodelli e i relativi prototipi di ogni singolo pezzo appartenente alla collezione, elaborando al meglio il prodotto e apportando le dovute modifiche necessarie. Nella fase di rettifica dei prototipi, arrecando le dovute variazioni, si riesce ad ottenere ottimi risultati sulla resa del prodotto. - Produzione della collezione: Una volta effettuato un eccellente lavoro nel reparto modelleria, si procede con la realizzazione vera e propria dell’intera collezione. Per le lavorazioni eseguite su tessuto, vengono compiuti i vari piazzamenti dei modelli sulla stoffa, si procede con il taglio degli stessi, sino ad assemblare i relativi pezzi che compongono ogni articolo, ed arrivare alla loro rifinitura. Per le lavorazioni effettuate sulla paglia, viene effettuata la preparazione della materia prima (costituita da steli di graminacee o di altre piante), ottenuta attraverso un’attenta selezione e un adeguato confezionamento del tessuto. I vari processi produttivi, compiuti successivamente, sono: il finissaggio, costituito dal lavaggio e la sbiancatura, la tintura, l’appretto, la messa in forma e la stiratura. Infine, per le lavorazioni effettuate con il feltro, i procedimenti possono essere suddivisi in due fasi di lavorazione: in bianco e in nero. La lavorazione in bianco, prevede lo sviluppo di svariate fasi, quali: la mischiatura, la sfioccatura e la faldatura, l’imbastitura del cono di feltro, la follatura finale e la tintura dei cappelli. Terminata la lavorazione in bianco, si procede con quella in nero, comunemente denominata modellatura. Questa fase permette di dare la forma voluta al feltro, lavorando a caldo il materiale umido, con l’aiuto di una testa (o di forme di legno) e del cavalletto. Una volta ottenuta la forma desiderata, il feltro viene pressato e fatto asciugare. Stirato con un ferro specifico, vengono corrette le sue rigidezze e si definisce la forma del cappello, creando la foggia che la moda richiedeva. Successivamente, si effettuavano le operazioni di rifinitura interna ed esterna. Al termine dei differenti processi produttivi, la fase che accumuna la lavorazione dei diversi materiali, è quella relativa alla decorazione del prodotto. Di solito, si applicano degli accessori di nota valenza estetica, per conferire al prodotto maggiore prestigio. - Controllo qualità: Al fine di certificare la composizione delle materie prime utilizzate, in collaborazione con aziende specializzate, vengono eseguiti particolari tipologie di “test analitici”. Il prodotto finito viene successivamente esaminato nuovamente, attraverso ulteriori prove, capaci di determinare il controllo della qualità. Questi esami sono effettuati da addetti che si occupano di visionare l’elaborato, per valutare se è conforme alle caratteristiche riportate nelle schede tecniche. Se necessario vengono effettuati dei procedimenti di stiratura, ed una volta ottenuti i risultati positivi dei test, si procede con le fasi di etichettatura, imballaggio e spedizione della merce. Ogni singola operazione sopra elencata, viene svolta da personale qualificato e specializzato. Qualora fosse necessario, su richiesta del cliente, possono essere realizzate alcune referenze sul campionario. 36
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GLI OCCHIALI Un accessorio di grande importanza fra moda, design e artigianato di Luisa Chiumenti
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o stile degli occhiali e la loro forma, oltre alla loro indiscutibile funzione, hanno assunto nel tempo proporzioni sempre più ampie e variegate. Sappiamo bene come, in seguito alla attuale, pesante crisi economica, siano emersi importanti valori di sostenibilità, condivisione, cura del corpo e salute, qualità del tempo e dello spazio, importanza dell’alimentazione: valori tutti che hanno notevolmente influenzato il settore della moda e in particolare quello di un accessorio tanto importante come gli occhiali, settore in cui ciascuno è “protagonista della propria scelta”. Basterebbe dare un’occhiata al grande successo che riscuote da anni la manifestazione che si lega al MIDO, la fiera Internazionale dell’Eyewear. Si tratta infatti della più importante Fiera del settore dell’ottica e della occhialeria a livello mondiale, in cui vengono presentate le nuove collezioni e le tendenze del design. La manifestazione, che si svolge annualmente da 45 anni (la prima edizione è del 1971) si svolgeva, fino al 2006, alla Fiera di Milano, attuale fieramilanocity. Dal 2007 si svolge in Fiera Milano a Rho-Pero e l’edizione del febbraio 2016 è stata presentata in anteprima al Museum of Arts & Design di New York (2 dicembre 2015). La Fiera di quest’anno ha promosso, fra le diverse novità, l’introduzione di una nuova area: “Morel”, uno spazio allestito per offrire al folto pubblico le tendenze e il futuro del mondo dell’eyewear. Si è trattato di un vero e proprio laboratorio di idee, estremamente ricco di straordinaria creatività, progettualità e innovazione, in cui nuovi concetti e sperimentazioni hanno trovato una felice contaminazione con altre forme di espressione artistica, come la musica e altri analoghi tipi di performance. Nell’acquistare un paio di occhiali, sempre più clienti ricercano infatti l’esclusività e sono sempre più sofisticati i compratori che concepiscono gli occhiali come un oggetto essenziale, che caratterizza la loro identità. Un panorama ricco di stimoli, non solo in termini di moda, ma di comunicazione, di attitudini al consumo e di esperienze di acquisto (on-line e off-line).
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Una vera e propria rivoluzione che coinvolge tutte le generazioni e che esprime in modo evidente il cambiamento radicale nelle economie progettuali ed estetiche nel settore degli occhiali a livello globale. Visitando grandi ditte o negozi storici, si può notare oggi come tutti i consumatori siano sempre più interessati non solo al prodotto, ma anche alla storia delle aziende, alle loro origini, ai loro valori ed al loro atteggiamento in ambito sociale e ambientale: tutti segnali importanti per le aziende, perché indicano che il mercato si sta evolvendo e richiede risposte rapide e innovative. Interessante è stata la tematica portata avanti nell’ambito del MIDO con il “Focus sul futuro: generazioni e tendenze tra stile e consumi nel mondo e nell’occhiale”: il “Future Concept Lab” ha avviato infatti un’intensa attività di ricerca integrata, “tra desk analisis e osservatorio ad hoc etno-antropologico”, per rispondere alla richiesta di MIDO di analizzare fenomeni e tendenze, per orientare al meglio le energie creative e progettuali e le strategie a medio e lungo termine delle aziende del settore. Si evidenzia così come tutti i nuclei generazionali, con diverse modalità e intensità, siano perfettamente in grado di gestire le diverse occasioni di consumo con grande agilità e competenza, senza che questo intacchi minimamente la loro identità. “Le cose fatte bene”, è stato detto nell’arco della manifestazione, “sono dunque la risposta che il mondo del consumo si aspetta, proprio in questo momento storico, segnato da cambiamenti globali che sfidano il mondo delle aziende a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Bisognerà vendere il proprio saper fare, oltre che produrlo, anche nei servizi”. Ed è importante notare come tutto ciò non riguardi soltanto le nicchie del lusso: “le cose ben fatte non sono solo per i ricchi ma appartengono alla dimensione dell’eccellenza. L’obiettivo diventa produrre meglio di chiunque altro, durando a lungo”.
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LE DONNE NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE di Ruggero Signoretti
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a Prima Guerra Mondiale, o Grande Guerra, è stata un trampolino di lancio per le donne che, in tale circostanza, assunsero per la prima volta un ruolo pubblico, anche se in buona parte basato sul volontariato. Alla vigilia della guerra molte di loro si schierarono per l’intervento e questo può sembrare strano in riferimento alle caratteristiche femminili tese alla tutela. In realtà fu quello un modo per la donna di sentirsi cittadina dello stato. In oltre la Prima Guerra Mondiale fu percepita come Quarta guerra del Risorgimento, una guerra “giusta” contro l’imperialismo degli imperi centrali. Durante la Grande Guerra, poiché gli uomini validi, più di 3 milioni, furono quasi tutti chiamati alle armi, rimasero scoperti posti di lavoro in uffici, fabbriche, servizi e soprattutto nell’industria bellica e in agricoltura. Le donne furono ben presto pronte a sostituire gli uomini. Il processo non fu facile, anche perché vi furono molte resistenze, ma alla fine la necessità divenne una virtù. Vi furono operaie, spazzine, postine, guidatrici di tram… Soprattutto le forme di lavoro che richiedevano anche l’uso della divisa vennero a lungo osteggiate. In particolare si costituì un servizio postale, affidato alle donne, che mettesse in collegamento i soldati al fronte con le famiglie. Fu un servizio militarizzato, che ebbe a Bologna il suo centro principale ma che ebbe anche centri capillari distribuiti su tutta la penisola, che gestì un flusso incredibile di documenti. Il servizio fu destinato anche alla ricerca di notizie presso i vari comandi, così da riferirnento a quelle famiglie che non ne ricevevano dai loro congiunti. E nell’ultima catena di questo servizio di informazioni le maestre di campagna spesso leggevano o scrivevano la posta da e per il fronte. Molte donne furono crocerossine. Nel 1817 esse raggiunsero il numero di diecimila. Capitolo dolente e tragico fu quello dei bordelli di guerra, voluti dai comandi militari per il benessere psicofisico dei soldati nei brevi periodi in cui passavano in seconda linea.
Contadine al lavoro nei campi
Donne al lavoro in fabbrica
Dottoressa Clelia Lollini 40
Segno visibile di questa diffusa emancipazione è offerto anche dalla moda: sparisce il corsetto, le gonne si accorciano, i cappelli riducono le loro dimensioni, l’abito si semplifica. Vere e proprie donne in guerra sono state le portatrici carniche. Erano donne, dai 15 ai 60 anni, che, nelle loro gerle, portavano fino alle prime linee del fronte i rifornimenti per i soldati. Si caricavano sulle spalle dai 30 ai 40 chili di cibi, munizioni, medicine, indumenti e posta. Si arrampicavano per i monti anche per più di mille metri con scarpe di corda e feltro ed erano sempre sotto il tiro dei cecchini. Ogni viaggio veniva loro pagato una lira e cinquanta centesimi, pari a 3,50 euro. Alcune di loro rimasero ferite e Maria Plozner Mentil fu colpita a morte da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916 a Malpasso di Pramosio, sopra Timau, il suo paese. Caso unico, a Maria è dedicata una caserma. Alla sua memoria il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro conferì nel 1997 la medaglia d’oro al valor militare. Non meno difficile fu il compito che si assunse, nel primo anno di guerra, Luisa Zeni (Arco 1896 -1940) che, figlia di un fabbro, visse in Trentino nel clima di crescente tensione fra italiani e tedeschi. Di sentimenti irredentisti, fu reclutata nel 1915 dal Servizio Ufficio Informazioni col ruolo di spia. Svolse il suo compito a Innsbruck raccogliendo numerose informazioni. Arrestata riuscì ad eludere il comando austriaco: aveva nascosto le preziose informazioni dentro i bottoni. Successivamente frequentò, nell’inverno del 1915, la scuola per infermiere della CRI, venendo assegnata a diversi ospedali dove prestò servizio fino alla fine della guerra quando, in ricompensa del servizio reso al Paese, le fu concessa la medaglia d’argento al valor militare. Nel 1915 erano 90 le donne medico e la metà di loro era arruolata volontaria.
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Al fronte indossavano anche loro la divisa grigioverde. Tra di esse emerge Clelia Lollini (Roma 1890 – Tripoli 1963), laureata in chirurgia, che, arruolata nel 1915 fu subito inviata come tenente medico al San Giovanni e Paolo, l’ospedale militare di Venezia, dove operò in corsia per tutta la guerra. La fine della guerra provocò un arresto a tale emancipazione, moltissime donne dovettero lasciare il loro lavoro agli uomini rientrati dal fronte. Si cercò in tutti i modi di riportare le cose a come erano prima della guerra. In parte ciò avvenne, ma ormai il clima era cambiato, tanto che nel 1919 la legge 117 concesse alla donna l’autonomia dal marito e dal padre e l’accesso ad alcune professioni un tempo negate, come quella dell’avvocato. Bisognerà aspettare il 1960 per ottenere la parità. Numerose sono le donne da segnalare come promotrici del riscatto femminile. Ne citiamo almeno due, Gabriella Rasponi Spalletti e Teresa Labriola. La contessa Gabriella Rasponi in Spalletti (Ferrara 1853 – Roma 1931) ha fondato nel 1903 il Consiglio Nazionale Donne Italiane (CNDI) e ne è stata presidente fino alla morte. Si era trasferita a Roma quando il marito era stato eletto deputato. Nel suo salotto si riunivano le più brillanti menti dell’epoca tra cui il liberale Ruggero Bonghi, che nel 1874 aveva aperto a tutte le donne l’accesso alle facoltà universitarie. Teresa Labriola (Napoli, 1874 – Roma 1941), figlia del grande filosofo Antonio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, anche se le donne non venivano ammesse all’esercizio della professione forense. Fu la prima donna a laurearsi nell’Università di Roma in quella facoltà (1894) e ad ottenere la libera docenza in filosofia del diritto nel medesimo ateneo (1900). Continuò a tenere il suo corso libero a Roma fino al 1918, tuttavia, indubbiamente per pregiudizi relativi al suo sesso, non ottenne di entrare nei ruoli della carriera universitaria. Divenne avvocato nel 1919. Fu presidente della commissione giuridica del CNDI e si occupò sempre della “questione femminile”, battendosi per il voto alle donne. Ricordiamo che negli USA il voto alle donne fu concesso nel 1920 mentre l’Italia doveva attendere il 1945, al termine della Seconda Guerra Mondiale. Oggi queste storie sembrano passate e superate ma in realtà non è così, fenomeni come il tetto di cristallo e la diversità di salario uomo-donna per lo stesso lavoro sono lì a ricordarlo. Per non parlare di fenomeni quali il femminicidio,
Par_assistenzialismo femminile
i pantaloni delle donne 625x400
Messaggero veneto
Ufficio postale. Donne al lavoro Lombardia
determinati principalmente dalla mancanza di rispetto verso l’altro sesso ritenuto inferiore e sempre “debole”. Ma per andare avanti bisogna sempre andare alla radice dei problemi ed oggi ci sono molte donne che studiano la vita e l’operato delle loro antenate. Qualche nome? Ginevra Conti Odorisio dell’Università Roma Tre e Fiorenza Taricone dell’Università di Cassino, sono rispettivamente direttrice e membro fondatore del C.I.S.DO.S.S. (Centro Interuniversitario per gli studi sulle donne nella storia e nella società), convenzionato tra l’Università La Sapienza di Roma, Roma Tre e l’Università di Cassino. Anna Maria Isastia, Professore di Storia Contemporanea presso La Sapienza e Segretario Generale della Società Italiana Storia Militare ha recentemente raccontato la vicenda delle donne nella Prima Guerra Mondiale nel programma di RAI “Il tempo e la storia”, in onda a febbraio 2016. 41
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A ROMA, IL NUOVO NEGOZIO DI CAPPELLI DI PATRIZIA FABRI di Stefania Severi
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nato! Fiocco azzurro o rosa, o meglio entrambi, per un nuovo negozio di cappelli. È a Roma in Via dell’Oca 34, a due passi da Piazza del Popolo, infatti nel biglietto d’invito all’inaugurazione l’immagine ritrae proprio la piazza sorvolata da cappelli. Il negozio, sul biglietto, è indicato come “Patrizia Fabri, Hats for man and women, Hand-Made in Roma”. Abbiamo già parlato di Patrizia Fabri nel numero 40 di Hat del 2009, perché aveva rilevato, nel 2003, il laboratorio dei Fratelli Cirri, che, nel 1936, erano venuti dalla Toscana a Roma per aprire un laboratorio, in via degli Scipioni 46, nel cuore del quartiere Prati, non lontano da San Pietro. Anche dei Cirri avevamo parlato, in un articolo pubblicato nel 1999. Insomma la Fabri non solo ha rilevato ed ha fatto fiorire l’antico laboratorio, cui ha dato il nome “Antica Manifattura Cappelli”, ma è riuscita ad aprire questo nuovo spazio solo di vendita. L’alta qualità della sua attività, radicata sul territorio, ha fatto sì che la Camera di Commercio di Roma l’abbia selezionata per una iniziativa espositiva molto esclusiva presso il Tempio di Adriano a Roma, nel febbraio 2016, annoverandola tra i più qualificati artigiani della capitale, lei unica cappellaia. In questi anni la Fabri ha continuato a lavorare oltre che per i singoli clienti, anche per il teatro, il cinema e l’alta moda. Tra l’altro ha lavorato per il Teatro Massimo di Palermo e per il Teatro dell’Opera di Roma. Ha realizzato acconciature per le sfilate di Armani e Rocco Barocco. Inoltre ha realizzato magnifici cappelli scultura, su disegno di Roberto Capucci, destinati ad essere esposti, unitamente agli abiti del grande couturier, in permanenza in Cina. L’apertura della boutique di Via dell’Oca, può considerarsi un segnale positivo di ripresa dell’uso del cappello? Ce lo auguriamo di cuore. Abbiamo chiesto alla giovane Roberta, che cura la vendita, quale è il pubblico che entra nella boutique. Lei ci dice che sono generalmente persone eleganti, sia turisti sia abitanti del centro storico e che la fascia d’età più giovane va dai 30 ai 40 anni ma i più numerosi, sia uomini che donne, si aggirano dai 40 ai 50 anni. Tutti sono per lo più orientati verso modelli collaudati. Le donne prediligono la Cloche ed il Fedora, il cappello da uomo classico in versione femminile. Va molto la bombetta nera, unisex alla Charlie Chaplin. Gli uomini preferiscono il cappello a falda piccola, in particolare il Trilby, con sulla cupola una scanalatura a forma di goccia, e il Porc Pie, con cupola più circolare. E ci mostra un Porc Pie nero ed un Trilby verde salvia. Sicuramente i cappelli di Patrizia Fabri sono tutti di alta qualità. E lo dimostra la circostanza che un giorno in Via dell’Oca si è presentata una turista francese che indossava un cappello Fabri. Dove l’aveva acquistato? Troppo discreta Roberta per chiederlo. Ma è certo che, fuori Roma, può averlo comperato solo in due posti: a Parigi da Victoire, uno splendido negozio di moda in Place de la Victoire, o on line da “Luisa via Roma”. Sul sito della “Antica Manifattura Cappelli” c’è questa bella frase di anonimo: «Il cappello, un luogo simbolico, complesso, in grado di far uscire dall’anonimato un volto, uno sguardo, un’anima». È un suggerimento di cui tutti dovrebbero far tesoro.
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Tirabasso Serafino Srl: Ideazione progettazione e sviluppo del prodotto Gli accessori dell'abbigliamento completely Made in Italy sono quanto la Tirabasso Serafino produce e offre. Ecco tutta l'eccellenza e la tradizione dei prodotti che si sposano con le concezioni moderne della lavorazione e del design per creare collezioni di cappelli per uomo, donna e bambino. Realizza finissimi Panama Montecristi e coloratissimi cappelli nelle forme piÚ svariate, esprime il proprio carattere e consente di abbigliarsi in maniera eccellente diventando punto distintivo di ognuno. Un'ampia scelta di cappelli e non solo, disponibili nel punto vendita TirabassoGroupShop in via Ada Natali 2 a Massa Fermana. L'artigianalità delle collezioni uomo donna e bambino, ispirata oggi al total look, è retaggio della nostra tradizione legata alla produzione di cappelli.
Foto: Dettaglio di cappello donna cucito con accoppiatura di due materiali diversi e guarnito con lino
Foto: Dettaglio di cappello Uomo con nastro spinato
Foto: Cappello di paglia LAURA BIAGIOTTI DONNA Foto: Cappello bambina firmato LAURA BIAGIOTTI DOLLS
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ANTONELLA CAPPUCCIO E LA SUA PITTURA NON PITTURA di Stefania Severi
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ntonella Cappuccio è stata da me definita, dalle pagine di Hat (n° 40, 2004), la Signora della pittura. E certamente a distanza di anni tale definizione non solo continua ad essere valida ma va così completata: Antonella Cappuccio, la sempre giovane Signora della pittura italiana. Ed è ovvio che quel giovane è da assegnare non all’età, anche se certo anagraficamente lo è ancora, ma soprattutto per la sua capacità di rinnovarsi, di stare al passo coi tempi, di non crogiolarsi in un passato seppur importante. Antonella Cappuccio, come tutti i grandi artisti non “invecchia”, sempre disponibile a mettersi in gioco, sempre vigile sugli accadimenti, sempre pronta a rinnovarsi, sia nelle tecniche sia nelle fonti d’ispirazione. È quello che emerge dagli ultimi suoi lavori in cui lei, così maestra della matita e del pennello, ha scelto altri mezzi espressivi: carte leggere colorate, tele, ricamo, frammenti di foglia d’oro e talvolta anche collage tradizionale. Ciò che meraviglia è che queste opere, viste da lontano, non si differenziano da quelle dipinte, avendo ella raggiunto una tale capacità tecnica da riuscire ad ottenere effetti pittorici anche attraverso questi nuovi strumenti. Del resto la sua perizia pittorica ha raggiunto esiti altissimi, come dimostra il suo ciclo di opere per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, tra cui cinque grandi tele relative rispettivamente ai primi cinque articoli della Costituzione Italiana. Ma d’altro canto questi nuovi strumenti le consentono di raggiungere esiti particolarissimi, tra trasparenza e spessori materici, impossibili per la pittura tradizionale. Bisogna avvicinarsi all’opera per scoprire che quel tratto rosso non è dato col pennello ma da un frammento sottile di carta velina rossa. E l’immagine nasce, senza discostarsi dal linguaggio figurativo che è sempre stato tipico dell’artista, per sovrapposizioni e trasparenze. Queste opere sono realizzate su una base di tela da rifodero, una tela di poco prezzo a trama più o meno fitta, utilizzata dai restauratori per foderare i dipinti su tela. La pittrice la utilizza come fondo, lasciandone a volte piccole sezioni scoperte, perché col suo ocra scuro è essa stessa un colore. Con tale tela copre anche le cornici, così da ottenere un lavoro che si presenta armonicamente compiuto ma che allo stesso tempo impone il dialogo con lo spazio circostante, in un perfetto equilibrio tra visione centripeta e centrifuga. Talvolta sotto la tela inserisce alcuni elementi in rilievo, non tanto per creare più intensi effetti tridimensionali, quanto piuttosto per meglio scandire la composizione e rendere più esplicito il racconto sotteso. E poi dipinge con carta leggera colorata o meno: veline, carte di riso, carte per il restauro. Ci troviamo quasi di fronte ad un’arte “povera” nei materiali, solo a volte riscattata dalla foglia d’oro, non per atteggiamento polemico, bensì per sottolineare che, per fare arte, non occorrono necessariamente materiali preziosi. Del resto, ad esempio, in passato l’affresco si diffuse proprio per la sua economicità.
A. Cappuccio, Gran Tour, tecnica mista cm150 x 120, 2016
A. Cappuccio, Future ombre, tecnica mista cm 122 x 82, 2016 46
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I temi presi in esame dalla Cappuccio trattano di problematiche esistenziali, quali il difficile rapporto uomo donna che viene affrontato nel dipinto “Le ruote della fortuna”, in cui sono due amanti ed una bicicletta, ad indicare un percorso insieme che però è destinato a giungere al traguardo. Ed ancora è l’attualità che irrompe nel dipinto, come in “Bang”, dove l’immagine di un bimbo con una pistola sottolinea come una educazione sbagliata possa portare ad eventi traici come quelli del Bataclan di Parigi del 13 novembre 2015. Nel “Maître à penser”, del 2015, la figura del Maître, quasi a mezzo busto, è immersa nel mare, ad indicare la fluidità del pensiero che però talvolta si fissa in un piccolo pesce guizzante grazie alla matita rossa che regge tra le dita. In “Miraggio” è una donna che guarda volare via un cappottino da bambino. È la riflessione della madre sulla ineluttabilità della crescita dei figli, destinati a volare fuori dal nido e ad allontanarsi, nonostante lei provi a stringere ancora il cordone ombelicale. In questo dipinto, di cm 60 x 80, vi è ampio uso del ricamo, infatti il cappottino del bambiA. Cappuccio, Miraggio, tecnica mista cm 60 x 80, 2015 no è reso attraverso la successione dei punti così da assumere la forma precisa dell’indumento ma conservando la trasparenza del miraggio. L’ultimissima produzione, di questo inizio di 2016, è una serie di opere in cui la pittrice riflette sul concetto dell’interferenza tra passato e presente. Il passato è per la Cappuccio rappresentato dalle opere d’arte, da quell’incredibile patrimonio che è alla base della sua formazione di donna e di artista. Il presente è invece evanescente, transitorio, inafferrabile, ed è affidato alle ombre. Ecco così che un frammento di paesaggio di Mantegna o un dipinto di Pontormo vengono attraversati da ombre fuggevoli. Nel primo caso, offerto dal dipinto “Future ombre”, l’ombra di un uomo si tuffa quasi nel paesaggio della Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova. Nel secondo caso, nel dipinto “Gran Tour”, davanti a Clitumno e Pomona, affrescati nel salone della Villa medicea di Poggio a Caiano, transitano le ombre di un uomo e di una donna in bicicletta. Stanno andando, lei dietro a lui, e del bel dipinto sembrano proprio non curarsi. Tanti sono gli interrogativi che il dipinto suscita. È forse una metafora di come il bello trovi pochi adepti nel mondo contemporaneo? Il Gran Tour è diventato del tipo mordi e fuggi? Le ombre stanno dileguandosi dopo aver a lungo ammirato l’affresco? Il discorso è aperto e il racconto A. Cappuccio, Maître à penser, tecnica mista cm 60 x 80, 2015 ognuno lo articola secondo la propria formazione e la propria sensibilità. Una cosa è certa, queste opere invitano ad una riflessione ed in tal senso si pongono al pubblico esattamente come le opere antiche. Inoltre, questa dicotomia tra statica e dinamica, tra ciò che resta e ciò che va, tra le cose e l’uomo, è l’essenza della vita. Il Grand Tour è il grande viaggio individuale, che affrontiamo sostanzialmente soli, anche se altri sono con noi. E in tale viaggio l’arte svolge, ancora una volta, il ruolo consolatorio che le è proprio. 47
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RINALDELLI MODISTERIA DAL 1930 di Irene Carlotta Cicora
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embra di viaggiare indietro nel tempo fino al 1930, proprio come nel film di Woody Allen, nell’atelier Rinaldelli in via Ricasoli. Una storia che attraversa tre generazioni. «Mia nonna Teresa Ferrini Rinaldelli è nata nel 1902 a Borgo San Lorenzo – spiega la nipote, Alessandra Talozzi ora titolare dell’atelier – Nel 1930 si è trasferita a Livorno lasciando il lavoro in banca per seguire il marito che lavorava nelle Ferrovie. Qui si è avvicinata al mondo e ai laboratori delle modiste livornesi, che a quell’epoca erano molte, portando dal capoluogo stoffe e materiali pregiati. Capì subito che quello sarebbe stato il lavoro della sua vita e aprì il primo negozio in via S.Giovanni. Poi seguirono quello in Corso Amedeo e in via Ricasoli dove ci troviamo dal 1963. Tecnicamente, la modista è l’addetta alla confezione di cappelli da donna. Un’artigiana con un senso estetico molto sviluppato, capace con un solo tocco finale di dare senso a tutto l’insieme indosso a una signora. Fa parte di quei mestieri antichi che però hanno un fascino intramontabile. «Il cappello ha avuto una forte crisi negli anni ’70 e ’80, quando la moda non riusciva a imprimere un segno distintivo. Si guarda sempre indietro – spiega la Talozzi – perché non abbiamo niente intorno. Ecco perché è importante riscoprire il senso del bello. I livornesi? Rispecchiano la città: non vogliono costrizioni, si interessano alla moda fino a un certo punto. E poi, combattono con il salmastro quindi servono cappelli in grado di... resistere». La boutique approdò nella via dello shopping, mantenendo lo storico marchio: «In vetrina – prosegue la modista – c’è la prima targa del negozio in via S.Giovanni. E fuori nell’insegna c’è la firma di mia nonna. Credo che per fare questo lavoro serva grande professionalità e una storia alle spalle. Prima mia nonna, poi mia madre Giancarla Rinaldelli Talozzi e ora io. Una quarta generazione? I miei figli Anna Elena e Attilio hanno ereditato la vena artistica. Vedremo». L’atelier lavora molto sul «pronto» ma, come spiega la Talozzi, si può lavorare ancora per raffinare il tocco. «Chi entra qui di solito ha già un’idea precisa di quello che vuole, ma non bisogna avere fretta. L’artigiano deve fare innamorare del suo lavoro e la testa è la parte più importante, ci si sofferma a guardarla. Solo se è bella e raffinata l’occhio continua a muoversi». Quella dei cappelli non è affatto una moda «passata». «Sta rifiorendo la passione per il copricapo, che sia un cappello o un “fascinator” (il cerchietto). Con fiori di seta, piume, organza o jersey». Poi una chicca: «Una famiglia livornese mi ha portato – conclude la modista 48
Alessandra nel suo atelier, disegna, crea, hat e fascinator
– un cappello di garibaldino da restaurare. Era di Ergisto Bezzi, pezzo da novanta in prima fila nella spedizione dei Mille. Ho assorbito la forza e la passione che trasudava dal tessuto. “Curarlo” un’emozione. Il mio sogno? Entrare nel mondo del teatro, magari con una consulenza per il Goldoni». Quest’estate l’atelier Rinaldelli ha partecipato a due importanti eventi: «Abbiamo preso parte in luglio alla Quarta Edizione del Festival dedicato ai cortometraggi che si è svolto nell’occasione ai Bagni Paolieri a Quercianella. Siamo stati invitati a partecipare, assieme ad altre realtà, per arricchire le due serate con i nostri lavori artigianali, al fianco di un’esposizione di quadri e di altre attività interessanti della nostra città. Inoltre, le mie creazioni sono state indossate al Sunlight Parl di Tirrenia a inizio settembre per la finale di Miss Arte Moda Italia».
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Chi fu Ergisto Bezzi? di Alessandra Talozzi
Trovarsi tra le mani un oggetto che appartiene ad un pezzo di storia così importante per la nostra nazione è stata davvero un’emozione incredibile. Quando mi fu chiesto di restaurare questo cappello, adesso finito in mostra in un museo di cui ho ahimè perso le tracce, ho sentito anche il peso della storia che inizialmente mi aveva davvero impaurito. Riuscire a fare un buon lavoro su qualcosa che risultava davvero quasi definitivamente rovinato era impresa assai complicata. Tuttavia la rarità di questo tipo di intervento mi spingeva a fare davvero quanto di meglio potessi. In fondo questo è un copricapo appartenuto ad un temerario, non potevo certamente cedere io alla paura di sistemarlo. Come spesso succede, però, le idee confuse spariscono ogni volta che mi metto al lavoro: concentrata su questo oggetto così prezioso giunto a noi dal passato, sono riuscita a riversare tutto il mio amore da modista nel recupero. Sono molto contenta di quanto sono riuscita a fare. Gli unici dubbi che ho rimangono appesi all’oggetto in sé, non al lavoro che dovevo fare. Chi era dunque Ergisto Bezzi? Così scrissero di lui nel 1920 quando morì a Torino dopo una vita completamente dedicata alla causa. Partecipò alla Spedizione dei Mille nel 1860 quando aveva venticinque anni tra le fila delle Guide del Simonetta. Fu tra i primi a entrare a Palermo e primissimo a mettere piede in Calabria, a testimonianza del suo eroismo e della sua caparbietà, qualità che ho cercato ovviamente di far mie nel lavoro di ricostruzione del suo cappello. Da quel momento ebbe una carriera politica e militare in grande crescita ma totalmente votata alla causa: rifiutò infatti per ben due volte la vanagloria della Croce di Savoia, così come rinunciò, nel 1890, al mandato di Ravenna che lo aveva eletto deputato, scomparendo dalla scena politica italiana. Che bella avventura! Mentre lavoravo, dopo aver letto le poche notizie che avevo trovato su di lui, mi sono sentita come trasportata al suo fianco durante tutte le mirabili avventure alla ricerca dell’Indipendenza d’Italia. Ho curato il suo cappello quasi come fossi una dottoressa da campo. Non capitano tutti i giorni opportunità di lavoro così particolari e sono davvero felice di essere stata chiamata a questo particolare intervento.
Cappello di Ergisto Bezzi
Ergisto Bezzi nel 1860 in divisa da capitano delle Guide 49
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CAPPELLIFICIO TORRESI LORENZO Nasce nel 1971 sulla scia del laboratorio familiare dedito al confezionamento di cappelli in tessuto. L’impresa si contraddistingue nel settore degli accessori da bambino da 0 a 12 anni e nel corso degli anni, seguendo le richieste del mercato, inizia a specializzarsi anche nella produzione di cappelli da uomo-donna. I modelli vengono creati e realizzati completamente all’interno dell’azienda, utilizzando diversi materiali quali pile, lana, cotone, pelliccia. Cura del dettaglio, scelta dei materiali e qualità del Made in Italy, hanno permesso all’impresa di ampliare i propri confini e sviluppare un notevole commercio estero. Ad oggi, l’azienda Torresi si evidenzia per il design innovativo nel settore della moda e dei materiali, grazie al know how aziendale maturato durante un’esperienza di oltre quarant’anni.
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INTERVISTA A EMERICO GIACHERY E NOEMI PAOLINI GIACHERY di Maria Alessandra Ferrari
non capita. Per il resto, per mia personale esperienza, dico che, purtroppo, i giovani non sempre riescono a godere dei vantaggi della loro età anche se sono belli e forti e accesi dall’ amore. Emerico: Essere giovani è guardare lontano, andare in cerca del Graal, è “tendere” (“chi sempre tende sarà salvato” afferma Goethe nel Faust). Con gli anni acquista importanza il quotidiano, il vicino. Ed è un arricchimento di vita e di saggezza. Restare giovani è non diventare mai laudatores temporis acti, ma restare aperti al nuovo. Non rimpianto, ma gratitudine per il buono e il bello che la vita ci ha donato. Anche un cammino felice è contrastato dagli equivoci, forse non evitabili nell’impatto con la mediocrità. Quella volta che, avrebbe dovuto aspettarselo, ma ci rimase un po’ male…
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er mettere subito in chiaro le cose si deve dire che l’essenza di due poeti, spiriti liberi, come Noemi ed Emerico, è rimasta invincibile sotto l’esistenza che si è continuata ad accumulare negli anni. Anche da ciò viene quell’asciuttezza, quella intensità interiore né troppo dolce né troppo dolorosa, che la loro stessa scrittura rende. Si avvertono, nelle risposte, caratteri e temperamenti diversi. Ma una trama sottile di affinità elettive li ha portati a condividere ciò che Montale chiamò amore intellettuale della vita. L’età come data anagrafica non conta. Che significa essere giovani? Noemi: Nella vita del vecchione – nel mio caso della vecchiona - anche se non mancano del tutto estri giovanili, momentanee illusioni, improvvise aperture di orizzonti luminosi specialmente nell’occasionale epifania della bellezza, della bontà e dell’amore, tuttavia “la voragine/ rimane spalancata / e l’occhio vi cade a tratti / nella passeggiatina quotidiana”. Ai giovani questo di solito
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Emerico: Se non ti aspetti nulla dagli altri non sarai mai deluso, e tutto ciò che riceverai di positivo sarà mero dono. Non sempre riesco ad attenermi a questo principio, ma faccio del mio meglio. Vivere con la disposizione alla contemplazione, alla scoperta della bellezza, porta alla nascita di sentimenti intensi… Noemi: Il sentimento della bellezza si è affacciato con impazienza nella mia prima risposta. Vuol dire che per me è il più forte antidoto al sentimento della morte. Spesso, anzi, lo richiama ma per esorcizzarlo. Emerico: La contemplazione è un respiro dell’anima, la bellezza è un nutrimento e un “innalzamento”, come sosteneva l’amico Rosario Assunto, grande studioso di estetica forse non abbastanza ricordato. Da giovane mi piaceva professare il mio amore per la bellezza e definirmi Emericus filocalos. Nel vostro importante incontro umano ed artistico, la comunicazione è profonda, anzi è una comunione. Ma c’è chi sostiene che sulla terra, ognuno chiede all’altro il suo bene… Noemi: Trovare il proprio bene nell’amore dell’altro può essere visto come una forma di egoismo da chi riduce la vita interiore a motivazioni materialistico-utilitaristiche. Ricordo uno scritto di Carlo Gozzi (una favola?) in cui due figli accusavano la madre amorosa di tendere solo, amandoli, al proprio appagamento. (Gozzi intendeva prendere in giro certo utilitarismo illuminista). Ma quanto erano antipatici quei due ragazzi! Se l’amore è egoismo ben venga questo egoismo. L’argomento è tutto, secondo alcuni scrittori. Anche se la pretesa di una formulazione suona goffa e rozza, cosa vi offre l’idea primaria per un libro? Emerico: . Cito volentieri l’affermazione di Mallarmé “tutto al mondo esiste per pervenire a un libro (pour aboutir à un livre)”. Non vedo in questa affermazione un elogio della letteratura, ma
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forse l’idea che tutto tenda a diventare parola, cioè “consapevolezza”, in un processo evolutivo verso lo Spirito. Ho scritto, ovviamente, per interpretare altri scrittori, ma anche, e forse con maggior piacere, su motivi di vita e su ondate di memoria che si fa musica. Per quanto riguarda gli autori su cui ho scritto, in stretto collegamento col mio amatissimo lavoro di docente, ormai sono io a sceglierli, ma all’inizio non fu sempre così. Un’occasione esterna mi fece incontrare l’opera di Verga, primo oggetto di studio approfondito. Verga lo sentivo tanto lontano e diverso, ma poi, con l’assidua e amorevole frequentazione, mi sono sintonizzato con la sua esperienza umana e letteraria, e questa sintonia ha arricchito la mia vita. Noemi: Cosa mi offre lo spunto per scrivere un libro? Il campo dei miei argomenti è insieme vastissimo e limitato. Mi occupo di critica letteraria (preferisco chiamarla, come Emerico, interpretazione, anche se non mancano riflessioni teoriche). La voglia di chiarirmi le idee riflettendo e scrivendo mi nasce, di solito, quando non mi trovo d’accordo con il pensiero di altri studiosi. Lo spirito polemico mi viene forse dai miei cromosomi toscani. Debbo riconoscere che l’indagine è sempre un po’ viziata dalla voglia di aver ragione. Due autori di cui ho rivendicato accanitamente quella che mi pare la vera identità sono Ungaretti e Svevo. Potrebbe nascere il sospetto di un mio travisamento perché in queste personalità, benché così diverse tra loro, mi sono riconosciuta e la mia è, perciò, una, discutibile, “recensione autobiografica”. Il mare o la montagna, come sfondo metafisico, dal valore simbolico? Noemi: Amo mare e montagna come amo il vagabondaggio orizzontale e il tentativo di ascesa verticale, direi metafisica, dell’anima: quest’ultima solo dell’anima. Emerico: Sono molto più “montano” che marino, e soprattutto non apprezzo la vita di spiaggia e la frequentazione dei “tintarellari” sulle sedie a sdraio sotto gli ombrelloni. Il mare non è soltanto quello, per fortuna: è anche orizzonte, inquietudine, è il preludio di Tristano e Isotta. Il ricordo marino più vivo è quello della bretone Pointe du Raz, dove l’Europa si sprofonda nell’infinito oceano. La montagna è sorella di certi grandi momenti beethoveniani, di certe pagine di Fichte. Ricordo di tante ascensioni, forse anche interiori, eco dell’Alpenhorn che risuona nelle valli alpine. Se una cosa è ingiusta, l’accantonate oppure avete altre risorse per difendervi dagli assalti? Noemi: Sono molto sensibile e mi indigno difronte ai casi di comportamenti ingiusti di cui ho notizia. So poco difendermi nelle
situazioni personali. Di solito protesto e bofonchio ma, purtroppo, solo tra me e me. Il cappello nel vostro guardaroba? Emerico: La prima esigenza del cappello concerne la salute: dalla testa si disperde un terzo del calore del corpo ed è giusto coprirla quando fa freddo o fresco, e a sua volta è opportuno proteggersi con un copricapo leggero se il sole picchia. C’è anche un’implicazione sociologica : coppole e cappelli, in paesi del sud, connotano socialmente chi li indossa. Quando, all’Aquila, fui nominato preside di Facoltà, i colleghi mi dissero: “Quel tuo cappello scalcinato non è degno di un preside. Comprati un cappello da preside”. Ed è quello che feci - pur sapendo che se l’abito non fa il monaco il cappello non fa il preside – e mi comprai una molto autorevole lobbia, su cui mia moglie pose poi un veto, e che ormai giace malinconica in un armadio. Ho comunque un bel cappello scuro, che mi conferisce autorevolezza, e anche un cappello “da esploratore” con il sottogola, per esplorare d’estate non le savane africane ma le casalinghe foreste di Camaldoli. A causa del basco, che indosso spesso, più d’una volta mi è stato chiesto se sono un pittore (non lo sono purtroppo), e una volta mi è stato detto che somigliavo a Wagner (ahimè non compongo musica): ma insomma un basco sulle ventitré conferisce un aria d’artista che non mi dispiace, e forse un po’ mi spetta. Il basco ha però un limite: non consente al vecchio gentiluomo che credo di essere il piacere di togliermi il cappello davanti alle signore. Una simpatica associazione mentale mi richiama un passo di Giovanni Pascoli che rievoca una battuta del Mere, un contadino di Castelvecchio: “Il cane fa ir la coda perché non può cavarsi il cappello”. Per salutare, ovviamente. Noemi: Amo non riamata i cappelli a larghe falde: la mia figura non mi consente di portarli decentemente. A mio marito si addice il basco. Ricordo che in uno dei primi incontri tra noi, ancora in apparenza solo amichevole, promisi a me stessa che, se avessi acquistato un potere su di lui, gli avrei vietato di portare la lobbia da commendatore che quella sera esibiva. Noemi: si è interessata di letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento (in particolare di Svevo e Ungaretti). Emerico ha insegnato Letteratura italiana in diversi atenei italiani ed esteri. Ha scritto su diversi autori italiani, da Dante a Montale. Entrambi hanno scritto pagine di memoria e di riflessione su temi di vita.
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L’EUROPA DEI LIBRI di Laura Gigliotti
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ai come in questi tempi calamitosi si è tanto parlato d’Europa, ci si è tanto interrogati sui motivi che sono alla base della sua identità culturale. Parafrasando il celebre aforisma risorgimentale di Massimo D’Azeglio, si potrebbe dire “fatta l’Europa bisogna fare gli europei”. La cultura del vecchio continente si può trovare nei libri, che testimoniano nella loro materialità il passaggio dalla civiltà classica a quella cristiana e medio-latina, a quella romanza e moderna, fino alla cultura europea occidentale. E’ questo il senso profondo della splendida mostra “I libri che hanno fatto l’Europa. Manoscritti latini e romanzi da Carlo Magno all’invenzione della stampa”, aperta all’Accademia dei Lincei fino al 22 luglio 2016. Organizzata dall’Accademia e dal Dipartimento di studi europei, americani e interculturali dell’Università La Sapienza, curata da Roberto Antonelli, Michela Cecconi e Lorenzo Mainini, presenta 180 preziose opere in gran parte provenienti dalla stessa Biblioteca Corsiniana dei Lincei, con prestiti delle maggiori biblioteche romane, Angelica, Casanatense, Vallicelliana e Nazionale, oltre che della collezione della Biblioteca Apostolica Vaticana. Accanto ai manoscritti, agli incunaboli, alle cinquecentine, ai primi libri a stampa latini, greci e romanzi, ci sono quelli arabi ed ebraici a dimostrazione che l’Europa nasce dall’incontro e non dallo scontro fra culture diverse. Preziosi volumi miniati e istoriati che spaziano dalla tradizione classico-cristiana, S. Agostino, S. Girolamo con la sua “vulgata” che attraverserà l’intero Medio Evo, alla modernità dei caratteri mobili di Gutenberg. Nel 1467 a Subiaco viene stampato il primo libro italiano. E’ una cultura che discute, rielabora e fa proprio
Trattato di astronomia in arabo Persia, inizi del sec. XV Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Or. 41 Foto © Accademia Nazionale dei Lincei 54
Aristotele, Metereologica Italia, sec. XV Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 44 D 32 Foto © Accademia Nazionale dei Lincei
il patrimonio greco-latino alla luce della Bibbia e degli insegnamenti cristiani. Fondamentale a questo proposito è la funzione di conservazione, trascrizione e trasmissione dei codici da parte degli amanuensi dei conventi. Due culture diverse e opposte come la pagana e la cristiana si fondono e confluiscono in un’unica gigantesca ‘trasmissione e consegna’ di valori e di testi che insieme formano di generazione in generazione la ‘tradizione’. E’ conservata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma la Bibbia Atlantica, cosiddetta per le eccezionali dimensioni, in pergamena, espressione fra XI e XII secolo della riforma ecclesiastica gregoriana. L’Europa medievale ha un rapporto stretto con la diffusione del sapere, le summae, le compilazioni, le enciclopedie attraversano tutto il Medio Evo latino. Il maestro di Dante, Brunetto Latini, compie con il Tresor uno dei primi tentativi enciclopedici in volgare, unendo in un solo nodo etica, politica e saperi. Altra forma di conoscenza universale, tutta medievale, è l’etimologia,
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ovvero risalire dai nomi all’essenza delle cose, come fa Isidoro rappresentazioni della passione di Cristo e delle vite dei santi. da Siviglia nelle Etymologiae. Alle competenze delle arti liberaSono i laudari, piccoli libretti come il Laudario dei disciplinati li, umanistiche del “trivio”, si affiancano quelle scientifiche del di S. Croce in Urbino, che si flagellavano durante le processio“quadrivio”. Il canone degli autori latini Virgilio, Orazio, Ovidio, è a base dell’insegnamento linguistico, mentre da Plinio discende quello scientifico che si coniuga con l’eredità della medicina greca e araba. Ed ecco gli scritti di Ippocrate, Galeno e Avicenna e un trattato arabo di oftalmica che riporta per la prima volta la rappresentazione dell’occhio. Nel De balneis puteolanis, in pergamena del XIV secolo, Pietro da Eboli celebra 35 stazioni termali lungo il litorale fra Napoli e Baia, dando anche indicazioni sull’igiene personale e il benessere pubblico. Celeberrimo il trattato di uccellagione di Federico II De arte venandi cum avibus. L’Europa feudale ha i suoi centri culturali più forti non nelle città ma nelle grandi abbazie, ma ben presto le città rivendicano di fronte alla chiesa la loro autonomia anche attraverso l’uso del volgare e la promozione della letteratura e della lingua in volgare. Ai cavalieri, ai feudatari, ai chierici che avevano dominato nei secoli precedenti si affianca un nuovo ceto sociale, la borghesia Francesco Petrarca, Trionfi Firenze Seconda metà sec. XV Roma, Biblioteca con i suoi intellettuali. Nel XII e XIII secolo nasce la moderna dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 55 K 10 letteratura europea e un nuovo sistema di generi letterari. In Foto © Accademia Nazionale dei Lincei Europa la spina dorsale del passaggio dal Medioevo alla modernità è il corpus delle opere di Aristotele che arriva in Occidente ni. Contiene 72 laudi attribuibili a Jacopone da Todi. Leggende attraverso le traduzioni latine dall’arabo. Romanzi e prima andi santi e feste liturgiche sono raccolte in corposi codici come cora epica e chanson des geste, si affiancano ai libri di diritto, quello messo insieme da Jacopo da Varazze che ebbe diffusione di storia, alle vite dei santi, offrendo a un pubblico illetterato vastissima in Europa con oltre mille manoscritti e più di settanta racconti in cui riconoscersi. Ci sono Iliade e Odissea, ma anche edizioni a stampa. il Guerin Meschino di Andrea da Barberino, il ciclo brettone, il Insieme alla Commedia di Dante, la lirica di Petrarca e la narraciclo carolingio e i poemi cavallereschi di Ariosto e Boiardo. La tiva di Boccaccio costituiscono il primo canone della letteratura Biblioteca Vaticana conserva un manoscritto italiana e rappresentano per secoli un che contiene quattro famosi romanzi in verpunto di riferimento essenziale per si, fra cui il Lancelot di Chrétien de Troyes, l’intera letteratura europea. Nel 1482 il più importante romanziere medievale. Il a Venezia si stampa la Geometria di suo mondo arturiano ha nutrito per secoli il Euclide, giunta in Occidente attraversistema dell’immaginario collettivo europeo. so le traduzioni arabo-latine, antefatto La lirica moderna europea nasce alla corte capitale per lo sviluppo della scienza del duca d’Aquitania Guglielmo IX (1071 – europea. Ma ci sono anche altri libri 1126), il primo trovatore. Conquista la Franfondamentali come Le Prose di Pietro cia del Sud e del Nord, quindi l’intera Europa Bembo, atto di nascita dell’italiano cortese, la Germania, la Spagna, la Catalocome grande lingua letteraria d’Eurogna, l’Italia settentrionale, la Corte siciliana pa, punto di riferimento essenziale per dello “stupor mundi” Federico II. È un gei letterati fino a Manzoni. Ed accanto nere musicato che si presta all’intrattenimenagli autori ecco gli editori come Aldo to, che ha al centro l’amore e la politica. Un Manuzio, che pubblicò libri tascabili e amore che non ha più nulla a che vedere con dette alle stampe l’Hypnerotomachia quello classico, marcato com’è dalla cultura Poliphili, testo e figure insieme, mescocristiana. Una lirica che viene riunita in granlando temi e simboli, lingue moderne di raccolta antologiche, Canzonieri trobadoe antiche come accade nei sogni. Tutti rici francesi, provenzali, galego-portoghesi. questi libri hanno un humus comune Ma fra il XIII e il XV secolo si registra anche e costituiscono le basi della cultura euun grande fervore religioso che soprattutto ropea e, anche se non c’è un’unica linnell’Italia centrale dà vita a una diffusa e ca- Dante Alighieri, Commedia Bologna? 1355-1360 gua, c’è questa grande letteratura in cui Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e pillare produzione di laude, componimenti rintracciare le radici dell’identità. Corsiniana, 44 G lirici destinati al canto delle confraternite, a Foto © Accademia Nazionale dei Lincei 55
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JOMMI DEMETRIO La storia La Ditta “Jommi Demetrio” inizia la sua attività nel 1970 quando l’attuale titolare, dopo aver fatto esperienza per un lungo periodo nelle aziende di più antica tradizione di Montappone, decide di mettersi in proprio. Nei primi anni si presenta sul mercato nazionale con una vasta gamma di articoli nella linea classica. Da lì parte un graduale sviluppo che vede allargarsi ed arricchirsi sempre più le tipologie di lavorazione, la struttura produttiva e le collezioni che si compongono anche di capi estrosi ed elaborati per importanti defilé di moda. Nel 1984 viene avviata un’attività di commercializzazione di cappelli estivi ed articoli da mare lungo la costa adriatica. Attualmente la “Jommi Demetrio” è una delle realtà più importanti del settore in diverse regioni. Il continuo aggiornamento e il moltiplicarsi di iniziative imprenditoriali, insieme a una curata attenzione al prodotto, rendono l’Azienda ancora fortemente competitiva. La produzione Dedicata per la maggior parte agli articoli invernali, la produzione si sviluppa sia sul programmato che sul pronto moda. Gli articoli per uomo, donna e bambino sono di livello medio-fine. Le esperienze tecniche accumulate in tanti anni di attività, la manodopera specializzata, la continua collaborazione con le firme più prestigiose dell’alta moda e del prêt-à-porter, la costante ricerca nella modelleria, l’impiego di materiali eleganti e di qualità, sono gli elementi che rendono la Ditta capace di interpretare i mutamenti delle tendenze e di adattare tempestivamente ad essi le collezioni e la produzione.
Jommi Demetrio
www.jommidemetrio.com
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La politica aziendale Alla base del successo della “Jommi Demetrio” c’è sempre stata l’intenzione di soddisfare i clienti, sia nel servizio che nel prodotto. L’Azienda mira alla competenza per ottenere risultati certi e costanti e ad instaurare rapporti stabili e di reciproca fiducia con chi si rivolge ad essa.
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INFRASTRUTTURE, TRASPORTO E ARTIGIANATO LOCALE di Renato G. Serafini
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opo la metà del XVIII secolo, Nel 1822 si aggiunse l’America che cocon il miglioramento dei traminciò ad importare ingenti quantità sporti e delle vie di comunicazione, dei nostri manufatti tanto da definire per l’attività artigianale di produzione “d’oro” quel periodo per l’imprendidi cappelli, svolta nelle campagne e toria del cappello di paglia in Italia. vincolata a quella agricola, sembrava Con l’intensificarsi degli scambi comfosse giunto il momento di separarsi merciali, molti trecciaioli della zona dal contado. di produzione comprendente l’intero Braccianti, affittuari, mezzadri e proterritorio amministrativo dei comuni prietari di piccoli appezzamenti di terdi Massa Fermana, Montappone, Monra, sparsi in un’area di media collina te Vidon Corrado e Falerone, attratti ben delimitata nel cuore dell’entroda facili guadagni, abbandonarono la Trasporto di prodotti in paglia con la cacciatora: cappelli, sporte terra di Fermo nelle Marche, all’epoca terra per dedicarsi a tempo pieno alla dedicavano gran parte della loro gior- e ventole vendita di cappelli di paglia. nata alla lavorazione della paglia e alla fabbricazione stagionale Negli anni ottanta del XIX secolo, quell’economia così vivace, di cappelli. Per molti di loro, nella convinzione che la produalimentata dal commercio con altri paesi, favorì la nascita delle zione concentrata in singoli stabilimenti in prossimità del paese prime fabbriche e del distretto del cappello. fosse troppo costosa e svantaggiosa, fu per loro più ragionevole I fratelli Iommi, Giuseppe detto Jsè e Natale, agiati possidenti mantenere uno stretto rapporto con la terra perché assicurava terrieri, si occupavano del prelevamento e la consegna dei geun reddito. Inoltre, a chi produceva o commerciava in cappelli neri di monopolio dagli organi di distribuzione per le rivendite consentiva anche di coordinare con minore difficoltà e maggiore e nel contempo curavano con particolare interesse il servizio di convenienza tutte quelle fasi che a partire dalla semina occorretrasporto delle merci su rotaia con partenze settimanali da Porto vano alla realizzazione del prodotto finito. San Giorgio per conto di alcuni cappellifici di Montappone. Per Un’interessante notizia sulla Gazzetta della Marca del 1785 ci gli spostamenti utilizzavano la cosiddetta cacciatora “o prolunga”, fa sapere, che a Massa Fermana venivano prodotti ogni anno un tipo di carro trainato da un singolo cavallo. Il condizionamen136.000 cappelli, altrettanti a Monte Vidon Corrado e a quelli to delle merci, se si trattava di cappelli, avveniva con l’impiego di andava aggiunta la produzione di Montapgrandi ceste di canne e vimini chiuse in alto pone, di Falerone e di Monteverde. con tele di juta, mentre in balle di juta, se si Mentre l’industria italiana del cappello di trattava di trecce o mazzi di paglia. paglia cominciava a registrare un discreto Le famiglie Giuseppe e Natale Iommi abiincremento della produzione, in un primo tavano al piano terra lungo l’attuale bormomento, sfortunatamente, a causa degli go XX settembre di Montappone, mentre eventi della Rivoluzione Francese si verificò nei locali sottostanti, a livello del piano di un significativo calo del flusso di esportacampagna, c’era il magazzino per deposito zioni oltralpe. Queste, che avevano garandelle merci adiacente la stalla. L’attività di tito entrate gratificanti per le aziende, con spedizioniere con il carro, anche se il proNapoleone I, a partire dal secondo decengresso permise il trasporto su gomme, fu nio del XIX secolo si riattivarono di nuoproseguita da Vincenzo, figlio di Natale. vo. Le confezioni di cappelli di paglia nelle Verso la fine del secolo, la struttura urbaMarche, in Toscana, in Emilia Romagna e nistica del borgo sottostante il castello di nel Veneto ripresero vigore, tanto che si riMontappone stava subendo uno sviluppo aprirono con enorme successo i rapporti di consistente tanto da divenire agli inizi del mercato in Francia, Germania e Inghilterra. ‘900 il centro geografico dell’attuale diLe richieste del Made in Italy aumentarono stretto industriale del cappello. Infatti, nel sensibilmente e sempre più persone si denumero 105 della Gazzetta dei Cappelli del dicarono alla lavorazione della paglia. gennaio 1904, venne definito come il cenIommi Giuseppe detto Jsè 58
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Vincenzo Iommi
tro più importante di produzione di trecce e cappelli di paglia. Nel distretto una nuova realtà intanto si stava facendo avanti. Tutti i commercianti e gli industriali che prima avevano grosse difficoltà per spedire i loro prodotti, con l’avvento del trenino a vapore A.F.A. (1908), la cui funzione era di raccogliere passeggeri e merci della Vallata del Tenna per il raccordo con le Ferrovie dello Stato, ebbero gran vantaggio nel convogliare e velocizzare le loro spedizioni dalla vicina
stazione di Falerone. Con il passare del tempo la tecnologia del trasporto migliorò significativamente e negli anni ‘30 fu possibile utilizzare vetture munite di motore. Nel 1936, con un fiat 505 prima e un fiat 507 poi (camioncini di piccola cilindrata), Armando Serafini permise ai fabbricanti di cappelli di effettuare consegne puntuali in tempi più brevi per tragitti più lunghi. Dopo la seconda guerra mondiale, nel rifiorire delle attività commerciali, alcuni abitanti di Montappone: (Gisilfrido Achilli, Armando Serafini, Egidio Miti, Gilfredo Coccetti, Gino Monti e Giuseppe Ruggeri) costituirono nel 1947 una casa di spedizione con autocarri, OM Taurus e 3+D, per facilitare i trasporti quantitativi di interscambio, prevalentemente nel triangolo in stretta relazione commerciale tra Marche, Toscana e Veneto. Il presunto risultato economico non dette soddisfazione ai soci che finirono presto per dividersi. Verso il 1952 fu costituita un’ulteriore società tra Achilli e Monti. Questa nuova ditta, con un camion e rimorchio Fiat 640 di maggiore volumetria, allargò il raggio dell’attività grazie alla grande quantità di cappelli di paglia destinati alle mondine del vercellese.
Stazione di Falerone
Montappone 1947, Autocarro OM Taurus
1954 - Nel Vercellese - Gisilfredo Achilli consegna i cappelli per le mondine
Gisilfredo Achilli in posa con le mondine 59
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QUELL’UOMO ERA MIO PADRE di Mario Donato
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a mia madre morente di allevarmi e accudirmi -. La tomba rano i mesi caldi del 1944 e tutto filava come se l’oggi non fosse come ieri e poi chi lo sa quel che sarà il di mamma, confezionata con marmo bianco, spiccava nel quadrato del camposanto destinato alle sepolture nella domani... terra. I fiori sempre vivi, di ogni colore, erano di campo Mio nonno che con amore ha seguito passo dopo passo l’evolversi della mia infanzia mi ha anche dato molto affetto più di quanto potessi averne bisogno. Mi teneva per mano, mi prendeva in braccio ed insieme guardavamo il sole all’orizzonte. Mi regalava, insieme ad un ottima educazione, la conoscenza del mondo. Abitavo dall’età di un anno e qualche mese, a due passi dai binari del treno della grande ferrovia Torino Milano, da quando mamma Alma era salita improvvisamente in cielo. Il nonno spesso me la indicava lassù oltre le nuvole o fra i cieli tersi ma io non la vedevo. Quasi tutti i giorni andavo al cimitero con il nonno o con la zia Orsola - zia paterna che aveva promesso Mario Donato, in fondo all’aia il Conservatorio della Storia della Risaia 60
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e di giardino. Bello il suo viso incastonato tra la dicitura del nome e delle date di nascita e di morte, molto vicine nel tempo (era molto bella, me lo sono sentito dire tutta la vita). La casa di nonno e degli zii Orsola e Luigi era nei pressi dello scalo merci della stazione ferroviaria, casa rurale, due stanze sovrapposte, fienile e stalla, grande corte che lambiva la massicciata e la recinzione delle ferrovie dello stato. Gli armamenti bellici correvano sui binari nel grande disegno delle strategie belliche, lunghi convogli di armi pesanti e cannoni, truppe, passeggeri e derrate sferragliavano incessantemente a testimoniare la grande tribolazione di un intero continente. Il mio tempo dei miei primi anni di vita lo passavo in cortile o sul balcone a veder passare quel mondo, tanto che il nonno per rendermi tutto più facile mi aveva costruito un osservatorio rialzato con tanto di scaletta e protezione intorno che mi permetteva di curiosare su tutto il movimento ferroviario. Spesso quei ferrovieri e manovratori intenti alle operazioni di scambio mi dedicavano un saluto o mi raccontavano delle storielle. I soldati tedeschi vedendomi piccolino e biondissimo di capelli, mi prendevano in braccio e mi portavano in giro per la ferrovia e mi cantavano ritornelli nella loro lingua. In quelle occasioni zia Orsola era molto vigile, ma gli stessi soldati la tranquillizzavano e le spiegavano che a casa avevano lasciato spose e figliolanza. Sacchi di risone e riso, concimi e sostanze azotate viaggiavano insieme alle mondine che arrivavano a destinazione e quindi dirottate nei vari cascinali sparsi nella pianura vercellese. Arrivavano in molte soprattutto giovani, vestite di poco e con una valigia piena di sogni, di tocchetti di formaggio e pezzi di pane. Aspettavano a cuore in gola carri agricoli trainati da cavalli che le avrebbero portate tra le risaie della monda. “Donne, ragazze, dal cuore immenso, artefici e ispiratrici del sunto cinematografico dal titolo “RISO AMARO”. La guerra si dilatava e incombeva minacciosa, le risaie subivano mancate semine, le mondine in percentuale lasciavano il lavoro di monda per rinforzare nelle fabbriche le defezioni degli operai mandati al fronte. La ferrovia si popolava di anime erranti, di inseguimenti, attentati e di primi mitragliamenti dal cielo. nel 1944 sempre più mi capitava di soggiornare da zia Teresa e zio Minot. Loro con le due figlie vivevano da lavoratori salariati in un cascinale chiamato Murone, Era la tenuta più grande del territorio, con stalla per bovini, scuderie per cavalli e fienili e dimora del podestà che aveva vetture e il landò. Nella tenuta vi erano i grandi magazzini silos, le tettoie, gli essiccatoi, le botteghe del fabbro, del carradore e del sellaio e poi le grandi aie dove al famoso calciatore Silvio Piola capitava di allenarsi. Là in fondo sul finire delle ampie aie 61
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vi erano i fabbricati destinati a dormitori delle mondariso e delle tagliariso. Inoltre in un grande quadrato, circondato da pali particolari in ferro portanti, si snodavano centinaia di metri di filo spinato governato da soldati italiani in uniforme. Un vero regolare campo di concentramento con all’interno quaranta prigionieri Inglesi comandati ai lavori di stalla e di campagna. Ho mangiato la carne delle loro scatolette, il loro cioccolato; mi prendevano in braccio, abbracci fugaci perché erano prigionieri controllati a vista. All’improvviso appare, non mi dice niente ma mi guarda. Quell’uomo, che ha servito nella cavalleria, Dragone del II Piemonte Reale, reduce delle campagne D’Africa, di Grecia e di Albania era ritornato debilitato da malaria per conquistare adesso il mio affetto.
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CAPPELLI FATTI A MANO a cura di Giulia Bruno
“Gallia e Peter” con le vetrine in Via Montenapoleone 3. Senza mai smettere di creare cappelli la mia nonna, Mariuccia, passata la guerra e arrivati i gloriosi anni ’50 partecipa nel 1953 nel Palazzo Pitti di Firenze alla prima sfilata di cappelli italiani e insieme alle sue amiche sarte Jole Veneziani, Biki, Wanda Roveda, Mila Schön, Gandini diviene la modisteria della “Milano Bene”. Anno dopo anno si susseguono le sfilate nei bei saloni con gli specchi dorati dell’atelier di Montenapoleone e la nonna Mariuccia trasmette gusto e passione a mia mamma Lia e poi naturalmente a me. Crescendo vedo nascere gli stili hippy, punk e folk e le nuove generazioni di stilisti, si chiamano Walter Albini, Giorgio Armani, Gianni Versace, Gianfranco Ferrè, Moschino e Gigli. Sono i gloriosi anni ’80 e proprio con loro inizio le entusiastiche collaborazioni che ancora oggi rendono il mio lavoro ricco d’innovazione. Nel 2010, dopo quasi 90 anni negli storici locali di Via Montenapoleone 3, trasferisco la Gallia e Peter in Via Moscova al numero 60 dove metto a disposizione, con immutato entusiasmo, il mio patrimonio di esperienza e artigianato milanese. (1906 - 1974) Gallia Maria con una sua cliente
La storia di “Gallia e Peter” ha inizio più di cento anni fa, nel 1904 con i miei bisnonni, Angela e Filippo Gallia quando a Torino iniziano la loro attività di modisteria e cappelleria fornitrice della Real Casa. Verso la fine degli anni ’20, la loro figlia Mariuccia si sposa con il figlio della famosa modista milanese Cornelia Peter e si trasferisce a Milano, dove nel 1930, fonda la modisteria
C’è differenza fra cappelleria e modisteria? È importante cogliere da subito la differenza fra cappelleria, negozio aperto al pubblico in cui si trovano cappelli maschili e femminili, già confezionati, prodotti in serie da fabbriche specializzate, e la modisteria, luogo in cui laboratorio e negozio sono complementari, il servizio all’acquirente è prioritario, non esiste uno stile della ‘casa’. La cliente diventa protagonista assoluta dell’attenzione della modista che ne
La modista L. Marelli mentre crea il cappello per la sua cliente 66
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interpreta desideri ed esigenze, costruendo il cappello solo per lei. La modista può lavorare su un unico capo anche più di dieci ore, senza contare il tempo passato per la scelta del modello e le prove. E il lavoro è svolto tutto rigorosamente a mano. Le modalità di lavoro sono cambiate nel tempo? Inoltre quarant’anni di lavoro, abbiamo seguito i mutamenti del gusto, e anche la nostra manualità si è evoluta; sempre uguali sono rimaste le tecniche di base e gli strumenti che usiamo, i ferretti speciali o i minuscoli ferri da stiro: alcuni appartenevano alla bisnonna Angela. Non facciamo uso di tecnologie avanzate, inutili per i nostri prodotti, limitati e di nicchia. Recentemente, però, abbiamo cominciato ad usare una forbice elettrica. Quali sono gli aspetti specifici della vostra bottega? Il laboratorio è caratteristico per la sua disponibilità. Sparita
Laura Marelli nel suo laboratorio in via Moscova
la produzione per la modisteria, adattiamo il materiale alle esigenze di lavorazione: per esempio, per realizzare accostamenti particolari, tingiamo o verniciamo a mano i tessuti oppure andiamo alla ricerca di strane penne esotiche. Sono scelte dettate da tradizioni molto vecchie, quando la passione del saper fare il cappello perfetto era l’essenza del lavoro. Ci occupiamo personalmente di ogni aspetto del prodotto, che deve essere d’altissima qualità, accompagnato da un impeccabile servizio alla persona. È la mentalità dell’artigiano italiano, nato tale, erede di un’orgogliosa tradizione familiare. I giovani sono attratti da questo tipo di lavoro artigianale? Anche se oggi si nota una certa ripresa del lavoro artigianale, nella maggior parte dei giovani che frequentano stages semestrali presso questo laboratorio è raro trovare l’atteggiamento dell’artigiano di una volta. L’ambizione può essere grande ma una diversa cultura, anche a livello universitario, scarso guadagno e difficoltà reali spingono verso prospettive differenti. Nel mondo del cappello e della modisteria esistono sistemi di lavoro più redditizi, con investimenti di marketing e comunicazione, magari all’estero. I prototipi dei cappelli di Laura Marelli, alcuni ispirati alle opere d’arte dei maestri del futurismo, sono richiesti per le sfilate dei più importanti stilisti italiani e internazionali e per la presentazione di famosi marchi di bellezza. D’altra parte, quando si nomina la bottega artigiana Gallia e Peter si pensa semplicemente al cappello di grande qualità.
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CAPPELLI CHE HANNO FATTO LA STORIA di Luigi Mascheroni
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hi sarebbe Napoleone Bonaparte senza il cappello bicorno? O Giuseppe Garibaldi senza la berretta floscia? O Ernesto Che Guevara senza il basco nero? La rivoluzione è sempre qualcosa che parte dalla testa. Luigi Mascheroni E non solo nel senso delle idee. Ma anche il conservatorismo, a pensarci bene. L’Inghilterra si sarebbe fidata di Winston Churchill anche se non avesse portato, con sicurezza e coraggio, il suo Homburg? L’uomo è anche ciò che indossa. E i grandi uomini, di solito, indossano icone. Dalla tuba di Abramo Lincoln al fez di Benito Mussolini fino ai territori del sogno e delle favole di celluloide: il borsalino di Humphrey Bogart in Casablanca o quello, versione fedora, di Harrison Ford nella parte di Indiana Jones, o il cilindro di Willy Wonka esibito con sfrontata infantilità da Johnny Depp. Poi, c’è la letteratura: il deerstalker di Sherlock Holmes, il cappello a tre piume di Cyrano de Bergerac, la bombetta del commissario Maigret... Il cappello è capo di abbigliamento, protezione fisica, indumento polisemico, icona (e anche strumento di propaganda politica: il simbolo dell’impero yankee, per i suoi nemici, è un cappello: il berretto da baseball). E le icone, patrimonio immaginario di tutti, quando qualcuno le vuole comprare solo per sé, costano caro. Un esemplare del celebre cappello a due punte di Napoleone Bonaparte, nero e in pelle di castoro, è stato venduto a Parigi per 1,8 milioni di euro. A comprarlo, ha riferito la casa d’aste Osenat, è stato un uomo di nazionalità sudcoreana. Elegante melting pot iconico. Il copricapo bicorno è uno dei 19 esemplari lasciati dall’imperatore alla sua morte e che si conservano ancora oggi al mondo. Faceva parte della collezione di Palazzo del Principe di Monaco. A proposito di pezzi storici. Nel 2012 la bombetta che Charlie Chaplin indossava quando interpretava il vagabondo Charlot fu battuta per 58mila dollari (mentre il bastone fu acquistato a meno, 42mila). Uno dei famosi cappelli di feltro nero fedora di Michael Jackson nel 2009 è stato venduto all’asta per 22mila dollari. E tra cinema, leggenda e storia, the green beret di John Wayne, simbolo del bellicismo patriottico americano, due anni fa è stato 68
acquistato insieme con altri oggetti dell’attore per 180mila dollari. A dimostrazione che anche il mito ha un prezzo. Ma non l’eleganza. Presente in tutte le civiltà, dagli antichi copricapi egizi alla «paglietta» a tesa corta hipster-style di oggi, il cappello è un simbolo culturale che segna l’appartenenza, è un codice comunicativo, dichiara una visione del mondo ed è metafora della creatività individuale. Per pochi, parla a tutti. E il fatto che l’uomo - a differenza delle donne che lo ostentano - non lo indossi più, o quasi, significa che stiamo perdendo la memoria della nostra storia e un certo senso della bellezza. Che il capello sia un simbolo, e non un semplice accessorio, del resto, ce lo insegna uno degli uomini più autorevoli del mondo, che poi è una donna. La regina Elisabetta, la quale nel corso del proprio regno ha indossato 5mila cappelli. Diversi. Ma che rappresentano sempre la stessa cosa. Una corona.
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THE QUEEN’S MILLINER a cura di Belinda Formentini
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achel Trevor Morgan nasce nel West Midlands, a Stourbridge. Fin da bambina sogna di fare l’attrice, di seguito sviluppa un forte interesse per il teatro e inizia ad appassionarsi all’arte della modisteria. A soli 19 anni si trasferisce a Londra per diventare modista. Inizialmente apprende il suo lavoro dal celebre cappellaio britannico Graham Smith, che ha vestito le teste di Joan Collins, Elizabeth Taylor e della principessa Diana... Per tre anni segue la sua opera con altre 14 ragazze nello studio di Oxford Street. Dopo aver acquisito le principali tecniche di base del disegno a mano libera si perfeziona ancora per due anni lavorando per un altro cappellaio famoso: Philip Rachel Trevor Morgan Somerville. Nel 1990 decide di iniziare a lavorare per proprio conto vendendo i suoi disegni e i suoi lavori su una bancarella al mercato di St. Martin-in -the-Fields Church fornendo tra gli altri anche i negozi londinesi di Fortnum & Mason, Harrods e Selfridges. Già due anni dopo apre la sua attività in uno studio del XVII secolo in St.James’s e nel 1998 il suo nome è incluso dal Times nella lista di modiste a Londra insieme a nomi quali Frederick Fox e Stephen Jones. Tra l’altro Rachel collabora tuttora con diversi designer di tutto rispetto come Caroline Charles, Stewart Parvin e Bruce Oldfield, con i propri disegni di modisteria che vanno a
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completare le loro collezioni. Nel 2006 inizia a collaborare, creando 6 disegni, con il team che veste la Regina, la quale ha indossato il primo dei suoi cappelli per il suo 80° compleanno. Da quell’anno Rachel creerà per lei circa 60 cappelli con una media di 10 l’anno fino al 2012. Nel 2014 a Rachel viene conferito un mandato reale e ultimamente lavora anche per altri membri della famiglia reale britannica tra cui Catherine, la Duchessa di Cambridge. Rachel Trevor Morgan non si limita a questo ma fornisce ancora dei negozi a Londra come Fortnum & Mason oltre che creare cappelli per altri clienti. E’ diventata famosa per la passione che mette nel suo lavoro manuale e di design e crea cappelli rigorosamente fatti a mano per le boutiques in tutto il Regno Unito oltre che curare l’esportazione negli Stati Uniti e in Giappone; infatti con la sua attività offre un servizio clienti senza pari. Dal 1997 inoltre ha una propria collezione sposa con la quale nel 1999 ha vinto il prestigioso premio del Headdress Designer Award. Il suo approccio al copricapo da sposa offre un’alternativa alla sposa moderna: difatti la sua gamma da sposa è nota per le sue morbide piume e per i suoi fiori.
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VITTORIO FAVA ED I SUOI LIBRI di Stefania Severi
Vittorio Fava mentre illustra uno dei suoi libri.
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l titolo “Vittorio Fava ed i suoi libri”, potrebbe indurre a pensare che l’argomento sia uno scrittore, ma nel caso specifico i libri sono di un artista. Vittorio, romano di nascita ma che ha scelto per vivere Poggio Nativo, un piccolo paese della provincia di Rieti, pur giunto ad onorata pensione, dopo anni di insegnamento di materie artistiche nelle scuole dello Stato, continua a fare libri. Da sempre, infatti, ha svolto una intensa attività espositiva, non solo in Italia, approdando d’ultimo alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ma anche all’estero ed in particolare in Olanda, dove le sue opere-libro sono particolarmente apprezzate. Cosa fa Vittorio Fava? Fa sempre ed esclusivamente libri. Se vi allunga il suo biglietto da visita, questo in realtà è un piccolissimo libro in cui ha segnato i suoi riferimenti. A domandargli come questa passione sia nata in lui, va indietro nel tempo, a quando era ragazzo: «Tra le origini della mia passione dell’oggetto “libro” è da ricordare la mia partecipazione al recupero dei libri e manoscritti antichi appartenuti ai Medici durante l’alluvione di Firenze nel 1966. 72
Probabilmente aver avuto un contatto diretto, pagina per pagina, con questi manoscritti salvati dal fango ha lasciato un’impronta indelebile negli anni artistici successivi.» Ci parla del suo primo libro: «Il mio primo libro da artista nasce nel 1982 e fu realizzato con la tecnica di incisione su quatto lastre di rame, con il riporto di un lungo testo sull’acqua che è stato necessario, per renderlo leggibile nella stampa, riportare alla rovescio sulla lastra con l’uso di una carta copiante bianca. La stampa è stata eseguita sia in positivo che in negativo, il primo con una scrittura scura su fondo chiaro, e il secondo con una scrittura chiara su fondo colorato». Ma se quel lontano libro è ancora legato alle tecniche da stampa, successivamente Fava ha iniziato a realizzare libri polimaterici. Il termine polimaterico è per lui particolarmente adatto, in quanto è difficile definire altrimenti libri in cui si trovano: legni, cartoni, carte antiche, piume, merletti, frange, frammenti di marmi, oggettini in metallo o in vetro, terracotta, mosaici, stoffe, pergamena, fiori secchi, pelle, collage di figure, vinaccia… Già, anche la vinaccia, infatti i graspi, le bucce ed i semi che restano dalla pigiatura dell’uva, trattati con colla sono diventati la copertina del suo libro “Di-Vino” (cm 25x17x5, 2001), entro il quale troviamo anche frammenti di favi. Le misure dei sui libri variano da piccolissimi a grandissimi. Il più grande è il “Grande Tomo Bianco” del 2006. L’opera, alta due metri, autoportante da terra, è realizzata interamente in carta da acquarello pesante intagliata, battuta e montata su un telaio in legno che permette l’apertura; le pagine interne presentano intagliate alcune lettere degli alfabeti antichi. L’opera è stata esposta nella Biennale d’Arte di Venezia del Vittorio Fava, Grande libro Bianco
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2011 curata da Vittorio Sgarbi, nel padiglione della Regione Lazio a Palazzo Venezia. Così Fava descrive il suo libro su “Gerusalemme”: «Il libro, di cm 40x25x10, nasce da una mostra a Tel Aviv sui libri e da una relativa visita alla città di Gerusalemme. La copertina del libro è una incrostazione di materiali vari, tra cui, alabastro, monete antiche, frammenti di pasta vitrea e un fregio con la scrittura ebraica. All’interno il libro, che era in origine un album fotografico dell’Ottocento, in uno scavo delle pagine, è una Torà ebraica antica recuperata da un rigattiere nella parte antica di Tel Aviv. La base di appoggio è costituita da scarpe di donna, ricoperte da scrittura ebraica, trasformate in leggio.»
Ed ecco la descrizione del suo libro “Alchimia”: «L’opera, che è di cm 50x70x30, consiste in un contenitore di pelle antica del Settecento, che era la copertina di un libro mastro recuperata in un mercato di libri antichi. In copertina ci sono inserimenti polimaterici di marmi, monete antiche orientali, frammenti di vetro antico, ed un fregio di farmacia antico raffigurante una figura demoniaca. La prima pagina rappresenta la biblioteca tridimensionale di un alchimista del Seicento, con alambicchi di vetro, carte antiche latine, arabe, ebraiche ed indiane, le pagine successive sono costituite da manoscritti del Settecento bruciacchiati alla brace del camino. Nella parte finale del libro una sorta di scacchiera tra l’amore e la morte, con veri scacchi, accompagna alcuni oggetti alchemici, tra cui un rotolo di vecchia stoffa, con un disegno creato da timbri con scrittura ebraica.» Il “Grande libro di Musica Antica”, cm 80x80x20, è stato costruito sulla dimensione di un antifonario, un libro di musica sacra del Seicento. La copertina è in legno con note quadrate di uno spartito musicale realizzate con un intarsio di legni di vari colori; il dorso è costituito da un tessuto antico cinese con incrostazione di pietre dure. L’interno è tutto sul tema della musica ispirata alle stagioni e alla natura, con fiori e foglie essiccati come un antico erbario e con un fregio di cornice antica che fa da arpa per degli inserti di scritture antiche e fregi Vittorio Fava, Grande libro di musica antica (aperto) di libri. Fava disegna, crea accostamenti inediti, elabora, scrive anche: nel suo libro dedicato a Roma ha scritto una poesia alla maniera di Trilussa, una nello spirito di Belli ed una nello stile di Petrolini. È indubbio, i suoi libri affascinano ed invitano a sfogliarli alla scoperta dell’imprevedibile. Ma è altrettanto evidente che ogni libro ha la sua storia. E la storia si comprende molto più chiaramente che se fosse scritta con le parole, perché l’immagine è sempre estremamente evidente e arriva all’osservatore con grande empatia. 73
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IL MURALISMO-UN’ARTE DI STRADA Di Nanda Anibaldi
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l titolo non ci deve depistare. Non vuole essere riduttivo. E’ usato nel senso che non è un’arte d’Accademia ma in quanto si esprime nelle strade, nei punti nevralgici dove la gente vive, lavora, cammina, dove svolge i suoi affari. E quindi un’arte per tutti. Anche per quelli-o soprattutto-che non vanno nei musei. A questa invece non si può dire di no. Ti viene incontro. Ti provoca. Ti stimola. Interloquisce con il passante, anche con quello più distratto. Nasce in Messico dopo la rivoluzione del 1910. Ma ha le sue radici in un’arte antica. Un’arte che sostituiva la parola espressa per lo più con la tecnica dell’affresco. Nell’intenzione era soprattutto un esercizio di scrittura, di comunicazione, però di grande abilità artistica. La si può far risalire addirittura al paleolitico. Era un’arte per parlare. Per dare informazioni. Ma anche per pregare e per propiziarsi il cibo. A risalire nel tempo, Pompei ne è un esempio illustre. Soprattutto si sopperiva alla incapacità di coniugare le varie lingue provenienti da diverse culture. L’immagine invece veniva subito captata e immediatamente tradotta. Nell’Europa medioevale i grandi affreschi delle cattedrali erano Biblia pauperum. I libri dei poveri. Di quelli più incolti. Di quelli che non sapevano leggere. Allora la cultura costava molto e solo i più ricchi potevano permettersela. L’immagine, passando attraverso l’occhio, è più immediatamente comprensibile e accattivante, visto anche che ci lavoravano artigiani-artisti esperti nel colore e nella figura. L’Italia non fece eccezione. Anzi, era ed è un punto di riferimento obbligato. I grandi muralisti messicani, Siquiero, Rivera, Orozco e Tamayo ci sono venuti per conoscere e fare esperienze. Rivera fra il 1920-21 visita Roma-Firenze-Ravenna accumulando bozzetti, schizzi, idee. Stimolato ed estasiato dall’arte italiana, torna in patria con nuove intuizioni che svilupperà nelle sue opere pittoriche e murali. Le tecniche erano inizialmente quelle antiche dell’affresco. Successivamente usarono i prodotti industriali e vernici a rapida es74
siccazione. Stessa tecnica dei graffiti americani - writing - che consistevano nello scrivere il nome di battaglia sui muri del proprio quartiere e sui vagoni della metropolitana (New York fine anni 60 ed inizio anni ‘70). Sono la storia di ragazzi emarginati che si ribellano e la rabbia si trasforma in energia creativa. Se i graffiti e i murales come espressione artistica si differenziano, entrambi nascono però da una protesta. Da un malessere sociale.
Si diffondono in Europa e in Italia a macchia di leopardo. Il periodo è quello caldo - dei cosiddetti anni di piombo (anni’70 /’80) -. Anni dell’estremizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza nell’attuazione della lotta armata e atti di terrorismo. La Sardegna è la patria del muralismo italiano e Orgosolo ne rappresenta la capitale. Ospita infatti circa 200 murales che stimolano il turismo culturale. Il primo murale fu firmato” Dioniso” nel 1969, nome collettivo di un gruppo di anarchici provenienti dal Continente. Per lo più rappresentavano il disinteresse nel quale la Sardegna era lasciata dalle Istituzioni. Comunque preesistevano già quelli che raccontavano la vita dei pastori e la cultura della gente che vi abitava sparsi qua e là senza un progetto precostituito. Per gli insulti del tempo alcuni sono andati distrutti, altri restaurati. Oggi, per evitare che vadano perduti sono protetti.
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Lo scultore Arnoldo Anibaldi s’inserisce proprio in quegli anni e in quel clima. Viene invitato, ancora studente d’Accademia, da alcuni suoi amici di Orgosolo con cui frequentava Le Case del Popolo fiorentine dove discutevano e si confrontavano sui fatti del giorno e sulle problematiche politiche scaturite dalla contestazione. E’ lì che fa il suo primo murale, esprimendo la sua ribellione e il suo senso di libertà con figure dal volume esplosivo, la migliore qualità dello scultore. Ma l’esperienza di questa pittura all’aria aperta, di questa pittura di caratura sociale, non finisce qui. Nel 1978 gli viene affidato dall’ amministrazione comunale di allora l’incarico di fare una pittura murale in una parete della Porta del Sole, la più antica via di accesso al Castello di MONTE Urano (FM), paese dove Arnoldo Anibaldi è nato e dove tuttora vive. Invita a collaborare un collega del Liceo artistico di Cassino, dove l’Anibaldi insegnava modellato, scultura, disegno, sul tema CONTRO IL TERRORISMO-CONTRO IL TERRORE-CONTRO LA VIOLENZA. Insieme ad Elmerindo Fiore (sperimentatore e innovatore nell’arte e nella poesia) inizia un sodalizio artistico. Ricorda la difficoltà della progettazione per il fatto che in quel momento erano lontani e non si poteva comunicare con i mezzi di oggi. Quindi prepara bozzetti che fotografa con la Nikon F comprata a
Firenze da Bongi (unico rivenditore italiano, forse la terza venduta in Italia). Si spedivano queste stampe fotografiche sulle quali facevano i loro interventi. Poi Elmerindo viene a Monte Urano per la realizzazione. Lavoro fatto a quattro mani con un continuo interscambio fino al giorno dell’inaugurazione prima delle ferie di agosto. Il murale di Monte Urano è tra i primi in Italia. C’erano esperienze qua e là ma assomigliavano più al graffitismo americano che al muralismo messicano. Cioè più allo spontaneismo del gesto che al gesto organizzato. Purtroppo quell’opera oggi non c’è più per delle indebite sovrapposizioni. L’arte va protetta e non è stato fatto. Tuttavia quel murale è testimoniato da ampio materiale fotografico. Una memoria storica che ha un valore non solo per il paese ma per gli artisti che l’hanno realizzato sfidando anche l’opinione pubblica e le inevitabili incomprensioni sia per le scelte formali che stilistico/concettuali. Inoltre esprime un momento di acceso dinamismo politico a cui ciascuno ha dato il suo contributo. La storia di un paese, di un popolo ha delle connotazioni ben precise a cui ricorriamo quando pensiamo di averne perduto le tracce. Se così non fosse è come se non fosse mai stato.
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GIU’ IL CAPPELLO: PASSA IL CINEMA di Lorenzo Pellizzari
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uando nemmeno il cinque per cento degli italiani sapeva pronunciare correttamente la parola “Far West” ed esitava tra farvest e farveste, al cinema - come opzione linguistica - si andava a vedere i film dei “cappelloni”. Un discorso sul cappello non può che cominciare di qui: da un “genere” dove il copricapo diventa parte per il tutto, come è già tutto per la parte, ovvero per il ruolo.
Buffalo Bill
Nel West e dintorni risultare privi di cappello equivale a trovarsi in una limitata serie di situazioni: 1. essere sul punto di compiere una dichiarazione d’amore o una richiesta di matrimonio (occasione rara, giacché da quelle parti prevale l’amicizia virile); 2. presenziare all’orazione conclusiva di un funerale (occasione frequente - giacché da quelle parti la vita media ha una durata irrisoria - ma risolta sbrigativamente); 3. essere morti; 4. essere stati sbalzati di sella; 5. appartenere a categorie marginali.
Nel primo e nel secondo caso, il cappello non è assente ma semplicemente viene tenuto con due dita all’altezza del cuore; nel terzo, viene deposto al centro del petto da mano amica; nel quarto, ritorna il più rapidamente possibile al proprio posto, prima ancora che ci si preoccupi di recuperare la Colt o il Winchester; nel quinto - servi, indii, meticci, neri, mendicanti, folli e altri ruoli accessori -, all’assenza di uno Stetson si provvede comunque con qualche altro segno distintivo che ricopra o evidenzi il capo, non foss’altro che una particolare capigliatura o acconciatura. Il tramonto del western - giusta conseguenza del tramonto del West e poco dopo del tramonto dell’intero Occidente - ci ha privato di molti cappelli, come se essi fossero stati trafitti dalla freccia di un indiano, spazzati via da un tornado, portati lontano dall’impetuosa corrente di un fiume o semplicemente appesi a un chiodo assieme alla cartuccera e agli speroni. Altri status symbols hanno prevalso, altri elementi di conforto prestigio - potere (l’automobile, per esempio, che è una sorta di cappello che non si indossa ma da cui si viene indossati) sono sopraggiunti a caratterizzare sullo schermo eroi e comprimari. Resta però il dubbio su un possibile effetto biunivoco: il cappello del West è una trasposizione avventurosa del cappello borghese e contadino portato da secoli nella realtà quotidiana o è vero piuttosto il contrario, cioè che per qualche decennio tanta invasione di cappelli cinematografici ha ritardato la scomparsa - data per inevitabile - del
Fred Astaire
copricapo dalla vita di tutti i giorni? E’ l’eterno problema: fin dove il cinema si rifà all’esistente e da che punto l’esistente si richiama al cinema. Il caso del copricapo non fa eccezione, si tratti del cappello a cilindro (Fred Astaire) o della casquette ( Jean Gabin), del panama (Alec Guinness) o del basco (Michèle Morgan) della lobbia o
Jean Gabin 77
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guerra di Spagna (mediata magari da Per chi suona la campana, Sam Wood, 1943), ai suoi reduci (eternati dalle sceneggiature di Jorge Semprun), alla
Michèle Morgan
Cesare Zavattini
della paglietta, della formaggella o del Borsalino. Prendiamo in considerazione quest’ultimo. Ha avuto l’onore, dopo essere apparso anonimo infinite volte - si sa, al cinema la sola pubblicità che conta è quella di sigarette e aperitivi - di dare il titolo a un film (Borsalino, Jacques Deray, 1969) e al suo sequel (Borsalino & Co., Jacques Deray, 1974), ma più come reperto del passato che come possibile moda indotta (figurarsi, poco dopo il Maggio francese...). Quando i film con Delon e Belmondo sono diventati a loro
Chi li ha considerati come massima aspirazione di elevazione sociale e chi li ha dipinti come bieco simbolo del nemico di classe. Esaltati nella commedia e nel dramma borghese, sono volati al vento nelle fantasiose evocazioni di René Clair (A noi la libertà, 1931) o rimasti vuoti simulacri nelle allegorie storiche di Sergej Michailovic Ejzenstejn (Ottobre, 1927). Il cilindro è decaduto a copricapo del Negus d’Etiopia nelle caricature fasciste o di qualche capo cannibale in film africani di maniera: la bombetta è
Vladimir Sokoloff
tradizione socialista (valga per tutti Pietro Nenni) o magari cinematografica (pensiamo almeno a Cesare Zavattini); ma poi, quando il cinema italiano
Pietro Nenni Jean Belmondo e Alain Delon
volta reperti, il cappello in questione è di nuovo tornato in auge, e resiste bene, nonostante l’incauto e volgare stravolgimento posto in essere da Warren Beatty (Dick Tracy, 1990). Prendiamo - su tutt’altro versante - il basco. Per un po’ questo copricapo, tipico di un’etnia transnazionale ma limitata, è apparso glorioso, grazie alla 78
l’ha imposto a personaggi perdenti o ridicoli, a falsi intellettuali (sul tipo Leopoldo Trieste) o a veri marpioni (sul tipo Alberto Sordi), è diventato importabile. Prendiamo infine il cappello a cilindro o la bombetta. Sono nati, anche al cinema, come emblema dell’aristocrazia o della finanza, quindi del capitalismo e delle sue élites.
Alberto Sordi
finita a coronare la dignità proletaria di Charlot o a caratterizzare qualche capo pellerossa in vena di conversione. Entrambi out, in definitiva: se a salvare
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menzione soltanto Un cappello di paglia di Firenze (René Clair, 1927) che appartiene alla pochade, Il cappello a tre punte (Mario Camerini, 1934) che appartiene al romanzo picaresco, Il cappello da prete (Ferdinando Maria Poggioli, 1943) che appartiene al dostoevskismo lombardo, Un cappello pieno di pioggia (Fred Zinnemann, 1957) che appartiene al
Charlot
il salvabile, anzi a sublimarlo, non fosse intervenuto lo spettacolo di varietà, dove il “cappello a cilindro” fa la sua splendida figura in tanti musicals (a cominciare appunto da Top Hat, Mark Sandrich, 1935) e la bombetta fa la fortuna dei comici d’avanspettacolo (dal primo Totò agli autentici fratelli De Rege o al loro remake posto in essere da Walter Chiari e Carlo Campanini), come la paglietta ha fatto quella degli chansonniers (da Maurice Chevalier a Nino Taranto). Una questione di autentico protagonismo.
Berretti rossi (Terence Young, 1954) e addirittura in esecrabili Berretti verdi ( John Wayne, 1968), risalire la china grazie a un Casco d’oro ( Jacques Becker, 1952) che però indica soltanto, con splendida metafora, la bella capigliatura di Simone Signoret. Già, le donne. Con i loro cappellini (e cappelloni) sono destinate a impreziosire ogni genere di pellicola, da L’arrivée du train en gare de La Ciotat (fratelli Lumiére, 1895) ove sui marciapiedi della stazione la moda femminile del tempo è ben rappresentata, a tutti i film di quel vero e proprio feticista del copricapo che è Federico Fellini (basti pensare a Otto e mezzo, 1963, o a Giulietta degli spiriti, 1965). Simboli di occultamento
Nino Taranto
teatro-verità anni ‘50. Ma il cinema non può assumersene l’intero merito, giacché i tramiti sono rispettivamente
M. Mastroianni con F. Fellini
Fred Zinnemann Maurice Chevalier
Di cappelli protagonisti di film a cominciare dal titolo, non ve ne sono invece molti. Oltre al citato Cappello a cilindro, meritano piena
Eugène Labiche, Pedro de Alarcòn, Emilio De Marchi e il più modesto Michael Vincent Gazzo. Scendendo più in basso, ci si può imbattere in uno pseudoesotico Sombrero (Norman Foster, 1953), incappare in patriottici
e di seduzione, di predominio e di inibizione, di esibizione e di mascheramento, di femminilità esasperata o di mascolinità repressa, essi però annichiliscono non appena muniti di un semplice accessorio: la veletta, quella lieve e impalpabile cortina che funge da effetto flou ma soprattutto da falsa barriera al desiderio (Marlene Dietrich insegni). Il copricapo femminile, che fino a un certo momento serve a distinguere le donne perbene o permale da quelle insignificanti, anche nel cinema è sacro. Proprio per questo - benché 79
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in molte circostanze si palesi la sua già evidente scomodità - viene difeso dalla donna e rispettato dall’uomo, a costo appunto di ogni sacrificio. Lo si tutela sino all’ultimo in perigliose traversate del deserto o della giungla; se si impiglia in un ramo o finisce in un canale, ci si cimenta in acrobazie per recuperarlo; si sfida persino il senso del ridicolo nell’accompagnarsi a chi ne indossa di troppo vistosi o stravaganti. Il cappellino ricambia con i segnali che gli sono propri: il modo adottato da una donna nel toglierselo è l’indicazione più esplicita riguardo a un rifiuto o una disponibilità. A seconda dei tempi e delle licenze, a questo primo gesto può seguire un elaborato strip-tease che nulla cela alla vista dello spettatore oppure una pudica dissolvenza che tutto lascia alla sua immaginazione. Meno fortunato e più duttile il cappello maschile. Si presta a usi impropri
Marlene Dietrich
(raccogliere acqua piovana in situazioni di emergenza, accompagnato dalla smorfia amara di Humphrey Bogart), a sotterfugi (essere innalzato al di sopra di un riparo per individuare la provenienza del fuoco avversario, che lasci incolume il Gary Cooper e l’Errol Flynn di turno), a equivoci (essere scambiato per una torta pronta per la glassatura, come accade a Charlot ne Il pellegrino, 1923). Innumerevoli volte 80
Humphrey Bogart
e cappelli di ogni tipo sbucano da ogni film che affiori alla memoria. Tralasciamo le semplificazioni adottate dal cinema, per cui il colbacco (che a Est è una misura protettiva contro il freddo) diventa immediatamente a Ovest una connotazione spionistica e la coppola (che a Sud è una misura protettiva contro il caldo) diventa immediatamente a Nord una connotazione mafiosa. Tralasciamo le trasgressioni che il cinema, mischiando capi e copricapi, si concede, non senza aver almeno ricordato l’apparizione di Anita Ekberg con ampio cappello che sale le scalinate interne della cupola di San Pietro (La dolce vita, Federico
capita che qualcuno vi si sieda sopra, distrattamente o provocatoriamente: per rispondere a un gag ben orchestrato, per indurre alla risata, per dar luogo a una drammatica sceneggiata. Il massimo dileggio si ottiene quando un cappello viene usato come bersaglio da un volatile screanzato o - in variante partenopea - da un pomodoro maturo. E’ quanto accade, ne Il giudizio universale ( Vittorio De Sica, 1961) al vanitoso Cimino ( Vittorio Gassman), il quale ha appena impartito una lezione di look e di filosofia esistenziale (ove un bel cappello nuovo ha giustamente il suo posto) al modesto Coppola (Renato Rascel), possessore di un Jeanne Moreau semplice baschetto. Ma gli esempi possibili sono infiniti Fellini 1959) o quella di Jeanne Moreau con spropositata casquette maschile o baffetti di nerofumo che fraternizza con i due uomini della sua vita (Jules e Jim, Francois Truffaut, 1961). Tralasciamo tutta la buffetteria militare, di cui i magazzini degli studi si sono sempre fatti vanto, ben sapendo che prima o poi faranno comodo: sono il tipo di copricapo che, purtroppo, invecchia meno rapidamente. I canoni estetici degli altri invece invecchiano o sono comunque sottoposti a un continuo restylizing: basta un raffronto tra i rozzi cappelloni di Tom Mix dall’alta cupola e quelli, morbidi e vezzosi, dei Vittorio De Sica western più recenti; tra le lobbie dei
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gangster del primo Scarface (Howard Hawks, 1930) o dell’ultimo (Brian De Palma, 1983); tra le invenzioni di Adrian, destinate a restare uniche
- quelli che ormai si avviano alla sessantina ma reggono ancora le sorti della produzione - si adeguano. La crisi degli anni Sessanta - quella del cappello, intendo - inizia di qui, dipenda dalla vita o dal cinema poco importa. Con un’ultima avvertenza. Mentre i personaggi, orbati del copricapo, diventano sempre più insignificanti, i registi assumono il cappello o qualche curioso berretto come simbolo di una volontà di potenza che vorrebbe non
Welles e ora mutuata, ciascuno a suo modo, dal mago Fellini o dal demiurgo Bertolucci. Scortati dagli
Orson Welles
Tom Mix
impavidi fratelli Taviani che, a livello di copricapo, tentano ancora la conquista del Palazzo d’inverno di sotto ai loro berrettini leniniani.
anche fuori dello schermo, e le trovate di Armani, rassegnate alla più ampia riproducibilità. Tralasciamo, anche grazie a un’improvvisa folgorazione: e se lo spartiacque tra il cinema classico e cinema contemporaneo fosse determinabile proprio attraverso la presenza o l’assenza del culto del cappello? Guardate Jean-Luc Godard: in Fino all’ultimo respiro (1960) JeanPaul Belmondo indossa ancora, sia pure in modo sbarazzino, il cappello di papà, ma è forse l’ultimo personaggio del regista francese a farne uso. In tutta la nouvelle vague si va a testa nuda e presto i giovani di ogni cinematografia
avere limiti. Lo assumono proprio nel senso che molti di loro se lo pongono in testa e non lo mollano più, almeno sino a quando sono sottoposti al fuoco delle fotografie promozionali. Una tattica - quella di un look inconfondibile e di un coronamento sovrastante - già insegnata dal vecchio Orson
Jean-Paul Belmondo
Vittorio e Paolo Taviani
Bernardo Bertolucci
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“MUSEO VIAGGIANTE UNICO AL MONDO” Enzo Ferrari di Renato G. Serafini
"MUSEO VIAGGIANTE UNICO AL MONDO" Enzo Ferrari di Renato G. Serafini
Piazza del Popolo, considerata tra le più belle d'Italia, il 20 maggio 2016, per la prima volta è stata attraversata da iazzaesemplari del Popolo, trahanno le più partecipato belle d’Italia, ilo modelli di considerata vetture che 20 maggio 2016, per la prima volta è stata attraversata risultavano iscritti alla Mille Miglia di velocità. modelli esemplari diedizione vetture che hanno partecipato Ladatrentaquattresima rievocativa della o risultavano iscritti alla Mille Miglia di velocità. manifestazione di auto storiche ha portato a Fermo rievocativa e La neltrentaquattresima fermano - con edizione collezionisti e vipdella manifestazione di auto storiche ha portato a Fermo e nel provenienti collezionisti daifermano cinque- con continenti - lee vip 140provenienti vetture di dai cinque continenti - le 140 vetture di prestigio parteciprestigio partecipanti al tributo Ferraripanti al tributo Ferrari-Mercedes prima del momento Mercedes prima del momento clou rappresentato clou rappresentato dai 450 equipaggi in un percorso dai 450 equipaggi in un percorso lungo1600 Km. lungo1600 Km. In occasione del passaggio della 1000 In occasione del passaggio della 1000 Miglia nel Miglia nel fermano, considerata unica nel suo genere e fermano, considerata unica nel suo genere e uno dei uno dei più importanti eventi a livello internazionale depiù importanti a livello internazionale dedicato dicato alle autoeventi d’epoca, la Ferruccio Vecchi, presente nel alle auto d'epoca, la Ditta Ferruccio Vecchi, presente nel centro storico di Fermo con i suoi copricapo di raffinata precentro storico condii promozione suoi copricapo di raffinata gevolezza, ha di fattoFermo un regalo e visibilità a tutto il pregevolezza, ha fatto un regalo di promozione e visibilità a comparto marchigiano del cappello.
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Un riconoscimento importante va ai tanti operatori dell’informazione accreditati che hanno seguito e ben documentato l’evento. Nella circostanza l’assessore Mauro Torresi, con delega alle politiche del lavoro, alle attività economiche e del commercio, ha azzardato un paragone che può far discutere. “Nel 1927 nasceva la Mille Miglia e contemporaneamente il dipinto ‘L’Adorazione dei Pastori’ di Rubens ora conservato nella nostra Pinacoteca ci diede e ci dà ancora particolare lustro. Con questo passaggio della Mille Miglia questo simbolico anello si chiude.” Due eventi diversi ma uniti da una creatività che li rende egualmente grandi. L’Adorazione dei pastori è un dipinto a olio su tela (300x192 cm) realizzato nel 1608 dal pittore Pieter Paul Rubens. Fu riconosciuto nel 1927 dal grande connaisseur Roberto Longhi, che lo identificò anche come La notte. Le 1000 Miglia, un evento di risonanza mondiale, che ha portato a Fermo centinaia di splendide vetture per ricordare la gara automobilistica che coinvolse l’Italia in 24 edizioni dal 1927 al 1957.
Fermo, 20 maggio 2016, Piazza del Popolo
La notte, 1608, Pieter Paul Rubens 83
O.M.M. Officine Minuterie Metalliche
fondata nel 1969 per volontà di antonio nerpiti e Giacomo Belleggia, l’azienda marchigiana con sede di lavoro a Montegiorgio in provincia di fermo è specializzata nella produzione di accessori per calzature e pelletterie. Di recente ha allargato la sua attività al settore dell’arredamento e del tessile-abbigliamento ed è in grado di realizzare su disegno del cliente un autentico prototipo in pochissimo tempo grazie anche a particolari macchine applicate al computer, sistema caD/caM. Ogni dettaglio, ogni singolo passaggio è accuratamente controllato ad iniziare dalla scelta dei materiali come l’ottone, l’alluminio, il rame, il ferro, la zama, il plexigas e degli elementi decorativi sempre di elevata qualità come le pietre Swarovski. estremamente vasto il campionario a disposizione della clientela, che viene aggiornato stagionalmente e che include 20mila articoli diversi. l’azienda realizza prodotti dal design esclusivo su stampi personalizzati. Uno staff di esperti segue, in stretta collaborazione con disegnatori delle firme più prestigiose, tutte le fasi fino alla versione definitiva del modello prototipale. La O.M.M., dedita alla costante ricerca di soluzioni originali, rappresenta una delle realtà più significative dell’imprenditoria italiana, che ha saputo far tesoro del proprio know how acquisito e impiega con efficacia i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie.
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n’azienda che affonda solide radici nella tradizione artigianale tramandata da tre generazioni, in grado di coniugare la sapienza del passato con l’innovazione e la ricerca, sempre pronta ad intercettare le richieste del mercato in continua e rapida evoluzione. Il Factory Store, brillantissima operazione di Marketing, con la sua eterogeneità di prodotti eccellenti crea pluralità di suggestioni in ogni cliente che sceglie di immergersi in una affascinante esperienza di shopping carica di glamour. Avvolti da un’atmosfera chic, si possono trovare oltre ai materiali tradizionali come la paglia, una moltitudine di inserti ed applicazioni che vanno dai tessuti ai filati pregiati, a pelle, perline, merletti o pizzi: il tutto per impreziosire cappelli, accessori e borse dall’inconfondibile gusto italiano. Non mancano poi, in questo viaggio degno della penna di Truman Capote, sciarpe dalle fantasie policrome e raffinati bijoux in ambra, madreperla e quarzo. Una menzione speciale infine per le cinture di pelle: accessori di alta qualità realizzati interamente a mano, con lavorazioni particolari e di alta qualità. www.ferrucciovecchi.com
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