HAT - Periodico di arte cultura e modo di vestire abbinato al cappello
HAT Autunno-Inverno 2015 n. 62 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita
PERIODICO DI ARTE CULTURA E MODO DI VESTIRE ABBINATO AL CAPPELLO
Autunno-Inverno 2015 n. 62
PUNTO VENDITA CINTURIFICIO CRISTABEL s.n.c. 63812 Montegranaro (FM) IT Via S. Tommaso, 118/C Tel. e Fax 0734.891613 info@cinturesimonelli.it www.cinturesimonelli.it
Via Fontecorata, 4 I-63834 Massa Fermana (FM) Tel. +39 0734 760099 serafini.renato@libero.it Anno XIX n° 62 Autunno-Inverno 2015 Reg. Trib. di Fermo n. 4 del 4.3.1992 Direttore Responsabile Stefania Severi Stampa Manservigi Monsano (AN) 6
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www.hatmagazine.it
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Ambulantato d’epoca
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Fabbrica pilota del cappello
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Metti la testa a posto
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Le Marche nel Mondo
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Paolo VI e gli artisti
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Tra mito e storia. La mela
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In viaggio verso il mito
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di G. Renato Serafini
di Carlo Forti
di G. Renato Serafini
di Franco Nicoletti
di Stefania Severi
di Nanda Anibaldi
di Luana Trapè
Intervista a Francesco Oliviero e Maria Grazia Putini di Maria Alessandra Ferrari
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Spazio-Tempo-Danza d’amore di Nanda Anibaldi Sono lì. In un condominio naturale. Tra un’erba verde che l’umidità della collina intensifica di colore mentre conifere e cespugli di rosmarino gli fanno da contralto. Una perfetta equivalenza tra l’arte e ciò che la circonda. L’artista Arnoldo Anibaldi l’ha pensata e realizzata in quello spazio temporale. Sono cinque elementi. Cinque rami d’albero assemblati e coniugati per una danza. Non so se numero perfetto. Sono però le cinque dita di una mano tutte utili nella loro funzione prensile e modellante. Non sarebbero gli stessi neppure in un superattico della Quinta strada. Sono installati in uno spazio che gli somiglia. Somigliano allo spazio dove sono installati. Felici di esserci in un rapporto diretto. Non è difficile immaginare che stiano ballando. Magari il samba per tirare fuori il midollo dalla loro legnosità che fuoriesce dalle torsioni e dalle curvature; segni della sofferenza , dell’abbandono, del tempo. Alta tensione!! Si stuzzicano con i loro punteruoli che convergono l’uno verso l’altro per baciarsi. Un amore che nasce. Un altro che muore. Una passione spenta. Un’altra che si accende. I colori? non a caso. Primari-caldi come il rosso magenta e il giallo mentre il verde brisé assume una complementarietà in opposizione al viola. Colore come identità e autonomia pur nella sinfonia dell’insieme. L’Anibaldi dice che bisogna guardarli quando in quello spazio verde-land art-prima del tramonto la luce del sole li colpisce fino a ferirli. Il tempo è una variabile dipendente perché non accade mai alla stessa ora. Muta con la rotazione, con il variare della stagione e con il capriccio delle nuvole. Bisogna guardarli quando dànno il meglio di sé come se brillassero di luce propria. Impudichi nella loro nudità che non può non essere così in quella locazione. Sentinelle di una natura che cambia .Che modifica continuamente il suo appeal. Dialoganti, non disdegnano la compagnia. Un uccello o un nido? Un’ape o una farfalla? Certamente il colore gioca il suo ruolo attrattivo laddove la forma si stringe per un abbraccio ad ospitare un cappello che vola rapito con forza dalla testa di un benpensante. Vi può trovare diverse collocazioni. Una metamorfosi repentina. Un appiglio sicuro. Il vento ci si tuffa dentro e la mano ci consuma il suo destino. Come un gioco di prestigio. Destra. Sinistra. In alto. In basso. L’occhio deve far presto per cercare di scoprire l’arcano. Inutile. Il segreto è dentro la capsula del prestigiatore. In questo caso nel pensiero - pardon nel concetto - dello scultore Arnoldo Anibaldi a cui abbiamo chiesto cosa pensa di questo modo di fare arte. Dell’Installazione per intenderci. Intanto afferma che non è un modo nuovo perché il fenomeno percorre trasversalmente tutto il Novecento. Dallo Spazialismo di Lucio Fontana al Nouveau realisme - alla Pop art - al Futurismo - al Costruttivismo e a continuare. Un’arte ibrida - aggiunge - che coniuga la forma con la parola. Che ha bisogno di essere spiegata. Concettuale? -L’arte è sempre concettuale altrimenti è pura rappresentazione. Quello che cambia è la forma del racconto. Cioè il modo di raccontarla. Un’arte che facilita piuttosto il compito dell’artista che per lo più assembla oggetti già fatti pronti per un nuovo uso. La scommessa è scrivere su di un foglio bianco.-
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Ambulantato d’epoca Dal bastone in spalla col sacco di juta alla stanga come bancarella di vendita di G. Renato Serafini
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n questa breve estensione di terra, dove lo stelo contava più della spiga di grano, l’immagine ad essa connessa di uno stile di vita in armonia con la natura, resta nel presente solo come un confuso e vago ricordo evocato dalla Storia. Il triticum aestivum, ottimo frumento per avere maggiore quantità di paglia, preferiva regioni povere di fertilità. In questo lembo di terra collinare tra il Chienti e il Tenna, il grano di calbigia dalla spiga mutica, per la sua straordinaria altezza, flessibilità e resistenza alla torsione, è stato da secoli superlativo per l’attuazione della treccia e per il compimento dei cappelli. Tra l’VIII e l’XI secolo la produzione e il commercio del cappello in paglia, tradizionalmente usato nelle attività di campagna, si diffuse in questo territorio del Piceno ad opera dei lavoratori della terra. Il cappelli di paglia, fabbricati a mano da contadini nelle campagne tra Falerio Picenus e Massa, hanno avuto un’importanza tale da costituire un periodo storico indimenticabile e mai ripetuto altrove. Una sorta di commercio girovago veniva esercitato da affittuari, servi casati o piccoli proprietari che si muovevano a piedi. Lasciavano la propria abitazione all’inizio della bella stagione e si spostavano secondo percorsi di campagna programmati, in modo di avere sempre il vantaggio di essere conosciuti dai clienti visitati. Portavano il bastone in spalla col sacco di juta stipato di cap-
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Antico grano di calbigia non aristato
Cappellaio ambulante di cappelli di paglia
pelli e incessantemente, per settimane, con passo lento e costante, si spostavano da un podere all’altro offrendo, per pochi centesimi, un funzionale prodotto, anche se un po’ ruvido e alla buona, indispensabile per proteggersi dal sole. Solo dopo aver terminato l’intero carico, quei contadini venditori, stanchi ma soddisfatti, si avviavano verso casa. I loro pasti non erano mai puntuali, mangiavano occasionalmente un po’ di carne, se ospitati, e prima di dormire spesso si accontentavano di una libbra scarsa di pane. Pernottavano nelle stalle o nei fienili riposando sopra un letto di paglia o di fieno e ricambiavano l’ospitalità donando uno o due cappelli ai coloni che gradivano l’omaggio e ne facevano buon uso. L’esperienza mezzadrile, nonostante le incursioni e i saccheggi in epoca feudale, a partire dal XIV secolo nel bel mezzo delle gravi crisi nell’agricoltura, ha reso la lavorazione della paglia un’ancora di salvezza per i coloni della zona, tantoché svilupparono una sorta di imprenditoria del cappello di paglia in ambito rurale. All’epoca della raccolta alcuni covoni venivano utilizzati per la scelta degli steli dai quali successivamente ricavavano le paglie da intrecciare. Dopo che un forte bastone era stato conficcato in terra, per sostenere il fascio con le spighe rivolte verso l’alto, una sola, di rado più persone, nella fase di “capare”, estraeva gli steli dal covone. A questi, raccolti e ben ordinati in piccoli fasci, veniva recisa la folta chioma di spighe e i culmi restanti venivano stro-
picciati con le palme delle mani per essere ripuliti dalla eccessiva presenza di glumelle. La lavorazione della paglia tra la povera gente di campagna era normale routine. Spesso, sul calar del sole, nelle belle e luminose giornate d’autunno si vedevano trecciaiole, finalmente libere dalla quotidiana attività rurale, anche se stanche, dirigersi conversando verso la stalla per intrecciare fino a notte fonda. La cucitura a mano dei cappelli, naturalmente impegnativa, veniva effettuata nella stagione invernale soprattutto da donne che di norma accudivano alle faccende domestiche, e si prendevano cura degli animali da cortile e solo quando ve ne era urgente bisogno si dedicavano all’agricoltura. L’abile cucitrice, dopo aver preparato una gugliata di refe, forma un cappio all’inizio della treccia da tredici paglie e infila cinque o sei punti su tre maglie alla volta. Al cappio aggancia il refe e lo tira costringendo la treccia a formare la prima voluta. Quindi cuce procedendo a spirale una maglia dell’orlo interno e due o tre di quello esterno stirando di tanto in tanto con forza la treccia perché si disponga in piano. Terminata la cupola, con tutte e due le mani, incurva la treccia in modo da formare la fascia laterale dando un punto ad ogni maglia. Al momento di cucire la tesa ripiega la treccia in piano e procede come per la cupola. Durante la confezione, per ottenere la giusta foggia e una leggera lucidatura di tanto in tanto batte e strofina il mazzuolo sulla bozza di cappello infilato su una sagoma. Quando la falda ha raggiunto le dimensioni desiderate taglia la treccia in quel punto, la disfa una ventina di centimetri e intreccia di nuovo riducendo gradualmente il numero dei fili da tredici a tre. Rammaglia la coda finale
Donna che cuce un cappello di paglia
Uomo con in spalla la stanga
Vendita di cappelli di paglia
fermandola con un nodo ed elimina con le forbici gli spuntoni. I punti della cucitura che restano invisibili perché nascosti tra le maglie laterali della treccia fanno sembrare il cappello intessuto. Fin dai primi giorni di maggio, terminati i lavori agricoli, i contadini, non vincolati al proprietario, partivano come ambulanti per la vendita dei propri manufatti e si auspicavano di tornare per la mietitura del grano o per la vendemmia. L’ambulantato, a quel tempo più evoluto rispetto al precedente, non permetteva al cappellaio di percorrere lunghe distanze poiché non poteva fornirsi di nuova merce nell’immediato. La vendita di paese in paese, nei vicini mercati e in casali di campagna, avveniva tramite una lunga pertica di salix viminalis di lunghezza da 3 a 4 metri e da un bastone più corto chiamato pungolo alla cui estremità era fissato un punzone di ferro, ricavato normalmente da una vanga o da un forcone fuori uso, per poterlo piantare dritto in terra. In un foro alla sua sommità era legata una cordicella che permetteva di disporre orizzontalmente la pertica a bilancia. Il pungolo serviva anche da bastone per sostenere e mantenere in equilibrio sulle spalle la stanga e all’occorrenza per difendersi dai cani e dai malintenzionati. Cappelli di ogni forma e taglia erano appesi con filo di refe l’uno accanto all’altro sulla pertica e venivano protetti dal sole e dalla pioggia con due capaci sacchi di juta. La stanga veniva utilizzata come mezzo di trasporto nei trasferimenti e come bancarella di esposizione e vendita nelle soste. Il commercio itinerante che aveva le sue soste nell’area di corte di qualche casale, era agevolato per l’assenza di concorrenti nella vendita dei loro manufatti. Inoltre la puntuale presenza annuale dell’ambulante costituiva per quella gente la possibilità di rinnovare i vecchi cappelli.
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DALLA SEMINA AL TRASPORTO DI CAPPELLI IN CESTE DI CANNE E VIMINI di Giuseppe R. Serafini
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l cappello di paglia di produzione locale veniva venduto di paese in paese servendosi di una stanga. Le fasi che precedevano la commercializzazione erano molte e laboriose. La prima consisteva nella selezione accurata della semente mediante il crivello. I contadini tenevano conto della rotazione agraria con colture di piante miglioratrici, soprattutto trifoglio e fava, capaci di fissare nel terreno l’azoto atmosferico di cui il frumento aveva bisogno. Nel tempo in cui la campagna brulla riposava in attesa della primavera e la nebbia autunnale annunciava che l’inverno era alle porte, nei paesi trecciaioli era tempo di semina. Si vedevano agricoltori spargere a mano, con ampio gesto del braccio, il seme sul terreno.
nel podere coltivato a grano e, dopo aver infilato i cannelli per la protezione delle dita dal taglio sottomano degli steli, avanzavano curvi e a passo lento.
Mietitura
Li falciavano quasi rasente al suolo lasciandosi dietro residui di foglie e lembi di stoppie insufficienti per la raccolta dello strame. I mannelli di steli di grano recisi venivano raccolti in fasci più grandi e con due “fiezze” legate insieme dalla parte della spiga formavano i covoni che in seguito, con le spighe rivolte verso il centro, venivano ammassati per formare le biche che restavano alcuni giorni ad essiccare nel campo. I mietitori, che avevano cominciato a lavorare presto al mattino, facevano una breve pausa per la colazione a base di
Semina
Da quando spuntavano i primi germogli verdi fino a che i culmi diventavano gialli il campo di grano veniva ripulito più volte dalle erbacce infestanti. Giunto il periodo del raccolto, in assenza di braccianti, i coloni che lavoravano il terreno a mezzadria, con l’aiuto dei propri famigliari e di qualche vicino, affrontavano il lavoro estenuante della mietitura. Muniti di falciole bene affilate si recavano
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Mietitori in pausa per la colazione
pane, affettato e un buon bicchiere di vino. Subito dopo, il lavoro riprendeva fino all’ora di pranzo. Sul finire della giornata tutti tornavano a casa felici e, consumata una frugale cena, gli uomini, disfatti dalla fatica, accudivano in fretta gli animali per poi andare a dormire.
In prossimità della trebbiatura, con un carro trainato da buoi, i covoni destinati alla “capatura” venivano trasportati sull’aia per procedere a un intervento tradizionalmente definito “accerratura”. Questa importante operazione era compiuta appoggiando i covoni con le spighe rivolte verso l’alto lungo una scala di legno a pioli sistemata nel terreno ben sodo antistante la casa, all’altezza giusta, in orizzontale e di coltello. Da questi le donne estraevano con la mano destra gli steli e li sistemano in piccoli fasci nella sinistra.
Donne che capano la paglia
I manipoli, ben ordinati a mazzo, venivano passati a un addetto che con un falcetto, all’altezza dei culmi, tagliava le spighe di grano lasciandole cadere in un paniere. I lunghi steli privi di spighe, riuniti in fasci di uniforme grossezza, dopo essere stati legati restavano per giorni dritti e appoggiati l’un l’altro sullo spiazzo di casa. Non appena il sole rendeva i fasci ben asciutti iniziava la “stoppiatura” che si svolgeva in maniera completamente manuale e consisteva nell’asportare dai culmi le guaine fogliari. La donna stringeva con la sinistra un manipolo di steli dalla parte a cui era stata recisa la spiga; faceva combaciare dal basso i primi nodi e con la destra tagliava con delle cesoie il culmo sotto e sopra, permettendo all’internodo di essere spogliato delle foglie disseccate.
Le paglie si raccoglievano in mazzi di uniforme grossezza e venivano rinchiuse in appositi grandi cassoni ove bruciava lo zolfo per ottenere un primo e imperfetto processo di imbiancamento. I fili di paglia grossi e fini, dopo essere stati solforati, con la pareggiatrice, un rudimentale macchinario in legno, venivano divisi in base alla loro grossezza.
te su uno strumento di misura chiamato “passetto”. Le stalle di dimensioni modeste, che consentivano comunque una certa possibilità di movimento, fungevano da laboratori per la lavorazione della paglia.
che case rurali oppure in singoli domicili.
Mercato rurale della treccia e paglia
La stalla, antica stanza da lavoro per trecciaiole
Pareggiatrice
Nel fare la treccia si aveva cura, prima di ogni altra cosa, di separare le paglie bianche da quelle più scure e da quelle macchiate da tignola; di riunirle in mazzi, i quali, inumiditi per facilitarne il piegamento e avvolti in un panno, venivano posti sotto l’ascella sinistra pronti all’uso. Nella lavorazione accadeva che ogni qualvolta stava per finire un filo di paglia, nel rimetterne uno nuovo un pezzettino di esso restava fuori, così, a treccia finita, venivano asportate con le forbici o con un coltello le brevi sporgenze.
Intanto, in piccole stanze adiacenti al vano scala per l’accesso al primo piano, le donne si dedicavano alla cucitura a mano dei cappelli che gli uomini stiravano con torchi rudimentali in legno, costruiti artigianalmente.
Dopo la metà del XIX secolo nacquero sull’intero territorio i mercati settimanali che venivano effettuati il giovedì a Falerone centro, il sabato, e soprattutto la domenica mattino, a Montappone, con la massima frequenza di trecciaiole casalinghe, donne di campagna e commercianti di trecce e paglia.
Fabbrica degli anni venti del XX secolo
Intanto nascevano le prime fabbriche vere e proprie, comprensive dei reparti di produzione. Le operaie si dedicavano alla cucitura con macchine a pedale che occupavano spazi maggiori rispetto al settore della pressatura.
Pressa del XVIII secolo
Trecciaiolo
Nella fase successiva le trecce, dopo aver attraversato una calandra formata da due rulli di legno massiccio, venivano avvol-
Queste ultime operazioni costituivano la fase finale del cappello prima della vendita. Il cappellaio ambulante, personaggio caratteristico del luogo, trasportava ed esponeva i cappelli su una stanga: “pertica” di salice messa a bilancia su di un pungolo che veniva infisso nel terreno nei momenti di vendita o di sosta. Agli inizi del XIX secolo il commercio di paglie e trecce era un’attività senza regole che si svolgeva in piccoli aggregati di po-
Imballaggio con ceste di canne e vimini
L’imballo per le spedizioni dei cappelli di paglia avveniva di solito all’aperto con ceste di canne e vimini. Queste - di non facile realizzazione - erano confezionate interamente da mano contadina nelle campagne limitrofe ed erano esemplari unici di diverse capienze.
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Distretto Fermano del cappello
PER LE ANTICHE STRADE DEL CONTADO di Giuseppe Renato Serafini e Giovanni Mochi
Ciò che ci proponiamo è la cronaca reale di un viaggio in auto attraverso un itinerario che non tocca deliberatamente i centri abitati ma zone rurali legate all’antica lavorazione della paglia per la produzione di cappelli. Un incrocio in un boschetto di pioppi situato in aperta campagna, segna il punto da cui partivano le antiche diramazioni per i paesi di Montappone, Sant’ Angelo in Pontano e Loro Piceno. Iniziamo il viaggio proprio da qui, ove la fantasia popolare ha collocato streghe e gatti neri, così conservando inconsapevolmente la memoria dell’importanza di questi particolari luoghi per le popolazioni pagane le quali erano solite innalzare, agli incroci, altari votivi alle proprie divinità. Poco dopo aver iniziato la risalita verso Montappone s’incontra una piccola chiesa (S. Maria del Rosario) dedicata alla Madonna di Pompei, delizioso episodio di religiosità rurale sicuramente ricostruita nelle forme attuali verso il Settecento e sede, sino agli inizi del XX secolo, di un piccolo insediamento religioso ora scomparso.
costeggia ciò che rimane di una grande fonte pubblica, Fonte Maina, che meriterebbe una maggiore attenzione ed un miglior destino. Anche in questo caso il nome evoca temi e significati antichi. Maina sta, forse, per magna ad indicare, quindi, l’importanza di questo approvvigionamento idrico per la comunità. In altre località troviamo lo stesso appellativo per indicare, come ad Osimo, un manufatto risalente al periodo romano. Durante la guerra tra goti e bizantini, il greco Belisario cercò di fiaccare la resistenza della roccaforte ostrogota di Auximum avvelenando l’acqua della fonte Magna. Giunti nel punto di raccordo della strada detta romana con l’attuale provinciale, nei pressi dell’avvallamento che divide i colli su cui sorgono i castelli di Massa e Montappone, si pone un primo dubbio se continuare verso Falerone o verso Massa.
Scorcio panoramico della valle in cui sono contemporaneamente ben visibili Massa, colle S. Salvatore e Montappone
Decidiamo di girare a sinistra e per il momento di abbandonare il proposito di percorrere la strada della Selva sino al suo sbocco; vi torneremo più tardi. Mentre ci dirigiamo verso Massa, passando sotto il centro storico, non si può non cercare con lo sguardo l’imponente e leggiadra loggetta aerea rinascimentale affiancata a un massiccio torrione duecentesco. Chiesa di S. Maria del Rosario
Nella tavoletta dell’Istituto Geografico Militare che contempla i territori tra Loro, Sant’Angelo e Montappone, ritroviamo questa zona individuata chiaramente dal toponimo la selva. Più in basso, tra il crinale di S. Martino e la contrada Salegnano, troviamo un altro riferimento che ci riporta indietro verso i tempi in cui questi territori erano probabilmente ricoperti da una folta vegetazione boschiva: il toponimo Selva Grande. E con Strada della Selva è ancora oggi indicato, dalle popolazioni locali, il tratto viario che abbiamo iniziato a percorrere dal trivio situato nel fondovalle risalendo verso Montappone. Dalla strada che stiamo percorrendo sino a pochi anni fa si poteva agevolmente deviare per immettersi in un’altra strada nota come la strada romana. Oggi di tale via non rimane che qualche vaga traccia nell’allineamento di alcuni alberi lungo il versante che guarda la nuova provinciale che da Loro porta verso Massa e Montappone; tale strada romana
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Torrione e loggia aerea rinascimentale di quattro arcate montate su due ordini sovrapposti
Scendendo verso la frazione Madonnetta e villa Berarde, lo sguardo va alla collina su cui sorgono i ruderi del convento francescano. Esso è stato oramai spogliato di tutto ciò che fosse asportabile, dai quadri agli affreschi sino ai pavimenti. Sul chiostro, infestato dalle erbacce si aprono i locali del refettorio e delle cucine ove è solo il nero fumo assorbito dagli intonaci a costituire una traccia di vissuto recente.
Interno della chiesa dell’ex Convento Francescano di Massa Fermana
Alla base della collina la strada volge verso Mogliano, l’antica curtem de Molliano, ricordata nelle carte farfensi. Lungo il tragitto, il viaggiatore più attento può ritrovare i resti di una modesta fonte pubblica chiamata Mojaenza e prima di ripartire verso il popoloso centro potrà godere di un istante di pausa nel luogo ove un tempo le ragioni dell’approvvigionamento idrico erano una cosa sola con la necessità di socializzazione. Da Mogliano torniamo verso Montappone per riprendere il primo percorso interrotto. Risalendo la strada della Selva arriviamo in prossimità dell’edificato recente di Montappone sino ad incontrare la strada che collega questo paese con Falerone; giriamo sulla destra seguendo la strada che porta verso Monte Vidon Corrado.
do. All’interno di questo abitato sorgeva l’antica chiesa di S. Giorgio che costituiva una delle due parrocchie di Montappone sino alla metà del XVIII secolo, quando esse furono riunite. S. Giorgio e S. Michele erano dedicazioni molto care alle genti longobarde e le ritroviamo spesso nei nostri territori che costituirono la parte orientale del ducato spoletino, quasi uno stato nello stato che crebbe di importanza sino ad avere in Fermo una vera e propria capitale. Non stupisce quindi che ben tre comuni molto vicini tra loro quali sono Montappone, Loro ed Urbisaglia si siano dati, come santo protettore del paese il medesimo S. Giorgio mentre Sant’ Angelo in Pontano e Ripe S. Ginesio abbiano optato, volendo pareggiare il conto, per l’Arcangelo Michele. Non restano tracce né della chiesa di S. Giorgio né del villaggio che sorse e si sviluppò intorno alla primitiva chiesa; entrambe le entità sono state sostituite da case private ed attività produttive e commerciali le quali costituiscono il nerbo dell’odierna economia paesana. Proseguendo verso Falerone, e dopo aver superato l’abitato di Monte Vidon Corrado, deviamo momentaneamente per Montegiorgio. Ad un chilometro sulla sinistra si incontra un bivio che conduce a S. Maria di Gagliano ove si doveva trovare in passato l’abitato di Apponellus citato prima. La chiesina, costruita o ricostruita nel Settecento, sorge su uno sperone di arenaria costituente la cima di una collina in una posizione panoramica eccezionale.
Vista aerea del paese vecchio di Montappone
Chiesa della Madonna delle Grazie e della Misericordia di Gagliano
Lungo il percorso che compiamo nel tentativo di fissare nella memoria alcune tracce ancora rilevabili di contrade pressoché scomparse incontriamo il colle di S. Giorgio. Qui doveva sorgere il villaggio denominato Podiolus o Podiolo, citato in un documento degli inizi del Trecento nel quale detto villaggio è assegnato, insieme al castello principale (castrum Montis Apponis) e ad un altro villaggio (Apponellus), al nobile Ricciar-
Da Gagliano si scorgono tutta una serie di piccolissimi agglomerati diffusi nella campagna circostante. Uno di essi è particolarmente interessante ed è l’abitato della frazione Tarucchio che si trova lungo la strada rurale che collega Gagliano a Montappone lungo la via più breve e cioè quella che solca le pendici delle colline lungo linee di massima pendenza. Posto a mezza costa, questo piccolo centro è organizzato attorno alla stradina
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che nel centro dell’abitato crea uno slargo dal quale si accede alla chiesina di S. Filippo Neri. Questo edificio, dalle piccolissime dimensioni, è stato ristrutturato probabilmente all’inizio del XX secolo donandogli una curiosa facciata neogotica.
delle Camminate.
Madonna delle Camminate
Chiesa di S. Filippo Neri
Sul pianoro superiore alla chiesa si apre l’aia di una casa colonica dalla notevole architettura. Può senza dubbio essere annoverata tra i migliori esempi di architettura rurale marchigiana che ancora resistono.
Questa segna l’inizio di via Pozzo e stabiliva probabilmente il confine dei vasti possedimenti del feudatario Marescotto di Offone che si estendevano sino alla romana Falerio. Dalla moderna chiesina ripercorriamo indietro un breve tratto di strada verso Monte Vidon Corrado e all’altezza dell’antica chiesa della Madonna del Carmine giriamo a destra e ci dirigiamo nuovamente in direzione Montegiorgio.
Chiesa della Madonna del Carmine
Casa colonica del XIX secolo
Tornando sulla strada che lungo il crinale va da Montappone verso Falerone raggiungiamo la piccola cappella votiva intitolata alla Madonna.
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Percorriamo due chilometri e poi giriamo a destra seguendo l’indicazione stradale per Monteverde. Dopo un primo tratto in discesa saliamo a destra che ci conduce sulla sommità del colle Santa Susanna, dove tracce sparse di qualche lacerto ricordano la presenza di un importante castello che appartenne sin dal XII secolo ai discendenti del Conte Giberto di Ismidone. Questi fu il capostipite della più importante dinastia feudale del
comprensorio fermano la quale annovera tra i propri discendenti figure del calibro di Fildesmido da Mogliano, Gentile detto sempre da Mogliano, Rinaldo da Brunforte e i signori di Monteverde. Scendendo verso il centro della frazione passiamo davanti ad un’interessante chiesa parrocchiale dedicata a S. Maria delle Grazie che è stata realizzata nel 1634 in sostituzione dell’ Oratorio di S. Maria in Villa del XVI secolo.
nistra, l’incrocio per la contrada rurale detta di S. Paolino ove si trova la chiesa da cui essa prende il nome. La chiesa di S. Paolino è un’autentica sorpresa. Essa risale al periodo longobardo e conserva ancora l’aspetto originario. Purtroppo non è attualmente visibile poiché sono in corso lavori di restauro ma anche la visione del solo esterno riesce a trasmettere la sensazione di trovarsi di fronte ad un episodio importantissimo di architettura alto medievale. Tra le caratteristiche che denotano l’ascendenza longobarda dell’architettura del S. Paolino vanno senz’altro ricordati il portale trabeato e la particolare tessitura disomogenea del paramento murario. Accanto alla chiesa sorge un interessante casolare di campagna. Sul muro di questo si trova inserito un bassorilievo raffigurante probabilmente Adamo ed Eva. La qualità della raffigurazione non lascia dubbi sulla datazione della pietra sicuramente proveniente da qualche altro edificio coevo al S. Paolino che doveva sorgere nei pressi.
Chiesa settecentesca dedicata a S. Maria delle Grazie
Chiesa di S.Paolino
Poco più avanti in direzione Piane è ben visibile una curiosa fonte del XV secolo. Questo è stato l’unico punto di approvvigionamento di acqua potabile ad erogazione continua in tutto l’abitato di Monteverde fino ai primi anni del XX secolo. L’antica fonte, diventata successivamente lavatoio pubblico e abbeveratoio per mucche, attualmente necessita di interventi di restauro.
Come stiamo vedendo, la realtà rurale medievale si presenta abbastanza articolata e ricca di episodi notevoli. Contrasta con ciò l’immagine stereotipata, che è offerta dai manuali scolastici; una storiografia forse troppo arroccata nel difendere l’importanza delle realtà comunali, da contrapporre al modello feudale barbarico, ci ha mostrato spesso la campagna medievale come luogo disabitato, regno di belve e malfattori pronti ad assalire chi si avventurasse lungo le rare e malsicure strade che la attraversano. Stiamo invece ricostruendo un’immagine totalmente diversa in cui la campagna medievale appare sì coperta di selve e zone incolte, ma anche ricca di abitazioni, chiese o piccole abbazie che sorgevano là, dove oggi invece non vediamo che campi arati o qualche casa colonica oramai disabitata. Ed oltre a questi edifici, una fitta rete di appezzamenti coltivati a vigne, ad ulivi o lasciati a pascolo coprivano le nostre zone. Se ne ha una chiara testimonianza, ad esempio, leggendo le pergamene di Fiastra. In esse i notai presenti nelle diverse comunità hanno registrato un gran numero di testamenti, contratti di enfiteusi o di vendita; attraverso la lettura di questi atti possiamo ricostruire il paesaggio agrario medievale. Il territorio ci appare solcato da una moltitudine di strade e stradine, ricco di fonti, di fiumi, di castellari, di atterrati, mulini, mansi, vallati, poggi, chiese rurali, castelli abitati da feudatari minori, fattorie fortificate che forse si appoggiavano a precedenti ed analoghe strutture romane di cui pure erano ricche le nostre terre.
Antica fonte
Da Monteverde è possibile raggiungere Falerone percorrendo la provinciale Faleriense che, ad iniziare dalle Piane di Falerone, si svolge sulle pendici alla sinistra del Tenna. Lungo questa strada si incontra, sulla si-
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BARBA E CAPPELLI AI RIVOLUZIONARI di Mario Genco
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confitta la rivoluzione, il tenente generale Carlo Filangeri principe di Satriano, duca di Taormina, comandante in Capo di Armata e Luogotenente Generale in Sicilia, riaffermò l’ordine borbonico. E l’ordine borbonico aveva a che fare con le barbe e i cappelli dei sudditi. Ordini perentori furono diramati alle Intendenze e ai comandi militari dell’Isola: sforbiciare le “barbe all’italiana” e strappare dalla testa “i cappelli all’Ernani”. Erano pericolosi simboli rivoluzionari. La polizia di Messina fu la più zelante. A novembre del 1849, l’Intendente della città mandò un rapporto a Palermo: “Accortasi la polizia che il signor Gramble, sedicente suddito inglese, mostravasi con barba in tal forma che faceva molto sospettare dei suoi andamenti, Cappello “all’Ernani”. Un accessorio che diventò simbolo del patriottismo e della lotta contro la tirannide. obbligavalo a raderla”. Quel Gramble, era figlio natu- Lo adottò Cristina Belgioioso, che ne lanciò la moda presso le donne e gli studenti universitari. rale di un ufficiale britannico che, di stanza a Messina durante “l’occupazione inglese” nel primo decennio dell’Ottocento, aveva convissuto con una giovane messinese, dalla quale aveva avuto alcuni figli fra i quali il barbuto in questione, che si chiamava Salvatore e aveva ventotto anni. Tecnicamente, il giovanotto non poteva essere cittadino inglese, perché il padre non era sposato con la madre. Perciò fu vana la minacciosa protesta del Console generale di sua Maestà britannica a Napoli:”... Arbitraria e assurda condotta degna soltanto degli agenti di una barbara Potenza... Il Governo di S. M. B. tollerare non può che siffatti insulti abbiano a soffrirsi da sudditi inglesi”. Inglese o no che fosse, certo Salvatore Gramble era stato trattato molto rudemente. All’intimazione di radersi, aveva tentato con arroganza, affermava la polizia, la carta della cittadinanza inglese, anche se infine aveva promesso di accorciare la barba appena tornato a casa. Ma i poliziotti: “Non potendolo per tale (cioè inglese) riconoscere parlando perfettamente il dialetto siciliano, trascinavanlo al Commissariato e perché là presso era un barbitonsore, questi adibivano per mozzargli i soli peli superflui”. Salvatore Gramble non fu il solo a finire sotto le forbici poliziesche. Pochi mesi dopo, il dirigente del “Commissariato Porto Marina e sue dipendenze”, Onofrio de Silvestri, informava il capo della polizia ManiscalGiuseppe Garibaldi con il cappello all’Ernani co: “In seguito alle disposizioni da Lei emesse, da questa polizia non tralasciavasi di far tosare la barba all’italiana
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a coloro che la portavano”. Ma il commissario Onofrio, minimo ma alacre ingranaggio della sopraffazione, s’era inceppato su un ulteriore perentorio ordine di fonte militare e chiedeva aiuto a Maniscalco: “Or però che per ordine del Generale Comandante la Provincia e la Real Piazza si sono pure fatti intimare non solo quelli aventi la barba, ma tutti coloro con i mustacchi...”. Ma com’era acconciata quella pericolosa “barba all’italiana”? Ce lo spiega un altro comandante di provincia e di Real Piazza, tale generale Nagli, capo della provincia di Noto e della piazzaforte di Siracusa, in una spensierata sarabanda di anacoluti, ossimori e ablativi assoluti: “ Persone che richiamando l’attitudine di sett’otto secoli addietro fanno colla barba a Caproni e dippiù mosca e mustacchi. E’ tanto vero che costoro, i quali vestono, per così dire, una tale divisa, nutrono pensieri di ostinata demagogia e pure di ribelle disciplina, per quanto tutti costoro si vedono incedere alto il mento, fuori il petto e disprezzante”. Il generale sapeva di cosa si trattasse. Il ministro di polizia a Napoli aveva scoperto che il toccarsi la barba era un segnale di riconoscimento fra i carbonari: privarli della barba, da loro tenuta sempre ben folta, insomma “a Caproni”, significava interrompere le comunicazioni fra i cospiratori che, senza più riconoscersi, sarebbero finiti allo sbando... Ma al generale non bastava far tacere le barbe. E i cappelli, come trascurare i cappelli? Non tutti: solo quelli “alla Ernani”. Quale fosse la foggia di tali copricapi è presto detto: a cupola tonda sormontata da una grande penna, falde larghe. Insomma, il cappello degli Alpini, che però non erano ancora stati inventati. Si disse “alla Ernani” perché il costumista della Fenice di Venezia, disegnando i costumi per la prima dell’opera di Verdi che andò in scena il 9 marzo del 1844, immaginò di quella foggia il cappello del protagonista. Ernani, appunto: e siccome quello era un eroe che combatteva la tirannide, il cappello piumato fu adottato dai patrioti dell’insurrezione di Venezia del 1848-49. I cappellai ne confezionarono e vendettero a migliaia. Da Venezia l’uso si diffuse anche nelle altre città che non sopportavano più il dominio austriaco. Quella moda s’era propagata in tutt’Italia. Il Generale doveva stroncarla. senza perdere di vista i peli, ordinò al Sottointendente di Siracusa: “Alle grandi barbe che con ostentazione portano gli pseudoliberali, suonsi oggi aggiunti dei cappelli detti alla Ernani, simbolo altre volte della setta della Giovine Italia. Ella non deve soffrire questo insulto e senza fare delle ordinanze di divieto, dagli agenti di Polizia li farà strappare dal capo di coloro che li portano”. Le fonti. Archivio di Stato di Palermo, fondo Real Segreteria, Governo Luogotenenziale, Polizia, volume 626. RIPRODUZIONE RISERVATA
Anita Garibaldi con il cappello all’Ernani
Cristina Belgioioso con tricolore e cappello all’Ernani
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PACIFICA-MENTE di Tiberio Crivellaro
ltre che importante, è stata soprattutto significativa la collettiva d’arte contemporanea alla Pinacoteca di Sant’Oreste (in provincia di Roma) presso le sale del Museo Palazzo Caccia, e in quello Naturalistico del Monte Soratte. La mostra, denominata “PACIFICA-MENTE”, curata da Tiziana Todi in collaborazione col Comune e la Pro Loco della cittadi-
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rare artistico nasce da mille studi preparatori e da altrettante, lente ma sapienti, esecuzioni mai estranee a essere interpretate realisticamente, nonostante le visioni oniriche caratterizzino lo spazio visivo. La presente espressione artistica non si conforma in fuga né consolazione, in quanto punta a una ricomposizione ideale dell’essere. Le sue opere rispecchia-
na è restata aperta al pubblico fino a domenica 22 novembre 2015. In tale contesto, l’artista marchigiano Carlo Iacomucci ha messo a disposizione della mostra una sua opera titolata “Pax e Arte”, contribuendo oggettivamente a significare il tema della collettiva. Con la sua opera, ha inteso promuovere il profondo significato di “pace”; quel gran bene che va difeso mentre l’umanità, ancor oggi, è corrotta e coinvolta in troppi conflitti che portano distruzione e morte, con il pericolo di inaridire, dissipare civiltà e cultura. Da sempre, in modo suggestivo nel suo metalinguaggio, l’arte visiva, instancabilmente, continua a parlare una lingua universale superando ogni barriera razziale. “Arte e pace” sono anche espressioni di “sapere”. Iacomucci, attraverso i suoi modelli artistici, sa trasformare “l’orrendo” in partecipazione del consolidamento del bene, della bellezza. La sua continua “estasi” del tratto ha valore annunciativo, si assimila tra la sudditanza umana, ostaggio degli orrendi calcoli del potere. L’artista può cambiare la prospettiva della “peste” temporale, morbo che contamina ancora in nome della paganità del progresso. La visione di Iacomucci è “un’estasi” meticolosa, concentrata e aliena da scorciatoie grafiche non traducibili dallo spettatore. Nell’osservare questa sua “Pax e Arte”, occorre ricordare che il suo ope-
no anche una condizione psico-ribelle, in parte, però, rasserenandola. Si nota, in verità, anche un tratto malinconico che si inverte quando qualcosa di irascibile prende corpo. Iacomucci ha superato i manierismi con una formalità che risalta l’elemento compositivo, senza quella folle audacia prospettica tipica dall’osservatorio daliniano. Formalmente, prova a eliminare il surplus delle incidenze dell’ombra subordinata alla fisiologia del colore, come del resto anche quella del contrasto a tutti i costi. La sua continua attività grafica e incisoria non deriva da quell’innumero soggettuale che una certa “universalità” coinvolge sia all’artista, sia il poeta. Occorre riconoscerla con gratitudine questa magistrale lingua che si muove nell’assurdo teatro delle maschere. A tal proposito, nel tema della mostra, ho posto un’unica domanda a Carlo Iacomucci: Carlo, con quale spirito hai inteso dare il tuo personale contributo al tema di questa mostra? L’uomo di oggi ha bisogno di profonde riflessioni ed ascoltare il proprio intimo spesso avvelenato dal conformismo. Deve rendersi conto che occorre riscoprire la vera libertà; quel bisogno di uscire dalla costante insoddisfazione per respirare un’aria diversa “libera, colorata e piena di luce” nella “Chi saprà guardare una grande luce si salverà”…
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Fabbrica Pilota del Cappello del Distretto di Fermo di Carlo Forti
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l Progetto promosso da Confindustria Fermo in collaborazione con la SIF (Sviluppo industriale del Fermano), Camera di Commercio di Fermo, Provincia di Fermo, Istituto Scolastico IPSIA RICCI e Comune di Montappone è nato allo scopo di sostenere una realtà produttiva di eccellenza nazionale come quella fermana del cappello, nel cui Distretto, le aziende di dimensione piccola e micro, specializzate in passato solo nella tradizionale produzione della paglia, attualmente producono con marchio proprio, collaborano con affermati brand della moda italiana o lavorano in conto terzi. Nonostante le imprese abbiano raggiunto elevati standard qualitativi è ancora viva l’esigenza di rinnovarsi e migliorarsi. Il progetto Fabbrica Pilota del Cappello del Distretto di Fermo è volto a fornire supporto, risposte certe ed immediate a richieste e fabbisogni formativi delle imprese, ma anche accrescere il grado di competenza ed il livello di know how delle maestranze. La Fabbrica pilota del cappello, un progetto singolare e ambizioso, ha la finalità di formare risorse qualificate indispensabili al sistema produttivo con particolare riferimento a situazioni di ricambio generazionale, e di migliorare competenze articolate su conoscenze ed abilità. Attraverso stage e tirocini specifici, inoltre, i corsisti hanno potuto apprendere direttamente sul campo procedure e metodi di lavorazione, con l’affiancamento di personale esperto delle aziende ospitanti. All’interno del percorso formativo vi è stato anche un prezioso insegnamento relativo alla realizzazione di svariate trecce di paglia. E’ stato un importante momento nel quale i frequentanti il corso hanno avuto modo di conoscere come in passato veniva realizzato, rigorosamente a mano, ogni singolo cappello. Una conoscenza che, sebbene oggi sia poco praticata, è bene preservare nella tradizione, nel valore storico e culturale, e soprattutto mantenere acceso il ricordo di una zona e di una comunità tanto piccola quanto significativa per l’identità del Distretto. I corsisti hanno affrontato con partecipazione e spirito d’iniziativa l’esperienza tanto da cimentarsi nella creazione di un logo e nome, proprio della Scuola: “Cappellai”. Con questo, durante il periodo estivo, hanno partecipato a diverse manifestazioni tra cui il Mercatino dell’artigianato di Fermo, Somaria a Ortezzano e la Festa del Cappello a Montappone, dove hanno trovato un ottimo riscontro e apprezzamento per il lavoro svolto. E’ stata una buona occasione per mettere immediatamente a frutto gli insegnamenti ricevuti.
I contenuti trattati durante i corsi. Tessuti e svariati materiali - Progettazione e prototipizzazione - Preparazione di cartamodelli con tecniche e metodi di costruzione e realizzazione - Modellistica di base e modellistica Cad - Tecnica - Cucitura e confezionamento dei cappelli - Ricamo, ornature, stampe, tinture, etichette, accessori, lavaggio, finissaggio- Lavorazione ed intreccio paglia - Collezioni - Laboratori. I Destinatari erano giovani diplomati interessati al settore e operatori già coinvolti in azienda. Il corso è durato quattro mesi d’aula, una settimana che ha previsto testimonianze aziendali, confronto con gli imprenditori e con gli operatori commerciali del settore e un mese di stage presso le imprese del Distretto. Complessivamente dieci corsisti. Alla base di quanto sopra presupponiamo una seria interazione tra percorsi formativi e contesti lavorativi per gestire al meglio il passaggio generazionale e soprattutto per garantire continuità e crescita.
I Corsisti con lo stilista Elia Quagliola
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Specializzata nella confezione di cappelli uomo-donna, l’Azienda Axis realizza campionari personalizzati per tutti coloro che desiderano creare la propria collezione valorizzando al meglio ogni singola progettazione del cliente. Collabora con grandi firme del settore moda e abbigliamento; vasta è la gamma dei materiali disponibili per la realizzazione dei vari modelli. La Axis include diverse tipologie di lavorazione, capaci di soddisfare i differenti e molteplici gusti della clientela; interpreta di stagione in stagione le tendenze proposte dal sistema moda. Il tessuto estivo ed invernale, i filati, la maglia, la pelliccia, la pelle, la paglia e il feltro vengono trattati distintamente con la metodologia consona alle loro elaborazioni che denotano notevole competenza, acquisita in tanti anni di esperienze nel settore del “Made in Italy”. Un’impronta che richiede notevoli conoscenze, anche per quanto concerne la qualità del prodotto da realizzare.
Foto Proc’ Art
La Axis opera con costante impegno per ottenere manufatti straordinari. I prodotti “Made in Italy” sono l’espressione singolare di una sapiente tradizione, nonché di grande cura del dettaglio. Spesso sono le minuziose rifiniture del prodotto a valorizzare e rendere meraviglioso un intero processo produttivo, che include numerose e complesse fasi di lavorazione. Su queste solide basi si fonda l’identità della Axis. L’Azienda mette in atto l’innata passione per i cappelli che da sempre contraddistingue Carlo Forti il quale, per il suo eccellente operato, vanta di possedere anche la certificazione dell’Artigianato Artistico.
www.axis-italy.com
Foto Proc’ Art
via Mossa, 24 Montappone (FM) tel e fax +39 734 760590 info@axis-italy.com carlo@axis-italy.com www.axis-italy.com
METTI LA TESTA A POSTO La salute comincia dal cappello! di G. Renato Serafini
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l 3 Ottobre 2015, a Montappone, si è tenuto un convegno dal titolo “Metti la testa a posto”, organizzato dal Rotary club di Fermo e Alto Fermano-Sibillini con l’Accademia Medica Cappello e Salute. All’evento hanno partecipato autorevoli personaggi del mondo medico-scientifico, della politica e dell’imprenditoria che hanno parlato del perché sia bene usare il cappello e dei vantaggi legati alla salute.
Luca Romanelli, Presidente del Rotary Club di Fermo L’industria manifatturiera, nei paesi in cui la manodopera è a basso costo, sottrae al distretto produttivo ampie quote di mercato. Ci sono vie di uscita? Certamente! Innovazione di prodotto... innovazione di marketing... innovazione nei canali distributivi. Angela Pagliuca, Prefetto di Fermo Ha dichiarato la sua predilezione per i cappelli e il suo amore per i nostri luoghi. Dopo aver rivolto un saluto alle autorità presenti in sala e a quanti hanno collaborato alla realizzazione dell’evento, con chiara e lineare esposizione, ha articolato il suo intervento. Ha definito il cappello del distretto fermano un prodotto di tradizione e di eccellenza che rafforza l’immagine del territorio. Lo considera un indumento strettamente soggettivo che si adatta alle forme del capo, fa esaltare l’espressione del volto e caratterizza la personalità di chi lo indossa. Senza fare alcun riferimento alle funzioni pratiche del cappello, ha mostrato viva ammirazione per gli imprenditori, perché sanno dire di no alla moda che insegue solo se stessa, e nella semplicità di un design creativo e fantasioso, riescono a conferire al cappello quell’eleganza non troppo appariscente che si cerca quando il capo viene scelto. Paolo Petrini, Vice Presidente della Commissione Finanza alla Camera Ha lanciato un messaggio sintetico con il quale intendeva sottolineare l’importanza di internazionalizzare e innovare un sistema di mercato sempre più difficile da gestire. Dal punto di vista politico, per uscire dalla crisi, ha auspicato un cambiamento attraverso le riforme. Fabrizio Cesetti, Assessore Regionale al Bilancio, ex Presidente della Provincia di Fermo “La salute è legata al cappello”; “Il cappello è nato dalla necessità di ripararsi dalla violenza del sole di lavoratori e contadini”. Con queste frasi lapidarie si è rivolto agli imprenditori del settore suggerendo di mettere insieme sinergie collettive come l’iniziativa in corso e di non affrontare da soli le sfide del futuro. Ha ricordato che la Provincia, con la prestigiosa presenza dell’ on. Sandro Gozi, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega agli Affari europei, ha inaugurato la fabbrica pilota del cappello come strumento di formazione per l’impiego in azienda. Egli ha concluso che, chiamati a rappresentare la comunità e a sostenere
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Il Sottosegretario Gozi taglia il nastro ed inaugura la fabbrica
questo distretto come Regione, si cercherà di sfruttare in senso positivo quelle che sono le programmazioni comunitarie; di accogliere progetti del distretto che vanno verso l’internazionalizzazione e l’innovazione. Daniele Travaglini, specialista in chirurgia vascolare, coordinatore scientifico dell’Accademia Medica Cappello e Salute ed ex Presidente del Rotary Fermo La vallata dell’Ete, la vallata dell’Aso e i Sibillini sono aree ecologiche delle Marche, rimaste intatte nei valori. Ha concluso con queste parole: “Abbiamo iniziato quasi per gioco e ci stiamo accorgendo che il cappello si può ben armonizzare con la nostra categoria medica”. Francesco Silenzi, Direttore Sanitario presso CARDIOMED L’interesse della medicina per il cappello, meritevole per la sua funzione di tutela, è di ordine generico. L’individualità è negativa. Questo convegno ci permette di scambiare delle idee, entrare nel pratico e concretizzare degli obiettivi utili. Dott. Lucio Giustini, Ospedale “A. Murri” di Fermo Attraverso delle slides mostra uno studio statistico basato su un’ampia serie di dati raccolti negli ultimi decenni sui carcinomi della pelle. Dott.ssa. Francesca Rastelli, Ospedale “A. Murri” di Fermo Lezione interessantissima di dermatologia sulla protezione della pelle. Un rimedio eccellente e funzionale: “occhiali da sole e cappello a tesa larga”. Dott. Andrea Mazzoni, dermatologo Tra le creme protettive e il cappello contro gli UV, poiché c’è scarsa conoscenza delle dosi giuste da utilizzare, il cappello scavalca tutte le problematiche. Gli imprenditori del settore dovrebbero essere agevolati dal Governo con riduzione dell’IVA e delle tasse. Dott.ssa. Simonetta Calamita, esperta in otorinolaringoiatria Cenni storici: Il cappello è nato in Francia e in Inghilterra e ha rappresentato sempre un simbolo di eleganza; è arrivato nella nostra produzione nell’800/’900... Coprire testa, orecchie, fronte e collo è un’ ottima abitudine per evitare il pericolo di scottature e insolazioni, nevralgie, otiti... Consiglia materiali antiallergici per la fattura di cappelli.
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Graziano di Battista, Presidente della Camera di Commercio di Fermo Grazie alla capacità dei nostri imprenditori, partiti dalla treccia di paglia, oggi siamo leader nel mondo nel settore del cappello in genere. Le riflessioni scaturite dal Convegno sono un elemento aggiuntivo in riferimento all’innovazione e alla formazione. Il cappello, oltre ad essere un elemento estetico, grazie alla scelta dei giusti materiali di qualità, salvaguarda la salute. Ma la più grande soddisfazione da lui provata è quella di realizzare borse perché aggiungendo qualcosa gli hanno permesso di creare un bell’oggetto.
Paolo Marzialetti, imprenditore Si è così espresso: “Concordo con il Presidente dell’Ente Camerale Fermano su tutto quello che ha detto, vorrei sottolineare un punto che però è fondamentale ai fini del profitto. In questa prima fase del Convegno si è stabilito che la salute comincia dal cappello. La prevenzione a tutela della pelle è da considerarsi, a ragione, un valore aggiunto alle caratteristiche estetiche e alle nuove tendenze del design. Noi imprenditori del distretto, che abbiamo saputo sviluppare una forte vocazione alla produzione e alla ricerca di soluzioni innovative, dovremmo iniziare seriamente a fare attività di branding, comunicazione e strategia di marketing”. Sauro Longhi, Magnifico Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Ha concluso dicendo che si è impegnato, insieme con l’Ing. prof. Michele Germani, a valorizzare il distretto produttivo, appoggiando la manifattura sostenibile per rendere migliore la qualità e l’attualità dei prodotti, senza rinunciare al profitto, pur senza l’abbattimento dei costi. L’Accademia Politecnica cercherà di raggiungere gli scopi prefissati, relazionando tutte le realtà che hanno partecipato al Convegno.
18.00-20.00 Teatro Italia - Convegno - Angelica Malvatani intervista medici, imprenditori, dirigenti scolastici e politici. Partecipano: S.E. Angela Pagliuca, Prefetto di Fermo. MEDICI: Lorenzo Agostini, Andrea Belletti, Armando Benedetti, Marco Borgioli, Simonetta Calamita, Anna Maria Calcagni, Liduina Cecchi,Paola Clementi, Sergio Corsi, Lanfranco Iommi, Luciano Ferrini, Silvana Giacobbo, Lucio Giustini, Lucio Livini, Maurizio Lombi, Enrico Luchetti, Giampiero Macarri, Simone Marcaccio, Andrea Mazzoni, Francesca Rastelli, Massimo Remia, Francesco Silenzi, Daniele Travaglini, Giacomo Tucci, Francesco Zaraca, Silvana Zummo. IMPRENDITORI: Graziano Di Battista, Nazzareno Di Chiara, Paolo Marzialetti, Marco e Attilio Sorbatti, Angelo Cecchi, Serafino Tirabasso e gli operatori del Distretto del Cappello. DIRIGENTI SCOLASTICI: Sauro Longhi, Michele Germani, Margherita Bonanni, Stefania Scatasta POLITICI: Manuela Bora, Fabrizio Cesetti, Francesco Verducci, Remigio Ceroni, Paolo Petrini , i Sindaci del Distretto del Cappello.
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LE MARCHE NEL MONDO di Franco Nicoletti
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venti strategici per lo sviluppo economico e l consiglio dei marchigiani all’estero è un organismo di rappresentanza delle sociale delle Marche attraverso: comunità dei marchigiani emigrati nel • Scambi giovanili mondo ed è composto da delegati di ogni • Sviluppo d’iniziative imprenditoriali associazione di marchigiani all’estero. Si • Progetti in campo culturale e di attrazioaggiungono le organizzazioni sindacali, le ne turistica Associazioni dei datori di lavoro, i Patronati Le comunità marchigiane residenti all’estee rappresentanti delle Provincie, Università, ro, oltre che un mercato di riferimento già Camere di commercio. Il Consiglio, che si “fidelizzato” e in grado di apprezzare imriunisce ogni 2-3 anni è diretto da un comediatamente i prodotti identificabili come mitato esecutivo composto di otto persone. tipici della tradizione e della cultura regioIn questo momento le associazioni dei marnale (vale a dire i prodotti dell’enogastrochigiani all’estero riconosciute contano cir- Il Dott. Moschini, Presidente del CESMA di Roma consegna il premio “Mar- nomia e dell’industria creativa), possono chigiano del Mondo 2014”a Franco Nicoletti, Presidente del Consiglio dei ca 15.000 iscritti, di cui 1.600 giovani e sono Marchigiani all’estero diventare preziosi alleati per sviluppare una presenti nelle 4 macro aree: maggiore conoscenza del territorio regiona- America Latina, 45 associazioni e 2 federazioni (Argenle e del suo sistema produttivo. tina, Brasile, Uruguay, Venezuela) Attualmente le associazioni sono confrontate a moltissi- America del Nord, 4 associazioni (3 in Canada e 1 negli me richieste d’informazioni sulle condizioni e opportuniStati Uniti) tà di lavoro nei nostri paesi. Spesso sono giovani laureati - Australia con 7 associazioni e 1 federazione che vogliono tentare fortuna all’estero, questo fenomeno - Europa, con 12 associazioni e 2 federazioni (Francia, è ovviamente legato alla crisi. Si lascia l’Italia, dove è neBelgio, Germania, Svizzera, Lussemburgo e Repubblica cessario accettare compromessi spiacevoli e ringraziare Ceca) per 800 euro al mese mentre in altri paesi c’è l’opportuniStiamo registrando contatti con il Giappone e Hong Kong, tà di essere riconosciuti al suo giusto valore. in Europa con Londra e l’Olanda. Per far fronte a questo nuovo Sono avviati anche rapporti con gli fenomeno migratorio che Stati Uniti a New York nel New Jercoinvolge giovani e meno giovani sey e a New Haven nel Connecticut in cerca di lavoro e sopravvivenza e nella West Coast. all’estero siamo diventati un punto Per il futuro lavoriamo su due di riferimento e di orientamento, grandi progetti: pur tenendo conto che siamo Un nuovo sviluppo dell’associazioorganizzazioni di volontariato. nismo dei marchigiani nel mondo Vorrei concludere ancora con una e un più forte collegamento con storia di vita di tutte le generaziol’associazionismo regionale meni d’emigrati rinchiuse all’interno diante: delle mura di un museo. • nuove formule di raggruppaIl nuovissimo Museo dell’emigramento di nuove associazioni zione marchigiana a Recanati vi Franco Nicoletti in visita al Museo del Cappello di Paglia di Massa Fermana • formazioni e aggiornamento dei aspetta. È il frutto di anni di sfordirigenti zi delle diverse associazioni per la raccolta di materiali e • strumenti di comunicazione virtuale documenti. Questo museo vuole ricordare tutti quelli che • iniziative congiunte tra associazioni all’estero e quelle con tenacia e perseveranza, hanno contribuito alla crescimarchigiane rivolte alla promozione culturale ed econota di tanti Paesi, un rifugio per le giovani generazioni per mica delle Marche e delle sue eccellenze. Piano d’internon dimenticare le proprie radici.
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PAIMAR Paimar ad oggi è un marchio di riferimento per la produzione di cappelli artigianali da uomo, donna e bambino. L’azienda, nata nel 1975 nel cuore delle Marche, realizza copricapo e accessori moda in tessuto, paglia, feltro, pelle, maglia ed affini. Il design e la ricerca sono interni all’azienda e la produzione viene effettuata nel distretto produttivo di Montappone, con una manodopera altamente qualificata. Realizza inoltre in licenza anche il marchio Barnum. Paimar distribuisce i propri prodotti anche sui mercati internazionali, rivolgendosi al segmento del lusso e collaborando con molte griffe ed aziende di confezioni per l’abbigliamento. Si fregia del marchio Marche Eccellenza Artigiana dal 2011, riconoscimento con cui la Regione Marche ha voluto valorizzare, promuovere e tutelare la tradizione degli antichi mestieri artigiani.
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Fotografo: Beatrice Livi
Via G.E. Alessandrini, 4 - 63835 MONTAPPONE (FM) ITALY Tel. 0734.760487 info@paimar.com
La divisa della Guardia Svizzera di Lucia Di Spirito
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on c’è pellegrino che all’arrivo a Roma non corra a immortalarsi accanto alle Guardie Svizzere Pontificie, schierate sull’attenti e immobili come statue nell’uniforme pittoresca, davanti agli otto ingressi del Vaticano. Non tutti però conoscono la loro storia. Chi sono? Quali sono i loro compiti? Come si diventa guardia di Papa Francesco? «Raramente tradizione e modernità si coniugano così bene come nel Corpo della Guardia Svizzera Pontificia» racconta Daniel Anrig, 34° comandante della Guardia Svizzera in carica dal 2008. «Il nostro mandato è storico: da oltre 500 anni proteggiamo il Pontefice e la sua residenza e in tutto questo tempo nulla è cambiato».
Il corpo delle Guardie Svizzere Pontificie nasce ufficialmente il 22 gennaio 1506 per difendere il Papa e i Palazzi Pontifici, ma tutto iniziò quando un gruppo di 150 mercenari svizzeri entrò per la prima volta in Vaticano per servire papa Giulio II che li aveva chiamati, dopo la sua elezione nel 1503, per proteggersi dai nemici e dai frequenti delitti politici che avvenivano in quel periodo, quando l’Europa era dilaniata dalle Guerre di religione. Sono in molti a chiedersi perché il Papa scelse di affidare la sua sicurezza proprio alle Guardie Svizzere. «Il mercenario svizzero del XVI secolo ha in comune con la guardia odierna la stessa e ferma convinzione che la Chiesa di Gesù Cristo e il Successore di Pietro meritino, anzi esigano, che ci si impegni al punto di offrire anche la propria vita, se dovesse essere necessario» spiega il colonnello Daniel Anrig, sposato e con quattro figli. Una sconfinata reputazione dipinge le guardie svizzere come affidabili, disciplinate e agguerrite sin dal Cinquecento. A quel tempo la Svizzera, Paese agricolo e sovrappopolato, versava in precarie condizioni economiche e ai cittadini non restava che emigrare. L’occupazione migliore era fare il mercenario. Partivano in massa come volontari per essere arruolati negli eserciti delle potenze europee e concepivano la guerra come una migrazione temporanea. Erano considerati i migliori soldati del tempo per lo spiccato senso d’obbedienza, disciplina e assoluta fedeltà nei confronti del signore a cui giuravano obbedienza. La prova di ciò arriva, in particolare, il 6 maggio 1527, durante il Sacco di Roma inflitto dalle milizie del contestabile Carlo di Borbone, quando salvarono, con il loro sacrificio, la vita a papa Clemente VII. Delle 189 guardie svizzere scamparono alla morte solo in 42: quelle che all’ultimo momento avevano accompagnato Clemente VII nella fuga lungo il Passetto, il passaggio segreto che collega il Vaticano a Castel Sant’Angelo. L’uniforme è ispirata a Raffaello - «Oggi a indossare la tradizionale uniforme rinascimentale sono giovani svizzeri, moderni e ben istruiti» chiarisce il comandante del corpo. La divisa, caratterizzata da sgargianti colori, con giubba stretta in vita da un cinturone, pantaloni al ginocchio e ghette a bande blu e gialle, rende riconoscibili a prima vista i custodi della sicurezza del Papa. Non fu Michelangelo, come molti erroneamente credono, a disegnarla. L’attuale divisa si deve al comandante Jules Repond che, agli inizi del XX secolo, si ispirò alle divise storiche e agli affreschi di Raffaello, il grande artista italiano del Cinquecento che con le sue pitture ha influenzato e diffuso il gusto del Rinascimento italiano. Jules Repond abolì i vari tipi di vecchi cappelli sostituendoli con l’attuale basco, su cui spiccano i gradi, e al posto delle increspate «gorgiere» introdusse il colletto bianco. I colori blu e giallo sono quelli dello stemma araldico dei Della Rovere (la famiglia di papa Giulio II, fondatore della guardia) mentre il rosso è il colore
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della famiglia Medici, da cui proveniva papa Clemente VII. A queste tinte, si aggiunge il bianco dei guanti e del colletto. La divisa di gran gala, che si indossa in occasione di festività quali Natale e Pasqua e durante il giuramento, prevede una co gorgiera e guanti bianchi, morione (elmo) di metallo chiaro con piuma di struzzo, di colore diverso a seconda del grado: bianca per comandante e sergente maggiore, viola scuro per ufficiali, rosso per alabardieri e sottufficiali. Sull’elmo, a destra e a sinistra, è raffigurata a sbalzo la quercia, stemma araldico dei Della Rovere. L’uniforme dei due Tamburi, che fanno parte della banda, è gialla e nera come la piuma del loro casco. La divisa del comandante è, invece, costituita da giubba e pantaloni bordeaux. Durante i giorni feriali le guardie svizzere dispongono anche di un’uniforme più comoda rispetto a quella ufficiale: completamente blu con collo e polsini bianchi e un basco di colore nero. In inverno e quando piove, può essere indossato un cappotto a mantella per proteggersi dalla pioggia e dal freddo. In viaggio con Francesco – La Guardia Svizzera si occupa della vigilanza, della sicurezza e della protezione del Papa all’interno del Palazzo Apostolico e durante i suoi viaggi, oltre che dei servizi d’onore durante udienze, cerimonie e ricevimenti. Presiede, con il Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano, alle cerimonie nella Basilica di San Pietro e nell’aula Paolo VI. Sorveglia gli ingressi della Città del Vaticano e si occupa, inoltre, durante la sede vacante, della protezione del collegio cardinalizio. La riunione più attesa resta quella consueta del 6 maggio, in occasione del giuramento dei nuovi arrivati, una trentina ogni nuovo anno, che rimarranno in carica da un minimo di 25 mesi fino a tre anni. Il giuramento delle reclute – Il giuramento delle nuove reclute si svolge ogni anno nell’anniversario del Sacco di Roma, quando il 6 maggio 1527 persero la vita 147 guardie. La cerimonia si svolge nel Cortile di S. Damaso, alla presenza di personalità religiose del Vaticano, politici, parenti e amici. Le reclute, con la mano sinistra sulla bandiera della Guardia e la destra alzata con le tre dita aperte, quale simbolo della Trinità, confermano: «Giuro di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Sommo Pontefice e i suoi legittimi successori, come pure di dedicarmi a loro con tutte le forze, sacrificando, ove occorra, anche la vita per la loro difesa. Assumo del pari questi impegni riguardo al Sacro Collegio dei Cardinali per la durata della Sede vacante. Prometto, inoltre, al Capitano Comandante e agli altri miei Superiori rispetto, fedeltà e ubbidienza. Lo giuro. Che Iddio e i nostri Santi Patroni mi assistano ». In occasione dell’annuale cerimonia, il Papa benedice le nuove reclute e rinnova all’intero corpo della Guardia Svizzera Pontificia l’espressione del suo affetto e della sua riconoscenza, assicurando la sua preghiera per il loro impegnativo servizio. Il corpo che protegge il papa è un’istituzione che non conosce crisi. C’è sempre la corsa all’arruolamento. Il boom vero e proprio si ebbe nell’anno 2000, in occasione del Grande Giubileo voluto da Papa Giovanni Paolo II: quasi in mille chiesero alla Santa Sede di essere arruolati nel corpo armato. Fu in quell’occasione che aumentò il numero delle guardie in Vaticano: da 100 si passò alle attuali 110. Quello del Papa è il più piccolo esercito del mondo, un esercito pacifico. Due le armi bianche: la spada e l’alabarda, identiche a quelle dei mercenari svizzeri del XVI secolo. Le guardie le portano con sé senza tuttavia farne uso. Musica e ping pong - Nel tempo libero le guardie praticano svariate attività, incluso il calcio, di cui papa Francesco è grande appassionato. La loro squadra, la FC Guardia, partecipa al campionato del Vaticano, disputando partite con la squadra dei Gendarmi e dei custodi dei Musei. Per tenere in forma il corpo le guardie svizzere frequentano la palestra, corsi di autodifesa e tennis da tavolo; per lo spirito seguono lezioni di uno strumento musicale. Al loro nutrimento pensano le suore Albertine, che preparano ogni specie di manicaretti sia italiani che svizzeri; al loro abbigliamento provvede la sartoria interna al Vaticano, nella quale il sarto cuce su misura la divisa di ogni guardia. Una volta terminato il servizio, le guardie non si perdono di vista, ma restano in contatto tra di loro attraverso l’«Associazione ex soldati della Guardia», incontrandosi di tanto in tanto. «In questo clima, maturano, oltre alla fede, le capacità, l’amicizia e la gioia di vivere» svela il comandante colonnello Daniel Anrig. Una divisa storica – Nel quartier generale della Guardia Svizzera c’è una sartoria nella quale il sarto Ety Cicioni confeziona quasi interamente a mano e su misura ogni uniforme. Per assemblare i 156 pezzi di tessuto che la compongono sono necessarie una trentina di ore. La divisa è sempre la stessa dal 1914 quando l’allora comandante Jules Repond l’ha ricondotta al suo aspetto originario. Un esercito - Nella Guardia ci sono 110 persone: 5 ufficiali, un cappellano militare, 26 sottoufficiali e 78 soldati. L’arruolamento – Per essere ammessi nel corpo delle Guardie Svizzere occorre essere cittadini svizzeri, di fede cattolica, praticanti, in buona salute, con una reputazione irreprensibile e aver frequentato la scuola delle reclute nell’esercito svizzero. Bisogna poi avere un curriculum di studi di almeno tre anni, una buona formazione professionale di almeno due anni, essere di sesso maschile, celibe (per sposarsi occorre avere almeno 25 anni, aver già prestato servizio per tre anni, impegnarsi a servire per altri tre e aver raggiunto almeno il grado di caporale), avere un’età tra i 19 e i 30 anni e un’altezza minima di 174 centimetri.
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PAOLO VI e gli artisti di Stefania Severi
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l 19 settembre 2014 è stato beatificato Giovan Battista Montini (Concesio, Brescia 1897 – Castel Gandolfo, Roma 1978), papa col nome di Paolo VI dal 1963 al 1978. La sua ricorrenza è stata stabilita al 26 settembre, giorno della nascita. Alla cerimonia di beatificazione, oltre a Papa Francesco, ha presenziato Benedetto XVI che era stato nominato cardinale proprio da Paolo VI nel 1977. Montini, che quando salì al soglio pontificio era Arcivescovo di Milano, ha avuto il difficile compito di mediare tra novità e tradizione e si è spesso espresso in favore delle novità quando queste non contrastavano con i principi basilari della fede. Aveva infatti detto: “Non bisogna avere paura delle novità […] delle sorprese di Dio”. Paolo VI era un pontefice colto, raffinato e aperto verso il nuovo ed una chiara dimostrazione di ciò ci viene proprio dal suo atteggiamento nei confronti dell’arte e degli artisti. Montini amava l’arte contemporanea fin dalla giovinezza, come testimonia il suo amico filosofo e pittore Jean Guitton, ed anche da Pontefice ha tenuto vivo questo legame tanto da volere l’arte contemporanea all’interno dei Musei Vaticani. La Collezione d’Arte Religiosa Moderna, da lui istituita nel 1973, documenta proprio la capacità dell’arte contemporanea di esprimere il sentimento religioso in forme espressive nuove, non convenzionali, in relazione al rinnovamento del linguaggio estetico tipico del secolo appena trascorso. La Collezione, che si articola in 55 sale espositive, raccoglie opere databili dal XIX al XXI secolo, raccolte prevalentemente tramite donazioni. Tra gli artisti troviamo i nomi più prestigiosi. Tra gli stranieri: Paul Gauguin, Odilon Redon, Auguste Rodin, Henri Matisse, Fernand Leger, Georges Rouault, Paul Klee, Ben Shahn, Otto Dix, Francis Bacon, Graham Sutherland, David Siqueiros e Marc Chagall. E tra gli italiani: Renato Guttuso, Corrado Cagli, Franco Gentilini, Lucio Fontana, Emilio Greco, Umberto Mastroianni, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Carlo Carrà e Guelfo. Tantissime sono le dimostrazioni concrete del suo interesse nei confronti dell’arte e degli artisti. Durante il suo pontificato ha inaugurato tre porte di bronzo della Basilica di San Pietro. Le prime due erano state commissionate da Giovanni XXIII: la porta del Giudizio o della Morte di Giacomo Manzù, inaugurata nel 1964; la porta dei Sette Sacramenti di Venanzio Crocetti, inaugurata nel 1965. La terza porta, del Bene e del Male, la aveva lui stesso commissionata a Luciano Minguzzi e la inaugurò nel 1977 nel giorno del suo 80° compleanno. Nel 1964 commissionava a Pier Luigi Nervi la realizzazione di una sala delle udienze che ancor oggi è usata dai pontefici, capace di contenere 12000 posti in piedi, con avanzati
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Paolo VI e lo scultore Egidio Giaroli durante l’inaugurazione della Collezione d’Arte Religiosa Moderna, 23 giugno 1973, la croce pettorale del Papa è dell’artista (archivio Famiglia Giaroli)
Paolo VI parla agli artisti in Cappella Sistina il giorno dell’inaugurazione della Collezione, 23 giugno 1973. Foto © Servizio Fotografico L’Osservatore Romano
impianti di condizionamento, insonorizzazione e illuminazione. Nell’aula, inaugurata nel 1971, sei anni dopo è stata collocata la grande scultura bronzea la Resurrezione di Cristo, opera di Pericle Fazzini. E queste sono solo le commissioni più “grandi” ma numerosissime e non meno importanti sono quelle più “piccole”. Esemplare al riguardo è la stima che il Pontefice nutriva per lo scultore Egidio Giaroli, al quale commissionò, tra l’altro, la porta del Concilio per la chiesa di San Martino degli Svizzeri all’interno del Vaticano (1967), la Croce Pettorale del Sinodo (1967), l’urna reliquiario di San Pietro per la sua cappella privata (1971) e le due torciere in bronzo, dedicate a San Pietro e San Paolo, per la Basilica di San Pietro (1972). Numerosi sono gli scritti di Paolo VI legati all’arte, a cominciare dalle commosse parole espresse per le celebrazioni del 5° centenario della nascita di Michelangelo (1975). Gli artisti hanno con prontezza e riconoscenza risposto all’interesse del Pontefice tanto che, per celebrare i suoi ottanta anni, hanno realizzato in omaggio a lui opere dedicate alla vita di San Paolo che sono poi confluite nella Collezione dei Musei Vaticani. Le parole pronunciate dal Paolo VI il 23 giugno del 1973, inaugurando la Collezione d’Arte Religiosa Moderna, sono illuminanti e sottolineano che «l’Artista moderno è soggettivo, cerca più in se stesso, che fuori di sé i motivi dell’opera sua, ma proprio per questo è spesso eminentemente umano». Secondo il Pontefice, proprio per questa soggettività l’artista moderno ha forse ancor più la capacità di esprimere «il religioso, il divino, il cristiano». In concomitanza con la beatificazione, la Direzione dei Musei Vaticani ha realizzato la mostra “Paolo VI e gli artisti - Siete i custodi della bellezza del mondo”, che è stata allestita nel Braccio di Carlo Magno (17 ottobre – 15 novembre 2014). La mostra, attraverso una selezione di opere d’arte dei Musei Vaticani, tra le quali alcuni ritratti del Pontefice (eseguiti da Enrico Manfrini, Lello Scorselli, Alvaro Delgado e Dina Bellotti) e soprattutto un ampio repertorio fotografico e documentario, ha illustrato i momenti più significati del pontificato di Paolo VI in relazione alla promozione dell’arte sacra e degli artisti contemporanei. La mostra, a cura di Francesca Boschetti, è stata accompagnata da un catalogo Edizioni Musei Vaticani, con presentazione di Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, testo della curatrice e alcuni straordinari passaggi degli scritti di Paolo VI. Si è trattato di una interessantissima mostra caratterizzata da, come scrive la Boschetti, responsabile della Collezione d’Arte Contemporanea: «un andamento prevalentemente cronologico, affiancando fotografie, sculture, dipinti, carte e volumi». Anche se la mostra, come tutte le mostre, ha avuto un tempo limitato, per ammirare l’arte sacra moderna si possono visitare, in particolare, la Collezione d’Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani, la Collezione Paolo VI, inaugurata a Concesio nel 2010, e la Galleria d’arte sacra contemporanea di Villa Clerici a Niguarda, inaugurata proprio quando Montini era Arcivescovo di Milano. Alcune delle immagini che accompagnano l’articolo sono state gentilmente fornite dall’Ufficio Stampa dei Musei Vaticani nell’occasione della mostra “Paolo VI e gli artisti”.
Paolo VI durante l’inaugurazione della Collezione d’Arte Religiosa Moderna con Mons. Pasquale Macchi e Mons. Giovanni Fallani, 23 giugno 1973 Foto © Servizio Fotografico L’Osservatore Romano
Paolo VI inaugura la “Resurrezione” di Fazzini nell’Aula delle Udienze, 28 settembre 1977. Foto © Servizio Fotografico L’Osservatore Romano
Maurice Denis, “Angeli”, 1901, dono di Jean-Françoise Denis a Paolo VI, Musei Vaticani, Collezione d’Arte Contemporanea, inv. 50029 Foto © Musei Vaticani
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Il museo “Il Divino Infante” di Stefania Severi
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l museo “Il Divino Infante” di Gardone Riviera, sulla riva bresciana del Lago di Garda, è unico al mondo. E’ a pochi passi dal Vittoriale, la villa con splendido parco di Gabriele d’Annunzio. E’ come se qui a Gardone sacro e profano si incontrassero, a ribadire che entrambi non possono prescindere dall’arte e dalla bellezza. Il museo, che si sviluppa su 1200 mq, è gestito dall’omonima Fondazione ed è visitabile quasi tutto l’anno secondo un articolato calendario che è consultabile sul sito www.il-bambino-gesù.com. Il museo nasce dalla collezione di Hiky Mayr. La Signora Hiky, nata a Monaco di Baviera, da molti anni risiede in Italia ed è qui che ha iniziato ad appassionarsi alle sculture polimateriche del Bambino Gesù, acquistandole un po’ ovunque, da privati e da antiquari. Il suo primo pezzo risale al 1976 quando, presso un antiquario, tra pentole di rame vide una statuetta in cartapesta di un Bambino, molto rovinato e senza le dita delle mani e dei piedi. Comperò delle pentole e l’antiquario le regalò il Bambino. Era il primo, sarebbero divenuti più di 300. La Signora Hiky non si è mai limitata a collezionare ma ha iniziato subito a prendersi cura dei suoi Bambini, procedendo lei stessa ad accurati restauri, sia delle statuine sia degli accessori ed in particolare dei vestiti, spesso procedendo anche a sostituzioni di parti ma sempre con tessuti e passamanerie d’epoca. Del resto la Signora Hiky aveva, per tale lavoro, una preparazione specifica conseguita nella natia Monaco. Questi Bambini, che al momento dell’acquisto erano quasi sempre in pessime condizioni, provengono tutti dall’Italia ed in particolare dal Meridione dove un tempo quasi ogni casa ne aveva uno. Sono databili dal 1700 ai primi del 1900. Poi la devozione è passata e sono arrivati sul mercato. Anche i conventi ne avevano e spesso anche loro li hanno eliminati. Questi Bambini sono in legno, cera, terracotta, cartapesta, creta, con abiti in tessuti preziosi e merletti, gioielli ed accessori in vari materiali, dalla carta al ferro. . Talvolta sono sacre bambole, un tempo parte del corredo della giovani suore, alle quali era uso cambiare l’abito in relazione al periodo liturgico. Tali bambole possono avere o il corpo di legno, con snodi alle articolazioni di braccia e gambe, oppure avere il corpo di stoffa, su stoppa e filo metallico, e testa mani e piedi in terracotta, come avviene per i personaggi del Presepio
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Piccolo Re Bambino-Piccolo Re con lo scettro e la destra benedicente. È in terracotta policroma, occhi in pasta di vetro e tessuti. Alto cm 42 proviene dall’Italia del Sud (sec. XVIII).
Bambino in Paradiso Questo Bambino, interamente modellato in cera, così come in cera sono le tre pecore, è adagiato su un tappetino di stoffa disposto su un prato. I piccoli occhi di vetro si intravedono tra le palpebre socchiuse. Sta quasi per addormentarsi in un bel Paradiso di fiori di carta e muschio. La base in legno, le dimensioni ridotte, e l’essere di cera fa ipotizzare la presenza di una campana di vetro andata perduta (sec. XIX).
Maria Bambina. Rara immagine di Maria Bambina in cera con occhi in pasta vitrea, adagiata su una culla di filo metallico dorato, circondata da fiori di stoffa e protetta da una campana di vetro. Da notare l’elegante cuffietta di tulle (Italia del Nord, inizio sec. XX)
napoletano. Soprattutto queste sacre bambole, ma non solo loro, hanno complesse parrucche. I Bambini hanno prevalentemente ricche vesti ma ci sono anche molti esemplari nudi. La nudità del Bambino si diffuse soprattutto dal XVIII secolo per sottolineare la sua incarnazione, pertanto di alcune tipologie di Bambino si trova sia quello vestito sia quello nudo. Gli esemplari più piccoli sono talvolta racchiusi in teche di cristallo. Fino a che non si visita il museo non si immagina che di Bambini Gesù ce ne siano di tanti tipi. C’è il Piccolo Re, in piedi, con sul capo una raggiera o una corona, la destra benedicente e nella sinistra il globo con la croce o lo scettro. Il Bambino nel Paradiso è contornato da fiori di carta, carta cerata, cera, perline, vetro, tessuto. Il Bambino della Passione ha lo sguardo triste, perché contempla gli strumenti della sua futura Passione, spesso tenendo in mano la croce, la corona di spine, il suo cuore sanguinante. Il Bambino Gesù in fasce è specificatamente legato al Natale ma anche, ritto in piedi, si ricollega al venerato Bambino Gesù della Chiesa di Santa Maria in Ara Coeli a Roma. Molto rara è la figura di Maria Bambina, ma nel nostro museo ci sono anche esemplari di tale immagine. Giace quasi sempre nella culla, avvolta nelle fasce. Il culto era diffuso prevalentemente in Lombardia e legato all’immagine miracolosa di Maria Bambina venerata nel monastero milanese delle Suore della Carità. L’immagine, risalente al 1720 circa, veniva periodicamente vestita di nuovi abiti. Un tempo la piccola Maria Bambina veniva donata agli sposi che la ponevano nella loro camera da letto per protezione. Nel Museo sono esposti anche moltissimi accessori, quali vestiti, scarpette, parrucche (in lino, seta e perfino capelli umani), borsettine, culle ed una eccezionale collezione di corone per il capo. E ci sono anche alcuni presepi napoletani. Insomma il museo “Il Divino Infante” è “prezioso” perché è assolutamente unico; è “prezioso” perché ogni oggetto esposto è “prezioso”, in quanto la preziosità è in funzione del tempo che si è disposti a dedicargli, e qui ad ogni Bambino sono state dedicate lunghe, sapienti ed amorose cure; è “prezioso” perché ci rimanda ad un tempo in cui la vita quotidiana non veniva concepita solo sotto il profilo materiale ma era posta sotto la protezione di una Luce spirituale. Il bellissimo volume “Il Piccolo Re”, edito dalla Fondazione, che raccoglie la collezione e dal quale sono tratte le immagini che corredano l’articolo, è anch’esso preziosissimo, con le 288 pagine con parti dorate, le 345 foto a colori ed il formato di cm. 28 x 31. I testi sono in italiano e tedesco.
Bambino della Passione Bambino della Passione nudo in legno policromo, occhi in pasta di vetro e parrucca di seta. Lo sguardo triste, la mano sul cuore e la corona di spine lo indicano senza ombra di dubbio come Bambino della Passione. E’ alto cm. 58 (Napoli, sec. XVIII).
Bambola sacra Questo esemplare in legno policromo, snodabile agli arti, e con occhi in pasta di vetro è giunto senza la veste originaria, salvo le braghette di lino. E’ alto cm 29 (Italia del Sud, sec. XVIII).
Bambino in fasce Bambino in legno policromo, occhi in pasta di vetro e tessuti, alto cm. 56, posto sotto un ricco baldacchino di legno intagliato e dipinto. Si ispira a quello romano dell’Ara Coeli (Italia del Sud, sec. XIX-XX)
Bambino nudo In legno policromo di bellissima fattura, è un esemplare unico soprattutto per la postura insolita. Ha occhi in pasta di vetro e parrucca a boccoli in fibre vegetali. E’ alto cm. 66 (Italia del Sud, sec. XVIII)
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Saperi e Sapori della Mela Rosa di Nanda Anibaldi
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otto il proscenio del teatro di Monte San Martino (MC) se ne sono contate cinquanta varietà. Uno straordinario impatto visivo-emotivo per forme e colori. Ognuna parlava la sua lingua, insieme intonavano una sinfonia. Domenica 8 novembre per il Festival dei Saperi e Sapori. L’argomento clou La mela rosa e L’apicoltura marchigiana. Relatore dott. Murri Giorgio del Politecnico delle Marche su biologia fiorale, produttività e sostenibilità degli impianti di mela rosa. Un ottimo relatore per un approccio chiaro e sistematico che ha fatto da polo di attrazione per alcune domande partite dal pubblico attento e motivato. Non è mancata quella del rapporto cibosalute. O meglio fitofarmaci e prodotto ecologico. Chiaramente la mela di cui trattasi si può definire sana e perché poco soggetta a fitopatie e perché viene curata seguendo obiettivi di salvaguardiasalute. Una domanda d’obbligo al sindaco Ghezzi Valeriano approfittando del momento di fine-pranzo. E per le grandi produzioni? Dobbiamo credere nella filiera corta se vogliamo vincere la scommessa. E’ un buon inizio. E non solo per la mela rosa ma anche per le altre varietà presenti nel nostro territorio. Un po’ per curiosità,un po’ per provocazione, visto che il momento conviviale rigorosamente a base di mela è stato rallegrato da musiche e canti, abbiamo chiesto al professore Murri in che rapporto può stare l’agricoltura e la musica. Sono già insieme da sempre, è la risposta del professore, legate dalla tradizione. Basta pensare ai lavori dei campi quando la società aveva una caratura prettamente rurale e le famiglie erano patriarcali, non c’era tappa che non ne fosse accompagnata per alleggerire la pesantezza del lavoro e per creare motivi d’incontro anche sentimentali. Non sono mancate pennellate d’autore da parte del
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presidente dell’Unione Montana dei Monti Azzurri di S. Ginesio prof. Feliciotti Giampiero che nel descrivere la mela rosa ha formalizzato l’immagine di uno sposalizio tra un frutto e un fiore per esprimerne tutta l’attrattiva. Famosa e tutelata dal Consorzio di San Ginesio il cui presidente è il dott. Vittorio Giorgi, è ormai protetta e osannata e merita queste attenzioni sia per la sua particolare forma, sia per la sua resistenza, sia per le sue proprietà vitaminiche. Un po’ dimenticata negli anni, da qualche tempo è diventata protagonista ed è di nuovo sulla scena a pieno titolo. E’ uno dei frutti più discusso e più chiacchierato nella storia e nel mito. Chiesa di Monte San Martino E anche il più mangiato in ogni stagione. Innumerevoli le utilizzazioni. Per decotti, in cucina e per trattamenti di bellezza. Non è esotica. E’ nostrana e, benché poco soggetta ad ammalarsi, viene curata con particolare attenzione per ridurre i rischi. Meleti coperti per proteggerla dalla grandine e dagli afidi che ne comprometterebbero l’appeal. Ne è un esempio eloquente il meleto dell’azienda agricola-sperimentale di Umberto Gobbi, chiamato il contadino-filosofo, che abbiamo voluto visitare in compagnia di esperti. Chiaramente la domanda su quale fosse il suo filosofo più amaGhezzi Valeriano, Sindaco del Comune di Monte San to era d’obbligo, non senza una punta d’ironia. Martino Schopenhauer la sua risposta pronta. Non ci siamo impressionati. E Socrate? di rimando. Certo, comincia tutto da lì. Battute sotto un cielo limpido con i piedi intrecciati nell’erba mentre filari di pink lady e non solo aspettavano di essere messi sotto vetrino. Sì. Comincia tutto da lì. Dalla capacità d’interloquire. Di diffondere l’informazione. Di discuterla. Di confrontarla. Di migliorarla. Ma bisogna crederci. Non si può bleffare se ci è cara la nostra saNanda Anibaldi e Murri Dr. Giorgio Università Politecnica delle Marche “Biologia fiorale, produttività e soste- lute e quella dei nostri figli. nibilità degli impianti di mela rosa” Se vogliamo salvare anche la bellezza.
La ditta Sorbatti, in virtù del suo retaggio familiare e professionale nel settore del cappello, si è evoluta nell’odierna realtà come industria affidabile e dinamica. Fa dell’innovazione tecnologica e della qualità dei prodotti il proprio fiore all’occhiello. Crea e cura nei minimi dettagli i prototipi personalizzati per la promozione dei brand aziendali forniti dai clienti, anche i più esigenti. La vita aziendale della Sorbatti srl si svolge attualmente in tre luoghi: Montappone, via Leopardi 18 Qui si trova l’opificio industriale, uno stabilimento di produzione di 1800 mq proprio nel cuore del distretto. L’Azienda produce cappelli e berretti di qualità come feltri, panama originali, coppole e altro. Tutto il processo produttivo è seguito con cura, dalla selezione delle materie prime all’imballaggio. Strada Provinciale Montapponese Sorbatti Outlet, punto vendita al pubblico di cappelli, berretti in tessuto, paglia, feltro e accessori di produzione propria. Online Store Vendita online a privati e rivenditori su www.sorbatti.it Monte Vidon Corrado C.da Vallemarina (Z.ind.) Magazzino di 2500 mq per lo stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti commercializzati. SORBATTI srl via G. Leopardi, 18 63835 Montappone (FM) - ITALIA tel. 0039 0734760982
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Tra mito e storia. La mela. di Nanda Anibaldi
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n frutto semplice alla portata di tutti. Lo mangiavano i nostri nonni e i bis bis-nonni dopo averlo conservato per alcuni mesi anche sopra gli armadi in camera da letto. Lo abbiamo mangiato già masticato da altri o grattugiato e dopo la dentizione azzannato con gusto, buccia compresa. Non era ancora l’era dei pesticidi. Se ne sono impossessati il mito le religioni le favole e la storia dell’arte.
ALLA PIU’ BELLA. Quella scritta sulla mela d’oro gettata dalla dea della discordia Eris alle nozze di Peleo e Teti cui non era stata invitata, scatenò la guerra di Troia. E con ciò si è istituito il primo concorso di bellezza. Hera Afrodite Atena le tre contendenti. Paride scelse Afrodite che gli promise l’amore. E amore fu e fu guerra. Così la mela fu consegnata alla Storia come Pomo della discordia Altro esempio nella mitologia fu che Gaia regalò a Zeus ed Hera un cesto di mele d’oro nel giorno del loro matrimonio il cui albero era posto nel giardino delle Esperidi. In questo caso la mela era simbolo di fecondità. Nel 3° LIBRO della GENESI si parla peraltro dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male e del frutto senza altra specificazione. In latino la mela viene chiamata Malum che significa anche Male e per questo il Medio Evo la rappresenta come mela detta anche Frutto proibito. Il frutto della disubbidienza dell’uomo verso Dio la cui più aspra conseguenza è la morte fisica. Per la favola, la mela di Grimilde di cui fu vittima Biancaneve. Quella favola che non ci stancavamo mai di ascoltare anche per il bacio del principe che riporta in vita la protagonista. Pure l’arte se n’è impossessata con diverse simbologie a seconda delle epoche. Dalla mitologia greco- romana è rappresentata in mano a Venere e alle tre Grazie come simbolo di bellezza. Mentre nell’iconografia religiosa medioevale di solito in mano alla Madonna che la porge al Bambino o al Bambino stesso come simbolo di salvezza e di redenzione. Nel Rinascimento Donatello con la sua “Madonna della mela” mentre compare in modo sempre allegorico in Arcimboldo. A proseguire “Canestra di frutta” in Caravaggio con la mela in primo piano che assume il significato di ricchezza e abbondanza. Infine Magritte con il suo uomo con la bombetta e la mela che copre il volto come metafora di annientamento di identità. Una simbologia estrema quindi. La tentazione e la discordia o la fecondità e la fortuna. Per la storia archeologica la mela ha origini antichissime. Alcuni
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Il giuramento di Paride, Peter Paul Rubens
Il Giardino delle Esperidi, Lord Frederick Leighton
La mela del peccato, Michelangelo
resti risalgono all’8000 a.C. tra le società nomadi nelle fertili rive del Nilo Tigri Eufrate. Recenti spedizioni hanno rinvenuto resti di alberi di mele negli scavi di Jerico risalenti al 6500. In tempi più recenti ne parlano Orazio e Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia dove descrive 20 tipi di mele diverse . La Scuola di Salerno nel 1100 ne decantava le qualità terapeutiche per i polmoni intestino e sistema nervoso. Il primo programma di studio sulla mela inizia agli inizi del’900 da cui la realizzazione del più grande meleto al mondo in OHIO che produsse la famosa varietà Goldrush. Più di 7000 varietà nel mondo più di 2000 in Italia. Tra le più conosciute renetta golden fuji cotogna e rosa. Quest’ultima è da considerarsi una delle migliori mele sia da mangiare sia da cottura. Polpa bianca croccante acidula succosa. Famosa la mela rosa dei monti Sibillini (Orazio nelle Satire IV e VIII del 2° Libro parla delle mele del Piceno che sono superiori a quelle di Tivoli). Di dimensioni medio - piccola appiattita e irregolare. Striature rosso vinoso che si alternano al verde o vi si sovrappongono. Forte resistenza alle fitopatie per cui viene considerato un frutto veramente biologico. Di recente - dopo essere stata trascurata rispetto ad altre varietà più appariscenti - è rientrata in produzione per gli alberi superstiti e per gli ecotipi conservati dai Servizi Agroalimentari della Regione marche.... La raccolta avviene da fine settembre a metà ottobre circa e, grazie alla sua serbevolezza, può essere conservata fino alla primavera successiva. Per evitare che l’umidità dell’inverno potesse corromperla veniva protetta dalla paglia perciò viene anche detta “Mela del fienile” E’ un concentrato di vitamine BI- B2-PPC ed è ricca di micronutrienti e antiossidanti. E’ particolarmente consigliata per i bambini per l’apporto di minerali quali fosforo manganese ferro e potassio. E non solo. E’ anche bella a vedersi e profumata. I meli in fiore sembrano rosai. Compare dappertutto. Anche sugli stravaganti cappelli delle corse ippiche di Ascot. Ormai è una mela protetta. L’ATTO COSTITUTIVO del CONSORZIO delle Marche è del 21 febbraio del 2006 di cui è presidente il prof. Giorgi Vittorio che ha un curriculum di tutto rispetto. Amante della sua terra S. Ginesio (ne ha promosso anche una Storia) di cui è stato sindaco per due mandati, è altresì innamorato a largo raggio della natura e dei suoi frutti. La sua genitorialità oggi ha anche una funzione terapeutica, di salvaguardia della salute sfruttando della natura quello che spesso viene malamente o parzialmente prodotto in laboratorio. Il Dott. Vittorio Giorgi è nato a San Ginesio il 27 maggio 1936 è coniugato con un figlio ed è laureato in Scienze Agrarie. Agente Generale delle Compagnie Riunite di Assicurazione Torino - Agenzia di Ancona e Prov. dal 1961 al 1966. Insegnante di materie tecniche scientifiche presso le Scuole di Avviamento Professionale Statale a tipo Agrario di Caldarola e Pievetorina. Nel 1966 esperto nel ruolo Tecnico dell’Agricoltura presso il MAF ed assegnato all’Ispettorato Agrario Provinciale di Pavia.
La mela di Grimilde
Madonna della mela, Donatello
Il figlio dell’uomo, Magritte
Canestra di frutta, Caravaggio
Mele rosa dei Sibillini
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Innamorarsi della mela rosa di Vanessa Petetta
“Innamorato della mela rosa” quasi di una donna con viso roseo e curve, questa la dichiarazione dell’agronomo sanginesino Vittorio Giorgi.
S
i è tenuto l’8 novembre scorso, presso il Teatro comunale di Monte San Martino, l’11° incontro regionale tecnico divul-
gativo sulla Mela Rosa e l’apicoltura marchigiana. Vittorio Giorgi, presidente del Consorzio di tutela della mela rosa, è stato promotore con il sindaco Valeriano Ghezzi e Giampiero Feliciotti, presidente Unione montana Monti Azzurri, del rilancio del frutto alle pendici dei Sibillini. L’iniziativa di riaffermare la mela rosa è partita nel 2005 allargandosi poi ad altre cultivar (da cultivated variety, varietà coltivata). Il paese dei Crivelli durante la stessa giornata ha visto la piazza e le vie colorarsi del mercato di mele e prodotti autunnali. Nel teatro una rassegna pomologica di aziende agricole tra le quali Gobbi, Vita e Peretti. Inoltre erano presenti al convegno l’assessore
Da Sx, Valeriano Ghezzi, Giampiero Feliciotti e Vittorio Giorgi
regionale Angelo Sciapichetti, docenti e allievi Unicam, agronomi, agricoltori appassionati nonché il prof. Leonardo Melatini dell’istituto alberghiero di S. Elpidio a Mare i cui allievi hanno preparato per turisti e convegnisti un pranzo “melato” nel vicino complesso agostiniano. Il prof. Giorgio Murri dell’ Università Politecnica delle Marche, con linguaggio scientifico ma accessibile e pratico ha trattato di tecniche riproduttive, di coltivazione, di parassiti e crittogame, di difesa e conservazione del frutto, di proprietà organolettiche e di commercio. La relazione sull’apicoltura marchigiana è stata tenuta dallo stesso Murri sostituendo i colleghi assenti Nunzio Isidoro e Sara Ruschioni. Incredibile la preziosità dell’ape (e altri insetti pronubi, trasportatori di polline) nell’impollinazione incrociata di cui il melo ha
Da Sx, Umberto Gobbi e Murri Dr. Giorgio
bisogno. Murri ha dissertato su nemici e tutela e poi, rivolto agli agricoltori sugli aspetti territoriali e occupazionali della mela ha concluso “Fiducia e stima”. Alcune curiosità sull’origine dei nomi: La mela Cerina o “Zitella”, dalla buccia liscia e di colore giallo chiaro pezzato di macchie rosse, era dolce e molto profumata tanto da essere posta un tempo dalle “ signorine” di Marche e Abruzzo tra la biancheria, in attesa di venir colte da un buon partito. Alcune domande pertinenti della platea: una signora ha osato dubitare sulla lucidità delle mele esposte, giusta osservazione, ma la natura sa presentare una mela ben coltivata.
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Esposizione di mele all’interno del Teatro
I cappelli di Bettina di Stefania Severi
Bettina Scholl Sabbatini è forse la più importante scultrice del Lussemburgo. Nel suo Paese ha realizzato monumenti, fontane e arredi per chiese. Il cognome la indica di origini italiane. Bettina lavora tutti i tipi di materiali, il ferro, la ceramica, i materiali plastici, il bronzo e la sua opera è una fascinosa commistione tra naturalismo ed astrazione, tra realtà e fantasia. L’ultima sua importante mostra si è tenuta a Roma, in occasione del semestre europeo a guida lussemburghese. In tale circostanza l’Accademia Belgica, che ospita anche gli artisti del Lussemburgo, le ha organizzato una mostra il cui tema è stato Melusina. In Italia il nome di Melusina è poco noto, in realtà è il nome di una Sirena che, per amore di un uomo, ha lasciato il suo mondo acquatico per vivere sulla terra per poi tornarvi perché tradita dall’amato. La storia di Melusina risale al Medioevo e la famiglia regnante di Lussemburgo fa risalire le sue origini proprio a questa donna-sirena. Per questo Bettina ne ha fatto uno dei suoi soggetti preferiti e per la sua mostra ha creato tante piccole Melusine di bronzo, dorate o patinate, che, ritte su sottili steli, sono state raggruppate nel bel salone di marmo verde dell’Accademia che si è trasformato in un fantastico acquario. Una Melusina gigante e dorata è stata poi posta sul tetto dell’Accademia, un richiamo alla Gëlle Fra, la Signora Dorata, che domina la città di Lussemburgo e che ricorda i morti lussemburghesi della Prima Guerra Mondiale. Bettina non è solo una grande artista ma è anche molto impegnata nel sociale e da anni si dedica alla promozione della donna come membro importante dell’organizzazione internazionale femminile “Soroptimist international” che opera in tutto il mondo ed in particolare in vari paesi africani. Insomma Bettina, che è una alta signora dalla lunga treccia bianca e dal sorriso contagioso, ha sempre nuove idee per la testa. La mostra romana, a cura di Maria Luisa Caldognetto, è stata occasione per conoscerla meglio e per scoprire che tra le tante sue passioni ci sono i cappelli. Quando la notte non riesce a dormire, quando è costretta a stare seduta in attesa o in treno, prende un blocco e disegna…cappelli. Perché disegna cappelli? Lei non sa spiegarlo ed io non azzardo risposte psicanalitiche, che non sono del mio campo, ma propongo una risposta antropologica. Il cappello, essendo un copricapo, rappresenta anche la testa ed il pensiero, e forse Bettina, non amando stare ferma, quando ne è costretta si muove con la creatività ed allora…fa andare la testa. E’ curiosa questa serie di album (ce n’è più d’uno) dove, in ogni pagina, è disegnata una testina con un cappello. Accanto ci sono spesso la data e sempre il numero progressivo. Talvolta in una notte sono stati realizzati più disegni. Ad esempio, il 16 settembre 2011, la prima data che si incontra nell’album che ho analizzato e che ha il formato di cm 21 x 15, ha eseguito 4 disegni. In quest’album i disegni sono 83 e l’ultimo è senza data, ma presumibilmente è del 23 ottobre 2011 che è la data di quello precedente. Il che vuol dire che in 38 giorni Bettina ha disegnato 83 cappelli, con una media di circa 2 cappelli al giorno! Sono tutti disegni a grafite perché sono stati fatti tutti in condizioni “precarie”. Sono disegni linearistici che fanno capire subito che a realizzarli è una scultrice, infatti esaltano i volumi senza soffermarsi sugli elementi decorativi. Sono tante teste di donne senza età, come se, di volta in volta, Bettina cercasse di cogliere in ciascuna di esse un pensiero diverso che si oggettiva proprio nel copricapo. Ecco i cappelli barca, fiore, cascata di perle, onda, disco volante, chiocciola, istrice, elmo, torta, ala, mitria, turbante… come se queste donne, at-
Bettina Scholl Sabbatini, Melusina dorata, bronzo patinato, cm 23x22x14, 2015
traverso il loro cappello, volessero comunicare il loro desiderio di andar per mare, di trovarsi in un prato fiorito, di possedere preziosi monili, di nuotare, di esplorare altri mondi, di identificarsi con la natura, di combattere, di mangiare cose golose, di volare, di raggiungere il potere, di languire in un harem… È indubbio che molti di questi cappelli potrebbero benissimo essere realizzati… e chissà che un giorno ciò non avvenga!
Bettina Scholl Sabbatini, grafite su carta
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LA “PIAZZA GRANDE” DI FERMO: UNA STRAORDINARIA MACCHINA TEATRALE DEL CINQUECENTO PER LE ALLEGORIE DEL POTERE. di Lucio Tomei
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iazza Grande, o meglio la Piazza di S. Martino, come si chiamò per tutto il Medioevo e oltre, o Piazza del Popolo, come fu denominata dopo l’unificazione d’Italia, è il fulcro storico e tuttora il centro della vita sociale di Fermo. Essa occupa un terrazzamento praticato artificialmente lungo il fianco orientale del colle Sàbulo, la ripida altura su cui si sviluppa la città, a partire dalla deduzione della prima colonia latina da parte dei Romani nel 264 a.C.; nel sec. XIII sul lato stretto settentrionale (Palazzo degli Studi), durante le podesterie dei reggini Guglielmo e Tommaso da Fogliano (12361237) e Ugo dei Roberti (1238-1239), vi fu costruito il primo palazzo del Podestà e nell’ultimo decennio dello stesso secolo una dimora signorile, la casa-torre dell’aristocratico Rinaldo di Giorgio, che sorgeva accanto alla chiesa di S. Martino nell’area successivamente occupata dal Palazzo dei Priori, fu adattata a residenza del Capitano del Popolo: l’invaso era già a quell’epoca centro della vita economica di Fermo, perché vi si schieravano le più importanti botteghe e vi si teneva il mercato settimanale. Per la maggior parte del Trecento, quando ancora il palazzo comunale, chiamato simbolicamente “il Girfalco”, si trovava sull’arengo di Castello, lo spiazzo che si apriva lungo il fianco meridionale della Cattedrale accanto alla residenza del vescovo e a quella dei canonici, la piazza di S. Martino rappresentò il ganglio nevralgico delle attività politiche e mercantili del Comune di “Popolo” della metropoli picena, in contrapposizione dialettica con la spianata del Girfalco, sulla quale sorgevano le sedi dell’antico Comune “vescovile”. Tra il 1370 c.a. ed il 1396, allorché la Santa Sede volle trasformare la cima dell’altura in una piazzaforte al fine di meglio controllare militarmente e politicamente Fermo ed il suo contado, il Vescovado e l’intero settore del quartiere urbano di Castello, sviluppatosi nel tempo intorno ad esso, furono evacuati e con il formarsi delle prime signorie cittadine (Mercenario da Monteverde: 1329 c.a.-1340, Gentile da Mogliano: 1345-1354, Giovanni Visconti da Oleggio: 1360-1366, Rinaldo da Monteverde: 1376-1379) il palazzo del Girfalco fu trasformato in residenza dei vari signori assoluti della città e dei rappresentanti del potere centrale, nei periodi in cui la Chiesa si riappropriò del controllo diretto su Fermo. La piazza di S. Martino, accanto alla quale si fissò in seguito anche la residenza vescovile, accolse, nell’antico palazzo del Capitano del Popolo, la dimora dei Priori del Comune, e nei mutati criteri della gestione del potere diventò sempre più l’esclusivo centro politico ed economico della metropoli, che dal 1355 in poi fu anche capitale dell’intera Marca di Ancona, essendovi stati trasferiti la sede del Rettore ed il tribunale generale (Curia generalis Marchiae Anconitanae). Fino alla metà c.a. del sec. XV la piazza conservò il suo aspetto tipicamente medievale con l’irregolarità dell’invaso, che con ogni probabilità doveva essere parzialmente occupato, nel settore meridionale, da baracche di legno usate
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Veduta aerea
Piazza Vittorio Emanuele II ora Piazza del Popolo
come botteghe. Tra il 1438 ed il 1442, durante il dominio sforzesco, fu sottoposta al primo intervento sistematico e programmatico di ristrutturazione secondo i canoni di regolarità e di simmetria imposti dalla ormai dilagante cultura rinascimentale. L’intervento sforzesco si limitò, tuttavia, per motivi contingenti, al solo livellamento del piano di calpestio e alla demolizione delle botteghe di legno che ne occupavano il settore sud. Probabilmente solo dopo la fine del regime personale instaurato da Francesco Sforza, ma sicuramente in ottemperanza ad un progetto concepito durante la signoria del medesimo, lungo i lati lunghi orientale ed occidentale furono costruite nuove case con botteghe porticate al pianoterra. Intanto si ristrutturavano anche gli edifici prospicienti la piazza: sono documentati interventi sull’antico palazzo del Popolo, divenuto ormai tradizionale residenza dei Priori del Comune; si costruiva una loggia davanti all’ingresso della chiesa di S. Martino, destinandola alle sedute del tribunale della Mercanzia, si assegnavano l’antica sede della Curia generale, detta “L’Udienza”, e la vicina chiesa di S. Maria Piccinina ai frati Apostoliti, si ricostruiva completamente il palazzo del Podestà (1494) ed il Capitano del Popolo veniva sistemato in un edificio attiguo all’area in cui sorse più tardi (dal 1505) la chiesa di S. Rocco. Il secondo intervento sistematico sulla piazza Grande, che le impresse la fisionomia conservata fino ai nostri giorni, si articolò in tre diverse riprese: nel 1569, nel 1583-85 e nel 1586-1592 con strascichi fino al 1620 c.a., durante i pontificati di Pio V, di Gregorio XIII e di Sisto V, ad opera e per volontà dei governatori pontifici della città monsignor Giampietro Ghislieri e Giacomo Boncompagni. Monsignor Ghislieri si trattenne a Fermo un solo anno, nel 1569, ma diede un incredibile impulso alle opere pubbliche e alla ristrutturazione della piazza Grande: durante il suo mandato fu portata a termine la ricostruzione delle case-botteghe porticate del lato occidentale, ai piedi del Girfalco. Nel 1580 il Comune avallò il progetto di costruire all’imboccatura della Strada dei Fòndachi (l’attuale Corso Cefalonia), tra il palazzo dei Priori e quello attiguo abitato all’epoca dal Bargello, un arco “a la triumphale” in onore del papa e del governatore Giacomo Boncompagni e la progettazione fu affidata al pittore fermano Girolamo Morale. Però, all’atto pratico, l’opera si rivelò irrealizzabile perché avrebbe reso inagibile il già stretto accesso alla piazza e si dovette soprassedere. Nel 1583 arrivò attesissimo a Fermo il nuovo vicegovernatore del Boncompagni, il milanese monsignor Marsilio Landriani, “che può a buon diritto essere considerato il realizzatore della fase più impegnativa e consistente del progetto di ristrutturazione rinascimentale della piazza Grande, anche se si deve supporre che agisse sicuramente dietro precise direttive di Giacomo Boncompagni, il quale ne fu, invece, il vero promotore e procurò i finanziamenti necessari agli interventi, anche con rilevanti apporti personali”. Il Landriani riprese il progetto dell’abortito arco di trionfo e lo applicò all’ingresso della costruenda residenza dei governatori, promovendo l’erezione di un monumentale portale di accesso al palazzo in memoria del pontefice e del figlio Giacomo, governatore della città; riprese altresì con nuovo impulso
Piazza del Popolo
Palazzo degli studi e palazzo dei Priori
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i lavori di ristrutturazione delle case-botteghe lungo il lato orientale, verso mare, dell’invaso “ad instar aliarum versus montem Girifalchi”, prova che, all’inizio del 1583, era stato completato solo il rifacimento degli edifici sul lato occidentale, tra l’attuale palazzo degli Studi e l’ex chiesa di S. Rocco. Nel 1584 veniva portato a termine il prospetto che chiudeva il lato corto meridionale con un portale monumentale sopravvissuto fino ai nostri giorni, consistente in un fornice rustico inquadrato da due colonne tuscaniche di granito grigio con basi insistenti su plinti di marmo bianco e sorreggenti una trabeazione classica, costituita da un architrave di tipo ionico sormontato da un fregio dorico scandito da sei triglifi alternati a cinque metope, nelle quali, a cominciare da quella di sinistra, sono campiti a bassorilievo: l’arma del Landriani, lo stemma pontificio, l’arma del Boncompagni, ancora lo stemma pontificio e, nell’ultima metopa di destra, lo stemma del Comune di Fermo. Al di sopra della trabeazione poggia una balaustra sulla quale si apre un finestrone con mostra di pietra bianca e timpano spezzato, recante sull’architrave la scritta in caratteri quadrati lapidari: GREGORIO XIII PONT(ifici) MAX(imo) ANNO PONT(ificatus) SVI XIII, che indica l’anno del completamento del palazzo (1585) e la dedica di esso al pontefice. A perpetuo ricordo di Giacomo Boncompagni e della propria persona il Landriani fece apporre sulla chiave dell’arco un’iscrizione in bei caratteri quadrati lapidari campita in un cartiglio di marmo a cornice mistilinea: IACOBO BONCOMPAGNO / PRINC (ipi) CLEMENTIS(simo) OB L’immagine dalla loggetta del Palazzo dei Priori, verso il Palazzo dei Governatori (courtesy il fotografo Franco Tomei De Angelis) AVCTAM / PACATAMQ(ue) DITIONEM S(enatus) / P(opulus) Q(ue) F(irmanus) / FAC (ere) CVR(avit) MARSILIO / LANDRIANO PRAESIDE. Con la costruzione, sul lato corto settentrionale, tra il 1586 ed il primo ventennio del sec. XVII, delle due quinte prospettiche del Palazzo degli Studi (oggi sede della Biblioteca civica) e del nuovo palazzo priorale, il riassetto rinascimentale dell’antichissimo spazio forense fermano poteva dirsi concluso. Ne risultò una grandiosa, luminosa e raffinata macchina teatrale coscientemente destinata alle rappresentazioni del potere e di una vita, anch’essa autentica pièce de théatre, sapientemente diretta dal despota-regista: a sud, in piena luce meridiana (casuale quanto suggestiva consonanza con arcaiche allegorie solari del sovrano) ed in posizione centrica e dominante, quasi in isola, al punto focale delle linee di fuga esaltate dalle due schiere laterali di case-botteghe, il palazzo dei Governatori pontifici, reso più incisivo e monumentale dall’ingresso trionfale, celebrazione e nel contempo memoria onnipresente del potere papale, tanto più se si pensa che la statua ènea di Sisto V del Sansovino, collocata solo di ripiego sopra la loggetta di ingresso al palazzo pubblico dove tuttora è situata, avrebbe dovuto prender posto su un alto basamento proprio davanti alla residenza governatorale; sul lato opposto, in posizione più bassa, in subordine, la sede del potere locale. La presenza di ben tre chiese prospettanti sulla piazza (S Martino, S. Rocco e S. Maria Piccinina) rimandava significativamente alle radici ideologiche del simbolismo scenografico (piazza-aula ecclesiale).
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Il gruppo Tirabasso ha ampliato la propria struttura aziendale L’azienda Tirabasso Group amplia il reparto progettazione e design Tecnologie innovative, attività di ricerca e sviluppo caratterizzano il gruppo Tirabasso. L’azienda, grazie all’aggiornato reparto di progettazione risolve e ottimizza al massimo le richieste dei propri clienti sotto tutti gli aspetti.
Michela Morganti Licensing Manager and Fashion coordinator Tirabasso Group Srl
La realizzazione di prodotti originali e di design ricercato qualificano il servizio offerto dal Gruppo e l’esperto staff aziendale. La progettazione e la pianificazione per la realizzazione di un cappello richiedeva disponibilità di tempo e una Sample Room ingolfata da nuove richieste. Con la nuova progettazione, i disegni e le illustrazioni in 2D, la modellazione dei cappelli è ora più diretta e mirata. Il team della Tirabasso è ancora più efficiente, l’ottimizzazione della progettazione consentirà di garantire servizi e prestazioni destinati ad aumentare ancor più la soddisfazione della clientela.
Foto: Cappello di paglia con effetto stampato a Pois
Foto: Progettazione Cappello HAT n. 62 | 2015 43
In viaggio verso il mito di Luana Trapè
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uando parliamo di mito si apre in noi il varco della meraviglia e della lontananza, ma non solo: come dicono Freud e Jung, i miti ci mettono in comunicazione con il nostro Inconscio, individuale e collettivo; parlano ‘a’ noi e ‘di’ noi. Gli eroi e gli dei greci sono rappresentazioni della nostra interiorità, anzi ‘sono’ i nostri sentimenti, pulsioni, istinti, sensazioni. Le figure degli eroi compaiono per la prima volta nella scrittura con i poemi omerici. Da esse ha origine la nostra letteratura e tuttora, insieme alla città di Troia, costituiscono un mito fondante del nostro immaginario, un mito che si è sviluppato rigoglioso attraverso i secoli, continuando a produrre fino ad oggi altre opere: poetiche, narrative, teatrali, figurative. Trent’anni fa, mettendoci in viaggio in traghetto incontro al mito, scegliemmo dunque l’approdo di Izmir, l’antica e favolosa Smirne (dove pare che Omero sia nato, ammesso che sia esistito veramente), la quale fu un centro ittita, come - secondo alcuni storici - l’intera Troade. L’assedio di Troia non sarebbe che un episodio della guerra scatenata dai Micenei, o Achei, o Argivi (come li chiama Omero) contro gli Ittiti, per il dominio dell’Anatolia. Questi ultimi, un popolo indoeuropeo, si stanziarono all’inizio del II millennio a. C. nella penisola anatolica, stabilendo la capitale ad Hattusa, (circa 150 km dall’odierna Ankara, a 1000 metri di altezza) e assoggettarono poi l’intera Asia Minore. In breve tempo crearono un forte impero scontrandosi con gli Egizi e poi con i Babilonesi, che sconfissero nel 1530. Quasi contemporaneamente gli Achei, un altro popolo indoeuropeo proveniente dal Caucaso, avevano conquistato la penisola ellenica. Nel 1450 si impadronirono dell’isola di Creta assimilandone la civiltà per formarne una nuova: quella micenea, così chiamata dalla loro capitale, nel Peloponneso. Nel secolo XIII iniziarono la penetrazione nell’Anatolia occidentale, sconfiggendo l’Impero ittita; al 1250 si fa risalire la guerra di Troia, la cui posizione sull’Ellesponto (oggi
Porta dei Leoni. Hattusa
Dardanelli) permetteva di commerciare con tutti i paesi che cingevano il Mar Nero. Nel 1150 i Micenei vennero sconfitti dai Dori (un popolo considerato rozzo e brutale, “barbaro”, insomma), che invasero la penisola ellenica. Ecco dunque tracciato il nostro itinerario: in Turchia gli Ittiti, per cominciare veramente “dall’inizio”, poi Troia e infine, a ritroso, Micene in Grecia. Visitammo per prima Hattusa, la capitale ittita, entrando per la Porta dei Leoni dalle fauci ancora spalancate per respingere le potenze del male. Qui nel 1906 la temerarietà di uno dei tanti personaggi eccentrici, che si incontrano spesso nella storia dell’archeologia, aprì uno spiraglio nel buio del passato: il professore universitario Hugo Winckler effettuò infatti un clamoroso ritrovamento. Era un accademico topo di biblioteca, testardamente sicuro delle proprie opinioni - ancor più quando tutti le contestavano - e per dimostrare che aveva ragione non esitò ad affrontare un viaggio in Turchia, tremendo quanto a disagi, per lui che non aveva mai messo piede fuori da Berlino. E ne fu ampiamente ricompensato perché trovò 34 tavolette in scrittura cuneiforme che nominavano in una lingua fino ad allora misteriosa gli Akhiawa, cioè gli Achei; uno dei loro re, Menelao, e poi Wilusa: Ilio, anche detta Taruisa, cioè
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Troia. Così decifrò finalmente la lingua degli Ittiti. Soltanto agli inizi dell’800 qualche spericolato studioso aveva iniziato a cercare le tracce di questa popolazione, della quale si conosceva soltanto il nome: Charles Texier, ad esempio, nel 1839 aveva descritto le imponenti porte di accesso della capitale, “grande come Atene”. Le rovine delle antiche città furono una vera sorpresa per me, un’esperienza straniante: si ergevano isolate come se fossero state dimenticate in quei luoghi deserti e totalmente silenziosi, ancora lontani dai consueti itinerari turistici. Si poteva quasi pensare di essere i primi a posarvi lo sguardo dopo secoli. Ma era proprio questo loro abbandono, questa apparente inutilità, che le rendeva testimoni della durata, diciamo pure dell’eternità, del tempo. E la loro presenza, potente seppure così frammentata, acuiva e faceva saltare agli occhi quella grandezza assente di cui erano simbolo. Nel Santuario di Yazilikaya (Rupi scritte) emergevano lentamente davanti ai nostri occhi sfilate cerimoniali composte da folle di figure. Sacerdoti e re, ciascuno con il proprio nome in rilievo, soldati in marcia, 66 divinità incise in cortei lungo una stretta gola: a destra quelle femminili con il copricapo a torre e le braccia protese; a sinistra quelle maschili in figura di guerrieri, con spade falcate e l’elmo a punta tipico del dio della tempesta. E ancora oggi, incessantemente, i due cortei continuano a sfilare senza mai incontrarsi, incuranti che intorno a loro ci sia il silenzio o il vociante affollarsi degli spettatori. A pochi chilometri, la Porta delle Sfingi di Alaca Huyuk con la sua imponenza rappresentava ancora degnamente il ricco principato di cui la città era stata centro. Nelle sue tombe regali, scavate verso la metà del secolo scorso gli archeologi turchi Arik e Kosay trovarono un tesoro che dissero - eclissava quello di Priamo a Troia. Erano oggetti in bronzo argentato: stendardi circolari in forma di grata con decorazioni fantastiche, animali, diademi e spille d’oro. La certezza degli antichi studiosi che la guerra di Troia fosse un evento storico si era andata dissolvendo dal Medioevo in poi, cosicché l’Iliade e l’Odissea - le prime opere poetiche del mondo occidentale scritte da Omero verso la fine dell’VIII secolo a. C. - erano ritenute narrazioni di pura invenzione. Fino all’avventura di un altro testardo tedesco, Heinrich Schliemann: un abilissimo uomo d’affari che aveva girato tutto il mondo e per pura passione diede inizio a un nuovo filone dell’archeologia, usando la sua immensa fortuna (accumulata anche grazie alla corsa dell’oro in California) per realizzare il sogno adolescenziale di scoprire Troia, tenendo l’Iliade come guida. Nel suo Diario descrive con intensa efficacia il primo incontro con la città sognata: “Per due ore feci sfilare davanti ai miei
Cortei cerimoniali. Yazilikaya
Porta delle Sfingi. Alaca Huyuk
Stendardo. Alaca Huyuk
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occhi i fatti principali dell’ Iliade, finché l’oscurità e una gran fame mi costrinsero a scendere.” Mi sarebbe veramente piaciuto assistere allo spettacolo singolare del grande entusiasta che si chinava religiosamente sul fiume di Troia: “Ogni volta dovevo piegarmi sull’acqua appoggiandomi alle braccia, che affondavano nel fango fino ai gomiti. Ma provavo una grande gioia nel bere l’acqua dello Scamandro e pensavo che migliaia di persone affronterebbero volentieri difficoltà molto più gravi per poter vedere questo fiume divino e gustarne l’acqua”.Non era stato facile convincere le autorità turche a concedergli il permesso di iniziare gli scavi nella collina di Hissarlik, la quale - ne era certo - nascondeva i resti della CITTà; ma finalmente ci riuscì nel 1871 dopo aver superato una serie di peripezie, non ultime le tratRovine di Troia
tative con alcuni corrotti funzionari turchi che volevano addirittura essere pagati per controllarlo e pretendevano metà del tesoro che avrebbe trovato, per destinarlo naturalmente ai musei. Dovette cedere, ma qualche tempo dopo scoprì di persona che non soltanto i suoi oggetti non erano arrivati al Museo archeologico di Ankara, ma il Direttore non ne aveva mai sentito parlare. Per fissare la posizione di Ilio percorreva a passi misurati la collina leggendo a gran voce i versi dell’Iliade e mentre si guardava intorno, ispirato come se vedesse Achille correre a gran galoppo intorno alle mura, non tralasciava di calcolare con precisione quale distanza avesse percorso l’eroe in questa o altre occasioni, per stabilire con esattezza la distanza tra città e gli accampamenti, e tra questi e il mare. E fu partendo da queste riflessioni storiche, geografiche e letterarie - estatiche e logiche insieme - che scavando, spesso con le sue stesse mani, trovò addirittura dieci strati di abitazioni (di cui il sesto pare corrispondere cronologicamente alla città descritta da Omero). E alla terra strappò, stupefatto e felice, ceramiche e gioielli: un’enorme cassa colma di calici, splendidi diademi, piatti, anelli, collane, bottoni, braccialetti, orecchini, tutti d’oro, un tesoro di circa 9000 pezzi. Probabilmente, durante il dilagare assordante e spaventoso degli Achei, la cassa era stata preparata da un membro della famiglia di Priamo, che però la dovette abbandonare, forse per sfuggire più velocemente all’incendio che divampava e la ricoprì di cenere rossa e di pietre del vicino palazzo reale. Certo, le datazioni di Schliemann furono poi contestate e cambiate dagli archeologi, ma l’importante è che ci abbia riconsegnato - con uno sguardo lungo dentro al passato - un’immagine “storica” di quelli che ritenevamo fossero soltanto miti. Con animo reverente e il fiato sospeso mi aggiravo tra i pochi ruderi della minuscola Troia, per scoprire (vedere le foto nei libri non è assolutamente la stessa cosa) con
Orecchino dal tesoro di Priamo a Troia
sbalordita incredulità che la città era esistita davvero ed era proprio lì, davanti ai miei occhi; era senz’altro molto più piccola di quanto immaginassi, ma il mito di Troia, a lungo coltivato nella mia mente, contribuiva a ricostruire ciò che non si vedeva più. Racconta Omero nell’Iliade che il re Agamennone era partito da Micene per muovere contro Troia con i suoi eserciti insieme agli altri re micenei: da Sparta Menelao (suo fratello, e sposo di Elena rapita dal troiano Paride), e poi Achille dalla Tessaglia, Nestore da Pilo, Ulisse da Itaca, Aiace Telamonio da Salamina.
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Nel 1874 Schliemann arrivò a Micene, seguendo gli scritti dello storico Pausania; gli scavi della città erano già iniziati, ma fu lui a riportarne alla luce le mura “ciclopiche”, e i ricchissimi corredi funebri delle tombe cosiddette “di Atreo” e “di Agamennone”. Emersero sigilli incisi, oggetti di bronzo e di ceramica, gioielli e coppe d’oro; quando scoprì maschere d’oro sul volto degli uomini sepolti, con soddisfatto orgoglio annunciò al mondo intero di aver trovato “La maschera di Agamennone”. Non lo interessavano soltanto i reperti più preziosi e sensazionali, ma ogni minimo frammento. Scrive infatti: “Poiché nelle rovine appartenenti alla notte buia dell’età pregreca ogni oggetto recante traccia di arte umana rappresenta per me una pagina di storia, devo soprattutto badare che niente mi sfugga.” A Micene noi arrivammo di sera tardi, quando ormai l’ondata dei viaggiatori era rifluita, come in “un circo prima o dopo lo spettacolo”. E dunque la città poteva ritornare alla solitudine e al vuoto delle antiche rovine. Tutt’intorno non c’erano costruzioni, il paesaggio spoglio e selvaggio sembrava essere rimasto intatto, così come lo vedevano un tempo i Micenei. Dal silenzio totale emergevano netti il canto degli uccelli, i belati, il fruscio delle erbe secche smosse dalle zampe delle capre che si arrampicavano sulle rocce. Nel loro millenario distacco le mura diroccate continuavano a tornare ad essere rocce nel colore e nella forma, con le rocce si confondevano, fingevano di sparire. Così lo spettacolo dell’arte si combina con quello della natura: la contemplazione solitaria delle rovine è esperienza del tempo puro, si ritorna alla coscienza profonda della storia. Ed ora, scorrendo le fotografie che ho riportato da quella avventura, insieme all’emozione di allora scopro qualcosa di nuovo: il passaggio dal formato della diapositiva a quello digitale - se non eccelle per l’impeccabilità tecnica - le riveste tuttavia di un’atmosfera inedita aggiungendo, ai 3 millenni e più dei soggetti ritratti, uno spessore temporale personale di tre decenni passati da allora.
La tomba di Atreo a Micene
Tazza di Vaphiò. Micene
Maschera di Agamennone. Micene
Porta dei Leoni. Micene
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Immaginati e realizzati per rendere outfit eleganti e vagamente retrò di Laura Marelli
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a un po’ di anni, durante il fine settimana, coltivo con grande passione un orto nel mio giardino ricco anche di alberi da frutta. E’ li, lontana dalla città, che ho immaginato i cappelli dedicati al tema di Expo 2015. Il primo ad essere realizzato è stato “Le chapeau verd”. Ho tinto dell’organza di seta nello stesso colore della mia insalata, (ho proprio usato l’insalata per la tintura) poi l’ho tagliata e ho dato forma alle foglie cercando di renderle il più possibile simili a quelle naturali. Infine le ho cucite sopra ad un cappello realizzato in tulle dalla forma tonda e spiovente. Il secondo cappello è nato da un’idea sicuramente romantica: stavo leggendo il libro di Oriana Fallaci Un cappello pieno di ciliegie “...Poi si tolse il cappello, staccò una delle ciliegie, e la offrì al pretendente. «Ne volete? Le ho colte stamani. Sono fresche...» Così con l’immagine e l’emozione evocata dal libro ho iniziato a realizzare “Petit cerise”. Ho intrecciato dei nastri di organza tinti a mano nel colore del legno di ciliegio, li ho sostenuti con una strutture di tulle e leggeri fili di ferro dando forma a una sorta di cestino. Al centro ho cucito i piccoli frutti realizzati in cartapesta laccati di rosso e mescolati con ciuffi di seta verde tagliata a forma di fili d’erba. Mi piaceva poi pensarlo indossato con un outfit elegante, vagamente retrò, ma che avesse dei riferimenti con la campagna che tanto amo. La collaborazione con i fotografi Matteo Ziglioli e Federica Piccinni dello studio Brainstorm è stata perfetta: nell’ outfit elegante e vagamente retrò, i riferimenti con la campagna che tanto amo non mancano... l’innaffiatoio... gli stivali di gomma... la tuta da giardiniere... Anche le immagini interpretano sapientemente e con naturalezza l’idea che ho voluto esprimere con i miei cappelli: la sintonia con il tema di Expo e soprattutto con ciò che diceva la grande Coco Chanel “La moda non è qualche cosa che esiste solo negli abiti. La moda è nel cielo, nella strada, la moda ha a che fare con le idee, il nostro modo di vivere, con che cosa sta accadendo...” Dal libro L’ELEGANZA DEL CIBO TALES ABOUT FOOD&FASHION - Gelmini Editore Pag. 14 “Oggi il food è protagonista del cinema, della letteratura, della televisione, e dell’arte, e inizia a comparire anche nella moda come elemento di ispirazione creativa... La moda è come l’arte della cucina: ovvero un sapiente mix tra pratica e teoria, tra conoscenze artigianali, talento e ispirazione.” di Giovanna Marinelli Assessore alla Cultura e al Turismo.
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Fotografo: Vincenzo Antonini
CAPPELLIFICIO
Cecchi Angelo
s.r.l.
LAVORAZIONE CAPPELLI in TESSUTO, PAGLIA & AFFINI
Via O. Licini, 5 - MASSA FERMANA (FM) Tel. +39 0734 760058 www.cappellificiocecchi.com info@cappellificiocecchi.com
Via O. Licini, 5 - MASSA FERMANA (AP) Tel. 0734.760058 - Fax 0734.768448 www.cappellificiocecchi.com info@cappellificiocecchi.com
CAPPELLIFICIO CECCHI ANGELO Il cappellificio Cecchi Angelo produce e commercializza cappelli e accessori dal 1980 nella sua sede di Massa Fermana, nel cuore delle Marche. Da un’iniziale produzione di cappelli in paglia, l’azienda si afferma in Italia negli anni ‘90 con linee in tessuto per bambino e donna, in particolare nella realizzazione di cappelli per neonati e ragazzi. Grazie alla passione e alla ricerca svolta quotidianamente, le collezioni dell’azienda Cecchi assumono un ruolo fondamentale nel mondo della moda del cappello Made in Italy. La lavorazione realizzata con tessuti e filati di qualità, la manodopera qualificata e il controllo assiduo e costante su ogni singolo pezzo, sono i termini di garanzia e affidabilità del prodotto dell’azienda. La cura nella creazione di cappelli per grandi e piccini fanno del cappellificio Cecchi un punto di riferimento nel settore dell’artigianato locale.
Fotografo: Vincenzo Antonini
L’eleganza del cibo di Ruggero Signoretti
“L’eleganza del cibo” è espressione che consente varie interpretazioni ma, nel caso specifico, si intende eleganza come modo di vestire legato al cibo. “L’eleganza del cibo” è il titolo di una mostra che si è tenuta a Roma nei Mercati Traianei (18 maggio -1 novembre 2015), uno dei luoghi più suggestivi dell’antica Roma, oggi divenuto anche splendido spazio museale. La mostra, a cura Stefano Dominella e Bonizza Giordani Aragno, è stata ideata in occasione dell’EXPO Milano 2015 per celebrare il connubio tra la nutrizione e la creatività sartoriale Made in Italy. In mostra sono state esposte 160 creazioni, tra abiti e accessori, dal 1950 ad oggi, dei più grandi stilisti e designer. Denominatore comune di tutte queste creazioni è sicuramente l’ironia. I manichini con gli abiti sono stati collocati nei vari ambienti dei mercati per consentirne una visione ravvicinata e non affollata, così da “gustare ogni singola creazione”. Se è ovvio che si ispirino agli alimenti i costumi per “Le Roi des Gourmets”, dalla “Suite gastronomique” di Gioacchino Rossini, opera per la quale Lilla De Nobile ha realizzato i costumi per la messa in scena al Teatro dell’OManifesto dell’evento pera di Roma (1964), non dovrebbe essere altrettanto scontato che il cibo si trovi tanto di frequente sugli abiti e sugli accessori “normali”. Ma la mostra documentava proprio che ciò avviene da tempo, e non solo in questo 2015 sovraccarico di “alimentazione”. Tra i vestiti più antichi c’erano quelli di Clara Centinaro, risalenti agli anni Cinquanta, con fantasie di frutti stampate e ricamate. Ken Scott si è più volte ispirato al cibo, tanto da creare la Collezione Gastronomia nella primavera estate del 1970 e nuovamente ispirarsi al cibo nella collezione della primavera state del 1980. Dalla prima collezione provenivano tre abiti corti bianco/verde con stampe giganti di asparagi, foglie di carciofo e piselli, così grandi da assecondare la forma dell’abito (Fondazione Ken Scott). Dalla seconda, abiti lunghi stampati con zucche o con fichi. Lo stilista che si è più ispirato al cibo, tanto da inserirlo materialmente nei suoi abiti, è Alessandro Consiglio che, nel 2002, ha creato la Collezione Food Fashion. In mostra c’erano due abiti di plastica trasparente con inseriti, dentro tante taschine, nel primo rotonde fette di mele disidratate, e nel secondo, un abito da sposa, pop corn e mandorle. Di Enrico Coveri c’erano i vestiti dolci della collezione primavera estate del 2013. Ma veniamo alle creazioni della primavera-estate 2015, tante ovviamente sulla suggestione di EXPO. La A-Lab di Milano ha creato vestiti con stoffe stampate con dipinti dell’Arcimboldo. Etro, per la collezione per uomo, ha ideato pantaloni-tuta, camice e casacche con cappuccio in tessuti leggeri stampati con pesci, funghi, asparagi, limoni e scarpe in tela con la stessa fantasia. Raffaella Curiel ha realizzato un elegantissimo vestito da sera in seta nera con balza e corsetto ricamati con tralci di uva. Vivetta si è invece lasciata sedurre dall’uovo fritto. Veniamo ora agli accessori, c’erano: la scarpa pesce di Valentino (2013), le borse di paglia con ciliegie di Patrizia Fabbri (1998) e i foulard con stampati tanti tipi di pasta realizzati da Bruno Piattelli per il Museo Nazionale della Pasta (1999). Tra i gioielli spiccava la parure di Gianni De Benedittis, per Futuro Remoto, con il collier formato da spaghetti che girano attorno al collo per terminare arrotolati ad una forchetta e gli orecchini costituiti da due mini forchette con attorno ai rebbi alcuni spaghetti arrotolati. C’erano ovviamente anche i cappelli legati al cibo. I più antichi, veri pezzi da collezione, erano quelli di Gallia e Peter Couture risalenti al 1930. Non potevano mancare cappelli ispirati al cibo realizzati in occasione di EXPO, e sono quelli della Collezione Mediterraneo, creata dalla Antica manifattura di Patrizia Fabbri, ispirati, tra l’altro, ai ricci di mare, alle aragoste ed ai branchi di sardine. In particolare l’aragosta è catturata in una nassa di fettucce di paglia! Ai fini esclusivamente espositivi era stato realizzato, da Gattinoni e Couture, il “Bread Dress”, un vestito con corpetto di spighe, ampi pantaloni con fasce ricamate di “salatini” e cappello a tesa larga di pane. Insomma una mostra bella e divertente da visitare ben sazi.
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Ken Scott, Collezione Gastronomia Primavera Estate
Gianni De Benedittis, per Futuro Remoto IncubEAT 2015 Courtesy Futuro Remoto
Alessandro Consiglio Couture, Collezione Food, Fashion 2002
Clara Centinaro, 1950, Archivio Anna Mode
Etro, Spring-Summer 2015
Enrico Coveri, Primavera estate 2013
Patrizia Fabbri, Borse in paglia (Ciliegie 1998) Antica manifattura Cappelli by Patrizia Fabbri
Vivetta, Primavera Estate 2015
Gattinoni Couture, primavera estate 2015 “Bread Dress�
Gallia e Peter Couture, cappelli dal 1930, Collezione Mediterraneo 2015, Cappello sardine
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Maria Valeria Corrias tra Scienza ed Arte di Stefania Severi
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a storia di Maria Valeria Corrias è una bella storia, ma non la raccontiamo solo perché è bella ma perché può costituire un bell’esempio di come la “bellezza” sia indispensabile nella vita. Valeria è nata a Cagliari ed attualmente è Dirigente Biologo con alta Specialità in Oncologia Molecolare presso l’Istituto Giannina Gaslini di Genova, uno dei più prestigiosi d’Italia. In pratica studia le molecole colpite da tumore ed essendo il Gaslini ospedale specializzato in oncologia pediatrica, studia il sangue dei bimbi ammalati. Le sue più recenti scoperte l’hanno portata a ricevere il Premio DNA, alla sua II edizione, che le è stato conferito il 27 Giugno 2015 dall’Ordine Nazionale dei Biologi per il progetto “Valutazione molecolare della malattia midollare ed ematica e sua rilevanza clinica”. La cerimonia si è svolta a Milano EXPO 2015. Ma seguiamo il suo cammino. Valeria si è laureata in Scienze Biologiche nella natia Cagliari e specializzata in Patologia Clinica presso l’Università di Genova. Oltre ad aver fatto esperienze di studio e lavoro presso vari istituti italiani, è andata a formarsi anche negli USA, come assistente presso il Dipartimento di Biochimica dell’Università del Mississippi e presso l’Unità di terapia genica del St. Jude Children’s Hospital di Memphis. È lei stessa a spiegarci cosa studia: «Da molti anni la mia attività di ricerca si è svolta nell’ambito del neuroblastoma, un raro tumore pediatrico, che ha purtroppo esito fatale in circa il 50% dei casi. I miei studi sono stati rivolti a individuare geni espressi da questo tumore che potessero migliorare la comprensione di questa neoplasia, evidenziare meccanismi che potessero aumentare la risposta immunitaria verso il tumore e quindi utilizzare tecniche molecolari per quantificare in modo più preciso la malattia. Attualmente sono responsabile del progetto: Valutazione molecolare della malattia midollare ed ematica e sua rilevanza clinica, finanziato dalla Fondazione Italiana Neuroblastoma. Il progetto ha consentito di studiare con tecniche molecolari tutti i campioni di tutti i pazienti italiani affetti da neuroblastoma e di partecipare ad uno studio prospettico internazionale i cui risultati avranno un grande impatto sulla pratica clinica.» Ma Valeria ha anche un’altra attività, realizza arazzi a telaio. Sono pannelli caratterizzati da grande creatività sia nell’uso del materiali sia nei disegni sia nella variegata cromia. Sono con l’ordito in lino e la trama è quanto mai varia, perché il materiale usato è, variamente, il cotone, la lana ma anche materiali vari come i fiori secchi, i bastoncini di legno colorato e… le schede di computer. In alcuni arazzi sono protagoniste le forme geometriche policrome. In altri arazzi
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La dottoressa Maria Valeria Corrias mentre riceve il premio DNA 2015 presso il padiglione italia EXPO Milano
Valeria Corrias, arazzo in lana e materiali vari
la trama ora è articolata ora è compatta, ora si interrompe per riprendere, ora è con fili penduli, ora ingloba elementi “esterni”. Insomma si crea un tessuto di emozioni in cui riposare o stimolare la mente, a seconda dello stato d’animo del riguardante. Si potrebbe pensare che tale attività accompagni Valeria fin da piccola, infatti in tante case della Sardegna si trovano antichi telai, essendo nell’isola la tessitura un pratica femminile molto diffusa. In realtà le cose sono andate diversamente, come Valeria ci racconta: «La vita del ricercatore è affascinante perché dà la possibilità di affrontare problemi e trovare soluzioni, consente di incontrare altri studiosi in congressi nazionali ed internazionali, ma è anche un lavoro faticoso perché quando ci sono scadenze non esistono vacanze e perché un ricercatore in realtà non smette mai di pensare al problema che sta affrontando, quindi è indispensabile trovare dei mezzi che distraggano e consentano di riposare il cervello. Un sistema è quello di avere altri interessi, come il cinema, il teatro, i viaggi, le letture non scientifiche. Però, soprattutto negli anni in cui il lavoro di ricerca è stato per me particolarmente intenso, per poter raggiungere una posizione lavorativa di prestigio e di autonomia, a questi mezzi ho aggiunto la tessitura. E’ stato molto curioso che io, provenendo da una regione in cui la tessitura costituisce una attività femminile preminente, abbia imparato a tessere negli Stati Uniti. Gli americani fanno corsi su qualunque cosa e quindi, con poche conoscenze e con una vita fuori dal laboratorio pressoché inesistente, mi era sembrata una buona occasione seguire un corso di tessitura per distrarmi e conoscere altra gente. Alla fine in realtà il corso di tessitura non mi ha fatto conoscere nuove persone ma ho scoperto che potevo esprimere con gli arazzi i miei sentimenti meno razionali e soprattutto se volevo produrre un pezzo in un tempo ragionevole, senza stare a disfarlo cento volte, dovevo essere concentrata sul pezzo e quindi era impossibile pensare al lavoro di laboratorio.» Così Valeria ha continuato, sia pure a ritmi alternati, a fare arazzi, begli arazzi. Noi aggiungiamo che una cosa positiva della tessitura è che vi si può dedicare il tempo che si vuole; si può sedere al telaio mezz’ora come l’intera giornata…intanto il lavoro procede e l’interruzione non inficia il lavoro. In oltre la presenza in casa del telaio, sul quale lo sguardo inevitabilmente si posa, è un invito alla calma ed a rivolgere il pensiero su quel lavoro che cresce giorno dopo giorno, filo dopo filo, metafora esso stesso della vita. Abbiamo raccontato la storia di Valeria perché è esemplare doppiamente. Esemplare è la sua dedizione al lavoro di ricerca, esemplare è il suo applicarsi ad una attività creativa che sicuramente libera in lei quelle energie positive che diventano esse stesse di sostegno alla scienziata. Valeria, anche se non è strettamente a contatto con i bambini ammalati, quando maneggia il loro sangue non può non pensare che è di un piccino che probabilmente non diventerà grande. Il tessere è per lei quindi anche un modo per “curarsi”. In oltre non è un caso che ella, sia pure negli USA, abbia scelto di seguire un corso di tessitura, perché questa recupera un fare della sua terra d’origine, il che costituisce non solo un legame identitario ma un legame col concetto stesso di vita. Insomma Valeria ci stimola, qualunque sia il nostro lavoro, a ritagliarci, ciascuno a proprio modo, uno spazio per la “bellezza”. Ne avremo sicuro giovamento!
Valeria Corrias, arazzo in cotone
Valeria Corrias, arazzo in cotone
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Intervista a Francesco Oliviero e Maria Grazia Putini di Maria Alessandra Ferrari
Maria Grazia Putini e Francesco Oliviero da una vita, con giovani e adulti a fare il gioco del teatro. Da qualche anno insegnano a Teatro Azione, una delle più accreditate scuole di recitazione di Roma, fondata e diretta da Cristiano Censi e Isabella Del Bianco Il centro e motore di ogni vostro insegnamento… MG: L’emozione. Qualsiasi essa sia, che oggi è annacquata dal ricorso alle molteplici forme di comunicazione, oppure è omologata. Ce ne sono in giro di emozioni, alcune, sono diffuse e potenti: ira, rabbia, paura esagerata, allegria sfrenata. Noi proviamo a cercare quelle nascoste o soffocate. F: Quando facciamo le presentazioni dei nostri laboratori teatrali, frequentati da giovani al loro primo approccio con il teatro, ma anche da persone che hanno sempre tenuto in un angolo questa passione e solo in età matura trovano il coraggio di mettersi alla prova, diciamo sempre che per noi il teatro è un gioco che amiamo fare molto seriamente. E che va fatto perciò con dedizione e disciplina. Ma soprattutto diciamo di osare, mettersi alla prova, cimentarsi, sperimentare le proprie possibilità, non rinunciare mai. Uno dei “maestri ideali” della prima giovinezza F: Da giovane ero molto timido al punto da negare a me stesso la voglia di fare l’attore. Per frequentare l’ambiente mi fidanzai con una ragazza che faceva parte di un gruppo teatrale sperimentale. Ma non ebbi poi il coraggio di propormi per iniziarmi al mestiere di attore. Accadde dopo. Era un’epoca in cui una società autoritaria, paternalistica, formalista, perbenista, veniva radicalmente messa in discussione. A tutti i livelli. E Strehler era sicuramente un importante punto di riferimento. Egli diceva: “…porto nel teatro tutto me stesso… quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita” MG: Dario Fo, oggi un po’ usurato, ma il suo motore strepitoso, Franca Rame, lo rendeva per me un’ideale di capacità espressiva. E poi tutto il teatro italiano che ai miei tempi la Rai mandava in onda: da Delia Scala ad Anna Proclemer. Interpretare un testo teatrale è dargli modo di vivere con l’esecuzione. Come partecipate ai vostri allievi che l’opera è un condensato di vita che, quasi, aspira ad esistere nella recitazione… MG: L’opera esiste nella recitazione come una realtà più acuta, forse persino più comprensibile e chiara. Noi proviamo ad usare iI Teatro come strumento di interpretazione della realta’. F: I nostri laboratori teatrali si articolano in due fasi: una prima di training e una seconda di lavoro per la messa in scena di un testo che in genere scriviamo noi. In questa seconda fase vengono affrontati i personaggi e si lavora sull’interpretazione. Ma in tutta la prima fase l’allievo è portato a fare i conti con se stesso in un percorso alla scoperta delle proprie emozioni. Per tutta la fase di training l’allievo è portato ad esercitarsi con la “reviviscenza”, ad abituarsi a “rivivere” le situazioni secondo la metodologia indicata da Stanislavskij e praticata all’ Actor’s Studio di Lee Strasberg L’aspetto fonetico, l’“epifania vocale”, nell’interpretazione di un testo, che importanza può avere? MG: La voce è ovviamente importantissima, soprattutto come elemento fisico, allo stesso modo di mani, testa, gambe, sedere. Credo, però, che la dizione non debba essere un accessorio estetico, ma uno strumento personale. Accenti giusti, consonanti sonore, e chiarezza nella pronuncia delle parole ma il gioco della recitazione deve tendere all’espressione e non all’esibizione, che in genere è priva di contenuti… F: …mentre noi abbiamo l’ambizione di fornire ad attori ed attrici quegli strumenti per essere originali.
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Vi trova d’accordo la definizione di Vladimir Jankélévitch sull’”ironia” come “lezione di misura”, per assumere una distanza critica da tutto ciò che l’opinione dominante prende passivamente per buono… F: Certo. L’ironia ci consente di superare, andare oltre le tante storture, le tante cose che non vanno al mondo capovolgendone il significato ma apre anche la strada alla critica dell’esistente. Voglio dire chiaramente, spostando il discorso sul piano più propriamente della satira, che pur essendoci professati “Charlie” all’indomani dei tragici fatti di Parigi, siamo per teatro che non trascuri la sensibilità spirituale e religiosa delle persone. MG: . L’ironia è uno strumento importantissimo. Non scherziamo! Serve ad affrontare un teatro con una platea semivuota, come a farsi largo in una folla di spettatori senza montarsi la testa. Però l’eccessivo distacco non mi riesce, ho un carattere terribile: sempre presente. Uno “scaffale ameno” della vostra biblioteca, per i momenti di leggerezza sorridente, di quali autori si arricchisce… MG: Leggo romanzi gialli come una forsennata. Soprattutto di autrici donne. Li leggo anche quando mi accorgo che ormai hanno saturato il mercato editoriale, si ripetono un po’ stancamente. Cerco ancora una scrittrice che mi regali un’altra folgorazione. Ah! Ad intervalli più o meno regolari rileggo Il Maestro e Margherita di Bulgakov, perché lì dentro ci sono milioni di risposte drammaticamente esilaranti! F: Mi appassiona l’attualità politica del nostro Paese e spero che, con l’impegno di tutti, la situazione possa molto migliorare. Non nascondo il fascino che provo anch’io per Il Maestro e Margherita. Quale sotterraneo richiamo si attivi, non saprei. Se doveste dare un taglio teatrale alle vostre esistenze finora, in quante “scene” le dividereste? F: In un’unica scena: il “teatro” di casa mia quando ero piccolo. Mia madre, mio padre, mia sorella, mio nonno, le zie… Dove c’è buona parte di quello che sono adesso MG: Due atti. Prima di lui, mio marito, e Adesso. Il secondo atto è frutto del primo, delle persone che abbiamo amato e che ci stanno ancora attorno, sono in scena con noi. Alcune sullo sfondo, altre illuminate da una luce magnifica, altre che escono all’improvviso come pagliacci. Quale tema di riflessione vi ha più usurato? MG: Lavoravamo ad un progetto a Montepulciano e abbiamo scritto un testo per ricordare Basaglia e la legge 180, quella che ha determinato la chiusura dei manicomi e la fine dello scandalo da loro rappresentato, che ha preso il suo nome e che grazie a lui è stata promulgata. Trattava di un gruppo di cosiddetti “malati di mente” in viaggio verso Bruxelles per testimoniare i loro progressi nelle istituzioni europee, grazie alle metodologie terapeutiche adottate dal giovane medico che li accom-
pagnava; nel bel mezzo del viaggio era prevista una crisi di nervi dei pazienti. I pessimi rapporti tra gli attori hanno quasi compromesso lo spettacolo F: Potremmo quasi dire che la realtà aveva superato la finzione con il rischio di un esito disastroso. Fortunatamente riuscimmo a riprendere in mano la situazione. L’invenzione più estrosa nelle vostre rappresentazioni… MG: Un cerchio di sedie dove una donna sistema le sue immaginarie rose. Dopo un po’ scopriamo che è una suocera e nel recinto entra la giovane nuora con cui iniziano una lotta feroce sulle note de La Cavalcata delle Valchirie di Wagner. F: Nei nostri lavori la scenografia non esiste. La stagione, non teatrale, più felice… MG: New York e gli altri viaggi: spensieratezze stracolme di immagini e persone… F: Ah, New York. New York! Un lavoro progettato e magari avviato, mai andato in porto… F: Uno spettacolo sulla violenza di genere. Ma non perché non lo abbiamo realizzato…. MG: …ne abbiamo scritto moltissimo e l’abbiamo rappresentata. Abbiamo dedicato a questo tema riflessioni e letture ad alta voce o vere e proprie drammatiche scene. Certe volte penso di non aver più niente da aggiungere, ma non è così: la realtà la tira fuori di nuovo ogni giorno e io devo parlarne. Ancora e ancora, per farla scomparire. Per questo mi piacerebbe che il mio reading, Storie di Anita oggi, avesse la possibilità di girare in Italia. Domanda d’obbligo per la nostra rivista “HAT”. Ricordi di scena col o sul cappello… F: Facciamo ammenda: dopo questa intervista porremo maggiore attenzione nel nostro lavoro, per le nostre messinscena, a questo importante accessorio dell’abbigliamento maschile e femminile. Da parte mia, lo scambio di cappello con un collega, in scena, dalla taglia più piccola che mi costrinse ad armeggiare con questo Panama per tutta la durata della mia permanenza in scena. MG: Posso dare un inedito? E’ il monologo di A., una donna delle pulizie stanca, devastata, sola, senza speranza, travolta da una fatica che non smette: A.: Avrò il cappello! E tutti lo vedranno. Il cappello mi nasconderà i capelli e le rughe. Terrà in ordine i pensieri. Io sono una donna senza memoria, sempre col cuore accelerato, le orecchie distratte, gli occhi bassi a cercare un punto sporco, una macchia, un po’ di polvere per cui potrei essere rimproverata. Se avessi un cappello - e l’avrò! - potrei tenere insieme le cose che mi vengono in mente, quelle che in genere ondeggiano e sfuggono e mi fanno distratta e mi fanno disarmata come sono (come accorgendosi di qualcos’altro da dire). E poi il cappello mi farà più alta e, certo, più felice...”
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Contro di me di Maria Grazia Putini
I
l pomeriggio piovoso è diventato una sera nebbiosa e gelata, devo alzare gli occhi da queste storie, da questi numeri, dalle facce delle donne violentate che compaiono sui fogli su cui sto scrivendo. Non ci sono più occhi, labbra, nasi, ciglia, sopracciglia, non ci sono più espressioni, lacrime, sorrisi, denti, solo facce simili, inutilmente tutte uguali. Neppure io mi salvo, però, anche io ho la mia faccia scura. Io sono una donna come le altre. Una donna normale con il suo ricordo nascosto. A differenza di molte altre io sono viva, e quando è successo non ho sentito neppure troppo dolore. Anche per me, come per tutte le altre, alla fine è passato e io ho dimenticato. Ero giovane, molto giovane. Il giorno della festa, quando lui mi chiese di entrare nella stanza di là, ero quasi riuscita a scambiare alcune frasi non troppo banali con almeno tre persone. Poi accadde che lui chiuse la porta e all’improvviso si tirò giù i pantaloni. Ero tentata di mettermi a ridere: perché si era spogliato, davanti alla porta in modo che io non potessi uscire? Non riuscivo a ricordare quanti anni avesse più di me, in quel momento di lui ricordavo solo il soprannome; ad un certo punto, poi, si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla per spingermi a sedere sul letto, e io caddi di piombo e chiusi gli occhi. Perché non sono scoppiata in una grande risata che gli avrebbe fatto risalire i pantaloni? Perché non ho urlato? Allora è successo anche a me? Il mio articolo sulle donne violentate deve finire qui, con la mia umiliante minuscola storia che ha qualcosa in comune con tutte le altre stupide, terribili e assassine storie di violenza sulle donne. E’ la storia di un gesto che niente potrà redimere o rimediare. Un gesto anche contro di me, come contro le Altre. (musica) Ecco, ho finito di scrivere, devo firmare …mi chiamo …Maria … Teresa… Elisabetta .. Chitomi .. Lucrezia ... Alice ... Celeste..Giovanna ... Caterina ...Chinue ... Luisa ... Aiko … Antonia ... Perla ... Gabriella ... Fedora .... Minna ... Amalia ... Diletta ...Valeria .. Doroty... Margareth ... Alessandra ... Aisha ... Roberta ... Domenica ... Charlotte .. Rita … Edda ... Fatima .. Marina ... Aurora ... Agnese ... Ada... Jole... Monia... Naomi ... Matilde ... Rossella ... Esmeralda ... Sibilla …Ursula.. Veronica..Vanda…Emilia … Federica. Questo monologo è tratto da: Anita è viva! Storie di Anita oggi, di Maria Grazia Putini e Francesco Oliviero. Uno spettacolo nato nel 2011 in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia per sottolineare il tema del ruolo delle donne nella storia passata e presente del nostro Paese. Un modo, da un lato, per rendere omaggio ad Ana Maria Ribeiro Da Silva, una donna che in tempi difficili è stata tra i protagonisti del Risorgimento italiano, una donna di cui si parla poco, o meglio lo si fa in modo leggendario, considerandola in fondo la moglie di Garibaldi, dall’altro, un modo per rappresentare le voci, i pensieri, le immagini, le grida o le risate delle donne di oggi, in tempi altrettanto non facili per loro. 60 HAT n. 62 | 2015
CHI SONO Maria Grazia Putini è nata a Roma, dove ha frequentato il liceo classico Virgilio e studiato Lettere moderne presso l’università La Sapienza. Ha frequentato il corso di giornalismo dell’Università Internazionale degli Studi Sociali Pro Deo, diplomandosi, con il massimo dei voti, con una tesi romanzata su Le innovazioni tecnologiche nei mezzi di comunicazione di massa, relatore Prof. Guido Botta, correlatore Prof. Vitaliano Rovigatti. Ha esordito in teatro, come attrice e autrice, con Isabella Del Bianco, Cristiano Censi e Davide Montemurri, lavorando sui meccanismi di costruzione del personaggio attraverso le tecniche dello psicodramma di Jacob Levi Moreno. Ha scritto brevi saggi e articoli sulla storia del Teatro e dell’improvvisazione nel metodo Stanislavskij, e sugli sviluppi e le applicazioni del metodo Strasberg. E’ autrice di radiodrammi e di opere teatrali di impegno civile, con particolare attenzione ai temi della realtà giovanile, dell’immigrazione e delle donne. Esordisce in RAI nel 1986, come conduttrice del programma-inchiesta L’allegra faccia della terza età, di Roberto Mazzucco, per Radiouno. Ha scritto radiodrammi per il Dipartimento Servizi Giornalistici e Programmi per l’estero (Vita di Giosuè Carducci) e per Radiodue per la serie Un racconto al giorno. Dal 1988 ha lavorato regolarmente per Radiodue e Radiouno come autrice e conduttrice di programmi come Radiodue presenta, Il Buongiorno di Radiodue, Le ore della sera, Ancora Fantastico, La notte dei misteri. Per la televisione ha collaborato ai testi di Io confesso e La Testata per Raitre, e Disney Club per Raiuno. Dai primi anni del ‘90 conduce Isoradio, fino alla collaborazione, iniziata nel 1997, al Giornale Radio Rai nella redazione Cultura, capo redattore Piero Dorfles, dove ha curato la Terza Pagina quotidiana dal titolo Il Baco del Millennio. Sempre con Dorfles, firma, negli stessi anni, il programma culturale televisivo in sei puntate La Banda, in onda, il martedì, su Raitre. Nel 2004 supera l’esame di idoneità professionale ed è iscritta all’Albo dei Giornalisti Professionisti. Nel 2007 entra come giornalista in RAI e si occupa di cronaca (Percorsi con Anna Scalfati, RAI 3), di medicina (Cominciamo Bene), e, sempre per RAI 3, di libri nel programma Le storie di Corrado Augias. Da dicembre 2013, lavora presso la Testata del Giornale Radio RAI, dove collabora al programma di approfondimento giornalistico di temi sociali, La Radio ne parla. Francesco Oliviero è nato a Ercolano (NA) e vive a Roma. Ha conseguito la maturità scientifica e ha studiato filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli. Si è formato teatralmente con Cristiano Censi e Isabella Del Bianco, e sotto la loro direzione dal 1985 al 1988 è stato tra i protagonisti di diversi spettacoli dello stesso Censi e con la regia di Isabella Del Bianco. Ha studiato le applicazioni del metodo Strasberg con Ilza Prestinari. Alterna, negli anni, l’attività come attore in teatro e in televisione con
quella di autore di testi creativi per la RAI e di curatore di laboratori teatrali. E’ fautore di un teatro di impegno civile per il quale scrive, con Maria Grazia Putini sui temi del disagio giovanile, dell’integrazione e delle donne. L’attività comune inizia negli anni ’90, quando Maria Grazia Putini e Francesco Oliviero fondano con Francesco Anzalone, regista diplomato all’Accademia d’Arte drammatica, Silvio D’Amico, il gruppo Al Teatro e avviano un progetto pluriennale di teatro nelle scuole superiori dell’Umbria, con la realizzazione di laboratori teatrali rivolti agli studenti del liceo scientifico Gandhi, di Narni, e del liceo scientifico A. Volta di Spoleto. Scrivono e mettono in scena, alla fine di ogni anno, gli spettacoli che nascono all’interno dei laboratori, iniziando così a sperimentare un teatro fortemente ancorato alla realtà giovanile. E’ del 1999 la collaborazione con Claudio Borgoni, regista e presidente dell’Associazione culturale Il Grifo e il Leone di Montepulciano, in provincia di Siena, per la realizzazione della manifestazione Magica Terra, una rassegna di spettacoli che animerà per qualche anno i palazzi storici e le strade della cittadina toscana. Nel 2003, quando Claudio Borgoni crea il Cantinonearte Teatri e ne diventa direttore artistico, sono chiamati a sviluppare in quella struttura un progetto di formazione teatrale destinato a giovani e adulti non professionisti. Nasce così, a Montepulciano, il laboratorio teatrale permanente Giù la maschera, che nell’arco di un decennio produce una dozzina di spettacoli, alcuni dei quali conseguiranno una piccola circuitazione nella provincia senese.
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CAPPELLIFICIO TORRESI LORENZO Nasce nel 1971 sulla scia del laboratorio familiare dedito al confezionamento di cappelli in tessuto. L’impresa si contraddistingue nel settore degli accessori da bambino da 0 a 12 anni e nel corso degli anni, seguendo le richieste del mercato, inizia a specializzarsi anche nella produzione di cappelli da uomo-donna. I modelli vengono creati e realizzati completamente all’interno dell’azienda, utilizzando diversi materiali quali pile, lana, cotone, pelliccia. Cura del dettaglio, scelta dei materiali e qualità del Made in Italy, hanno permesso all’impresa di ampliare i propri confini e sviluppare un notevole commercio estero. Ad oggi, l’azienda Torresi si evidenzia per il design innovativo nel settore della moda e dei materiali, grazie al know how aziendale maturato durante un’esperienza di oltre quarant’anni.
viva il vintage di Stefania Severi
E
’ ormai da qualche tempo che il vintage è di moda. Ma cosa si intende esattamente con questa parola? Vintage è un attributo che indica un oggetto realizzato almeno 20 anni prima del periodo corrente. A questo oggetto si attribuisce un particolare valore o perché è fatto a mano, o perché è realizzato con materie che oggi non si usano più, o perché legato a costumi non più in uso. Pertanto questo oggetto spesso diventa di culto. Il vocabolo inglese deriva a sua volta dall’antico francese “vendenge” che indica i vini d’annata. Pertanto vintage sono i dischi, le prime Vespa, la 500 originale e mobili, mangianastri, vestiti, oggetti di ogni tipo, borsette e cappelli. Dove si trovano gli oggetti vintage? Ormai un po’ dappertutto ma in particolare nei mercatini e nelle fiere, oltre che in veri e propri negozi specializzati e in vendita online. In particolare “Vintage, la moda che vive due volte” si svolge a Forlì e nello scorso settembre è giunta alla 18° edizione. Il fatto che si tenga nell’area della Fiera offre l’idea dell’entità del fenomeno. A Forlì si svolgono due fiere l’anno, entrambe dedicate in specifico alla moda, una a marzo ed una a settembre. Un’altra importante fiera è “Next Vintage”, dedicata al vintage in tutte le sue forme, che si tiene in aprile al Castello di Belgioioso vicino a Pavia. Importante è anche l’appuntamento “Vintage Vanitas” a Cremona. In gennaio a Firenze, alla stazione Leopolda, c’è “Vintage Selection”, mostra-mercato di oggettistica e moda. In estate i mercatini vintage ci sono un po’ ovunque, ciascuno con le proprie specialità che abbinano al vintage anche l’antiquariato, il modernariato e il design. E’ indubbio che in questi posti si trovano tanti bellissimi cappelli, sia da uomo che da donna, e talvolta anche le vecchie cappelliere. Al mercato vintage di Gardone Riviera ne troviamo veramente tanti, mai in banchi specifici, ma spesso unitamente ad altri capi o addirittura ad oggetti. La signora Lucrezia ci fa vedere come una piccola cloche fucsia possa perfettamente adattarsi ad un vestito di oggi. E’ una venditrice simpatica, di quelle brave senza essere “pesanti”. Ci dice che a comperare cappelli sono in genere donne giovani e spigliate, di
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cultura medio alta. Non li comperano le giovanissime, perché temono il ridicolo e magari si mettono cose orribili ma con le quali si sentono sicure, perché sono alla moda. Non li comperano le signore d’età, perché temono di invecchiare. Alcuni li comperano per collezione. Ad ammirare tanti fascinosi cappelli viene da pensare che ad acquistarli dovrebbero essere soprattutto gli odierni creatori di cappelli, per prendere spunto da essi, non per copiarli ma per osare uscir fuori dalle forme più tradizionali. A copiarli c’è il rischio, se di rischio si può parlare, di creare cappelli “rétro”, che è termine che indica oggetti nuovi che prendono ispirazione dalle cose del passato. Anche il rétro oggi è di moda e l’esempio più emblematico è offerto proprio dalla nuova 500. Del resto ci vorrebbe un revival del cappello, cioè il ritorno al suo uso e all’andamento estetico sotteso a tale uso. Insomma proponiamo un revival dei cappelli, siano essi moderni o vintage, siano essi rétro o futuribili. Ma lasciamo adesso che siano questi splendidi cappelli a parlare. Chi li avrà indossati e in quali circostanze? Saranno stati testimoni di eventi allegri o tristi? E quella tesa avrà nascosto un bacio o una lacrima…Il fascino di questi cappelli vintage non è solo nell’ottima fattura, nei materiali di qualità che hanno permesso loro di giungere in ottimo stato e nell’originalità della forma, ma anche nella storia che celano. Le immagini sono state scattate al “Vintage Design & Fashion Market” di Gardone Riviera sul Lungolago Gabriele d’Annunzio nel maggio 2015. Lo stesso manifesto del mercato sfrutta una affiche del luogo decisamente vintage.
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Jommi Demetrio La storia La Ditta “Jommi Demetrio” inizia la sua attività nel 1970 quando l’attuale titolare, dopo aver fatto esperienza per un lungo periodo nelle aziende di più antica tradizione di Montappone, decide di mettersi in proprio. Nei primi anni si presenta sul mercato nazionale con una vasta gamma di articoli nella linea classica. Da lì parte un graduale sviluppo che vede allargarsi ed arricchirsi sempre più le tipologie di lavorazione, la struttura produttiva e le collezioni che si compongono anche di capi estrosi ed elaborati per importanti defilé di moda. Nel 1984 viene avviata un’attività di commercializzazione di cappelli estivi ed articoli da mare lungo la costa adriatica. Attualmente la “Jommi Demetrio” è una delle realtà più importanti del settore in diverse regioni. Il continuo aggiornamento e il moltiplicarsi di iniziative imprenditoriali, insieme a una curata attenzione al prodotto, rendono l’Azienda ancora fortemente competitiva. La produzione Dedicata per la maggior parte agli articoli invernali, la produzione si sviluppa sia sul programmato che sul pronto moda. Gli articoli per uomo, donna e bambino sono di livello medio-fine. Le esperienze tecniche accumulate in tanti anni di attività, la manodopera specializzata, la continua collaborazione con le firme più prestigiose dell’alta moda e del prêt-à-porter, la costante ricerca nella modelleria, l’impiego di materiali eleganti e di qualità, sono gli elementi che rendono la Ditta capace di interpretare i mutamenti delle tendenze e di adattare tempestivamente ad essi le collezioni e la produzione.
Jommi Demetrio
www.jommidemetrio.com
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La politica aziendale Alla base del successo della “Jommi Demetrio” c’è sempre stata l’intenzione di soddisfare i clienti, sia nel servizio che nel prodotto. L’Azienda mira alla competenza per ottenere risultati certi e costanti e ad instaurare rapporti stabili e di reciproca fiducia con chi si rivolge ad essa.
C.da Sole, 12/16 63835 MONTAPPONE (FM) Tel. 0734.760541 info@jommidemetrio.com
MADAME PAULETTE di Belinda Formentini
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auline Adam de la Bruyère fu una celebre modista del secolo scorso. Nacque nel 1900 in Francia e lasciati gli studi entra da subito a lavorare nel mondo dell’arte della moda. E’ recente un libro, “Hats by Madame Paulette”, scritto da sua nuora Annie Schneider che narra in modo poetico la sua ascesa fino a diventare regina delle modiste. Il libro ha la prefazione di Stephen Jones noto artista del cappello che tra l’altro ha le sue creazioni anche nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York e del Louvre di Parigi. Pauline inizia a 19 anni come modella nelle sfilate della Maison Lewis, ma evidentemente questo ruolo non le basta e nell’anno successivo la troviamo nell’atelier Brunet e Verlaine dove impara a “far cappelli” e a venderli. Da lì il passo fu breve. Aprì un suo Salone del Cappello nel 1921 e un altro nel 1929, quando cominciò a farsi chiamare Madame Paulette. Intraprendente e coraggiosa approfittò dei ruggenti anni 20 per vincere la concorrenza di modiste del calibro di Lucienne Rabaté, Agnès e Elsa Schiaparelli e diventare la modista più apprezzata dalla classe facoltosa di Parigi e non solo. Le sue creazioni sono vere opere d’arte e famosi sono i suoi “cappellini fioriti”(i Bibisjardin), le calottine, le pagliette, le velette e le cloche. Il 1939 è l’anno in cui Madame Paulette decide di ingrandire e migliorare l’atelier in cui lavora circondandosi di un ambiente di classe e molto accurato nei dettagli. Durante la guerra decide di non produrre più i Bibis e, precisamente nel 1942, inventa il turban-bicyclette, un tur-
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M.me Paulette nel suo atelier
Stephen Jones
M.me Pulette e Karl Lagerfeld
bante che si presenta così piccolo e assai pratico ed è davvero ottimo in quel periodo scarso di shampoo e di coiffeurs. Lo chiama così perché Paulette ha avuto l’idea di provare una sciarpa attorno al capo osservando le donne mentre girava in bicicletta per Parigi. Nel secondo dopoguerra arriva il pieno successo: tutte le stars e le regine portano i suoi cappelli. Jacqueline Kennedy con il suo pill-box che diventa un classico, la principessa Grace di Monaco e i turbanti, e così via. Tutte, da Greta Garbo a Marlene Dietrich, Rita Hayworth e la stessa Duchessa di Windsor. Lei, Madame Paulette, allestisce ben due collezioni per Parigi, due per Londra e due per New York. Questo per ogni anno. Collabora con le sue creazioni con costumisti del calibro di Cecil Beaton che sia per il film “Gigi” (con Leslie Caron) che per “My Fair Lady” (con Audrey Hepburn) prenderà l’Oscar. Sempre originale, madame Paulette non crea due cappelli tra loro simili. I più grandi fotografi di moda si contendono le sue “opere” sulle pagine di Vogue e di Harper Bazaar: da Avedon a Newton a Horst e Klein. Negli anni 60, la crisi del cappello non la tocca. Lei si specializza in acconciature da sposa e arriva fino al 1971 quando la stessa Cocò Chanel vuole lei per le pagliette in tessuto della sua ultima collezione. Nel 1983 lavora assieme a Karl Lagerfeld e questo è il suo ultimo impegno. Muore a 83 anni e le sue creazioni realizzate tutte a mano e senza bozzetto si trovano nei maggiori musei del mondo.
I MAGICI CAPPELLI DI RENE’ MAGRITTE di Luciano Marucci
L
’artista belga che non desiderava essere del nostro tempo per offrire una visione superiore del mondo capace di esprimere, con suggestivi e inquietanti paradossi, i misteri della vita. Il mondo della cultura ha sempre considerato il cappello un capo d’abbigliamento degno di attenzione. Molti artisti lo hanno usato come caratterizzazione personale o immortalato in opere di ogni genere. Nell’ambito delle arti visive viene presto in mente René Magritte: il principe della bombetta, colui che più l’ha usata nella realtà e nella finzione iconica. Rompendo l’assurdo delle convenzioni sociali, in pieno ventesimo secolo, non usciva mai senza il suo copricapo che gli conferiva l’aspetto di gentleman inglese, sia che si trovasse nella sua Bruxelles, sia che fosse all’estero. E innumerevoli sono i quadri che hanno il suo cappello a protagonista in geniali ideazioni decisamente spiazzanti. Il 1998 è stato l’anno che ha rinvigorito la fama di Magritte, del resto mai offuscata nonostante i trentuno anni dalla sua scomparsa. Si è parlato ampiamente di lui quando ai Musées Royaux de Beaux-Arts di Bruxelles è stata aperta la sua più completa retrospettiva documentata da un voluminoso catalogo. Poi si è tornati a celebrarlo il 21 novembre per il primo centenario della sua nascita. Troppo grande è stata la sua statura di artista per poterne trattare compiutamente qui. Mi limiterò a ricordare soprattutto i miei rapporti con lui e la consorte. Erano gli anni sessanta. In Italia si cominciava a favoleggiare di Magritte. Dati i tempi, la sua figura retrò sembrava avere qualcosa di strano, di surreale, proprio come i dipinti strettamente relazionati al suo universo. Per qualcuno era un uomo distante, aristocratico, puntiglioso. In realtà era molto democratico e umile anche se rigoroso e coerente nell’affermare i suoi concetti. Allora solo alcune gallerie gli organizzavano esposizioni e le collezioni più in vantavano qualche sua opera. Fu in quel periodo che iniziò tra noi una proficua corrispondenza. Si parlava per lo più della sua attività e della sua poetica. Quando nel 1967 a San Benedetto del Tronto curai la VII Biennale d’Arte, accettò l’invito per la sezione di “Grafica internazionale” e mi inviò due rare acqueforti. Magritte, però, non stava già bene. Colpito da un tumore al pancreas, in luglio si recò alle Terme di Montecatini dove andai ad incontrarlo. Mi si rivelò gentile, mite e disponibile all’ascolto. Ammetteva, senza timore, che negli anni cruciali della sua formazione aveva guardato con interesse a “Desciricò”
Rene Magritte, 1898 - 1967, Belgio E’ un’unione che suggerisce il mistero essenziale del mondo. L’arte per me non è un fine in sé, ma un mezzo per evocare quel mistero. René Magritte sulla giustapposizione di oggetti non correlati. Ha iniziato a dipingere Surrealismo dopo aver visto l’opera di Giorgio di Chirico. René Magritte davanti alla sua opera “Le pèlerin” (“Il viandante”), 1966
“L’homme au chapeau melon” (L’uomo in bombetta), 1964 olio su tela, collezione Simone Withers Swan, New York
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del Canto d’amore. Ma è indubbio che successivamente era riuscito ad andare oltre la staticità museale e archeologica di De Chirico con una produzione più fantasiosa, sensibile, mentale e ironica. Il 15 agosto Magritte, purtroppo, ci lasciava. L’anno dopo fui in casa sua, ospite per tre giorni di madame Georgette, la compagna di una vita, la sua unica modella, che aveva conosciuto in un luna park nel 1913 e che, dopo il matrimonio (1922), lo aveva seguito in ogni avventura compresa quella della eccitante stagione del Surrealismo parigino. Per me fu l’occasione di ammirare, oltre all’ultimo quadro rimasto abbozzato, i capolavori che ancora arredavano l’abitazione e gli ‘oggetti d’affezione’ rappresentati in varie combinazioni nei quadri: dal pianoforte a coda alle bianche colombe, al piccolo cane nero Lulù (cieco) divenuto scontroso dopo la perdita del padrone con cui usciva a passeggio ogni giorno alla solita ora. Mi colpì il fatto che uno dei più grandi maestri della storia dell’arte non avesse un regolare atelier. Come un pittore della domenica, aveva dipinto in cucina, in sala e in ultimo si era appartato sul ballatoio delle scale che immetteva nella camera degli ospiti: un piccolo spazio ordinato con libreria, divanetto, cavalletto e una valigetta di legno contenente la tavolozza, pochi tubetti di colori, qualche pennello, un carboncino. Nella bianca villetta al n. 97 di Rue des Mimosas circondata dal giardino avevano trovato posto alcuni bronzi (ricavati nel ‘67 da suoi soggetti più noti, plasticamente significativi, e subito esposti da “Iolas” a Parigi), tra cui Les travaux d’Alexandre, Les graces naturelles, Le thérapeute e Le puits de vérité. In quel luogo rivedevo René e Georgette insieme con il poeta Louis Scutenaire (grande amico di famiglia) mentre si divertivano a proiettare i film prediletti di Charlot o ad improvvisare ‘pose’ per fotografie surreali. Magritte non era ricco: dipingeva solo per intimo piacere e non per speculare sul prodotto creativo, anche quando negli ultimi tempi intorno a lui si aggiravano famelici mercanti. E pensare che ora, capìta appieno l’importanza del suo messaggio artistico, direttori di musei e amatori si contendono all’asta i suoi lavori a suon di miliardi! A parte l’alto valore poetico e filosofico dell’opera magrittiana ormai da tutti riconosciuta, va sottolineato che egli è stato un innovatore. Usando colori e pennelli con spirito sperimentale e linguaggio di tipo duchampiano, ha saputo fare antipittura concettualizzando un medium che nei secoli aveva già dato il meglio di sé. Intendeva superare la tradizione e, allo stesso tempo, la modernità contestando i codici visivi acquisiti e rompendo i nessi culturali abusati. Era riuscito così ad indicare altre vie per la sopravvivenza della pittura, senza trascurare i problemi della percezione e rinunciare alle potenzialità del sogno. Con la dialettica tra oggetto, immagine dipinta e parola scritta si può dire che avesse anticipato la Conceptual Art.
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“Le bouquet tout fait” (“Il mazzo di fiori bell’e fatto”), 1957, olio su tela 166,5x128,5 cm, collezione Bamet Hades, Chicago
“L’hirondelle des faubourgs” (“La rondine dei sobborghi”), 1948, gouache, 42x30 cm, collezione A. E. Najar, Bruxelles
Certi lo avevano additato anche come precursore della Pop-Art, ma egli non si era fatto irretire dalle lusinghe, tanto che in una lettera del 7 gennaio 1967 mi puntualizzava “[...] Non si deve confondere la ‘stupidità’ con l’apparenza delle cose che ci circondano. L’apparenza offerta da una nuvola, un albero o un’altra figura non è ‘stupida’, questa apparenza non è da disdegnare a vantaggio delle ‘interpretazioni’ che gli artisti-pittori si sforzano di dare. In questa occasione, è la stupidità e la noia che procurano le pitture: esse sono tutte talmente indifferenti le une alle altre. Non è l’apparenza del mondo che è stupida. E’ ciò che gli ‘artisti’, quelli della Pop-Art, per esempio, ne fanno. E’ miserabile e conviene perfettamente ‘ai tempi presenti’. Io non desidero essere ‘del mio tempo’. Lascio ciò alle persone che si interessano dell’attualità come se non ci fosse una visione de mondo ad essa superiore [...]”. Per molti versi Mag (così spesso si firmava) è stato un personaggio astorico, un’apparizione salutare per l’uomo di oggi al quale ha lasciato una straordinaria carica immaginativa. Le sue composizioni, che intrappolano lo sguardo grazie al taglio fotografico e al trompe-l’oeil, sono sempre sorprendenti, anche se hanno origine da un processo formativo da lui lucidamente teorizzato. Tra l’altro, l’accostamento di elementi familiari, più o meno decontestualizzati, non hanno nulla a vedere con i ‘mostri’ che affondano le radici nell’onirico e nell’automatismo psichico di certi surrealisti ortodossi come Masson, Dalì o Savinio. Al contrario, esse derivano dal nonsense di una realtà piena di contraddizioni, da verità nascoste e da ‘invenzioni’ di un pensiero divergente rafforzato da titoli mai rassicuranti. Di tutto ciò egli si serviva per entrare nella totalità dell’universo e nella magia dell’esistenza, chiamandoci a risolvere il giallo degli enigmi che proponeva in maniera giocosa e catturante, conducendoci a prendere coscienza di quanto non immaginavamo potesse abitare il nostro profondo. Gli bastava una mela (rilevata dal quotidiano col pennello come ready-made, senza dare importanza al virtuosismo pittorico) messa, ad esempio, sul volto di un uomo con la bombetta per penetrare in quel mistero di cui c’è bisogno per far coesistere integralmente il reale visibile e invisibile. Forse mai l’opera e il suo autore si sono associati e scomposti con tanta disinvoltura come in un sapiente gioco di specchi in cui si riflettono immagini vere e finte. E qui, oltre che della insolita identificazione tra arte e vita, si potrebbe perfino parlare della sua naturale vocazione di performer ante letteram. I suoi dipinti, comunicativi e indecifrabili, sono stati una rivelazione pure per i pubblicitari, che continuano ad appropriarsi dei suoi suggestivi e inquietanti paradossi, e per gli editori che sfruttano l’efficace figurazione per copertine dei libri ed altro.
“Le paysage de Baucis” (“Il paesaggio di Bauci”), aquaforte
“Le chef d’oeuvre ou Les mystères de l’horizon” (“Il capolavoro o I misteri dell’orizzonte”), 1955 olio su tela, 49,5x65 cm, collezione L. Amold Weisberger, New York
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IL CAPPELLO DI BEUYS “BEUYS NON è BEUYS SENZA IL CAPPELLO!” di Franca De Vecchis
L
’immagine dell’artista Joseph Beuys (1921 - 1986) è caratteristicamente legata al cappello di feltro grigio che l’artista tedesco, il più importante del dopoguerra, indossava in ogni occasione. Alla funzione ed al materiale del suo cappello egli attribuiva infatti profonde valenze simboliche e sentimentali. Nel 1942, l’anno dei più grandi successi militari tedeschi, Beuys si arruola in una unità dei bombardieri della Luftwaffe. Nel 1943, di ritorno da una missione, il suo Stuka viene colpito dalla contraerea russa, precipitando in una tempesta di neve: Beuys resta privo di conoscenza per otto giorni, il cranio fracassato ed i capelli bruciati. Tartari nomadi lo soccorrono: seguendo un’antica procedura terapeutica lo cospargono di grasso e lo avvolgono nel feltro per isolare e conservare il calore. Il feltro è una falda compatta di spessore variante da uno a più millimetri, costituita da fibre di lana talvolta miste a peli animali o a rigenerati di lana o di cotone, fabbricata senza il concorso delle operazioni consuete della filatura, dell’orditura e della tessitura. Le fibre di lana hanno la proprietà di feltrarsi, cioè di saldarsi le une con le altre, sotto l’azione del calore, dell’umidità e del movimento. Beuys lentamente ristabilisce il contatto con la vita, serbando memorie e immagini per il futuro. La Germania, al suo ritorno, è sconvolta dalla guerra ed umiliata: la guerra, le macerie, la colpa, il prezzo da pagare, le ferite da guarire. Cercare la salvezza e trasformarla in existenzminimum, altrimenti soccombere. Il carattere tedesco muta, la tradizione romantica ed idealista cede alla rovina, al disonore e all’oltraggio. Ricostruire, ripagare, soprattutto recuperare frammenti e tracce del passato per avere di nuovo un futuro. Si risveglia così lentamente, dalla ferita, l’idealità, l’utopia riparatrice e promettente. Joseph Beuys ha visto tutto questo, ha fatto tutto questo, cercando tra le macerie oggetti per ricordare e da ripresentare, come nei film del dopoguerra, in cui persone-fantasma cercando indizi, nomi, figli.
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Parlando della sua patria, nel 1985 Beuys disse “Ancora una volta mi accade che vorrei cominciare dalla ferita. Partiamo dal presupposto che le forze mi vengano meno - ammettiamo anzi che io sia già crollato e che giaccia già in una fossa - ebbene da tale fossa ci sarebbe tuttavia una resurrezione... Un’arte che impara a concepire idee che possono dar forma al sentire e al volere e che potrà... presentarmi le immagini nelle quali si specchierà già il futuro, fissandone pure i concetti.”
Michael Leventis, L’uomo con cappello di feltro grigio, Joseph Beuys, Olio su tela, 47,5x40 cm Agosto 2011
Dal grasso e dal feltro si può tornare in vita, anche con un cranio ferito, ma si è impreparati e impauriti. Si avverte il bisogno di tacere, di isolarsi e ricollocare le cose che ci si fanno incontro, per ritrovare di nuovo “la legge morale dentro di noi ed il caelum stellatum sopra di noi” (Immanuel Kant). Coprire la ferita, isolarla dal rumore della disperazione, proteggere la testa e nascondere la vergogna: il feltro grigio di Beuys parla del suo orrore ma lo cela con discrezione. Lo protegge col suo calore, diventa un emblema, un segno: “Volevo tramutarmi in una specie di essere naturale. Volevo le stesse cose: come un coniglio ha le orecchie, così io volevo avere un cappello. Un coniglio non è un coniglio senza le orec-
chie, allora ho pensato: Beuys non è Beuys senza il cappello!” La scultura Senza Titolo, del 1963, mostra un cappello a tese larghe, invecchiato, vissuto, coperto di polvere e terra, appoggiato su un tappeto di aghi di pino e paglia: non si dimentica ciò che abbiamo vissuto, la nostra unica possibilità è di restare in contatto col suolo, con le nostre radici. “Il mio cappello rappresenta un altro tipo di testa e funziona come un’altra personalità. Molta gente è stranamente coinvolta da esso che funziona come un teatro permanente, sta lì di fronte alle persone ma non è immediatamente decifrabile. Quando lo descrivono come un marchio, lo fanno perché il suo significato non gli è chiaro. E’ esattamente questo ciò che intendo quando parlo dello sciamano: è impossibile decifrare precisamente il modo in cui funziona. Un significato più semplice potrebbe essere che il cappello può lavorare da solo e si comporta come un veicolo - io personalmente non sono più importante.” Un cappello che non rimanda ad altro, ma rappresenta sé stesso in quanto feltro, materiale che protegge ma permette l’osmosi della testa col mondo esterno. Le idee si formano, prendono corpo e si trasmettono al mondo circostante. Occorre allora immaginare un progetto, realizzarlo, farsi carico della colpa del passato e darsi di nuovo speranza. Fare e pensare, conseguenti l’uno con l’altro: solo così, dopo l’anno zero, si costruisce una nuova storia. Beuys sceglie il territorio dell’arte con difficoltà, sicuro però di seguire il suo destino. L’arte è solo apparentemente svincolata dalla categoria dell’utile: essa può allontanare il pericolo, esorcizzarlo, oppure propiziare un evento, come la cattura dei bisonti nelle grotte di Altamira e Lescaux. L’arte conquista a sua volta per l’uomo uno spazio di sopravvivenza altrimenti negato, soffocato dall’urgenza pratica. L’arte è quindi una pratica, un fare che produce e utilizza oggetti utili. La Soziale Plastik (Scultura Sociale) costitui-
sce il progetto di Beuys per l’umanità, incentrato sulla necessità di considerarla come un organismo indivisibile e perfettamente funzionante nell’interazione delle diverse parti. Dieci giorni prima di morire, il 12 gennaio 1986, nell’occasione del conferimento del premio Lehmbruck nella città di Duisburg, Beuys disse: “La scultura nasce prima di tutto nel pensiero, prima ancora che si delinei una qualche sua forma, cosa che avverrà quando si passerà a realizzarla in un materiale. In tal
senso mi sentii motivato a collegare a questa maniera di esprimermi qualcosa che si rifà direttamente alla crisi che investe tutto il mondo, non soltanto il nostro popolo. Pensai, dunque, a qualcosa che renda evidente la deforme insensatezza alla base dell’organismo sociale. Fu allora che mi posi la domanda di quale segnale fosse foriero di tale tragicità. Fu allora che l’opera d’arte mi divenne un enigma di cui l’uomo doveva essere la soluzione. Fu appunto questo che mi spinse, senza
possibilità da parte mia, alla plastica sociale. La plastica è la legge del mondo.” Secoli di esasperata intellettualizzazione, soprattutto occidentale, hanno sacrificato alla linearità la curva naturale degli avvenimenti: l’umanità si frammenta, la società si indebolisce e si ammala. Beuys si fa pedagogo e ci reinsegna a compiere il nostro lavoro di animali politici, che abitano la storia. Considerare la società come una scultura da plasmare, ricavarne un’opera d’arte complessiva e viva, provare a considerare ogni uomo come un artista perché ciascuno possa conoscere il proprio particolare talento. Beuys crea il suo proprio inventario di materiali necessario all’espressione ed alla comunicazione: grasso (il calore, la trasformabilità); il rame (la conduzione di quel calore, la trasmissibilità); il ferro (la durezza, la potenza); il miele (la fluidità e la preziosità); il feltro (l’isolamento, sia sonoro che acustico,
la conservazione del calore, ciò che lo ha salvato dalla morte). Sculture di grasso e feltro, nuovi materiali plastici che si contrappongono e si compenetrano secondo la logica del doppio, dell’unione dei contrari che ha fatto parlare di Beuys come di un alchimista. Dal 1960 comincia la produzione dei famosi angoli di grasso e di feltro. Il grasso ha la caratteristica di insinuarsi negli altri materiali e venirne gradualmente assorbito. Il feltro assorbe tutto ciò con cui viene in contatto - acqua, polvere, suono - permettendo il contatto tra sostanze diverse, pur isolandole. Così il cappello di feltro isola la testa di Beuys ma non ne limita le funzioni. Il processo fondamentale è quello dell’infiltrazione, termine che dà il titolo ad una delle sue azioni più famose degli anni ‘60, “Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda, il più grande compositore è il bambino talidomico”: sulla scena della performance un pianoforte a coda interamente coperto dal feltro su cui è cucita una grossa croce di stoffa, simbolo di pericolo e urgenza ed una grande lavagna su cui l’artista scrive le parole “sofferenza, calore, suono, plasticità”, e la domanda “La musica del tempo passato introdotta nella camera del bambino talidomico lo aiuta???????”
Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda, il più grande compositore è il bambino talidomico
Plight
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«L
e Chapeau » è un’ azienda artigianale forlivese che produce cappelli di ogni genere e accessori per l’abbigliamento (stole, sciarpe, borse). Da sempre privilegia il connubio tra «qualità» e «idea»: elevata qualità dei materiali e autentica ispirazione artistica presenti in ogni creazione; una scelta, questa, che è valsa a tributarle successo e apprezzamento anche presso il grande pubblico, in Italia come all’estero. I prodotti con questo marchio si caratterizzano e si valorizzano soprattutto per il loro processo di realizzazione interamente manuale, con l’utilizzazione delle tradizionali forme in legno che hanno fatto la storia del cappello, con la lavorazione dei tessuti e, ancora, per la grande varietà degli stili e delle versioni - dall’alta moda al pret-à-porter, dal genere classico all’estroso - arricchiti di particolari, di motivi destinati a rivisitare un tema e a dargli «quel tocco» che fa la differenza e che conquista. Ed è proprio in nome di questa «filosofia » che Patrizia Valmori, con la sua équipe, ha potuto mantenere vivo il meglio della tradizione «made in Italy» di tipo artigianale, senza escludere le esigenze della modernità e delle nuove tendenze, e senza rinunciare ad esprimere una propria «visione» o «interpretazione» del cappello. Anzi, tutti questi elementi ben si combinano e si integrano in un gioco di forme, di colori, di stoffe, e i risultati evidenziano una costante ricerca di bellezza e di armonica convivenza.
Collezione Primavera/estate 2016
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a nuova collezione primavera- estate 2016 che “LE CHAPEAU” di Patrizia Valmori presente è ispirata ai temi correlati all’ ”orto dei nonni” con i suoi prodotti freschi e che parlano di naturalità, aria aperta, terra, campagna, colori “vividi” e toni naturali: tenere cipolle, sedani bicolori, turgide zucchine, lucide melanzane ed altri ancora. E poi foglie, fiori, frutti, in una gioiosa gamma di colori che vanno dal bianco al decisamente brillante (giallo, verde, rosso, turchese, ecc…) fino al delicato e tenue dei romantici pastelli. E la stessa varietà si ritrova anche nelle forme che si adattano perfettamente alla grande versatilità che la Natura offre nella sua incessante manifestazione spettacolare: ne escono modelli unici e innovativi che fanno respirare la bellezza dei giardini fioriti e degli orti coltivati con amore. Fedele alla propria storia d’impresa rigorosamente artigianale la Ditta realizza i modelli utilizzando sempre materiali di alta qualità: passamanerie pregiate, nastri in gros-grain particolari con impeccabile ordito, tulle variopinti, ricami in rafia dipinti a mano, tessuti leggeri a righe, a scacchi vichy (richiamando lo stile di vita country e il candore della semplicità), a fantasie coloratissime come le ritroviamo nei mandala orientali.
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A Lucerna, affascinati dalle vetrine della “Maison du chapeau” di Luisa Chiumenti
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l cappello è un elemento fondamentale dell’abbigliamento che è stato sempre presente, anche se con maggiore o minore importanza, nella moda di tutti i tempi. Per la sua mutevolezza può diventare una vera e propria “opera d’arte”, un “oggetto di design” e può arricchirsi di interpretazioni soggettive. Dalle mani creative e prestigiose di una modista il cappello prende forma e, da un pezzo di tessuto che prima non si sarebbe potuto immaginare, viene fuori qualcosa di nuovo ed inedito e l’opera d’arte muta i suoi effetti visivi a seconda del viso, dell’abito e della personalità di chi lo indosserà. Il cappello, soprattutto quello femminile è un elemento di complemento destinato a non cadere mai nell’oblio e comunque a non passare mai inosservato. Come si legge nel libro di Martine Bouchet “A legendary Hat” (ed. Assouline – G.B.), un oggetto nato per praticità dei lavoratori (in particolare per i lavoratori delle piantagioni), nel tempo ha assunto caratteristiche, pur sempre di comodità, ma che hanno comunque sempre mirato all’eleganza. Passeggiando nelle belle e interessanti vie del centro storico di Lucerna, appare, nelle vetrine smaglianti e piene di colore de la “Maison du Chapeau”, il più esclusivo e bel negozio di cappelli della Svizzera, tutto l’affascinante mondo di uno dei più suggestivi elementi della moda. Ci sono migliaia di cappelli, berretti e accessori, in una gamma esclusiva delle marche più rinomate. Entrando, basta lasciarsi sedurre seguendo il curioso motto: “hai la testa, avremo certamente il cappello giusto per te”. Infatti, il personale qualificato fornisce una consulenza individuale, con un tocco speciale ed una attenzione particolare ai piccoli ma decisivi dettagli. Ed ecco, da uomo: cappelli da passeggio, cilindri, cappelli da caccia, cappelli da pioggia, caschi coloniali, berretti, baschi, ma anche guanti, sciarpe, fazzoletti, cravatte, bretelle, cinture ed anche bastoni esclusivi. E poi vaste possibilità di cappelli e accessori da donna: cappelli da sera, da giorno, per escursioni, da cocktail, da pioggia, guanti, ombrelli … I materiali sono i più vari: pelle, seta, cacheHerbert Meier “Maison du Chapeau” Lucerna mire, paglia, pelliccia … Il carattere molto comunicativo di Herbert Meier, proprietario e “patron” della Maison, maestro creativo noto in tutte le grandi capitali europee, ha fatto sì che egli realizzasse nel tempo molti e simpatici rapporti di amicizia con i suoi clienti, spesso persone di spicco nella società internazionale. Ed è stata questa la ragione per cui Meier, dal 2006, ha pensato di creare un “Guest book”, non un “libro su internet”, ma un vero e proprio libro in “Maison du chapeau”, dove è possibile lasciare un ricordo con qualche parola o un disegno. Una vasta collezione del classico “Borsalino”, divenuto poi quasi “sinonimo” di elegante cappello da uomo, è presente nel negozio. La storia di questo famoso cappello, quasi una leggenda, comincia dall’uomo che lo ha creato, Giuseppe Borsalino. Nel tempo l’elegante cappello è stato indossato da celebrità, come l’imperatore Hirohito, Krusciov, Theodore Roosvelt e il Primo Ministro britannico Winston Churchill e da tanti attori del cinema, quali Humphrey Bogart, Roger Moore, Marlon Brando, Robert Redford, Shirley Bassey, David Hasselhoff, Hannelore Elsner. E’ certo che un cappello sa donare eleganza a tutti e qualcuno ha detto: “persone, polli e gufi... tutti hanno l’aspetto migliore con un cappello”.
Herbert Meier
Il cappello con visiera nel film “Il Selvaggio” con Marlon Brando
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MARZIALETTI ACCESSORIES SINCE 1980
distribuito da
Mar Sport nasce nel 1980 per iniziativa dei fratelli Alberto, Renata e Renzo Marzialetti. L’ Azienda artigiana a conduzione famigliare si specializza nella confezione di cappelli da cacciapesca e la produzione viene distribuita quasi interamente nei negozi di articoli sportivi. Col passare degli anni senza mai una battuta d’arresto e con una continua e attenta ricerca innovativa dei materiali la ditta è notevolmente evoluta. Nel 1996 per opera di Germano, Simone e Catia la Mar Sport cambia radicalmente la lavorazione precedente. Oggi produce cappelli, sciarpe e guanti ed ogni tipo di accessorio per abbigliamento, in tutti i generi di tessuti e di maglia ed in ogni modello, sia da adulto che da bambino e ragazzo, da città, da montagna e per il tempo libero. L’ esperienza maturata nel corso dei decenni come azienda manufatturiera, l’aver stretto collaborazioni importanti con firme dell’alta moda italiana li ha persuasi a creare un proprio brand che riassumesse le qualità del nostro Made in Italy in cui sono rappresentati da sempre. Gli articoli che compongono la loro collezione sono realizzati con tessuti e filati attentamente selezionati da tessiture italiane e particolare attenzione è dedicata alla progettazione dove le tendenze moda sono mirate, curate ed enfatizzate. Una continua ricerca di mercato per esplorare il futuro.
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James Tissot, un pittore amante delle donne, della moda e...dei cappelli di Stefania Severi
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l pittore francese James Tissot è figlio di una modista e di un mercante di stoffe, e certamente la frequentazione giovanile degli ambienti dei suoi genitori ha segnato il suo immaginario, anche quando la vita lo ha portato su percorsi diversi e complessi. Il suo vero nome è Jacques Joseph e nasce a Nantes nel 1836. A Parigi per studiare all’Accademia, all’inizio indirizza la sua pittura verso il soggetto storico. I suoi dipinti riscuotono il favore del pubblico e della critica, in particolare piace “L’incontro tra Faust e Margherita” (1860) che segna la sua fortuna. Il dipinto delinea un aspetto che sarà tipico della sua pittura: l’indagine sull’amore e sui sentimenti. Qui infatti è nel gioco degli sguardi e degli atteggiamenti che l’evento ha il suo punto focale. Ma ben presto Tissot si allontana dal repertorio storicistico per interessarsi alla contemporaneità. È l’epoca in cui si va delineando il movimento degli Impressionisti e lui stesso è amico di Degas, ma non si lascia mai sedurre dalle tematiche della luce-colore, interessato più alla società nelle sue varie sfaccettature. Diviene celebre come ritrattista. Ma gli eventi tragici della guerra franco-prussiana lo spingono a lasciare Parigi ed a trasferirsi, nel 1873, in Inghilterra, dove le sue opere erano già giunte attraverso amici. Qui diviene James e si inserisce così bene nell’ambiente da essere considerato inglese. Dipinge ritratti e scene di vita londinese e si dedica all’acquaforte. Incontra Kathleen Newton, giovane irlandese con alle spalle una storia di adulterio che, dopo aver divorziato dal marito Ufficiale dell’Esercito Inglese, era tornata a Londra con i figli. Kathleen diventa la sua modella e amante ma, malata di tisi, muore suicida nel 1882. Tissot ne è distrutto, vende la casa di Londra e torna a Parigi e qui riprende a dipingere i suoi temi mondani. Ma la crisi conseguente al lutto segna progressivamente la sua arte e lo porta a trascorrere il resto della vita ad illustrare la Bibbia ed a viaggiare per dieci anni in Medio Oriente e in Palestina. Rientrato in Francia, lavora ad una serie di soggetti del Vecchio Testamento che non porta tuttavia a termine. Muore nel 1902, l’anno dopo aver tenuto la sua ultima mostra proprio con opere di soggetto sacro. Ci siamo soffermati su questo pittore ancora poco noto al gran pubblico perché una bellissima mostra lo ha portato per la prima volta in Italia, precisamente a Roma al Chiostro de Bramante (26 settembre 2015 - 21 febbraio 2016). La mostra, promossa da Dart - Chiostro del Bramante eArthemisia Group, presenta, in circa 80 opere provenienti da musei internazionali quali la Tate di Londra, il Petit Palais e il Museo d’Orsay di Parigi, l’intero percorso dell’artista. Particolarmente raffinato è l’allestimento, con schede che sottolineano, tra l’altro, l’attenzione di Tissot per l’abbigliamento e gli accessori, primi tra tutti i cappelli. E’ indubbio, ad esempio, che nel dipinto “Al fiume” (1871) il bellissimo nastro a righe che arricchisce il cappello, si fa quasi metafora della giovane vita della ragazza, in bilico tra fanciullezza innocente e maturità ricca di desideri ed aspettative.
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James Tissot “Al fiume” (1871), olio su tela, United Kingdom Government Art Collection
James Tissot “La Viaggiatrice” (1883), olio su tela, Anversa, Koninkliik Museum voor Schone Kunsten
Proprio in relazione ai nastri ed ai fiocchi, sia sui vestiti che sui cappelli, che tanto numerosi compaiono nei dipinti, gli allestitori hanno predisposto un pannello con tanti fiocchi da toccare per cogliere la differenza tra uno chiffon e un twill di seta, tra un popeline ed una mussola di cotone, tra un jacquard di fil coupé ed un jacquard di seta moiré. I fiocchi provengono tutti dalla Montoro Seta. Nelle schede non mancano specifici riferimenti alle novità della moda. Il “Ritratto della Signorina L.L.” (1884) immortala la ragazza con un bolero rosso ornato di piccoli pompon, detto alla zuava, che andò di moda a partire dal 1830, con la nascita del corpo degli Zuavi che veniva dall’Algeria. In mostra ci sono anche alcuni dipinti del nostro Giuseppe De Nittis, attivo in quegli anni a Parigi, anche lui attento alla moda. Infatti un capo femminile che viene da De Nittis raffigurato è il peignoir, un abito estivo da campagna, in mussola molto leggera, che andò di moda a partire dal 1840. La sua caratteristica era quella di essere indossato senza corsetto con le stecche. Il peignoir da sera era ornato anche da molti pizzi. Il termine oggi indica la mantellina per pettinarsi. Nel dipinto “Signora con l’ombrello” (ritratto di Kathleen, 1878-1880) la dimensione allungata e la tipologia dell’ombrellino rimandano al Giappone, dall’artista amato al punto da diventare collezionista di oggetti e di tessuti giapponesi. Ne “Le donne degli artisti” (1885) è raffigurato il ristorante all’aperto presso il palazzo di Parigi in cui si svolgevano le manifestazioni espositive. Il locale è affollato e tra i commensali ci sono lo scultore Auguste Rodin e il pittore John Lewis Brown; ma soprattutto spiccano i cappellini delle signore, ornati con piume, nastri e fiori. Nei quadri in mostra si scoprono cappelli di tutti i tipi anche per gli uomini: il tamburello dei canottieri (a righe concentriche che lo fa assomigliare ad un bersaglio), il cappello a cupola emisferica e la tesa larga dei sacerdoti, il cilindro, il berretto da marinaio con pompon, la feluca, il berretto con visiera, la tuba o Bolivar… Ma certo la peculiarità di Tissot, che non sapeva resistere al fascino femminile come documenta il dipinto “La più bella donna di Parigi” (1883), è quella di aver saputo indagare nel mondo femminile ponendo in evidenza l’inizio di un cambiamento del ruolo della donna. Queste sue donne non vogliono più essere solo angeli della casa, ma vogliono uscire, scoprire il mondo e viaggiare. “La Viaggiatrice” (1883) con incedere deciso scende dalla scala del piroscafo, seguita dal portabagagli, è elegantissima con il suo gilet rosso ed il cappellino ornato da una veletta che non ne nasconde lo sguardo, anzi lo esalta. Le sue donne vogliono soprattutto poter esprimere, nel soffocante clima vittoriano, il loro diritto alla sensualità. Ce lo rivelano lo sguardo ammiccante dietro il ventaglio della ragazza in primo piano in “Il ponte dell’HMA Calcutta” (1876), l’atteggiamento de “La figlia del capitano” (1873), che vuole afferrare il mondo col suo binocolo, e soprattutto “La figlia del guerriero” (1878) che, pur accompagnando nella passeggiata il padre in carrozzella, sembra seguire con lo sguardo ben altre strade rispetto a quella che sta percorrendo. Tissot, con grande intuito, ha percepito questo cambiamento nel mondo delle donne e lo ha registrato nella sua pittura.
James Tissot “Le donne degli artisti (1885), olio su tela, Norfolk, Chrysler Museum of Art
James Tissot “La più bella donna di Parigi” (1883), olio su tela, Ginevra, Musée d’art et d’histoire
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Il Museo d’Arte e Scienza di Milano Ruggero Signoretti
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l Museo d’Arte e Scienza di Milano è un museo giovane, essendo stato inaugurato nel 1990. E’ nel bellissimo Palazzo Bonacossa che sorge al fianco del Castello Sforzesco, castello che è sede di innumerevoli raccolte d’arte e che ha tra i suoi capolavori la Pietà Rondanini di Michelangelo. Ed è bene ricordare che a Milano c’è anche il bellissimo Museo della Scienza, il più grande d’Italia. Perché dunque fare un nuovo museo? Perché quello di cui parliamo è un museo sui generis. Le opere conservate sono infatti suddivise per materiali e di ciascun materiale si studia lo stato di conservazione e il tipo di restauro da applicare. Si analizza soprattutto se un’opera è autentica o è un falso. Pertanto la dizione “Arte e Scienza” sottolinea che ogni oggetto è analizzato non sotto il profilo estetico ma secondo lo stato di conservazione e l’autenticità. Il fondatore del museo è il fisico tedesco Gottfried Matthaes, scienziato e collezionista d’arte. Gottfried, erede di una grande famiglia di artisti di Dresda, era un celebre fisico che, attorno al 1950, aveva innovato la produzione dei circuiti stampati presenti in quasi tutte le radio dell’epoca. Amava anche l’arte, grazie alla grande collezione di famiglia, ed iniziò ad analizzare gli oggetti della sua collezione con un occhio “scientifico”. In anni di studi e ricerche è diventato uno dei massimi esperti di oggetti di antiquariato fino a studiare ed a brevettare un sistema scientifico per la datazione degli oggetti tramite spettroscopio. Nel 1989, lasciata l’attività professionale, acquistò due piani del palazzo milanese, vi trasferì la sua collezione e dette vita al museo. Continuò la sua attività per oltre un decennio scrivendo, tra l’altro, numerosi libri d’antiquariato. Il museo ospita un percorso sul riconoscimento dell’autenticità nell’arte e nell’antiquariato, unico nel suo genere. Il materiale è suddiviso in varie sezioni tra le quali troviamo i dipinti su tela, le ceramiche di scavo, tappeti e arazzi, oggetti di avorio e d’ambra, arte buddista e arte africana. C’è anche una sezione dedicata a Leonardo da Vinci, artista e scienziato per eccellenza. Nel mu-
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seo si impara a distinguere il vero dal falso, sia attraverso spiegazioni su pannelli sia attraverso lenti di ingrandimento che consentono di avere un rapporto ravvicinato con gli oggetti. Ma è il laboratorio il cuore pulsante del museo. Qui infatti i figli di Gottried, Peter e Patrizia Matthaes, già collaboratori del padre, ne hanno raccolto il testimone e continuano l’opera. Qui da tutto il mondo giungono collezionisti a far analizzare le loro opere ed i Matthaes le analizzano con i più moderni sistemi scientifici così da valutarne in primo luogo l’autenticità e l’eventuale intervento di restauro indispensabile. Prendendo ad esempio l’avorio, il laboratorio è in grado di valutare la differenza tra avorio, osso, corno e imitazioni artificiali con miscele o materie sintetiche. L’attività del museo non si limita alla presentazione delle sue opere, con ampio corredo di pannelli esplicativi, ma organizza ciclicamente conferenze sia d’arte che di scienza ed in particolare sul genio universale di Leonardo. Il museo ha anche una intensa attività espositiva, ad esempio, nell’estate di quest’anno ha ospitato la mostra “Davide Foschi - l’Ultima Cena - il Metateismo verso un Nuovo Rinascimento” una personale accompagnata da una selezione di lavori di un gruppo di giovani artisti che si rifanno al Metateismo, tra i quali Giuliano Grittini, Mirko Lucchini, Joe Russo e Cristina Zamboni. Tra le iniziative del museo ci sono anche incontri di musica e di danza. Importante è l’attività didattica per varie età scolari, dai 6 ai 18 anni. In oltre nel museo i pannelli sono in sei lingue ed è possibile avere una visita guidata in un gran numero di lingue. Qui vengono veramente da tutto il mondo, sia gli esperti per apprendere, sia gli antiquari per perfezionarsi, sia gli appassionati d’arte che amano rovistare nei mercatini d’antiquariato, sia gli scienziati in erba perché di tecnici dell’arte ce n’è veramente bisogno per smascherare gli innumerevoli oggetti contraffatti. In margine va ricordato che il mercato antiquario è uno dei mercati più importanti al mondo, basti pensare che per le organizzazioni criminali tale mercato è la terza fonte di reddito dopo droga e prostituzione. Nelle foto alcuni ambienti del museo.
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O.M.M. Officine Minuterie Metalliche
Fondata nel 1969 per volontà di Antonio Nerpiti e Giacomo Belleggia, l’azienda marchigiana con sede di lavoro a Montegiorgio in provincia di Fermo è specializzata nella produzione di accessori per calzature e pelletterie. Di recente ha allargato la sua attività al settore dell’arredamento e del tessile-abbigliamento ed è in grado di realizzare su disegno del cliente un autentico prototipo in pochissimo tempo grazie anche a particolari macchine applicate al computer, sistema CAD/CAM. Ogni dettaglio, ogni singolo passaggio è accuratamente controllato ad iniziare dalla scelta dei materiali come l’ottone, l’alluminio, il rame, il ferro, la zama, il plexigas e degli elementi decorativi sempre di elevata qualità come le pietre Swarovski. Estremamente vasto il campionario a disposizione della clientela, che viene aggiornato stagionalmente e che include 20mila articoli diversi. L’azienda realizza prodotti dal design esclusivo su stampi personalizzati. Uno staff di esperti segue, in stretta collaborazione con disegnatori delle firme più prestigiose, tutte le fasi fino alla versione definitiva del modello prototipale. La O.M.M., dedita alla costante ricerca di soluzioni originali, rappresenta una delle realtà più significative dell’imprenditoria italiana, che ha saputo far tesoro del proprio know how acquisito e impiega con efficacia i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie.
LA NOSTRA STORIA di D. Rondinini
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lessandra Zanaria, milanese di nascita, porta con sé un’antica tradizione familiare in ambito storico e filatelico: il nonno della stilista, Mario Zanaria, vi si dedica fin da giovanissimo. La sua avventura parte negli anni ‘30 a Parigi e in Germania per poi proseguire a Milano dove, nel 1935, viene aperto in Brera il negozio storico, il piu’ frequentato ritrovo di filatelici dell’anteguerra. Nel corso della sua carriera intrattenne con il Governo di San Marino tali rapporti di privilegio da venire insignito del Cavalierato della Repubblica. Sul finire della guerra fu socio fondatore della Borsa Filatelica Nazionale ed organizzò, presso il Palazzo Reale di Piazza Duomo a Milano, la prima mostra filatelica internazionale del dopoguerra. I figli Angelo e Daniele apriranno gli storici uffici e il negozio di Via Santa Margherita ancora oggi frequentati dall’elite culturale italiana. Illustre storico Daniele Zanaria, padre di Alessandra, fonda una casa editrice ed una casa d’aste a Monte Carlo dove riceve numerosi riconoscimenti internazionali grazie alle collezioni di proprietà ed alle valenti
opere storiche scritte. L’ultimo libro di Daniele Zanaria, pubblicato postumo grazie agli amici Serra e Del Negro, è tuttora uno dei testi fondamentali per la storia della filatelia mondiale. IL MARCHIO Il marchio Alessandra Zanaria trae spunto dal francobollo da 1 centesimo del Regno di Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Simbolo di uno dei trattati più importanti scritto da Daniele Zanaria è stato scelto dalla stilista come simbolo del suo brand. Il francobollo rimase in corso per oltre 34 anni e detiene pertanto il primato assoluto di longevità tra tutti i francobolli Italiani del Regno e della Repubblica. La scritta “un centesimo” all’interno del marchio scompare, mentre la dicitura “poste italiane” viene sostituita da “Milano, Italia” per sottolineare le origini dell’azienda e la natura “Made in Italy” dell’ideazione e della produzione delle collezioni.
Collezione autunno/inverno 2015 – 2016
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n’azienda che affonda solide radici nella tradizione artigianale tramandata da tre generazioni, in grado di coniugare la sapienza del passato con l’innovazione e la ricerca, sempre pronta ad intercettare le richieste del mercato in continua e rapida evoluzione. Il Factory Store, brillantissima operazione di Marketing, con la sua eterogeneità di prodotti eccellenti crea pluralità di suggestioni in ogni cliente che sceglie di immergersi in una affascinante esperienza di shopping carica di glamour. Avvolti da un’atmosfera chic, si possono trovare oltre ai materiali tradizionali come la paglia, una moltitudine di inserti ed applicazioni che vanno dai tessuti ai filati pregiati, a pelle, perline, merletti o pizzi: il tutto per impreziosire cappelli, accessori e borse dall’inconfondibile gusto italiano. Non mancano poi, in questo viaggio degno della penna di Truman Capote, sciarpe dalle fantasie policrome e raffinati bijoux in ambra, madreperla e quarzo. Una menzione speciale infine per le cinture di pelle: accessori di alta qualità realizzati interamente a mano, con lavorazioni particolari e di alta qualità. www.ferrucciovecchi.com
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HAT - Periodico di arte cultura e modo di vestire abbinato al cappello
Autunno-Inverno 2015 n. 62