Hat autunno inverno 2014

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HAT, Autunno-Inverno 2014, n. 60 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita

PERIODICO DI ARTE CULTURA E MODO DI VESTIRE ABBINATO AL CAPPELLO


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GLOCALIZZAZIONE LUCI E OMBRE DEL VILLAGGIO GLOBALE E LOCALE a cura di L. Marucci - pag. 4 L’EDITORIALE di R. Signoretti - pag. 11 BASILEA 2014 FIERA DELL’ARTE E MOSTRE NEI MUSEI di A. M. Novelli - pag. 12

novembre 2014

SETTIMANA DELL’ARTE A LONDRA di A. M. Novelli - pag. 16

Periodico di arte, cultura e modo di vestire abbinato al cappello edito da HAT - Via Fontecorata, 4 I-63834 Massa Fermana (FM) Tel. +39 0734 760099 redazione@hatmagazine.it La direzione non risponde del contenuto degli articoli che sono di responsabilità degli autori Anno XIX numero 60 Autunno - Inverno 2014 Reg. Trib. di Fermo n. 4 del 4.3.1992 Direttore Responsabile Stefania Severi Capo Redattore Maria Alessandra Ferrari alessandra_ferrari@tiscali.it Segretario di Redazione Ruggero Signoretti Stampa Manservigi – Monsano (AN) Redazione fotografica Archivio fotografico HAT Hanno scritto in questo numero: Nanda Anibaldi Luisa Chiumenti Maria Alessandra Ferrari Olimpia Gobbi Luciano Marucci Loretta Morelli Anna Maria Novelli Giuseppe R. Serafini Stefania Severi Ruggero Signoretti Leonardo Stortoni Rita Zallocco

www.hatmagazine.it www.hatfootwear.com www.museodelcappello.it

L’ARTE NELLE SCARPE di L. Morelli - pag. 20 FALERONE TRA STORIA E ARTIGIANATO DELLA PAGLIA di G. R. Serafini - pag. 24 TEATRO ROMANO DI FALERONE EPOCA DELLO SPLENDORE NELLA FALERIO PICENUS di L. Stortoni - pag. 28

In copertina: Brad Troemel, Danny Brown Wheatgrass Plant (Dormroom Accessories), 2012 (courtesy l’Artista)

CONTRIBUTO DELLE DONNE ALL’INDUSTRIALIZZAZIONE DELLE MARCHE di O. Gobbi - pag. 30

Il ventottenne Brad Troemel, autore dell’immagine di copertina, è net artist, scrittore e blogger statunitense. Si è laureato al Master of Faculty of Arts della New York University e insegna al Pratt Institute e alla School of Visual Arts. Nel 2009 ha iniziato a inserire le immagini in “The Jogging”: sito di grande popolarità che dal 2012 sta suscitando l’interesse dei media. Nello stesso anno ha aperto un “Etsy” store online, tra l’altro specializzato nella vendita (a prezzi accessibili) di oggetti immateriali o fisici, realizzati assemblando con disinvoltura ready-made commerciali che eleva a dignità di opera d’arte. Appartiene alla cosiddetta “Diamond Generation”, quella che opera creativamente soprattutto con le nuove tecnologie informatiche. Per lui è superato il pezzo unico fatto nell’atelier. Con la sua divertita iperattività inonda internet di lavori anche aperti invitando gli utenti a “ribloggarli” e, quindi, a partecipare all’atto inventivo. Non essendo interessato ai linguaggi correnti e alle attuali modalità espositive, segna una netta discontinuità con il sistema dell’arte vigente. Rivolge la sua azione a quanti si connettono con internet, che hanno voglia di autorealizzarsi con un personal branding, di socializzare e di mettersi in casa un prodotto decontestualizzato ed elaborato al computer, vicino al proprio modo di vedere e di vivere. Quindi promuove un’arte diffusa, in perfetta sintonia con il mondo globalizzato, che si propaga al di fuori delle gallerie private e delle istituzioni museali riservate a un’élite. Il soggetto dell’opera di cui sopra raffigura il cantante Danny Brown nato a Detroit nel 1981. Artista hip hop alternativo, rapper inventivo e divertente, è conosciuto per la sua forte individualità. Dopo un’adolescenza piuttosto irregolare, dal 2003 ha cominciato a cantare con il gruppo Resevoir Dogs. È stato definito “una delle figure più singolari del rap nella memoria recente”. Nel 2010, in collaborazione con il collega Tony Yayo, ha registrato Hawaiian Snow (suo primo album di successo) e ha pubblicato The Hybrid, primo album da solista, con brani in cui ha iniziato a usare la voce acuta, divenuta il suo “marchio di fabbrica”. Nel 2011 ha avuto un grande lancio con l’album XXX, distribuito gratuitamente on-line, ricevendo il plauso della critica e alcuni importanti riconoscimenti. Subito dopo ha intrapreso un tour con il collega Childish Gambino e ha firmato un accordo con Adidas per l’abbigliamento sportivo. L’11 e il 12 luglio scorso ha tenuto un concerto (tutto esaurito) al Wembley Stadium di Londra davanti a 100.000 spettatori. (lm)

MARIA CRISTINA CRESPO: MUSA TRA LE MUSE DANZANTI di S. Severi - pag. 34 MARIA LAI: ARTISTA SCIAMANA di S. Severi - pag. 38 PREMIO “PIER LUIGI GAIATTO” di A. M. Novelli - pag. 40 GRAZIA E STILE DI DONNA L’ARTE DI PORTARE LO SCIALLE di R. Zallocco - pag. 42 SAUL BERETTA ‘AGITATORE’ MUSICALE a cura di M. A. Ferrari - pag. 46 NOBUSHIG AKIYAMA: SCULTURE IN CARTA KOZO di R. Signoretti - pag. 48 ROBERTO PORRONI CHITARRISTA a cura di M. A. Ferrari - pag. 50 I COPRICAPO DELLA CHIESA CATTOLICA di S. Severi - pag. 56 LA REGIONE SVIZZERA DELL’EMMENTAL di L. Chiumenti - pag. 58 VOCI DEL SILENZIO INCONTRO TRA ARTE E POESIA di R. Signoretti - pag. 62 PAOLO FERRUZZI SCENOGRAFO ARCHITETTO ARTISTA a cura di M. A. Ferrari - pag. 66 LUCA MARIA PATELLA CREATIVITÀ COME NECESSITÀ RELAZIONALE di L. Marucci - pag. 70 CELEBRAZIONE DI GIOVANNI TEBALDINI NEL 150° DELLA NASCITA di A. M. Novelli - pag. 79 LIONE CITTÀ DELLA SETA E DEI CAPPELLI di S. Severi - pag. 82 VINCENZO RACCOSTA E IL SUO CASALE di N. Anibaldi - pag. 84

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GLOCALIZZAZIONE

Luci e Ombre del villaggio globale e locale a cura di Luciano Marucci

Razza umana, foto oliviero toscani (© oliviero toscani)

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a globalizzazione ha radici che affondano nei lontani processi di colonizzazione e di imperialismo. Alla sua diffusione hanno contribuito la radio e la televisione che nel tempo sono entrate in tutte le case. I viaggi, internet e la caduta del muro di Berlino (1989) hanno fatto esplodere le sue dimensioni economiche, sociali e culturali. Dapprima si pensava che potesse portare solo benefici, ma la realtà ha messo in evidenza anche aspetti critici rispetto all’ambiente, alla distribuzione delle risorse, alle condizioni di arretratezza di certe popolazioni. Mi piace ricordare che nel 1998 fui tra i primi ad approfondire le problematiche che nel frattempo si erano acutizzate, attraverso l’inchiesta-dibattito “Glocalcult”, condotta tra personalità di varia estrazione (pubblicata in quattro puntate sulla rivista d’arte contemporanea “Juliet” di Trieste), sul rapporto tra “globale” e “locale”, non dal lato economico ma culturale. Parteciparono all’iniziativa con significative testimonianze Bernardo Bernardi (antropologo), Achille Bonito Oliva (critico d’arte), Massimo Cacciari (filosofo), Oliviero Toscani (creativo dell’immagine e della

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Riparo con lattine riciclate nel deserto della Namibia (ph L. Marucci)

Rudimentale bicicletta di legno, usata come mezzo di trasporto da un ragazzo dell’ex Zaire, oggi Congo (ph L. Marucci)

comunicazione), Renato Novelli (ricercatore sociale) | Dario Fo (autore-attore teatrale), Giancarlo Politi (editore d’arte), Emilio Mazzoli (gallerista) | Goffredo Fofi (operatore sociale), Pier Luigi Cervallati (urbanista ), Tullio Pericoli (disegnatore, pittore), Eugenio De Signoribus (poeta) | Gian Ruggero Manzoni (poeta e teorico dell’arte), Carlo Bo (critico letterario), Mario Giacomelli (fotografo), Mark Kostabi (pittore e musicista), Haim Steinbach (artista). Per concludere volli scegliere lo stralcio da un’intervista di Luigi Sommaruga (“Il Messaggero”, Roma, 9 giugno 1973) allo scrittore e poeta Pier Paolo Pasolini - intellettuale impegnato - che aveva saputo analizzare precocemente certi accadimenti esistenziali del ventesimo secolo. Le mie premesse a quell’indagine sono ancora attuali; anzi, poiché nel tempo certe ambiguità sui pro e i contro del fenomeno in espansione si sono chiarite, appaiono addirittura premonitrici. Da qui l’opportunità di riportarne alcuni passaggi in questo servizio che tratta l’argomento soprattutto dal punto di vista localistico. Allora scrivevo:


Globalizzazione: parola invadente..., avvine alla costruzione del futuro prossimo. Con cente e insieme inquietante, per le influenze l’ottica settoriale si perde di vista il grande sisul processo di trasformazione in atto che stema, ma non il suo elemento primario che mette in discussione il concetto stesso di sogè l’universo-uomo. […] getto e comunità. (I puntata, “Juliet” n. 87, aprile-maggio 1998, pp. Com’è noto il fenomeno, determinato da una 44-45) quantità di fattori interagenti, investe tutti gli Ormai siamo ingranaggi di un meccanismo ambiti sociali a livello planetario ed è inceninarrestabile. […]. Resta solo da vedere con tivato, in particolare, da tecnologia, comuniquali conseguenze. Solitamente le trasformacazione e consumismo. Riusciamo a intuirne zioni del sistema che possono sembrare più la crescita esponenziale, ma non a compreninnaturali scaturiscono dalla dialettica tra rederne potenzialità e dinamiche relazionali, altà antitetiche, tra forze progressiste e conserindotte o spontanee, né a valutarne le cause vative, da cui sorgono altre identità. Del resto, e gli effetti pervasivi nel tempo e nello spazio. anche la nostra condizione bio-antropologica Neppure i teorici e le intelligenze artificiali hanno trovato finora la chiave di lettura dei Donna cinese nella sua misera abitazione (1984), dedita a un tradizionale mestiere ci rende uguali e diversi. E consola constatare che i nuovi media tecnologici possono essesuoi meccanismi. Tra i tanti enigmi, però, è oggi pressoché scomparso (ph L. Marucci) re usati come moltiplicatori e diffusori delle possibile accorgersi della progressiva omolonostre memorie divenute insuffigazione e cogliere una contradcienti... L’ibridismo stesso, necesdizione di fondo: la tendenza alla sario per esprimere la complessità mondializzazione è smentita dal in un pianeta senza più confini, sorgere di microrealtà frammenquando non recide totalmente le tate che ne contrastano il libero radici e non reprime le soggettisviluppo. vità favorendo lo sviluppo dello Lo scenario è ricco di prospettive e stereotipo, è una conquista autendi interrogativi. Globale o locale? tica della modernità intesa come Quali le soluzioni e le conseguenbisogno fisiologico di conoscenze ze del dualismo? Nello scontro tra e di relazioni per l’espansione delcultura umanistica e virtuale non la storia verso il futuro. Ma l’idea sappiamo in che misura sopravviche la tribù umana, ancora legata veranno valori tradizionali, idenal proprio habitat, si mondializzi, tità autobiografiche e collettive. mette in crisi il senso di apparInoltre, l’interiore resisterà agli tenenza, genera paure e smarriassalti dell’esteriore? E la qualità sarà ancor più violentata dalla Skyline notturno di Shangai con arditi grattacieli e vie di comunicazione sopraelevate a scorrimento veloce, emblematica mento. Quindi è importante che la Cultura con le sue sagge sediquantità? visione di una Cina proiettata verso il futuro mentazioni non segua ciecamenÈ difficile prevedere come sarà te i riti e il dinamismo speculativo l’uomo del Terzo Millennio; se converrà seguidell’economia, dal momento che mercato re i modelli avveniristici e le idee originali degli globale non significa collaborazione generaesperti o dare ascolto alla propria coscienza; se le. Dunque, più che l’evoluzione spontanea le mutazioni indesiderate saranno irreversidovrebbe preoccupare la velocità impressa da bili. In mancanza di risposte certe è rischioso certi processi artificiali di crescita che possono aspettare che tutto si risolva contando unicaeludere i principi etici fondamentali e portare mente sulle forze equilibratrici della Natura. all’affermazione di disvalori. Ecco allora che Perciò non resta che cavalcare il ‘progresso’ agli intellettuali spetta ancora una volta dievitando strade antropologicamente devianti. vulgare il pensiero divergente per cercare di Arrivare a un compromesso tra entità di segno tenere sotto controllo il fenomeno eccitato da contrario sarebbe già un risultato positivo... spinte troppo opportunistiche o, comunque, Intanto dovremmo incoraggiare la Cultura a irrazionali e degenerative. […] formulare proposte indipendenti, capaci di ri(II puntata, “Juliet” n. 88, giugno 1998, pp. 28-29) durre l’appiattimento totale e di ammortizzare gli impatti negativi sulla realtà. Il dibattito sulla globalizzazione è stato avIn un tale contesto di questioni aperte ha viato con il presupposto che la pur inevitabile ripreso attualità la problematica Centrotrasformazione delle identità non possa essere Periferia, dove il primo rappresenta la mepilotata dall’economia al di là delle tradizioni tropoli con i poteri gestionali, il non-luogo, e delle sedimentazioni culturali, dell’antrol’anonimato; la seconda le aree emarginate, pologia e della biologia umana. […] l’ambiente della socialità e delle differenziaDopo due puntate era inevitabile che si approzioni umane. dasse ai luoghi decentrati dove solitamente Proprio da queste non casuali polarità più l’esercizio della riflessione e certi bisogni intangibili riteniamo vada iniziato il confronAi Weiwei, Bang, 2010-2013, 886 antichi sgabelli, veduta dell’installazione nel dividuali creano una più convinta resistenza a to per compiere un’analisi e - perché no Padiglione Germania alla Biennale d’Arte di Venezia, 2013 (courtesy l’Artista quei processi di avanzamento che potrebbero un’opera di salutare contaminazione. Infatti, e Gallery neigerriemschneider, Berlino; ph Roman Mensing/Thorsten Arendt) risultare peggiorativi. […] attraverso habitat circoscritti, è possibile dare In epoca di espansione capitalistica l’artista dissidente con questa opera ha volu(III puntata, “Juliet” n. 89, ottobre-novembre a ciascuno l’opportunità di partecipare con to rendere omaggio all’artigianato cinese e alla tradizione orientale di tramandare alle generazioni future, in segno di buon auspicio, almeno uno sgabello. 1998, pp. 36-37) l’esperienza personale alla ricerca di soluzioni

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[…] Oggi sulla terra restano solo poche culture dominanti che hanno assorbito le numerose altre. Alcuni giudicano questo cambiamento radicale un vero “genocidio culturale”, per cui la tendenza alla cultura unica fa la stessa paura di quanta ne fece ai nostri antenati la nascita della diversificazione. Altri ottimisticamente credono che, tutto sommato, nel villaggio globale continueremo a essere uguali nella diversità. D’altra parte si deve riconoscere che l’ostinata difesa di posizioni superate può ostacolare un naturale processo di avanzamento. La fase di transizione che ci troviamo a vivere è caratterizzata da una forte instabilità e da profonde contraddizioni, a cominciare dalla crisi mondiale dell’economia che ci fa percepire la portata delle mutazioni in atto. Nella sfera delle comunicazioni riusciamo ad essere iperinformati in diretta su ciò che accade in sperdute aree del pianeta, mentre non sappiamo ancora chi siamo e dove stiamo andando. Tra tante incertezze è chiara solo una cosa: l’evoluzione del sistema sociale non segue più dinamiche spontanee e il governo del grande numero è insoddisfacente. […]

Purtroppo è la cruda verità che ancora una volta si abbatte sui meno abbienti e sui meno capaci di opporsi o concorrere con quello che, in definitiva, è il vangelo del capitale. Da parte dei governi nazionali c’è più legittimazione o pentimento? Domanda complessa. è difficile tenere aperto il quaderno del bene e del male che i protagonisti della società in troppi casi gestiscono pro domo loro.

Geoffrey Farmer, Leaves of Grass, 2012, Life magazines (1935-85), erba alta, legno, colla, dimensioni variabili. Commissionato e prodotto da dOCUMENTA (13) con il supporto di Canada Council for the Arts e British Columbia Arts Council (courtesy l’Artista; ph L. Marucci). Monumentale assemblaggio bi-tridimensionale di immagini scelte dall’artista da 50 anni del rotocalco Life con allusioni mitico-ideologiche.

(IV puntata, “Juliet” n. 90, dicembre 1998-gennaio 1999, pp. 36-37)

Dialogo con Carlo Paci Per rivisitare il fenomeno con l’ottica attuale ho coinvolto il noto giornalista Carlo Paci - che ha vissuto intensamente la realtà della provincia con vedute non limitate - e gli ho rivolto una serie di domande-stimolo. Luciano Marucci: Dopo tanti anni di esperienza giornalistica come percepisci la globalizzazione dal punto di vista esistenziale e culturale? Carlo Paci: La globalizzazione non ha una sola faccia ma molte prospettive, per cui non è facile poter sintetizzare una risposta, specie per un giornalista di provincia che vive questi effetti marginalmente.

Donna che Allatta, foto oliviero toscani (© oliviero toscani)

Alle lecite aspettative sorte con l’apertura delle frontiere sono seguiti vantaggi tangibili per le comunità che hanno perso parte della sovranità? Tutto dipende dal concetto reale di sovranità. A mio modesto avviso l’apertura delle frontiere ha rappresentato - fin dove realisticamente applicata - una delle conquiste della libertà. Sembra che il fenomeno invasivo abbia addirittura accentuato gli squilibri specialmente a danno dei paesi strutturalmente più deboli o sprovvisti di merce di scambio.

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Keith Haring, Tuttomondo, murales (particolare)1989, Pisa (ph Benedetta Aloisi) L’artista statunitense è stato, con Basquiat, il maggiore esponente del graffitismo di frontiera e ha rappresentato la cultura di strada della New York degli anni Ottanta. Per la prolificità e la fluidità del segno è considerato il Picasso dell’arte contemporanea. È morto di AIDS a soli 32 anni.

Potrà essere ridimensionato il potere economico che, agevolato dal neoliberismo selvaggio, ha avuto il sopravvento sui valori culturali e umani producendo effetti sociali perversi? Qui entriamo in una valutazione decisamente politica, specie per quanto riguarda proprio i valori culturali e umani. Rispondendo perciò a un dogma universale, molto difficilmente possono essere i valori gestiti o consumati da questa o quella comunità. Naturalmente salvando tutte le valutazioni in fatto di attività economica e di quella che comunemente si appella come “normalità”. A parte la naturale mobilità della società liquida, l’esodo delle popolazioni indotto dai conflitti bellici sono in crescita verso il nostro Paese, dove non viene curata l’integrazione e le migrazioni sono viste come un disturbo per l’occupazione e la sicurezza. Il Governo riuscirà a gestire la situazione? Perlomeno il nostro non solo ci sta provando, ma è costantemente impegnato a risolvere situazioni degenerate fino all’horribilis. Non per nulla proprio in questo periodo di sconvolgimenti territoriali e religiosi il Papa Francesco ha parlato di una concreta e non solo strisciante terza guerra mondiale. Ormai la globalizzazione è inarrestabile, specie nei paesi consumistici, anche perché l’attività economico-finanziaria non ha interesse a fermarsi… Senza rifiutare la modernità, almeno a livello culturale possiamo difenderci riproponendo i bisogni umani non anacronistici? Non v’è dubbio che dobbiamo difenderci dagli anacronismi per garantirci almeno le più elementari necessità umane, soprattutto sul piano della cultura a tutte lettere, ma ho sufficienti dubbi che la globalizzazione possa essere superata


e vinta, dal momento che mette in campo le strategie più subdole. Con internet si può sconfinare stando in casa, ma non tutte le generazioni usano il computer. E con il web la realtà, senza essere vissuta fisicamente e con il proprio pensiero, è subìta. Il web e i social network, che favoriscono le conoscenze e i rapporti interpersonali, possono accelerare pure l’appiattimento? Secondo me sì. Il mio pensiero, infatti, è che tutti i rapporti interpersonali debbano avvenire tra soggetti fisicamente presenti. L’uso dei social network - come riportano spesso le cronache - è foriero di situazioni assai poco civili. Stessa posizione per quanto l’assioma possa rivolgersi ad addentellati culturali. Sarà un atteggiamento banale, ma ho sempre ritenuto che l’opera d’arte va appresa, se si vuole anche criticarla, face to face. Pensi che si vada sempre più verso l’omologazione e che si debbano riscoprire determinati valori territoriali, senza mitizzazioni delle tradizioni e una soggettività più profonda? Il vero critico dell’omologazione, comunque intesa, fu il poeta scrittore Pier Paolo Pasolini e non esito ad affermare che un giudizio più profondo in materia trovi altri soggetti di pari valore. Tantomeno perciò l’omologazione può essere accettata rispetto alle tradizioni del localismo senza essere mitizzate ma sentitamente storicizzate, autentiche testimonial dei tempi che furono.

lunghi - ne hanno tarpato le ali. Quindi dando immagini solo coatte della loro mentalità. Con la classe politica attuale si potranno realizzare le riforme sostanziali che tutti auspichiamo? Hai detto bene. Con questa classe politica senza aggettivi siamo tutti in attesa, chi con auspicio chi molto meno…

Maurizio Cattelan, L.O.V.E., marmo bianco di Carrara, h totale 11 metri (scultura 4 m e 60 cm) (courtesy Comune di Milano e Massimo De Carlo Gallery Milano/Londra). L’opera, installata di fronte alla sede della Borsa, viene letta come gesto beffardo e irriverente verso il mondo della finanza. Il titolo è un acronimo di Libertà, Odio, Vendetta, Eternità.

Jean-Michel Basquiat, Profit I, 1982, acrilico su tela, 220x400 cm (© VG Bild - Kunst, Bonn, Germany, 1998; courtesy Galerie Bruno Bischofberger, Zurigo) Basquiat è ritenuto uno dei più importanti esponenti del Graffitismo americano. Profonda la sua amicizia con Warhol e Madonna. Insieme ad Haring è riuscito a portare l’arte dalle strade alle gallerie più autorevoli. È deceduto a soli 27 anni per overdose di eroina. Oggi le sue opere hanno quotazioni vertiginose.

Se si vogliono favorire le relazioni e i processi evolutivi negli individui e nelle comunità, la Cultura non può rimanere isolata in territori nazionali, tanto meno provinciali. Indubbiamente salvare il patrimonio e le memorie del passato è un dovere morale ed è giusto attingere dalla storia ciò che può alimentare il presente, ma poi è necessario guardare avanti. Sei d’accordo? Pienamente d’accordo con quanto hai illustrato, che mi trova non solo consenziente ma addirittura partigiano dell’impegno. I giovani riescono a promuovere i cambiamenti per costruire un futuro migliore? Sì e no. I giovani in tutti i tempi sono stati gli autori dei passi in avanti della società, ma nel contempo hanno conosciuto governi e regimi che - per periodi anche

Josh Citarella and Andrew Christopher Green, Baguette Koozie, 2012, pubblicato in The Accidental Audience di Brad Troemel (courtesy “The Jogging”, New York) Immagine della nuova Net Art che, attraverso il web, stimola e promuove un’estetica diffusa. Espliciti i riferimenti al mondo globalizzato, caratterizzato dal consumismo e dalla pubblicità.

Ti pare che nel nostro Paese i media contribuiscano allo sviluppo di una coscienza sociale? I media italiani hanno tutti o quasi un indirizzo di parte legato all’interesse dell’editore, per cui dare una pagella risulta difficile. Anche se, come facciata, ogni media pensa di strumentalizzare la propria partecipazione al miglioramento della coscienza sociale. La televisione attua programmi responsabili o tende soprattutto a creare audience attraverso la spettacolarizzazione? L’indirizzo, da sempre perseguito dalle televisioni, è quello di aumentare l’audience. Punto fermo è consolidare e ampliare la raccolta pubblicitaria. In linea di massima sarebbe presunzione limitare i palinsesti solo a termini commerciali dal momento che sovente incontriamo buoni e costruttivi programmi, vuoi sul piano culturale che su quello civile e morale. È inutile concludere augurando che le tivù migliorino le loro programmazioni facendo crescere anche l’indice di reale acculturamento del telespettatore. Nel giornalismo nazionale prevale l’indipendenza o l’asservimento ai poteri forti? La domanda mette a nudo la debolezza principale della professionalità giornalistica. Sarebbe risposta di bandiera affermare che tutti i giornalisti sono fedeli ai principi di obiettività, serietà e soprattutto fedeltà alla verità. Troppi esempi ci stanno davanti agli occhi nel campo dell’informazione per non dover riconoscere che i giornalisti sono - naturalmente in quota parte - asserviti ai poteri forti. Sono sempre più rare le firme che garantiscono soprattutto l’imparzialità. Senza essere pessimisti per carattere - a parte la situazione economica - la perdita diffusionale quasi totalitaria ne è una prima prova. In definitiva il giornalista è un uomo come tutti gli altri, e proprio le cronache sono zeppe di notizie che nulla hanno a che vedere con le regole di una sana comunità.

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modo quello che chiami localismo Con la crisi economica si fa sentire ha una sua giustificazione sociale, anche quella dell’editoria, dovuta ma nel contempo anche una limisoprattutto al calo della pubblicità, alla legislazione inadeguata e tazione del suo paesaggio. Sul piano alla diffusione delle edizioni onlimorale, se non si hanno pregiudizi, ne. Quale futuro è immaginabile è accettabile. Diventa invece negaper quotidiani, periodici e libri a tivo se si limita al vocabolario delle stampa? più inette attività. Alla luce dei fatti è azzardato parQuando non c’è un rapporto lare di futuro positivo per tutto ciò ampio con la realtà umana e che riguarda i prodotti della stampa. viene a mancare la dialettica Rimane tuttora presente l’interrosulla contemporaneità, non si gativo: prodotto cartaceo o online? vive pienamente il presente e non Insomma inchiostro o bit? Ci sono si partecipa ai processi innovaGilbert & George, Streeters, 1985, 241x401 cm (dal catalogo della mostra itinerante The complete pictures schiere di economisti, esperti, per1971-1985) sino filosofi, che stanno dibattendo La celebre coppia di artisti londinesi nella produzione pittorica e comportamentale si relaziona alla cruda tivi, né spontanei, né stimolati dai saperi. Se per chi ha una viil tema. Non rimane perciò - al mo- realtà quotidiana con spirito provocatorio e dissacratorio. sione darwiniana la metropoli è mento - che seguire le due fasi e attendeil laboratorio dell’evoluzione sociale, re, ognuno con la propria preferenza, gli nel paese con la p minuscola o nelesiti di questa autentica “guerra”. la piccola città cosa si può formare di Un’altra contaminazione del processo positivo? di mondializzazione e dell’avvento C’è modo e modo di intrattenersi sul di internet è quella del libero uso di tema e sulla declinazione della contermini stranieri, più o meno tecnitemporaneità. è arduo dare una rispoci, che stanno invadendo il villaggio sta che possa rientrare nei confini di globale ‘costringendoci’ all’aggioruna generica attualità. Dal piccolo si namento continuo per stare al passo può sempre crescere, dal grande è più con il tempo che corre… Anche tu agevole la discesa. Perciò, accettando provi disagio quando li incroci nelle il principio di una crescita in senso letture o li ascolti? Ritieni che nel nodarwiniano, rimane solo da augurarstro Paese, ricco di storia letteraria, si che anche i piccoli e modesti centri ci sia una profanazione della lingua contengano spazi per raccogliere idee madre? creative. Come vedi, pure la mia rispoNon c’è profanazione, ma insulto e sta oscilla su un’altalena di percezioni. forma irrispettosa imposta al lettore Va bene, ad esempio, riscoprire l’iitaliano. Non si tratta di adeguarsi diventando poliglotti per riuscire a “di- Sigmar Polke (1941-2010), Supermarkets, 1976, gouache, smalti metallici e pittura acrilica, pen- dioma, per ritrovare le proprie radici gerire” un articolo o un servizio. Non narello e collage su carta e su tela (Private Collection, © The Estate of Sigmar Polke / DACS, linguistiche, ma è indispensabile ansi tratta di rimanere a disagio, ma in London / VG Bild - Kunst, Bonn) che saper comunicare oltre i propri maniera inconfutabile offesi da tanta L’opera è esposta fino all’8 febbraio 2015 nella retrospettiva Alibis alla Tate Modern di Londra. confini. Adottare elementi linguistici L’artista, utilizzando vari media spesso ha affrontato problematiche esistenziali. stupida scimmiottatura di quel concetinternazionali più oggettivi può esseto che si vorrebbe imporre con la pare utile o dannoso per la salvaguarrola o la frase in lingua straniera che dia dei caratteri territoriali e dell’idenrisulterebbe più concreta e riassuntiva tità individuale? nella lunghezza. È troppo bella la linRiprendendo dall’inizio il concetto di globagua Italiana per essere “esperantizzata”. lizzazione viene il dubbio che le proprietà e È perfino musicale nelle sue espressioni. È proprio un delitto sfregiarla! Inoltre le caratteristiche dell’idioma nazionale posi risultati che se ne ottengono - per chi sano essere incisive e, in un certo senso, delenon sa le lingue - sono rovinosi e del tutterie per la difesa dello stesso. Ma oggi come to contrari all’idea che in tale maniera si oggi è ancora attuale parlare di difesa dell’ipossa far meglio comprendere la temadioma nazionale quando - specialmente tica del servizio. Non si tratta di essere nel settore dell’economia e della politica - il campanilistici, ma logici e in tutti i casi dire e lo scrivere non sono più totalmente concreti. italiani. Questa è una considerazione che da tempo volevo esprimere perEntriamo nell’ambiente cittadino dove ché se non si sa la lingua inglese è hai lavorato e operi ancora. Secondo te, difficile comprendere e seguire un tefino a che punto va difeso o condannato il localismo? sto o un dibattito di economia su un Penso che tu per “localismo” intenda Negozio ambulante, davanti a un ristorantino, in un villaggio africano dell’ex Zaire libro o su giornali, vuoi specifici che di semqualcosa attinente al “campanile”. A suo (ph L. Marucci) plice informazione.

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potenzialità di lavoro possibili, sta Non voglio fare un processo al giorpoi all’intelligenza individuale rinalismo locale, ma io per anni ho uscire a migliorare - dal banchetto constatato che si fa molta cronaca della professione - le condizioni di delle esteriorità al fine di consolidavita e di pensiero. Non è vero che io re il gusto comune e di vendere più sia stato annullato nei miei interessi copie. Ne sei consapevole anche tu? culturali dall’attività giornalistica, Il giornale è come un qualunque anzi ne sono stato gratificato e ho prodotto, quindi la prima attenzioavuto la possibilità - nei limiti delle ne va riservata alla diffusione, poi mie esigenze - di formarmi sempre la composizione di un quotidiano più e di costruirmi quel che sono stanon può essere indirizzata a una to e sono. sola materia: la cronaca ha la sua notevole importanza, i servizi sui Spesso in sede locale i quotidiaproblemi cittadini vengono di pari ni partecipano superficialmente passo, uno sguardo (anche critico) al divenire della realtà, senza Riciclaggio rifiuti urbani nel Dekkan (India del Sud) (ph L. Marucci) alla politica non guasta. Da questa assumere atteggiamenti critici o miscela ogni mattina il giornale ne propositivi. Dipende principalmente dalle carenze culturali di certi deve riportare commento e sintesi poiché si rivolge a un acquirente geneoperatori? rico. Ad ogni giornalista di un normale livello piacerebbe spaziare di più Non solo. Intervengono altre problematiche. Ad ogni buon conto, alla su temi di cultura, di arte e di storia, attese che nella realtà non possono base non guasterebbe una preparazione, o meglio, un background cultuessere pienamente soddisfatte. I giornalisti più accorti riescono tuttavia rale. Tutto ciò sta a dimostrare che la vita professionale di un giornalista a dosare i servizi infilandoci i temi sopra citati. È un po’ la cartina di di provincia è molto più impegnativa rispetto a chi lavora a livello naziotornasole del bravo giornalista. nale che, in un certo senso, avendo quasi sempre un settore specifico da coltivare non corre pericoli censori al suo impegno. Torno a sottolineare Cosa hai imparato dall’attività giornalistica svolta ad Ascoli Piceno, il percorso irto di curve e pericoli che il giornalista locale deve invece città piuttosto appartata? evitare, a volte con perizia ed altre con astuzia. Tutto quello che c’era da imparare. E tenendo conto di vivere in una città “appartata” saperne uscire dai confini per dare sguardi agli eventi (di In generale, pure se la verità ha più volti ed è difficile provare qual è ogni genere) che maturano fuori dalle mura. Non dimentichiamoci poi il più somigliante ad essa, oggi l’informazione tende ad essere obietche l’uomo-giornalista sa vivere la cultura e tutti gli altri generi di vita tiva o è viziata da particolari interessi personali? vissuta; li sa acquisire creandosi così una personalità. Gli interessi personali non sono mai legittimi e nessuno se li può arrogare A me il lavoro al giornale è servito per vivere da vicino la realtà quotidiana, esercitare la scrittura, comunicare idee e conoscenze alla collettività. Però, riguardo ai contenuti, ho sempre pensato che per superare il provincialismo retrivo non bisogna incoraggiarlo, come abitualmente si fa sulle pagine locali, ma ampliare l’orizzonte delle conoscenze attraverso perseveranti programmi pedagogici. Condividi? Sono d’accordo in linea di massima, ma il giornalista di provincia non deve mai dimenticare che scrive per lettori di provincia. L’operatore della comunicazione per uscire da questo “ad minimum” propone un programma goccia a goccia per evitare un soffocamento che finirebbe sempre nelle solite contestazioni. Insomma, per farla breve, al lettore di provincia vanno somministrati i programmi che comprende e accetta. Sta nell’intelligenza del giornalista portarlo piano piano a un maggiore livello del sapere. Come sai, io ho potuto occuparmi intensamente della critica d’arte sulle riviste specializzate dopo aver lasciato il quotidiano di cui tu stesso eri consulente editoriale. E sono convinto che la tua permanenza al giornale non ti abbia lasciato il tempo di valorizzare diversamente certe potenzialità evidenziate agli esordi, quando avevi maggiore libertà di perseguire altre ambizioni. Nella vita bisogna adeguarsi alle

senza pagare pegno sul piano della chiarezza. Discorso diverso quando allo specchio rilucono gli interessi dell’editore. A riassumere il tono e il contenuto di questa intervista emerge in primissimo piano la figura professionale del giornalista di provincia sovente alle prese con problemi e tematiche molto al di fuori del suo standard, per cui chi sa muoversi con intelligenza (e… scaltrezza) esprime non solo qualità professionali ma anche il cosiddetto saper vivere senza imbrattare il proprio vestito morale.

Riprendo la parola per aggiungere qualche altra riflessione. Attualmente chiunque avverte che la globalizzazione - governata più dagli interessi economici di parte che dagli stati - ha invaso ogni campo, spesso producendo alla collettività più guasti che riparazioni. I flussi migratori, causati dai conflitti bellici e dalla necessità di sfuggire alla povertà, hanno alimentato il razzismo e aggravato i problemi della convivenza. È vero, sono stati fatti grandi progressi in campo scientifico, ma non si riesce ancora a risolvere il problema dei rifiuti e, tanto meno, di quelli tossici altamente inquinanti. Nel settore agricolo si assiste alla diffusione delle colture “OGM”. Le multinazionali, con il pretesto di sopperire alle carenze alimentari dei paesi poveri, creano prodotti più commerciabili, ottenuti con manipolazioni geHeather Phillipson, opera scenografica per il palco degli interventi durante Extinction Marathon: Visions of the Future, manifestazione interdisciplinare sulle problematiche ambientali, tenuta alla Serpentine Sackler di netiche che nel tempo potrebbero rivelarsi nocive per la salute Londra il 18 e 19 ottobre scorso (ph L. Marucci)

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La mobilitazione delle aree emarginate verso l’Occidente è maturata soprattutto degli esseri viventi. Ancora: nel comparto alimentare proliferano i con l’apertura delle frontiere culturali e la globalizzazione. Altro fattore deterfast food con cibi meno naturali, che stanno trasformando il gusto minante: il fascino delcl’internazionalismo linguistico anche per l’esigenza di dei giovani... Propagandare la dieta mediterranea è buona cosa, comunicare a una più vasta platea. Il sistema dell’arte non poteva ignorare gli ma non basta per far riscoprire le nostre sane abitudini. Certamente aspetti inediti, così le istituzioni museali e le gallerie private si sono aperte ai la scelta dell’Expo 2015 di porre domande sulla necessità di cibo nuovi arrivati; i critici e i curatori di eventi spesso hanno approfittato della più e di acqua e sulla sicurezza alimentare fa acquistare al problema facile reperibilità della produzione delle ultime generazioni; i collezionisti ne hanno intuito le potenzialità innovative e mercantili; le grandi esposizioni peuna risonanza internazionale. Anche le proteste del movimento noriodiche hanno riservato sempre più spazio alle esperienze delle aree meno rapglobal e degli antagonisti possono richiamare l’attenzione sugli ecpresentate. Tutto questo ha dinamizzato la cessi degenerativi, ma con le urla, al circolazione delle opere, favorito l’integramassimo, si può rallentare temporazione e la legittimazione degli autori. Natuneamente la propagazione. Si vanno ralmente le nazioni interessate, per acquiglobalizzando perfino gli interventi stare visibilità sulla scena mondiale, hanno militari e il terrorismo… invece di accolto con favore le offerte. Altri contributi sono venuti dalle tecnologie informatiche e far scoppiare la pace tra le nazioni perfino dall’arte partecipativa e da quella e tra le etnie. negli spazi urbani. Ovviamente le mutate Insomma, non riuscendo a discicondizioni hanno accelerato il processo di plinare gli avvenimenti e ad evitare democratizzazione dei paesi sotto i regimi il peggio, resta molto da fare. Come totalitari, stimolato le rivendicazioni dei sempre, soltanto dopo le disastrodiritti civili e la solidarietà tra le comunità. L’allargamento del campo d’azione ha se emergenze si tenta di correre ai fatto conoscere altre realtà in fase evolutirimedi. Senza voler essere catastrova e il mercato ha potuto proporre con più fici e tanto meno antimoderni, le sicurezza le realizzazioni che prima erano profezie di Erich Fromm in “Avere fuori gioco. Nel contempo pure le strutture o essere?”, purtroppo, non vengono culturali hanno iniziato ad adeguarsi agli smentite: l’uomo ha coscienza di inarrestabili cambiamenti; sono aumentate le sinergie; si sono ridotti gli squilibri trovarsi sull’orlo dell’abisso, ma non tra centri e periferie. Inevitabilmente tra riesce a fare nulla per evitare di pregli operatori visuali si è posto il problema cipitarvi. Lo stiamo vedendo anche dell’omologazione: pur di apparire ‘attuali’ con le grandi mutazioni climatiche. e conquistare i mercati esterni, a volte hanNonostante i morti e l’enorme costo no adottato modalità linguistiche impersodei risanamenti ambientali, tra le nali trascurando i valori che caratterizzano le identità individuali e territoriali. nazioni, non si trova l’accordo per In generale va ammessa l’importanza del il ridimensionamento delle emissioreciproco flusso migratorio utile per svecni inquinanti. Allora non resta che chiare l’esistente, specie se condizionato da sperare nell’istinto di conservazione, radicati localismi. Tra l’altro, si promuovonelle spinte antropologiche di segno William Kentridge, World on Hird Legs II, 2014, materiali vari su carta, 210x150 cm, Frieze Art Fair no ricerche; sono più frequenti gli scambi contrario per poter raggiungere una 2014 di Londra, stand Goodman Gallery di Johannesburg (courtesy Goodman Gallery, ph L. Marucci) di residenze formative e le conversazioni questa opera l’autore ha tratto una scultura - realizzata in collaborazione con Gerhard Marx sensata condizione di equilibrio. Ma Da pubbliche. L’intensificazione delle relazio- installata sulla collina in cui si trova il Museo dell’Apartheid. Il visionario artista sudafricano, i tempi saranno senz’altro lunghi e da sempre impegnato contro le discriminazioni razziali, ha rappresentato un grande mondo in ni ridestano speranza di futuro, almeno nei talenti più ambiziosi. Consola che l’importoccorrerà vincere forti resistenze. Per frammenti sorretto da instabili piedini diagonali. export dell’arte, a differenza di quello comraggiungere l’obiettivo certamente si merciale limitato dalla recessione, vada crescendo e che gli addetti ai lavori di dovranno frenare gli eccessi della globalizzazione e il conservatoriuna parte e dell’altra abbiano maggiori occasioni di dialogo e di arricchimento smo locale. In altre parole occorrerà rimuovere il diaframma che sulla base di più saperi e idee. Inoltre, nell’ambito estetico è stata ridimensiodivide i due antagonisti e creare un’osmosi costruttiva tra loro per nata l’egemonia dell’Occidente. Poi si sono stemperati i nazionalismi; mentre gli artisti e gli intellettuali, non più esuli in patria e clandestini fuori dei propri guardare con gli stessi occhi verso un futuro migliore per tutti, illuconfini, possono respirare quell’aria di libertà che esalta la soggettività degli esminato dalla ragione supportata dai veri valori umani. In attesa…, seri umani. meglio tornare alla cultura…, non per rifugiarci nell’astrazione o per inseguire obiettivi utopici, ma per impiegare le sue energie indiGiunti a questo punto, la democrazia e la convivenza civile non posspensabili per migliorare la qualità della vita e partecipare responsasono fare a meno di una governance più attiva e tempestiva, capace bilmente alla costruzione del mondo. Va riconosciuto che nel settore di promuovere iniziative, allo scopo di sviluppare la sensibilità verso artistico la globalizzazione ha portato nei cosiddetti paesi emergenti forme autentiche di modernità facendo evolvere la situazione a mi- specialmente là dove si censura pesantemente la soggettività - una sura d’uomo. Vivere alla pari il proprio tempo aiuta a comprendere certa emancipazione, grazie soprattutto all’innato desiderio dei creaanche le espressioni più sottili dell’arte che in fondo trae ispirazione tivi di esprimersi liberamente e di esporre altrove la loro opera. L’andalla realtà in cui viviamo. Spesso si rifiutano le forme nuove per i no scorso, quando ho iniziato ad approfondire questo nuovo oriencondizionamenti avuti dai programmi scolastici obsoleti o per non tamento, ancora per la rivista “Juliet” (n. 163), nel pubblicare le ammettere carenze o distrazioni, mentre, per acquistare il diritto di giudicare, occorre prima conoscere. testimonianze degli esperti interpellati annotavo:

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L’ E

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di Ruggero Signoretti

Paul Gauguin, D’où venons-nous? que sommes-nous? où allons-nous?, Tahiti 1897, cm 141x411, Museum of Fine Arts, Boston

“D

a dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” è il titolo di un celebre quadro di Paul Gauguin, il più grande da lui dipinto. Vogliamo introdurre l’editoriale con questa splendida opera perché ci sia di viatico a una riflessione sulla nostra rivista, che, al raggiungimento del numero 60, riteniamo indispensabile. “Sessanta” è soglia ragguardevole per un periodico che, partito nel 1992 con quattro numeri l’anno, si è nel tempo stabilizzato su due, e non per mancanza di interesse da parte sia di chi vi collabora sia dei fruitori, quanto in una logica di mercato che privilegia i percorsi telematici che, nel frattempo, sono andati emergendo. La nostra presenza, quindi, non si è contratta, semmai è cresciuta, grazie all’integrazione di altre formule distributive nella volontà di essere sempre al passo con i tempi. “Da dove veniamo” spiega la nostra origine, l’iter di un cammino e di una presenza. Siamo nati in una zona d’Italia - nelle Marche, precisamente, tra Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado e Falerone - definita “Distretto del Cappello”. Qui, infatti, si concentrano le fabbriche che realizzano copricapi e ciò per una tradizione che affonda le radici nel passato, quando buona parte della popolazione contadina integrava le scarse entrate realizzando, con la paglia raccolta nei campi - una paglia di ottima qualità - delle trecce che poi cucite insieme davano vita ai cappelli. Oggi la paglia non è più lavorata come un tempo, ma le fabbriche ci sono ancora, avendo negli anni modificato la produzione. È per questo che nelle nostre pagine si trova spesso la storia della lavorazione della paglia, arricchita da aneddoti, analisi sociologiche e relazioni economiche a firma di Giuseppe R. Serafini, il nostro editore, il quale, fin da giovane, ha posto questo capo di abbigliamento al centro dei suoi interessi, salvando gli antichi macchinari, organizzando un museo del cappello a Montappone e a Massa Fermana, fondando e curando la rivista e il relativo portale telematico. “Chi siamo”, nello specifico, lo dice il nome della rivista: “HAT, periodico di arte, cultura e modo di vestire abbinato al cappello”, che tratta temi di arte visiva e musicale, viaggi, cultura varia, moda, storia soprattutto sociale, letteratura, tradizioni... Nelle sue pagine si leggono storie di cappellai, modiste, fabbriche di cappelli, avvenimenti correlati con il distretto del cappello; relazioni sui cappelli di tutto il mondo e di tutti i tempi, sul loro uso e sul loro ruolo religioso e sociale. Ma abbiamo deciso di andare anche oltre. La rivista, che viene spedita gratuitamente alle istituzioni culturali, ai musei, ai produttori di cappelli e a una selezionata cerchia di amici ed estimatori, è anche la voce del museo e del territorio, che invita aziende e rivenditori, ma anche turisti, a scoprirci. Siamo in un’area molto bella, sia sotto il profilo paesaggistico sia architettonico-culturale. Insomma, c’era bisogno di una rivista come la nostra? Se ci state leggendo vuol dire che in qualche modo abbiamo sollecitato la vostra curiosità e il vostro interesse. “Dove andiamo?” Andiamo verso la realizzazione di un portale mondiale sul cappello. Sempre più tenderemo alla specializzazione, perché è il trend attuale dell’editoria. Avremo un occhio puntato al territorio e l’altro proiettato sul mondo. Stimolando la creatività dei produttori e il loro dialogo con gli stilisti, ci adopereremo per un incremento dell’uso del cappello che, a nostro giudizio, non è un semplice accessorio, ma il segno distintivo di ogni individuo in quanto in grado di esaltarne la personalità. Il cappello, o il copricapo in genere, ‘dice’ chi è la persona che lo indossa, laico o ecclesiastico, militare o giudice, studente o operaio di cantiere. Oggi, talvolta, le cose sono un po’ incerte, ma forse in questa confusa società virtuale si ha più esigenza di certezze nella vita reale. Ad ognuno il suo cappello, dunque, per dire agli altri chi siamo e per aiutare gli altri a capirlo.

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BASILEA 2014

FIERA DELL’ARTE E MOSTRE NEI MUSEI di Anna Maria Novelli

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n insolito sole, caldo e luminoso, ha salutato a giugno l’apertura al pubblico della 45esima edizione di Art Basel, la fiera più rinomata del mondo per le proposte innovative, che vanta annuali location anche a Miami e a Hong Kong. Già dall’inizio della settimana Basilea era animata dall’arrivo di circa 70.000 visitatori, richiamati dai diversi appuntamenti, anche perché quattro giorni non bastano più per vedere tutto quello che la città offre nel campo dell’arte. La Fiera centrale in Messeplatz era occupata dagli stand di 285 gallerie di 34 paesi dei 5 continenti, alcune approdate per la prima volta da Africa, America Latina e Asia. 17 le italiane, le migliori, che possono permettersi di pagare un costo alto di partecipazione. La piattaforma Unlimited con opere oversize, adatte ad essere ospitate nei grandi musei, erano 78 con una nostra esigua ma significativa rappresentanza: Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Giuseppe Penone, tutti e tre torinesi, illustri esponenti dell’Arte Povera della prima ora che, dopo oltre 40 anni, ancora suscita interesse. Tra i nomi più conosciuti: Carl Andre, Richard Long, Bruce Nauman, Rosemarie Trockel, Yang Fundong, Hanne Darboven, Pascale Marthine Tayou, Tacita Dean e altri, accanto a giovani già di successo come Jos de Gruyter & Harald Thys, Sterling Ruby, Rodney Mcmillian, Ryan Gander, Andra Ursuta, Sam Falls, il duo portoghese João Maria Gusmão & Pedro Paiva, Carsten Nicolai, Guido van der Werve. Il settore Statements era situato nel cuore della Halle 2 con tutti solo show. C’era anche lo svedese John Skoog a cui è stato assegnato il Baloise Art Prize, il più ambito riconoscimento svizzero.

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Padiglione Centrale di Art Basel con l’installazione degli architetti J. Müller & T. Wüthrich

Sterling Ruby, Soft Work, 2011-2013, sezione Unlimited (courtesy Xavier Hufkens Gallery, Bruxelles e Sprüth Magers Londra/Berlino)

Jos de Gruyter & Harald Thys, The Dirty Puppets of Pommern, 2014, sezione Unlimited (courtesy Gallerie Bortolozzi, Berlino e Michelin Szwajcer, Bruxelles)

La sezione Feature proponeva 24 gallerie di cui 15 nuove. Particolarmente apprezzate la “Kow” di Berlino (opere storiche di Santiago Serra), la “Mot” di Londra (materiali d’archivio della Land Art di Dennis Oppenheim) e la “Kadel Willborn” (lavori del gruppo concettuale inglese Art & Language in collaborazione con il gruppo rock The Red Krayola). Nella romana “Lorcan O’Neill” spiccava la personale di Luigi Ontani con selezionate opere dal 1960 al 1990. Art Parcours, alla quinta edizione - dislocata in strade, palazzi, cortili, vetrine di una zona della città (Rheingasse) a pochi minuti a piedi dalla Fiera - offriva un piacevole itinerario alla scoperta di 15 interventi di autori noti a livello internazionale. Apprezzati l’originale Porsche Panamera con 4 monitor all’interno (parcheggiata davanti a un grande magazzino), i maxi ferro di cavallo colorati di Mark Handforth (all’entrata di una chiesa), il finto salotto retrò di Chris Burden (all’aperto), la scultura dell’irlandese Eva Rothschild con un trio di triangoli (in un giardino), i diversi manifesti di Ryan Gander (sparsi qua e là) raffiguranti bambini nell’atto di sognare, con chiaro riferimento ai tagli economici nei budget delle scuole. Completavano le proposte Conversations e Salon: incontri e dibattiti su diverse tematiche artistiche che consentono di aggiornarsi anche sul piano teorico rispetto agli orientamenti più vivi del momento. Hans Ulrich Obrist, uno dei più famosi critici e curatori del momento, aveva focalizzato l’attenzione su The Artist as Choreographer, dialogando con la svizzera Alexandra Bachzetsis, il francese Xaver Le Roy, il newyorkese Ives Laris Cohen, la dominicana Isabel Lewis. E chi la sera avesse avuto


ancora energie, durante la Basel week, poteva assistere allo Stadtkino a una trentina di film su e di artisti. Le fiere collaterali erano le solite. In prima linea Liste, nell’ex fabbrica quest’anno un po’ ammodernata, come sempre connotata da gallerie giovani e da artisti emergenti. Volta convinceva sia per la nuova sede in centro, sia per le scelte delle gallerie, a differenza di Scope e Solo Project che ancora annaspano, così pure Design Miami che, nonostante i propositi, continua a presentare opere di un artigianato di gusto mediocre. Tra le mostre a latere si distingueva 14 Rooms, una collettiva d’eccezione, a cura di Klaus Biesenbach (direttore del famoso spazio espositivo PS1 di New York) e di Obrist (co-direttore della Serpentine Gallery di Londra), che avevano strutturato 14 stanze, 5x5x5 metri ciascuna, per esplorare la relazione tra spazio, tempo e presenza fisica avendo come protagonista un essere umano. Le piéces di live-art erano delegate a performer istruiti dagli autori, tutte star di prima grandezza: Marina Abramovic,´ la coppia Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Ed Atkins, Dominique Gonzales-Foerster, Damien Hirst, Joan Jonas (che attualmente ha una vasta personale all’Hangar Bicocca di Milano ed è stata scelta a rappresentare gli U.S.A. alla Biennale Internazionale di Venezia che si inaugurerà nel maggio del 2015), Laura Lima, Bruce Nauman, Otoborg Nkanga, Roman Ondák, Yoko Ono (la vedova di John Lennon, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2009), Tino Sehgal (anch’egli Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2013), Santiago Serra, Xu Zheng, più due opere che facevano da apertura e da epilogo: dell’americano John Baldessari con la documentazione archivistica di un suo tentativo, non riuscito per difficoltà burocratiche, di esporre al MoMA di N. Y. il cadavere di un uomo nella posizione del Cristo di Mantegna, e di Jordan Wolfson con una fascinosa donna animatronic

Jordan Wolfson, (Female Figure) 2014, 2014, performance in 14 Rooms (courtesy l’Artista e D. Zwirner Gallery, New York/Londra)

Richard Jackson, Bobble Head, 2013 (courtesy Hauser & Wirth Gallery, Zurigo/Londra/New York)

Gerhard Richter, Betty, 1988 (courtesy l’Artista e Fondation Beyeler, Basilea)

(robotica) che, danzando lascivamente davanti a un grande specchio in cui si riflettevano i visitatori, finiva per renderli partecipi dell’opera. Nei musei della città esposizioni tutte significative. Al Kunstmuseum Kasimir Malevich - l’avanguardista russo del ventesimo secolo - era rappresentato soprattutto con disegni che preludevano alla fase dell’astrazione, fino al leggendario Black Square. In un altro spazio si esibivano le sculture bianche e argentee (una per stanza) dell’americano Charles Ray (con un’appendice al Gegenwartskunst, che però nulla aggiungeva al già visto). A Paul Chan, artista di Hong Kong naturalizzato americano, lo Schaulager aveva dedicato un’ampia personale con esperienze linguistiche diverse. Il ceco Kristóf Kindera esponeva al Museo Tinguely e una panoramica di Kostantin Grcic era al Vitra Museum. Al Gegenwartskunst si poteva visitare anche un’interessante retrospettiva di Marcel Broodthaers, artista belga prematuramente scomparso, dalla distinta identità linguistico-concettuale-poetica. Di certo la più attesa e ammirata è stata la personale del tedesco Gerhard Richter, nato a Dresda nel 1932 e attualmente residente a Colonia; uno dei più autorevoli artisti del nostro tempo a livello mondiale. La mostra, allestita alla Fondation Beyeler, era la più ampia mai presentata in Svizzera, con lavori dal 1960 ad oggi. Ben curata dal dinamico Obrist, focalizzava un percorso evolutivo tra storia e realtà contemporanea attraverso aggregazioni tematiche: immagini realistiche (ritratti, momenti di vita, paesaggi) e astratte, fino alle geometrie digitali, in grandi formati o contenuti come nella serie delle cartoline reinterpretate con vivaci interventi pittorici. E al centro di due sale strutture in cristallo offrivano ai visitatori nuove possibilità di lettura delle opere monocromatiche alle pareti.

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ALTRE IMMAGINI DA ART BASEL

Rob Pruitt, Refrigerator Monsters: François, Nina e Isabelle, 2014 (G. Brown’s Enterprise, New York)

Ai Weiwei, biciclette (neugerriemscheider, Berlino)

Thomas Houseago, Striding Figure II (Ghost), 2012 (Hauser & Wirth Gallery, Zurigo)

Giuseppe Penone, Matrice di linfa, 2008 (Studio Tucci Russo)

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Hanne Darboven, Children of This World, 19901996 (Gallerie K. Fischer e Sprüth Magers)

(reportage fotografico di Luciano Marucci)

Nandipha Mntambo, Unfanekiso wesibuko (Mirror image), 2013, pelle di mucca e resina (Andréhn-Schiptjenko Gallery, Stoccolma)


Via G.E. Alessandrini, 4 63835 MONTAPPONE (FM) ITALY Tel. 0734.760487 info@paimar.com


SETTIMANA DELL’ARTE A LONDRA di Anna Maria Novelli

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rieze Art Fair è una fiera giovane che occuparsi di nuovi progetti, avevano parlato di si tiene in Regent’s Park a Londra. Con una manifestazione “interattiva, multidisciplisolo dodici edizioni è riuscita ad affermarsi nare e culturale”. Dipinti, sculture, installazionel mondo dell’arte internazionale, tanto da ni, ma anche balletti, teatro, cinema, musica, permettersi una manifestazione gemella a New performance. La Frieze, rispetto ad altre manifeYork. Ogni anno movimenta l’ottobre londinese stazioni analoghe, si è distinta ancora una volta e stimola gallerie e istituzioni a dare il meglio, per l’attenzione verso la ricerca più attuale, anrichiamando collezionisti, artisti, critici, ma che se non disdegna i maestri, anzi ne ha messi anche un vasto pubblico curioso. parecchi sotto la lente d’ingrandimento asseI numeri dell’ultima kermesse: più di 160 gallegnando loro il ruolo che meritavano. Le naziorie di 25 Paesi nel padiglione centrale, circa 120 ni meglio rappresentate erano Germania, Gran espositori a Frieze Masters (sezione storica agBretagna e USA, ma l’Italia ha fatto la sua figugiunta tre anni fa con opere dal Cinquecento ai ra anche se con un ristretto numero di gallerie: giorni nostri, in cui i galleristi devono scegliere Giò Marconi (che, in associazione con la Meyer artisti collegati da un concept), poi Focus (galRiegger di Berlino, ha proposto Rosa Barba) e lerie giovani che vengono accolte per un trienMassimo De Carlo (entrambe di Milano), Franco nio a presentare uno o due artisti emergenti), Visitatrice davanti a un’opera dell’artista belga Carsten Noero (Torino), Raucci Santamaria (Napoli) e Höller nello stand della Gagosian Gallery Sculpture Park (che obbliga a una piacevole T293 (Roma), più Fluxia e Frutta per le nuove passeggiata alla scoperta delle opere all’apertendenze. to nell’accogliente e lussureggiante English A Masters si facevano notare i nostri poveristi: Gardens), Film, Talk e - novità dell’ultim’ora Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Giuseppe Live (sei gallerie con sole performance in diretta). Penone, nonché i soliti Fontana, Burri, Manzoni, In totale un migliaio di artisti tra i quali è stato Melotti. Nel complesso, però, la sezione è apparsa scelto un giovane premiato con il Frieze Artist monotona, scontata, piuttosto stanca, anche un Award 2014 per la migliore partecipazione: la po’ meno frequentata. francese Mélanie Matranga, che ha dato vita a Pure Sculpture Park era meno grandiosa. un bar per incontri casuali, soprattutto culturali. Attiravano lo Small Lie (Pinocchio di legno alto I clienti erano ripresi da una telecamera e sono 10 metri) di KAWS, la colorata installazione da divenuti attori di brevi video immessi in internet. mare di Gabriele De Santis, quelle dei maestri Gli stand più visitati: Gagosian Gallery con un Franz West e Thomas Shütte, i ‘missili’ anti solo show giocoso di Carsten Höller, che attraeva conflitti bellici (di plastica gonfiata, ondeggianti Farhad Moshiri, Coltelli colorati su nero, 2013, in particolare i bambini (anche piccolissimi); al vento) di Seung-trek Lee. acrilico, coltelli su tela e supporto di legno, Marian Goodman di Johannesburg, tra l’altro Per Frieze Projects Nick Mauss ha esibito 165x155x29 cm (courtesy Perrotin Galley, New York) con un grande lavoro di William Kentridge, il sudanze ogni giorno diverse; Tobias Madison dafricano che presto dipingerà mezzo chilomeun’installazione in cui il movimento dei visitatori tro di muraglioni lungo il Tevere a Roma; si trasformava in luce; Cerith Wyn Evans Zwirner, con opere di artisti dai nomi al(che aveva pure una bella mostra presso tisonanti, prelevate dalle sedi di Londra la Serpentine Sackler Gallery) ha occupato e New York; l’africana Stevenson con la lo Zoo con una performance e un lavoro personale di Barthiémy Togno; la svizsugli animali; Jérôme Bel ha presentato zera Hauser & Wirth, Rampa di Istanbul per la prima volta a Londra il suo Disabled (personale di Gülsün Karamustafa); Casas Theatre; Isabel Lewis ha proposto una Riegner di Bogotà con Beatriz Gonzales; serie di Occasions che evocavano l’antico Helga Alvear (con Ana Prada) e Lisson; simposio greco dove erano inseparabili il Konrad Fischer; Lehmann Maupin... parlare di filosofia, il bere e la componente I direttori della Fiera, Matthew Slotover e erotica. La performance, tenutasi in un Armand Sharp, che nel 2015 verranno sospazio vuoto dell’Old Selfridges Hotel, nei stituiti con Victoria Siddall e resteranno a Maria Nepomuceno, opera esposta nella A Gentil Carioca Gallery, Rio de Janeiro pressi di Oxford Circus, è durata 4 ore.

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Isabel Lewis in un momento della sua esibizione londinese

Sigmar Polke, Stadtbild (NY),1968, colori distribuiti sulla tela, 151x125,5 cm (courtesy David Zwirner Gallery, New York)

L’artista ha allestito l’ambiente con piante di diverso tipo (alcune liberate dai vasi che ne imprigionavano le radici), divani, sedie e attrezzature elettroniche. I numerosi intervenuti potevano conversare comodamente, interagire con lei che danzava al ritmo di musica moderna o tribale, emettendo suoni gutturali ed entrando in rapporto con loro e con la vegetazione, mentre di tanto in tanto con un erogatore portatile diffondeva delicati profumi. Nel contempo improvvisate hostess distribuivano bottiglie di birra a volontà... e pasticcini. Anche a Londra proliferavano le fiere satelliti. Solo per citarne alcune: Sunday dentro l’Università di Westminster; We could not agree con un centinaio di artisti che esponevano nel parcheggio sotterraneo di Cavendish; The Others Art Fair e Moniker tra Brick Lane e Old Truman Brewery; 1: 54, piattaforma che da due anni fa il focus sull’Africa, dove abbiamo ritrovato due gallerie italiane: A Palazzo di Brescia e Primo Marella di Milano. Durante Frieze week c’è stato anche un Italian Sale alla Sotheby’s di

Bond Street che ha fatto registrare un buon rialzo di prezzi per 49 lotti di una ventina di artisti (Balla, Boetti, Bonalumi, Burri, Castellani, De Chirico, Depero, Fontana, Magnelli, Manzoni, Melotti, Morandi, Penone, Pistoletto, Santomaso, Schifano, Vedova, fino a Dadamaino, Festa, Scarpitta, Scheggi, Simeti). Nello spazio di St. George Street la stessa casa d’aste ha organizzato Reality Check dell’americano Duane Hanson con 5 iperrealistiche sculture raffiguranti persone comuni della società americana a grandezza naturale: operaio su una falciatrice, bodybuilder, studente, donna alla fermata del bus, majorette. Passando alla prestigiosa Tate Modern - che solitamente programma mostre esaustive e con intenti didattici - ecco Alibis, retrospettiva del tedesco Sigmar Polke (tenace oppositore del totalitarismo dell’Est e critico feroce del nazi-fascismo, deceduto a 69 anni nel 2010), uno dei più perseveranti e radicali ricercatori; un grande creativo in senso estetico e ideologico dagli sconfinamenti spazio-temporali tra realtà esistenziale ed esoterismo. L’esposizione copriva l’intera carriera dell’artista che,

Ana Prada, Conflict Zone, 2014, coltelli, cucchiai di legno e colla, 100x100x182 cm (courtesy Galerie Helga Alvear, Madrid)

Richard Tuttle, I Don’t Know or The Weave of Textile Language, Turbine Hall della Tate Modern, Londra

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utilizzando più media, ha affrontato con drammaticità, humour e apparente casualità di stile scottanti problematiche del mondo globalizzato. Nel piano inferiore una mostra omaggio a Kasimir Malevich - consequenziale e rigoroso ideatore dell’arte non oggettiva - partiva dal periodo figurativo in cui l’artista aveva subìto le influenze dell’Espressionismo tedesco, toccava i lavori cubo-futuristi, attraversava il periodo astratto fino al Suprematismo e si concludeva con il ritorno al figurativo durante gli anni Trenta. 12 sale dense di capolavori, compresi i disegni su carta che costituivano un’esposizione collaterale altrettanto significativa. La voluminosa Turbine Hall al piano terra era appannaggio di una scultura in stoffa insolitamente enorme di Richard Tuttle, noto per la sua produzione in formato dichiaratamente ridotto, presentata nell’altra sua esposizione presso la WhiteChapel Gallery. In altre sale di quel luogo si poteva vedere un’installazione di Kader Attia che ha racchiuso secoli di storia e di conoscenze in una biblioteca con libri da lui scelti, affiancata da una serie di busti di soldati che avevano combattuto ed erano rimasti menomati al volto nella Guerra Mondiale. I fitti programmi delle Serpentine Galleries, ubicate all’interno di Hyde Park, comprendevano due mostre, il padiglione annuale a forma di conchiglia o di zucca progettato da Smiljan Radic´ con dentro un bar-ristorante per quanti frequentano il parco, e la Maratona dell’Arte, una due giorni non stop (dalle 12 alle 22), a cui hanno preso parte attiva personalità di varie discipline.

Duane Hanson, Uomo sulla falciatrice, scultura esposta nella mostra Reality check presso la Sotheby’s Gallery di Londra

Lampadario dell’installazione dell’artista inglese Cerith Wyn Evans alla Serpentine Sackler

Julia Peyton Jones, direttrice delle Serpentine Galleries di Londra, mentre introduce Extinction Marathon 2014

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Extinction Marathon. Visions of the Future di quest’anno (la nona della serie) affrontava il tema delle sparizioni di piante, animali, gruppi etnici, tradizioni, ma anche quelle delle mutazioni genetiche, climatiche, linguistiche e dei disastri causati dalle violenze dell’uomo sull’ambiente, divenuti frequenti per eccesso di libertà e mancanza di controlli. Le tante sollecitazioni, provenienti da talk, conversazioni, filmati e performance, offrivano informazioni inedite e stimolavano a prendere coscienza dei problemi. Grande la soddisfazione dei direttori dell’Istituzione, Julia Peyton-Jones e Hans Ulrich Obrist, per la sentita partecipazione degli specialisti e del pubblico. Nella sede principale era visitabile la mostra della giovane statunitense Trisha Donnelly, che ha presentato immagini video e sculture in travertino in stretta relazione con lo spazio espositivo. Nella Sackler, ristrutturata l’anno scorso, il londinese Cerith Wyn Evans ha realizzato un’installazione con ‘colonne’ luminose, testo narrativo al neon sulle pareti perimetrali, scultura sonora, lampadari di vetro (uno dei quali qui riprodotto, ispirato a quelli della Venezia classica). All’aperto, davanti al floreale padiglione dell’architetto Hadid, il francese Bertrand Lavier ha fatto zampillare una ironica fontana pittorica e scultorea costituita da un mazzo di tubi di vari colori per l’irrigazione (reportage fotografico di Luciano Marucci)

Hans Ulrich Obrist, co-direttore delle “Serpentine”, presenta un relatore della Maratona dell’Arte 2014


O.M.M. Officine Minuterie Metalliche

Fondata nel 1969 per volontà di Antonio Nerpiti e Giacomo Belleggia, l’azienda marchigiana con sede di lavoro a Montegiorgio in provincia di Fermo è specializzata nella produzione di accessori per calzature e pelletterie. Di recente ha allargato la sua attività al settore dell’arredamento e del tessile-abbigliamento ed è in grado di realizzare su disegno del cliente un autentico prototipo in pochissimo tempo grazie anche a particolari macchine applicate al computer, sistema CAD/CAM. Ogni dettaglio, ogni singolo passaggio è accuratamente controllato ad iniziare dalla scelta dei materiali come l’ottone, l’alluminio, il rame, il ferro, la zama, il plexigas e degli elementi decorativi sempre di elevata qualità come le pietre Swarovski. Estremamente vasto il campionario a disposizione della clientela, che viene aggiornato stagionalmente e che include 20mila articoli diversi. L’azienda realizza prodotti dal design esclusivo su stampi personalizzati. Uno staff di esperti segue, in stretta collaborazione con disegnatori delle firme più prestigiose, tutte le fasi fino alla versione definitiva del modello prototipale. La O.M.M., dedita alla costante ricerca di soluzioni originali, rappresenta una delle realtà più significative dell’imprenditoria italiana, che ha saputo far tesoro del proprio know how acquisito e impiega con efficacia i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie.


L’ARTE NELLE SCARPE di Loretta Morelli

Vincent Van Gogh, Scarpe, 1887, Museum of Art, Baltimora

Jean Paul Gaultier, Palafitta, Parigi, 1993 (dal catalogo Scarperentola, Firenze, 1993)

L

a scarpa è uno degli oggetti che ormai da millenni è con l’uomo: lo accompagna fisicamente e simbolicamente nel lungo cammino della storia. Forse le calzature hanno rappresentato i primi mezzi per proteggersi dal mondo ‘distaccandosi’ dal terreno e dai possibili pericoli; poi, come tutto ciò che entra nella sfera del quotidiano, sono state plasmate nei secoli secondo gli accadimenti umani e le loro infinite declinazioni. Nel tempo sono diventate anche strumento di espressione di un artigianato creativo entrando a pieno titolo nella definizione di opera d’arte con il duplice significato di concreta materia estetica da una parte e di metafora presa in prestito da vari ambiti artistici dall’altra. Le celebri scarpe dipinte da Van Gogh hanno avuto un ruolo importante nella filosofia e nella critica del Novecento. Hanno ispirato Martin Heidegger nello scritto in cui si interroga sull’origine dell’opera d’arte: il suo fine non è

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Andy Warhol, Ruby, progetto di scarpa, 1956

Aldo Mondino, Senza titolo, Torino 1993, materiali vari (dal catalogo Scarperentola, Firenze, 1993)

imitare le cose, ma svelare la loro essenza; ciò che nella realtà viene riconosciuto per il valore d’uso nell’opera d’arte mostra la sfera a cui appartiene, il suo essere-cosa. Così il filosofo tedesco afferma che Van Gogh estrae le scarpe dalla loro provenienza contadina, in cui hanno solo uno scopo pratico, divenendo quindi portatrici dell’essenza di quel contesto, della sua verità. Il critico d’arte americano Shapiro, opponendosi a tale teoria, rivendica in pieno la manifestazione della personalità dell’artista che è il vero soggetto del dipinto; sarà ancora Jacques Derrida a ritornare sul dibattito alla fine degli anni ‘70 rimproverando ad entrambi di aver interiorizzato troppo la loro interpretazione nel discostarsi da una comprensione oggettiva. Si può ironicamente asserire che l’origine di un’opera, quella non legata alla produzione o postproduzione ma a una poetica - dal Modernismo ad oggi - sembra


essere una questione di scarpe e di cammino, spostamento invece che visione statica. L’ibridazione tra ambiti artistici, artigianali e della moda è costante. La calzatura è frutto stratificato e complesso di molteplici competenze che mettono in campo abilità, fini e ripercussioni ampie e diversificate. Dalla sua ideazione, passando per ogni fase progettuale e tecnica, fino all’arrivo sul mercato per poi diventare oggetto sociale, essa ‘cammina’ spesso sulla strada dell’arte contemporanea, feticcio di una realtà fuori dalle regole in cui si restituisce alla sfera simbolica e immaginifica. Significativa l’esposizione Scarperentola, presentata nel 1993 a Milano presso l’editrice Idea Book. L’insolita mostra, dal titolo eccentrico che ammiccava alla ‘povera ma bella’ della fiaba, coinvolse circa 250 tra artisti, architetti e designer d’avanguardia. Le loro “creazioni d’autore” erano eleganti e grintose, seducenti e inquietanti, sovente non calzabili, ma in ogni caso stravaganti. Tutte riconducibili a varie tendenze: dal Surrealismo all’Arte Povera e Concettuale, dalla Transavanguardia al Nuovo Futurismo, realizzate con materiali di ogni genere dai più naturali ai tecnologici, con forme originali e soggetti disparati. Nel settore moda da ricordare la Palafitta del guru francese Jean Paul Gaultier, uno stivaletto “trafitto” da sette tacchi a spillo, e il trio disegnato da Elio Fiorucci costituito da una scarpa sfilatino, una scarpa pianoforte e una scarpa Bella Napoli. Quanto agli artisti sono da segnalare almeno le scarpe impacchettate di Christo, quelle pittoriche di Mario Schifano, le

René Magritte, La philosophie dans le boudoir, 1948, olio su tela, 81x61 cm (collezione privata)

Jannis Kounellis, Senza titolo, 2011, scarpe, installazione nel Convento dei Servi di Maria a Monteciccardo, mostra Memoriale dal Convento (ph Michele Alberto Sereni)

Jim Dine, Shoe, 1961, olio su tela

‘incravattate’ di Tullio Pericoli, le ‘geografiche’ di Mario Nanni. Sono ormai passati alla storia dell’arte i disegni per le pubblicità delle scarpe di Warhol, quando ancora era un modesto illustratore di riviste di moda. Così come gli inquietanti stivaletti di Magritte nati dall’unione mostruosa di un piede umano e una calzatura in cuoio. L’autore con questa immagine ha voluto sollevare il problema della forza alienante delle convenzioni sociali (come il vestirsi) contrapponendole alla naturalità dell’uomo. La scarpa, che sembrerebbe l’oggetto più innocuo di questo mondo, secondo lui è una prigione buia che si frappone perennemente tra noi e il suolo privandoci di un contatto vitale e fondamentale. Appartenente all’immaginario pop è il dipinto Shoe di Jim Dine, esposto alla Biennale di Venezia del 1964 (che per la prima volta portò in Italia gli artisti della Pop Art americana dando nuovi stimoli alla ricerca), in cui campeggia centrale e laconica una scarpa sospesa su fondo neutro. Alcuni creativi, in linea con la loro poetica, hanno esaltato i valori simbolici delle calzature intese come traccia umana, come segni di vissuti da ricordare. Sarà Kounellis nel 2009 a utilizzare nella sua installazione al Castello di Rivoli una distesa di cappotti e scarpe vecchie che diventava pura drammaturgia, fatta di immagine e presenza. Ancora nel convento di Monteciccardo tre anni fa ha composto sul pavimento di una cella monacale una croce di calzature con cui ha saputo fondere l’atmosfera della quotidianità con quella spirituale. Alla fermata Dante della metro di Napoli è possibile imbattersi

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nella sua realizzazione site‘protetto’ un’anonima testa specific - molto suggestiva e con uno stivale di gomma, allo stesso tempo così materendendola enigmatica. riale - che su un’intera parete Se le calzature possono schiaccia e blocca più paia di assumere valori sociascarpe per mezzo di pesanti li, da sempre sono legate traversine di binari fissate al direttamente anche alla muro. creatività nei settori moda e Le scarpe sono diventate design. Nel Brooklyn Museum strumento di protesta e sendi New York è visitabile fino sibilizzazione per l’artista a febbraio Killer Heels - The messicana Elina Chauvet che Art of the High-Heeled Shoe, con la mostra itinerante Zamostra che esibisce l’arte delle patos rojos (“Scarpette rosscarpe intese non solo come Paul Chan, una veduta della mostra allo Schaulager di Basilea. In primo piano Arguments (dettaglio) se”) ha ricordato le vittime di con cavi e scarpe, dietro Volumes con 1005 copertine di libri dipinte (ph Wochenblatt Birseck/Dorneck, oggetto da sfoggiare, ma come Ciudad Juarez dove centinaia Edmondo Savoldelli; courtesy l’Artista e Greene Naftali, New York, © Paul Chan). esempio di scultura, architetdi ragazze sono state rapite, tura e cambiamento. Vi sono stuprate e uccise. Calzature femminili di colore rosso venivano siesposti più di 160 modelli di tacchi d’artista secondo una cronolostemate per le vie, nelle piazze, vicino ai monumenti delle città per gia che va dalle creazioni italiane del 1500 alla linea “Printz”, disedire stop alla violenza di genere. gnata da Christian Louboutin nel 2013, e pezzi di Elsa Schiaparelli Hanno fatto un insolito uso creativo delle scarpe anche il cinese di (in collaborazione con Salvador Dalì), Chanel, Tom Ford, Prada, Hong Kong Paul Chan il quale nell’esposizione dell’estate scorsa Alexander McQueen, Manolo Blahnik. allo Schaulager di Basilea ha affrontato temi di storia, letteratuUna delle istituzioni più curiose del mondo è proprio il Museo delra, filosofia ed esaminato criticamente le problematiche sociali del le Scarpe in Belgio in cui è possibile vederne più di 1200 esemplamomento, compreso l’utilizzo delle potenzialità del web, rielabori. Nata circa 25 anni fa dalla passione di una coppia di calzolai rando e interconnettendo i suoi eccessi informativi; Luigi Ontani belgi per l’arte contemporanea, la ricca collezione è cresciuta nel che, oltre a vestire abitualmente ‘personali’ calzature da lui ditempo attraverso il coinvolgimento di artisti famosi a cui è stato segnate (poi formalizzate in ceramica), nell’ibridare la scultura chiesto di donare vecchie scarpe indossate durante la creazione di con la letteratura, ha dato plasticità alla sua idea sullo scrittore una loro opera. Oggi sono presenti nomi celebri come Bill Viola, Gianni Rodari realizzando un Gia(n)no bifronte in cui ‘cita’ i suoi Claes Oldenburg, Gerhard Richter, Merce Cunningham e i nostri più apprezzati libri fino a un simbolico piede-scarpa a forma di Pistoletto, Cattelan, Mondino e Merlino. Il Museo contiene inoltre foglia di ortica per indicare il prurito intellettuale che stimola la una collezione di calzature “etnografiche” (più di 2700 paia procreatività; l’americano Willie Cole che ha formato una maschevenienti da 155 paesi), una di scarpe di designer, una di disegni ra con l’aggregazione di scarpe zebrate; Maurizio Cattelan che ha tratti dai fumetti e, per finire, una raccolta di testi d’autore.

Elina Chauvet, Zapatos Rojos, Ciudad Juárez, dicembre 2012 Azione dell’artista messicana in segno di protesta contro i crimini sessuali sulle donne.

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Scarpe esposte nella mostra al Brooklyn Museum di New York


di Falcioni Maria Rita

Via Fontecorata, 13 - MASSA FERMANA (FM) Tel. 0734.760506 eurofashion@alice.it


FALERONE TRA STORIA E ARTIGIANATO DELLA PAGLIA di Giuseppe R. Serafini

I

l museo civico conta all’incirca 300 reperti di età romanoimperiale. Trattasi per lo più di epigrafi, sculture, elementi architettonici, materiali fittili, anfore, mosaici ecc. La quasi totalità del materiale conservato in un’ala dell’ex convento francescano in Piazza della Libertà risulta di proprietà del comune di Falerone e proviene esclusivamente dal sito dell’antica Falerio Picenus o dal suo ager, di cui sono visibili soprattutto le antiche cisterne e i resti del teatro. Falerone trasse il nome dalla vicina Falerio, già colonia romana, fondata dai Velini. La limitata area del pianoro sul medio versante collinare a sinistra del fiume Tenna, nel periodo Augusteo, secondo la non facile ricostruzione dell’antica facies romana, venne segnata dall’impostazione urbanistica di una piccola ma ricca città. I soldati veterani di Ottaviano che vi furono insediati vivevano con i profitti delle coltivazioni tipiche di quell’epoca e sfruttando una manodopera costituita da liberti e, in piccola parte, da schiavi. L’epigrafe funeraria (CIL, IX, 5460), proveniente da Massa Fermana e custodita nella Pinacoteca del Comune, resta a testimonianza di insediamenti rurali romani dell’età imperiale e riporta il nome del giovanissimo Sermo (morto all’età di sei anni), figlio di uno degli schiavi di Apollonio, conduttore del podere. La fertilità della terra è sottolineata dal culto della dea del grano. Ben due esemplari in marmo raffiguranti l’antica Demetra greca sono conservati nel Museo Civico

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Vilicus Apolloni, epigrafe funeraria di Massa Fermana

Case costruite sui ruderi della città romana di Falerio Picenus e trecciaiole in una foto ricordo del 1903 (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone)

I contadini faleronesi, in occasione della festa del Santo Patrono, con carri agricoli votivi ricolmi di covoni, trainati dai buoi, transitano in sfilata per le vie del Paese (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone)

di Falerone: una statua acefala rinvenuta durante gli scavi del De Minicis e l’altra completa, trovata nel 1636 e già descritta dal Colucci. Le spighe di grano e la torcia accesa sono i simboli che caratterizzano l’iconografia della dea e rappresentano rispettivamente l’attività rurale e la stagione estiva. La presenza del culto di Cerere lascia pensare alla grande importanza che veniva attribuita alla produzione agricola della zona, incentrata in primo luogo sui cereali, ma anche sulla coltivazione di ulivi e viti. I contadini, che lavoravano soprattutto d’estate, indossavano cappelli di paglia da loro fatti a mano; erano esperti nell’intessere vimini, canne comuni e quant’altro offrisse il paesaggio agrario costituito da pascoli, selve e luoghi paludosi. Significativo il ritrovamento di una lapide del I secolo, proveniente dall’area archeologica e tuttora custodita nel Museo Civico di Falerone, scolpita in onore di Tito Cornasidio e di suo figlio T. C. Clemente che testimonia l’esistenza a Falerio Picenus di una corporazione di Centonarii (intrecciatori di stuoie), attratti probabilmente dalla morfologia del luogo. Da questa premessa storico-archeologica è facile intuire che, nella fascia compresa tra Falerio e il villaggio preromano di Massa collegati risalendo l’antica strada del pozzo e proseguendo per un breve percorso di cresta - la lavorazione della paglia per i cappelli rappresentasse una prerogativa per lo sviluppo economico. Da testimonianze archeologiche e fonti


documentarie le genti di quel territorio erano dedite soprattutto alla coltivazione del grano. Marco Terenzio Varrone nel De Re Rustica, ad esempio, ci parla della tecnica della mietitura del frumento in epoca romana diversa da luogo a luogo. Riguardo al Piceno scrive: “[…] si tagliano le spighe e si lasciano gli steli dritti sopra il terreno per essere falciati a fior di terra e utilizzati come foraggio e come strame per il bestiame”. Procedere nel percorso di ricerca rivolto alle origini del processo evolutivo dell’attuale sistema produttivo locale, evitando forzature, leggende e racconti fantasiosi, vuol dire restituire al territorio il senso di una identità che la storiografia ha ignorato probabilmente a causa delle limitate dimensioni del mercato. Tra la mietitura del grano e la cucitura a mano del cappello si susseguivano svariate operazioni tutte facilmente eseguibili dalla stessa persona. Il risultato finale era soddisfacente, ma già agli inizi del XVIII secolo, con l’introduzione di rudimentali torchi in legno per la pressatura, i cappelli di paglia cominciarono ad assumere un aspetto più strutturato e il commercio divenne più evoluto. Però è nel XIX secolo che, nonostante l’arretratezza generale dello Stato Pontificio, gli imprenditori di Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado e Falerone iniziarono a produrre per un mercato sempre più esteso. L’industria di trecce e cappelli, nella vallata medio alta del Tenna, non ebbe un immediato sviluppo, poiché la mezzadria, sistema di contratto agricolo molto diffuso nel Piceno, è stata il suo unico e irrinunciabile supporto. Il catalogo pubblicato dall’Accademia Agraria e Comizio Agrario Riuniti di Fermo (classe VIII - Industrie e Manifatture) nell’art. IV

riporta il seguente elenco nell’Esposizione provinciale agricola industriale ed artistica tenuta a Fermo nel settembre 1869: Cappelli di paglia lana e feltro Ruffini Maria, Falerone - cappelli di paglia fini saggi diversi - Detti grossi saggi c. s. Tomassini Margherita, Falerone Detti a trecciuola. Germani Giuseppe, Falerone Cappelli di paglia sopraffini saggi diversi. Deminicis Pietro Paolo, Falerone - Cappelli in paglia bianchi e colorati - D. ad uso panama Una foto degli anni Venti della Stazione ferroviaria di Falerone Piane - Bonetti -Ventole, Portazigari Sporte - Stuoie - Paglia bianca e colorata - Saggi di treccia. Società operaia, Falerone - Cappelli di paglia di vari colori e qualità - Portazigari - Sporte - Ventole - Sottolumi - Saggi di paglia - D. di trecce della medesima - Cappelli di paglia ricoperti di drappo in lana e tela cerata. (Macchine n. 4 per usi diversi nella fabbricazione dei cappelli di paglia). Quinzi Giovanni, Falerone - Cappelli di paglia di diverse qualità. Municipio di M. Vidon Corrado Trecce di paglia per cappelli di tre Viale della Stazione di Falerone Piane (anni Venti) (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone) qualità. Municipio di Montappone - Cappelli di paglia n. 24 qualità. Santucci Antonio, Massa Fermana - cappelli di paglia n. 13 qualità. Marini Giovanni, Ascoli Piceno Cappelli di feltro e lana bianchi e neri di qualità diverse. Nei primi vent’anni del XX secolo, nel comparto del cappello di paglia si fece avanti una nuova realtà. Tutti i commercianti e gli imprenditori, che prima avevano grosse difficoltà a spedire i loro prodotti, con l’avvento del trenino a vapore Adriatica-FermoAmandola (1908), la cui funzione 1914. Sede (in affitto) del cappellificio di Quinzi Domenico al pianterreno del Palazzo Enei in Largo era di raccogliere persone e merci Ferrer (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone) della vallata per il raccordo con le

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Ferrovie dello Stato, ebbero gran vantaggio nel convogliare e velocizzare le loro spedizioni dalla vicina stazione di Falerone Piane. A Falerone, nel 1911, troviamo registrati almeno 9 produttori di cappelli; si tratta di: Clemente Fenizi, Pietro Fermani, Giovanni Marconi, Giuseppe Marcucci, Vincenzo Marcucci, Tancredo Marini, Antonio Menichini, Valentino Sorgi, Giuseppe Zamponi. Dall’ “Indicatore del Circondario Città di Faleria negli anni Venti. A sx Gaetano Quinzi, a dx Giuseppe Ciccangeli di Fermo” risulta che a Falerone nel 1925 erano presenti 34 fabbriche per la lavorazione della paglia e 4 negozianti: Città di Faleria, Antognozzi Clemente, Antognozzi Giuseppe, Bravi Lino, Bucalà Giuseppe, Cardenà Lorenzo, Celi Enrico, Concetti Costantino e Gaetano, De Laurenti Emilia, De Minicis Giuseppe fu Venanzo, De Paolis Domenico, Enei e Bravi, Enei Fratelli, Eugeni Raniero, Feliciangeli Nazzareno, Fenizi Francesco, Fermani Gaetano, Giacinti Leandro, Giacinti Marino di Giuseppe, Giacinti Marino di Nicola, Marconi Guglielmo, Marconi Nicasio, Marconi Giovanni di Luigi, Marconi Giovanni fu Pietro, Marcucci Giuseppe, Marini Tancredo, Menechini Giuseppe, Croce di Cavalierato e medaglie auree conferite alla Ditta Giuseppe Quinzi David, Quinzi Giuseppe, Fermani di Falerone all’Esposizione Internazionale di Parigi del Quinzi Pietro, Romanella Naz1927 e alla Mostra “Du Confort Moderne de Paris” zareno, Ruffini Elvira, Tiberi Luigi, Zamponi Giuseppe. Negozianti: Cardenà Raffaele, Fermani Giuseppe, Fermani Pietro, Marcucci Giuseppe e Figlio. La Ditta “Città di Faleria” dei tre imprenditori Quinzi, Antognozzi e Ciccangeli, tra le tante sopra elencate, risulta essere stata la più importante. Nell’azienda fondata da Quinzi Domenico, ubicata presso il piano terra del palazzo Enei, nel 1914 entra in società AntognozCartolina dell’Industria delle cannucce di paglia IPSI di Piane di Falerone indirizzata a un cliente svizzero zi Angelo. La ditta neo costituita

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Quinzi & Antognozzi lo stesso anno viene trasferita dal Palazzo Enei a Largo Ferrer n. 26. Alla morte di Antognozzi Angelo ne prende il posto Ciccangeli Coriolano e nel 1919 in società con Quinzi acquistano il Palazzo Zara in Largo Marconi, 1 e nello stesso anno la ditta prende il nome di “Città di Faleria”. Nel 1961 Quinzi Domenico muore e per asse ereditario subentra il figlio Gaetano. Città di Faleria con Ciccangeli Coriolano e Quinzi Gaetano continua la propria attività. Nel 1967 a Ciccangeli Coriolano subentra il nipote Ciccangeli Giuseppe e la fabbrica chiuderà definitivamente nel 1982. Quando era da poco nato il movimento politico di Benito Mussolini, nel mercato nazionale, ad opera di Giuseppe Fermani di Falerone, si inseriva la cannuccia di paglia per sorbire bibite. Dopo un incredibile successo il Fermani pensò a una espansione europea. A tal proposito partecipò all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1927 ed alla Mostra “Du Confort Moderne De Paris” dove ricevette ambiti riconoscimenti: una “Croce di Cavalierato” e due “Medaglie Auree”. Così la Drinking Straw, per la sua riconosciuta e indiscutibile pregiata qualità, fu venduta, in mazzetti e “nude”, soprattutto in Francia, Germania, Svizzera, Austria, Inghilterra. Nell’ottobre del 1926, a Porto San Giorgio, La Ditta “Igienica” di Remo Tomassini, iniziò, per prima in Italia ad imbustare cannette di paglia per bibite con una macchina automatica. Successivamente Antonio Concetti di Piane di Falerone, nel 1928, con una macchina che fu acquistata in Austria, limitata alla sola produzione di tubetti di carta, incominciò a confezionare cannucce in bustine chiuse a mano con rotelle “zigrinatrici”. Verso la fine degli anni ’40, Concetti fondò la


I.P.S.I. (Industria Paglia Sterilizzata Igienica) e in quella occasione, acquistò la prima macchina Lerner per il confezionamento automatico delle cannucce di paglia. Nel 1950, per equalizzare e sostenere i prezzi di acquisto delle trecce di paglia sui liberi mercati settimanali locali e la vendita delle stesse agli abituali acquirenti della Toscana e del Veneto, fu necessario arrivare alla costituzione di un Consorzio tra tutti gli aderenti al Comparto. Gli imprenditori toscani e veneti non gradirono l’iniziativa dei commercianti marchigiani perché limitava la libera offerta. Lo stesso rifiuto lo ebbero le trecciaiole dei quattro paesi produttori che si videro standardizzare il prezzo degli acquisti. Il Consorzio “Unione Marchigiana Commercianti Trecce e Affini”, con sede a Falerone Piane, tra i tanti acquirenti che aveva sul mercato nazionale forniva ingenti quantità di trecce al Centro Grandi Invalidi di Schio (VI) in prevalenza per la produzione di utili cestini, orditi e tramati con trecce di paglia. Nel gennaio del 1952 Silvano Giubbilo di Falerone, dopo aver letto una relazione ufficiale antinfortunistica redatta dall’Ente Nazionale Prevenzione Infortuni, riguardante la rilevante percentuale di insolazioni riportata dalle mondine del vercellese (importante centro europeo per la coltivazione e produzione del riso) non perse l’occasione di comunicare la crisi della paglia nei centri facenti parte dell’elettorato del suo amico, l’allora sottosegretario del Ministero del Lavoro On. Umberto Delle Fave, proponendo l’acquisto di cappelli di paglia da far indossare ai mondariso durante il lavoro. L’idea fu felicemente accolta. Dato che esisteva da tempo la Ditta Ascenzo

Trecciaiola di Falerone (1931) (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone)

Cappello di paglia per i mondariso

Francesco Girolami, titolare dell’ultima fabbrica di cappelli di paglia a Falerone

Vecchi di Massa Fermana, produttrice di cappelli di paglia per uso agricolo, non fu difficile realizzare un modello idoneo da sottoporre come prototipo, in prospettiva di un’eventuale commessa da parte dell’ENPI che, approvato il campione, commissionò la prima fornitura da destinare alle mondine alla Ditta “Artigianato Marchigiano Paglia e Affini” dei F.lli Fermani di Piane di Falerone. L’idea, oltre alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, risolse la crisi delle trecciaiole, degli operai e di molti cappellifici locali con assegnazione di quote delle commesse in proporzione al numero delle loro cucitrici. Sempre nel 1952 a Piane di Falerone nacque la “Falerpaglia” per la fabbricazione di borse, cappelli di paglia e materie affini. La quasi totalità dei manufatti venivano destinati alle mondine, mentre le borse per uso week end erano confezionate esclusivamente per gli Stati Uniti d’America. Della “Falerpaglia” - il cui il titolare era Giammarino Giacinti in stretta collaborazione con Flavio Girolami - cancellata dal registro delle imprese il 29 settembre 1995, divenne proprietario Francesco Girolami che proseguì l’attività come ditta individuale. Grazie al suo know how, acquisito nel settore dei cappelli di paglia per signora, e alle idee innovative Francesco si è orientato verso un prodotto di alta qualità. Dopo aver lavorato per il rinomato cappellificio Francesco Bing di Firenze oggi realizza su commissione cappelli particolari per stilisti europei e asiatici. La “Francesco Girolami” è l’unica Azienda, rimasta a Falerone, che produce cappelli di paglia.

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TEATRO ROMANO DI FALERONE EPOCA DELLO SPLENDORE NELLA FALERIO PICENUS di Leonardo Stortoni

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ggi più che mai gli amanti della stodistinguere tre ordini: il primo, chiamato ria e della cultura sentono la necessità ima cavea, il secondo media cavea e il di scoprire i luoghi dimenticati, carichi di terzo summa cavea. Tutte le scalinate eraricordi e di significati, che un tempo rapno rivestite di lastre in marmo e si accedeva presentavano lo splendore e l’identità della ad esse tramite due ingressi a volta, laterali civiltà. Quei luoghi che, invece, in un’ottiall’orchestra, che fortunatamente sono ben ca sempre più consumistica ed astratta, reconservati, e quattro vomitoria, ovvero destano abbandonati a loro stessi e rischiano gli accessi diretti alle scalinate. L’edificio di trasformarsi in non-luoghi. scenico è a pianta rettangolare - composto Siamo alle pendici del Mons Falarinus, da un proscenio, il quale presenta delle l’attuale Piane di Falerone, all’indomani piccole nicchie sulle quali probabilmente delle Guerre Civili del 30 a.C. Il giovane erano apposte delle statue votive - e da un Ottaviano, non ancora Princeps Senatus, postscaenium, al quale si arrivava tramiIl Teatro romano di Falerone in un disegno del 1836 durante gli scavi diretti sente l’esigenza di sistemare i tanti uomini te due scalinate e che era sovrastato da un dai fratelli De Minicis (courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone) che, ormai anziani, non possono più comporticus post scaenam, ipotesi avallata dal battere al suo fianco; quegli stessi uomini che dimostrano il loro malconfatto che durante gli scavi furono notati, immediatamente dietro al palco, i tento e minacciano sommosse se non si provveda alla loro “colonizzaresti di alcune colonne e un pavimento fittile. zione”. È così che nel 29 a.C. egli ordina di procedere alla centuriazione Dalla seconda metà del secolo scorso la Sovrintendenza Archeologica ha dei territori del Medio Valtenna e alla costruzione di una piccola città per effettuato diversi interventi di restauro, soprattutto per quanto riguarda la sistemarvi i suoi veterani. cavea. Si stima che essa avesse una capacità massima di circa 1600 posti. Su quei ruderi, che ancora ci parlano di una splendida città e di una straAl tempo dei Romani il Teatro di Falerone era simbolo delle esperienze e ordinaria storia, nacque Falerio Picenus. Molte sono le ipotesi di come fosse delle attività umane. Ad esso si entrava gratuitamente, poiché gli spettastrutturato il suo impianto urbanistico ma, per dovere di sintesi, giova sacoli erano offerti dai ricchi signori della Falerio Picenus. Era un luogo di pere che, come in tutte le città romane, il “Cardine” attraversava la città da scambio, non commerciale, ma intellettuale, in cui tutti erano, anche se nord verso sud incrociandosi a formare un angolo retto con il “Decumano”, per poco, equivalenti tra loro; un luogo in cui era ben radicata l’identità a ponente del quale sorgeva un anfiteatro, a levante un magnifico teatro. della cittadinanza. Proprio all’interno della zona archeologica più estesa della Regione MarCome accade per tutti i monumenti storici italiani, anche la conservazione che sorge il Teatro Romano di Falerone, oggetto di diverse campagne di di questo Teatro presenta diverse difficoltà a causa delle scarse risorse che scavi, le più importanti delle quali sono certamente quella del 1777, efvi possono essere investite. fettuata per volere di Papa Pio VI, e quella del 1836, voluta dai fratelli De Durante il periodo estivo è sede di una stagione teatrale che vanta una Minicis, che portò interamente alla luce la costruzione. Originariamente storia oramai ventennale. il Teatro era circondato da 22 pilastri ai quali erano addossate delle semiCome altri luoghi simbolo della civiltà passata, anche questo Teatro, purcolonne in stile ionico-corinzio, che fungevano da sostegno per il terzo troppo, rischia di diventare sempre più un nonluogo, uno spazio di transito, ordine (oggi crollato) e che davano vita a un portico attorno al perimetro di attraversamento; pensato a prescindere dalle relazioni, non identitario, del Teatro stesso. La cavea ha un diametro di circa 49 metri e si possono in cui non ci si riconosce come appartenenti.

Veduta panoramica del Teatro romano

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CONTRIBUTO DELLE DONNE ALL’INDUSTRALIZZAZIONE DELLE MARCHE di Olimpia Gobbi

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hi vive nel distretto del cappello sa che le radici della sua nascita e della sua prosperità sono femminili. Come ci dicono infatti le indagini statistiche dell’epoca, delle 2000 persone che nel 1863 a Falerone fabbricano circa 300.000 cappelli di paglia, la gran parte è costituita da donne e dei 921 lavoratori che nel 1862 a Montappone risultano dedicarsi interamente a quell’industria 597 sono di genere femminile. Ma non bastano i numeri. Le ragioni del successo dei cappelli marchigiani vengono indicate dagli osservatori del tempo nella finezza della loro lavorazione, specie della cucitura delle trecce, paragonabile a quella di Firenze e tutta dovuta alla notevole abilità delle donne del territorio ed ai loro antichi saperi. Se questo raffinato saper fare non avesse fatto parte del loro patrimonio culturale, il distretto del cappello probabilmente non sarebbe nato o non avrebbe retto il confronto con il mercato. La difficoltà della storiografia a mettere in evidenza il protagonismo del lavoro femminile nei processi di modernizzazione economica delle Marche e nel loro passaggio dall’economia agricola a quella industriale risulta più evidente se si guarda al vicino distretto calzaturiero. Anche in questo caso le statistiche e le relazioni che gli amministratori locali inviano al governo centrale subito dopo l’unificazione nazionale rappresentano con nettezza lo strategico ruolo femminile nella nuova industria. Il sindaco di Montegranaro, ad esempio, nel 1861 oltre ad informare che nel suo Comune si fabbricano 120.500 paia di pantofole e babbucce sottolinea non solo come queste vengano esportate fino a Costantinopoli, ma soprattutto che esse “sono encomiate per la ricchezza e finitezza dei ricami e dei disegni” perché “talune sono fabbricate con pelli verniciate a vari colori… Ma la maggior parte sono tessute con fettucce di lana a vari colori e foderate da pelliccia”. Ed aggiunge che alla fabbricazione di tali tomaie si dedica “tutta la popolazione delle donne”. È dunque la bellezza e la creatività del prodotto, la sua realizzazione originale

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Montappone 1925. Operaie al lavoro, reparto cucitrici in una fabbrica di cappelli (courtesy Biblioteca Statale di Macerata, foto Balelli n. 1559).

Ripani di umili origini (da L’Immagine del Piceno, Maroni Editore, 1987)


così diversa dalle seriose scarpe di cuoio della calzoleria maschile tradizionale a decretarne il successo; motivato anche dal prezzo, più basso, e quindi accessibile pure ai ceti meno abbienti, per il minor costo non solo del lavoro femminile ma del materiale utilizzato, certamente non di pregio (filati, lane, pellami di seconda qualità e per questo verniciati, pezzetti di pelliccia) ma lavorato fantasiosamente e arricchito di ricami. Alla base c’è la capacità tutta femminile di valorizzare gli scarti e le materie prime di recupero, marginali rispetto alle economie maggiori. Una capacità che le marchigiane hanno sviluppato nei secoli anche all’interno del sistema mezzadrile dove restano fuori dalla regolamentazione del patto colonico e, dunque, dal controllo padronale, molti prodotti minori che le donne sono riuscite invece a mettere a valore facendone spesso una voce importante per l’economia familiare: piccoli animali da cortile (piccioni, conigli), erbe officinali (bacche di lauro, camomilla, corteccia di quercia, sostanze tintorie, erbe medicinali), prodotti di recupero (spigolatura, paglia, fecce di botte, pelle e pellicce di animali mattati). La valorizzazione di questi prodotti ha fatto crescere nel tempo una ricca sapienza femminile non solo botanica, zootecnica e commerciale, ma anche manifatturiera. D’altra parte, le industrie domestiche a cui le donne si dedicano fino a tutto l’Ottocento non producono soltanto manufatti di uso quotidiano e di bassa qualità. I 6930 telai che risultano attivi nel 1892 nell’allora Provincia di Ascoli Piceno, comprendente anche il Fermano, lavorano tessuti vari di lana, cotone, lino e canapa, maglieria e passamani destinati non solo all’autoconsumo ma anche al mercato. Per coperte e tovaglie di maggior pregio si pratica la tecnica a liccetti che richiede notevole maestria nell’uso del telaio e permette di realizzare disegni geometrici, di soggetti floreali e animali stilizzati secondo le forme in uso fin dal Quattrocento. Sono sempre le donne a usare le macchine tessili più complesse che arrivano dall’estero: nel 1861 l’unico telaio meccanico Jacquard presente in provincia lo usano in Ascoli le monache del Conservatorio dei Santissimi Angeli Custodi, una sorta di piccola industria dove, in aggiunta alla macchina francese, lavorano 12 telai tradizionali e 31 tessitrici. È questo fitto impiego di lavoro femminile, con le relative competenze e capacità, che spiega la centralità delle donne nelle attività “industriali” che segnano la transizione verso il Novecento.

Aia di un podere dei Marchesi Bruti Liberati a Ripatransone nel 1909. Le donne con forconi e rastrelli aiutano gli uomini a raccogliere semi di lupinella (sulla) e di favino (veccia) per sfamare il bestiame (da L’Immagine del Piceno, Maroni Editore, 1987)

Donna al lavoro su un antico telaio

Tessuto di pregio realizzato con la tecnica “a liccetti”

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Alla statistica del 1891 nell’industria tessile della provincia di Ascoli Piceno, riferita ai settori della bacologia, della trattura della seta, tessitura, imbiancatura e tinteggiatura, cordami, lavorano 1431 addetti di cui 1382 donne. Non solo. Anche nelle esposizioni industriali sia nazionali che territoriali i prodotti del lavoro femminile ricevono appositi spazi e opportuna visibilità per la consapevolezza che essi costituiscono settori rilevanti ai fini della modernizzazione del sistema economico italiano. Con tale finalità nel 1871 a Firenze viene dedicata un’esposizione alle attività femminili e, come mostra la tabella, i lavori esposti dalle marchigiane sono quelli su cui si svilupperanno rami importanti dell’industria manifatturiera regionale: cappelli, calzature, tessile e abbigliamento. Oltre a mostrare che i processi di industrializzazione non siano frutto esclusivo del lavoro maschile, la storia marchigiana smaschera altri pregiudizi, ad esempio quelli relativi al rapporto delle donne con la tecnologia (le macchine sono affare degli uomini). Basti pensare che nei 50 e più stabilimenti bacologici attivi fra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento nell’Ascolano, dove si produceva seme bachi esportato in tutta Italia e all’estero, la selezione delle farfalle sane, utili all’accoppiamento, e del seme sano da immettere sul mercato, avviene al microscopio ed è affidata esclusivamente a donne. Si tratta di un lavoro che richiede qualificazione, capacità di usare uno strumento (il microscopio) ad alto contenuto simbolico e di innovazione e che, soprattutto, è cruciale per l’economia del processo produttivo e per il successo dell’intero ciclo di lavorazione. È efficace a dimostrare che nella fase nascente dell’industria le donne hanno gestito direttamente la relazione con le nuove tecnologie - non solo usandole, come avviene per il microscopio o per la macchina da cucire, ma anche progettandole - quanto fa Flavia Giaccaglia di Macerata: una produttrice di coperte a tessitura meccanica in grado di inventare e costruire un apposito telaio che nel 1905, all’Esposizione regionale marchigiana di Macerata, “desta l’attenzione di tutti per la sua utilità e facilità d’impiego”; e per questo riceve il secondo premio, con medaglia d’argento, nella sezione Meccanica ed elettricità. Ma le marchigiane non si limitano a misurarsi con le macchine e a dar vita con i loro saperi a nuove manifatture. Affrontano anche l’avventura dell’emigrazione sfatando l’altro radicato

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Fiera a Ripatransone nel 1903: li fémmënë vendono rotoli di stoffa, tessuta da loro, da cui confezionare lënzola, tévagghie, mantilë, sparrù e ’uarniéllë (da L’Immagine del Piceno, Maroni Editore, 1987)

PRIMA PRIMA EESPOSIZIONE SPOSIZIONE N NAZIONALE AZIONALE D DI I LLAVORI AVORI FFEMMINILI. EMMINILI. FFIRENZE IRENZE 1 1871 871 avori p provenienti rovenienti d dalle alle M Marche arche I I llavori Borsetta Veli Borsetta p per er rreliquie eliquie Veli d da a ccappelli appelli Camicie Pantofole Camicie rricamate icamate Pantofole Capi Pantofole rricamate icamate Capi d d’abbigliamento ’abbigliamento vvario ario rricamati icamati Pantofole Cappelli Seta Cappelli Seta ffilata ilata ee ccolorata olorata Cravatte Tappeti Cravatte Tappeti Cuffie Tela Cuffie Tela p per er vvele ele Fazzoletti Tessuti Fazzoletti Tessuti iin n ccotone, otone, iil l llana, ana, iin n d damasco amasco Nastri Merletti Nastri b bianchi ianchi ee ccolorati olorati Merletti Veli Merletti Veli iin n sseta eta ccolorati olorati Merletti aa ttombolo ombolo Tabella Tabella d dei ei llavori avori d delle elle m marchigiane archigiane eesposti sposti aa FFirenze irenze n nel el 1 1871 871

Microscopista nello Stabilimento Bacologico Ferri di Ascoli Piceno (courtesy ASICAP)


pregiudizio secondo cui a partire per ragioni economiche siano gli uomini mentre le donne restano a casa. Invece non solo nubili e vedove, ma anche donne sposate lasciano il loro paese d’origine e la loro famiglia per andare a lavorare altrove. Le marchigiane, anzi, si immettono già nella seconda metà dell’Ottocento in flussi migratori specializzati tutti al femminile, andando a fare le operaie nelle fabbriche tessili di Avignone, Marsiglia, Lione, o le domestiche e le balie in Egitto presso le famiglie della borghesia internazionale che, dopo la costruzione del canale di Suez, è attiva ad Alessandria e a Il Cairo. Dalla provincia di Ascoli Piceno, precisamente da Ripatransone, soltanto nel quindicennio 18991913 vanno in l’Egitto 149 donne. Esse, in piccoli gruppi di compaesane guidati da emigrate già inserite nel luogo di arrivo, raggiungono in treno il porto di Ancona e da lì si imbarcano a bordo del piroscafo “Nilo”. Alcune non torneranno più al luogo di origine, altre ritorneranno e ripartiranno più volte, in una sorta di pendolarismo generalmente interrotto dal matrimonio, altre infine chiuderanno l’esperienza migratoria non appena raggiunto l’obiettivo per cui sono partite. È il caso, ad esempio, di Giuseppina Mazza, che subito dopo la nascita della prima figlia, va al Cairo a fare la balia. Grazie alle ottime paghe, al rientro, dopo circa tre anni, potrà acquistare la casa a fianco della bottega del marito calzolaio e, chiudendo definitivamente la parentesi emigratoria, riprendere l’ordinaria vita matrimoniale mettendo al mondo altri cinque figli e garantendo alla famiglia, come molte altre ripane emigrate in Egitto, quella promozione sociale che in patria gli uomini non erano in grado di assicurare.

Corso di taglio e cucito agli inizi del Novecento

Giuseppina Mazza di Ripatransone durante il suo baliatico a Il Cairo, 1905-1908. La foto è scattata nel prestigioso studio di Gabriel Lekegian ubicato di fronte all’Hotel Shepheard’s, uno dei simboli della belle époque nella capitale egiziana.

L’elegante contesto dell’Hotel Shepheard’s de Il Cairo in cui è stata fotografata Giuseppina Mazza

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Maria Cristina Crespo: Musa tra le Muse danzanti di Stefania Severi

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aria Cristina Crespo, oltre ad essere una giornalista - tra l’altro collabora con “Hat” e con “Rai International” - è una raffinata e cólta artista, cólta non solo perché ha fatto studi ad ampio raggio, ma perché per le sue opere si ispira preferibilmente a contenuti storici, letterari, poetici, culturali, musicali che spaziano dal medioevo all’attualità, dal mito alla storia. Per le realizzazioni più recenti, vasi-ritratto-busti in ceramica policroma, ha approfondito il mondo delle donne danzatrici che hanno ruotato attorno a Gabriele D’Annunzio. Il Vate, infatti, amava tutte le forme espressive legate al teatro, alla danza, alla musica e al cinematografo. Basti pensare alle sue tragedie, tra le quali primeggia La Fiaccola sotto il moggio e al film Cabiria, da lui in parte sceneggiato nel 1914. Molte furono le donne che egli amò, attive in tali ambiti, prima tra tutte la celebre attrice Eleonora Duse. Tombeur de femmes, ospitava le signore nella sua villa di Gardone dove faceva trovare loro camicie da notte e vestaglie intonate alla tappezzeria della camera da letto loro assegnata. Proprio al mondo delle “Dannunziane” ha guardato la Crespo nel preparare una serie di vasi-ritratti e disegni destinati a confluire sia in un libro, edito da Campanotto, sia in una mostra al Museo Casina delle Civette di Villa Torlonia a Roma. L’infaticabile e sensibile direttrice del Museo, Maria Grazia Massafra, ha trovato le opere della Crespo perfettamente integrabili con la Casina, che è una costruzione Liberty e si colloca pertanto in pieno clima dannunziano. Mostra e libro hanno lo stesso titolo: Il giardino delle Muse danzanti: le Dannunziane. Le opere in ceramica sono pezzi unici a tre cotture, modellati a mano, e si completano con i fiori che trovano alloggiamento nel vaso stesso; fiori particolari, legati all’epoca Liberty, quali l’iris, il glicine, la peonia, la rosa selvatica, l’orchidea e la camelia. Nel suggestivo allestimento espositivo, curato dagli architetti Pier Paolo Alma e Monica Petrungaro, i manufatti dialogano coi fiori di cui è ricca la Casina delle Civette dove “sbocciano” su vetrate, pavimenti, stucchi, pitture parietali e crescono rigogliosi nel giardino circostante. Chi sono queste muse danzanti? Conosciamone alcune. La più affascinante è la Marchesa Luisa Casati di cui d’Annunzio scrisse: “l’unica donna che io abbia veramente ammirato”. Di lei, che si serviva dal sarto Ertè, sempre elegantissima ed eccentrica, rimangono almeno 120 ritratti, che si fece fare da ogni genere di artista. Diaghilev, impresario dei Balletti Russi, in tournée in tutto il mondo in quegli anni, la chiamò sul palco a interpretare se stessa. Avrebbe voluto essere un’opera d’arte vivente e ci riuscì. L’orchidea d’oro è il suo fiore, un’orchidea impossibile. Tutto, infatti, in lei era

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La Marchesa Casati

La Bella Otero

Olga Koklova

artificio, perfino gli uccelli vivi che sceglieva albini per poterli far colorare a seconda dei vestiti indossati. Legata a Diaghilev era anche Ida Rubinstein, eccelsa danzatrice russa dal fascino particolarissimo, protagonista de Le Martire de Saint Sebastien, poema scritto da d’Annunzio in francese, musicato da Claude Debussy e portato in scena a Parigi nel 1911. Ida, che ebbe un profondo legame con d’Annunzio, il quale dopo la morte della Duse era andato a vivere a Parigi, interpretava il ruolo maschile del martire; non a caso il suo vaso-ritratto-busto è detto “dell’Androgino”. Amante di d’Annunzio fu anche la Bella Otero, ballerina spagnola, étoile alle Folies Bergère, prima star del cinema muto e cortigiana, amante di tutte le più importanti teste coronate della sua epoca. La Crespo indirizza la sua attenzione anche a danzatrici che il Vate conobbe senza divenirne amante - almeno non se ne hanno riscontri - come Cleo de Merode, Mata Hari, la danzatrice futurista Giannina Censi e Olga Koklova che era nella compagnia di Diaghilev e divenne la prima moglie di Picasso, incontrato a Roma durante una tournée nel 1917. La Crespo dedica un vaso-ritratto-busto anche a un uomo, Jean Cocteau, che scrisse il poema Parade, musicato da Erik Satie, e rappresentato dalla compagnia di Diaghilev con scene di Picasso, nella circostanza aiutato da Fortunato Depero. Il balletto fu concepito a Roma, dove iniziarono le prove e la realizzazione delle scene, ma la prima si tenne a Parigi. Insomma la mostra e il libro non solo affascinano per la suggestione dei lavori ma perché riportano d’attualità un’epoca che non a caso fu definita “La Belle époque”, destinata a terminare con la prima guerra mondiale, quando già si facevano strada nuove forme espressive. Ma perché la Crespo ha creato queste fascinose opere? Intanto c’è da sottolineare che da tempo produce vasiritratto-busti avendone dedicati ad artisti come Van Gogh, al quale ovviamente ha abbinato i girasoli, e a scrittori. L’autrice predilige questi vasi-ritratto perché costituiscono una sorta di rivisitazione dei vasi-testa tipici della ceramica popolare siciliana, da lei amata e particolarmente studiata. L’ammirazione per d’Annunzio le deriva da una lunga frequentazione di Gardone, del Vittoriale, della villa del Poeta, e del lago di Garda in genere. Da donna-artista investiga da sempre il mondo femminile, presente in molte delle sue opere. Ultima, ma non ultima, la passione, di cui pochi sono a conoscenza, per la danza. Infatti è un’interprete più che amatoriale di danza del ventre, la danza per eccellenza della seduzione. Miscelate tutti questi “ingredienti” ed ecco la genesi di queste seducenti danzatrici.


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MARIA LAI: ARTISTA SCIAMANA di Stefania Severi

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aria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013) è stata un’artista sciamana. La sua infanzia fu segnata da una complessione fisica gracile che indusse i genitori a mandarla d’inverno in campagna, presso degli zii. La piccola ricevette un’educazione non convenzionale e trascorse quegli anni in grande solitudine. Venne poi iscritta a scuola a Cagliari dove il suo maestro d’italiano, Salvatore Cambosu, comprendendone la sensibilità e le difficoltà, la indirizzò verso lo studio della poesia e del latino. Maria era di famiglia benestante e culturalmente aperta; aveva un carattere deciso e intraprendente. Lasciata la Sardegna, si iscrisse al liceo artistico di Roma, in seguito si trasferì a Venezia, dove frequentò l’Accademia di Belle Arti ed ebbe come insegnante di scultura Arturo Martini. Nel 1945 tornò in Sardegna dove Maria Lai si dedicò all’insegnamento nelle scuole primarie e rinnovò l’amicizia con Cambosu, il suo vecchio maestro. Andò ad abitare a Roma nel 1954, spinta dal desiderio di lasciarsi dietro le spalle la tragica morte del fratello che era rimasto ucciso per sfuggire a un sequestro. A Roma, dove si manteneva insegnando, il suo lavoro - prevalentemente disegni dal tratto deciso - venivano apprezzati da Gasparo del Corso e da sua moglie Irene Brin, che le organizzarono la prima personale nella loro Galleria, L’Obelisco, conosciuta all’epoca per gli scambi con gli Stati Uniti. Era il 1957 e arrivarono la notorietà e il successo. Ma Maria voleva creare libera da impegni col mercato dell’arte e si ritirò Tenendo per mano il sole, 1983, tela cucita e collage di stoffe per quasi un decennio a lavorare appartata. In quel periodo frequentò lo scrittore Giuseppe Dessì, che abitava vicino alla sua casa, anch’egli sardo e di dieci anni più vecchio, che alimentava il suo verismo tragico con il sentimento lirico e le atmosfere mitiche della terra d’origine. Grazie a lui Maria si riappropriò della sua Sardegna. L’amore per i miti e le leggende sarde è stato in lei sentimento adulto, nato in una cornice di profonda cultura. Ma erano anche gli anni in cui ella guardava all’Informale e all’Arte Povera. Nascevano così i suoi telai e i suoi pani. Partendo da questi due elementi tipici della realtà contadina ed entrambi affidati alle mani delle donne, Maria prese a realizzare telai ‘impossibili’ e ad impastare il pane in varie forme, tra cui quella di un neonato. Nel 1971, anno funestato dalla morte dell’altro suo fratello in un incidente aereo, esponeva i telai alla Galleria Schneider di Roma con presentazione di Marcello Venturoli. Nel 1976 aveva inizio la sua collaborazione con Angela Grilletti Migliavacca, della Galleria Arte Duchamp di Cagliari, che diverrà sua curatrice personale. Nel 1978 la storica dell’arte Mirella Bentivoglio la portava alla Biennale di Venezia. Negli anni ‘80 si è dedicata alle “geografie” ed ai “libri cuciti”, utilizzando in chiave creativa il mezzo della macchina da cucire e del ricamo a mano, ancora una volta un legame preciso con il lavoro delle donne. Sempre Telaio, 1965, legno, fili di lana, pelliccia, tela (courtesy Nuova Galleria Morone, Milano; ph Studio Vandrasch) in quegli anni dava vita ad operazioni sul territorio. Infatti voleva

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che l’arte modificasse il modo di sentire delle persone. Ed è ciò che ha saputo fare col suo paese, Ulassai, che sorge a ridosso di massicci rocciosi detti “Tacchi”, sotto la minaccia di crolli. Cosa che da sempre ha fortemente segnato i suoi abitanti. Nel 1981 Maria ha dato vita alla performance Legarsi alla montagna. Ha disposto rotoli di stoffa azzurra al centro del Paese e ha invitato gli abitanti a ridurre la stoffa in tante strisce e a legarle alle case, entrando ed uscendo da porte e finestre. Infine degli scalatori le hanno collegate con la montagna. Per molti mesi queste strisce hanno stabilito un patto di solidarietà tra gli abitanti, le loro case e la montagna stessa. Maria è diventata nel tempo famosa anche all’estero, pur rimanendo la donna schiva e semplice della gioventù. Si è legata di amicizia coll’artista Guido Strazza, coinvolgendolo in alcune realizzazioni a Ulassai, e con Bruno Munari, di cui condivideva il concetto di “arte per tutti”. La sua è stata un’arte “relazionale”, in grado si attivare un processo di cambiamento. Ulassai è profondamente mutata da quel fatidico 1981, con presenze d’arte contemporanee sui muri e nelle strade che attirano turismo culturale. Inoltre, nel 2006, la vecchia stazione ferroviaria, dismessa negli anni ‘50, è stata interamente ristrutturata e trasformata nella “Stazione dell’Arte”: un museo di arte contemporanea che raccoglie ed espone le opere più importanti e significative di Maria. Lei, più minuta e gracile, ma sempre fortissima, ha continuato a lavorare fino agli ultimi giorni nello studio di Cardedu. Ma perché chiamarla artista sciamana? Per la sua funzione di mediatrice tra il mondo visibile e l’invisibile e per la sua capacità di collegare la realtà al mondo del mito e della leggenda. Non a caso è stata definita una jana, fata tipica della Sardegna. Jana in quanto ha ribadito l’importanza dei ruoli della donna come creatrice, come depositaria della saggezza antica, come custode dei misteri della natura. Gli sciamani hanno sempre svolto il ruolo di intermediari ed ella lo è stata tra passato e presente, tra mondo degli uomini e mondo delle donne, tra umanità e natura. Nell’aprile 2013, pochi giorni prima della scomparsa di Maria, “alfabeta2” n. 28 è uscito interamente illustrato con sue opere e la critica d’arte Manuela Gandini ha dedicato un lungo articolo alla sua attività. Numerose manifestazioni sono state attuate dopo la sua morte e nell’estate scorsa la Sardegna le ha dedicato tre mostre: a Cagliari, nel Palazzo di Città, è stata ordinata un’antologica (10 luglio-2 novembre); al MAN di Nuoro hanno trovato spazio soprattutto i libri cuciti, i telai e le terrecotte, in un allestimento arricchito da documenti video e dallo scenografico intervento dello stilista Antonio Marras, autore di un commovente omaggio all’artista in forma di installazione (11 luglio-12 ottobre); a Ulassai sono state predisposte visite guidate nei luoghi dell’Artista. Maura Picciau, direttrice del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, nel corso di una conferenza dedicata all’artista il 7 ottobre scorso, annunciando che una sua opera sarà esposta nel Museo nell’ambito della mostra di Fiber Art Off Loom (II edizione), da lei curata insieme a Bianca Lami e Lydia Predominato, ha sottolineato il ruolo fondamentale della Lai nella definizione della Fiber Art.

Paesaggio al vento, 1977, materiali vari (courtesy MAN Nuoro, ph Pierluigi Dessì Confinivisivi)

Senza titolo, 1979, tessuto e filo su carta (courtesy MAN Nuoro, ph Pierluigi Dessì Confinivisivi)

Telaio soffitto, installazione nel Lavatoio di Ulassai (courtesy MAN Nuoro, ph Pierluigi Dessì Confinivisivi)

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PREMIO “PIER LUIGI GAIATTO” di Anna Maria Novelli

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l 17 maggio scorso, presso l’Antica Biblioteca del Collegio Marconi di Portogruaro, si è tenuta la manifestazione della seconda edizione del Premio “Pier Luigi Gaiatto” in memoria del giovane musicologo tragicamente scomparso, a soli trent’anni, in un incidente di montagna il 1° maggio del 2009. I familiari - in collaborazione con la Fondazione “Ugo e Olga Levi” di Venezia e il Centro Studi e Ricerche “Giovanni Tebaldini” di Ascoli Piceno - nel 2011 hanno voluto istituire un premio biennale di 4000 euro destinato a ricercatori che abbiano condotto studi originali e inediti sulla musica sacra. La Commissione giudicatrice nel 2012 aveva prescelto il Professor Andrea Guerra di Pordenone per la tesi di laurea su Musica sacra e arte organaria tra Ottocento e Novecento attraverso la stampa cattolica udinese (1868-1917), discussa nel 2009 all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Quest’anno i lavori presentati da studiosi operanti in diverse regioni italiane sono stati 12. La giuria, formata da esperti del settore, ha premiato la tesi di dottorato Produzione musicale e pratiche sonore nelle chiese palermitane fra Rinascimento e Barocco di Ilaria Grippaudo, discussa nel 2010 a “La Sapienza” di Roma. La Dott.ssa Luisa M. Zanoncelli, presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Levi, dopo aver ricordato le finalità del Premio, ha evidenziato la qualità delle ricerche ed ha lodato l’ampio e rigoroso lavoro della giovane siciliana che,

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Pier Luigi Gaiatto

Al centro Andrea Guerra, vincitore del “Premio Gaiatto” 2012, accanto Angelo e Gabriella, genitori di Pier Luigi; sulla destra Anna Maria Novelli (ph L. Marucci)

analizzando le fonti d’archivio, ha indagato sulla musica liturgica eseguita a Palermo, anche in riferimento al contesto sociale. I professori Roberto Calabretto, docente di Storia della Musica e di Musica per Film all’Università di Udine, e Franco Colussi, Presidente dell’USCI (Unione Società Corali) Friuli Venezia-Giulia, hanno focalizzato le peculiarità delle ricerche di Romano Vettori e Claudia Caffagni, segnalati rispettivamente per il saggio Norma e prassi della musica sacra nell’Accademia Filarmonica di Bologna e per una nuova edizione critica della Missa Saint Jacobi di Guillaume Du Fay, dal codice Q15 del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna. Chi scrive, in rappresentanza del Centro “G. Tebaldini”, ha rievocato il costruttivo rapporto tra l’Istituzione da lei diretta e Pier Luigi Gaiatto, iniziato nel 2005. Grazie anche al Professor Antonio Lovato, suo docente dell’Università di Padova - all’epoca Presidente del Comitato scientifico della “Fondazione Levi”- fu progettato di dare avvio alle ricerche per redigere il Catalogo tematico delle composizioni di Tebaldini e l’incarico fu affidato a Gaiatto che portò avanti l’impegnativo lavoro con grande partecipazione. Seguirono - sempre in osservanza delle indicazioni metodologiche del professor Lovato - studi sull’azione interdisciplinare di Tebaldini con significativi scritti per interventi in convegni e pubblicazioni. È stato ricordato che Pier Luigi era penetrato con grande partecipazione


e competenza nell’estetica tebaldiniana, dalle motivazioni concettuali e artistiche a quelle umane e spirituali. Era giustamente ambizioso, dotato di intelligenza pronta, di preparazione solida. Nutriva una vera passione per le ricerche musicologiche che conduceva con dinamismo, metodo e precisione, attraverso accurate analisi e originali intuizioni. Non si accontentava di praticare territori già esplorati, ma scopriva aspetti inediti senza mai ignorare la storia, usando scrupolosamente le fonti e un linguaggio specialistico. Insomma, in lui la spontaneità e l’entusiasmo della giovane età si combinavano con il rigore professionale del ricercatore responsabile. Oltre alla perdita prematura di una vita umana, in cui i familiari e quanti lo frequentavano riponevano grandi speranze, con Pier Luigi è venuto a mancare un talento geniale e affidabile dalla

La manifestazione del Premio “Pier Luigi Gaiatto” (seconda edizione) nella Biblioteca Antica del Collegio Marconi di Portogruaro

forte identità, quando era già più che una promessa per il divenire della cultura musicale. È stato un piacere constatare come i partecipanti abbiano onorato il suo nome con lavori altamente qualificati. Quindi, si invitano quanti fossero interessati a prepararsi per il prossimo bando che presumibilmente verrà diramato entro il primo semestre del 2015. Ad arricchire la serata hanno contribuito intermezzi musicali del Coro polifonico “Città di Pordenone” (lo stesso a cui Pier Luigi prestava la sua voce), diretto dal M° Mario Scaramucci, con brani di Bartolomeo Tromboncino (1470 ca - dopo il 1535), Anton Bruckner (1824-1896), Giovanni Tebaldini (1894-1952), Giorgio Federico Ghedini (1892-1965) e dei contemporanei Gianmartino M. Durighello (1961), Mark A. Lowry e Buddy Greene (statunitensi).

Ilaria Grippaudo, vincitrice del Premio 2014

La Dott.ssa Luisa M. Zanoncelli illustra i lavori dei partecipanti al Premio. A sx il Prof. Roberto Calabretto; sulla destra i docenti Anna Maria Novelli e Franco Colussi (ph L. Marucci).

Esibizione del Coro polifonico “Città di Pordenone” diretto dal M° Mario Scaramucci

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Grazia e stile di donna

L’ARTE DI PORTARE LO SCIALLE di Rita Zallocco

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el centro storico di Loro Piceno, all’interno del Palazzo settecentesco prospiciente piazza Matteotti, con il consenso del Sindaco Ilenia Catalini, ho allestito nella Sala Consiliare una mostra intitolata Gli Scialli... di una volta. In realtà lo scialle esiste da sempre, fin dalla nascita della storia del tessuto e del costume, e come un pezzo di stoffa lo si poteva drappeggiare intorno alla testa o al busto. Verso la fine del XVIII secolo lo scialle, usato come capo di abbigliamento, assume una nuova identità divenendo simbolo di stile ed elemento indispensabile all’eleganza femminile. Trascurando tutta la sua evoluzione storica, lo scialle, un tempo adoperato nella quotidianità, oggi è tornato incredibilmente di moda, sia nella versione vintage, sia in modelli più moderni, come accessorio indispensabile nel guardaroba di ogni donna. Nella mostra ho voluto esporre scialli in lana, eseguiti all’uncinetto, esemplari in tessuto leggero e delicato come la seta, con ricami floreali o con stoffe stampate arricchite di perle. Insomma, ho curato l’esposizione nei particolari, in modo che ogni pezzo risultasse unico nel suo genere e rivelasse il proprio fascino. La grande varietà dei manufatti esposti - scialli a rete di seta con fiori ricamati applicati sopra; di merletto completamente lavorati a mano; in lana, impreziositi da lunghe frange... - ha testimoniato gusti e lavorazioni gradevoli. L’evento, accompagnato dalle note di una musica revival anni 70/80, ha suscitato grande interesse tra i visitatori che hanno potuto rivivere momenti della tradizione, entrati nella memoria collettiva. (servizio fotografico di Giampietro Topini)

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Scialli... di una Volta, veduta della mostra nella Sala Consiliare del Comune di Loro Piceno

Scialle bianco di lana mohair all’uncinetto, caratterizzato da grandi disegni geometrici

Scialle nero con mazzetti di fiori ricamati

Scialle di seta pura con frange, ricamato a mano bianco su bianco





SAUL BERETTA ‘Agitatore’ musicale a cura di Maria Alessandra Ferrari

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ontale anziano era solito dire: “Vissi al cinque per cento. Non aumentate / la dose”. Concorda in pieno con l’illustre poeta il giovane Saul Beretta (1971) che, per non ritrovarsi un giorno a fare la stessa considerazione, fa fruttare il tempo che gli viene donato e lo arricchisce di sapore. Libero e inventivo, trova piacere “nel” e “del” quotidiano e lo comunica con la musica in modo intenso e folgorante, senza diluizioni. Inventore musicale, direttore artistico di Musicamorfosi, produttore, autore radiofonico, promotore e agitatore di insolite iniziative musicali, si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia. Ha conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università Statale di Milano con una tesi in parte pubblicata (AA.VV., Temenos. I luoghi della musica, edizioni Auditorium). Dal 1996 ha curato la progettazione di numerosi eventi artistici e didattici. Nel 2004 il progetto Musicamorfosi da lui ideato è diventato un’associazione musicale-culturale autonoma. È regolarmente ospite di trasmissioni radiofoniche. Per l’Associazione “Milano Musica”, in collaborazione con il Teatro alla Scala, ha presentato la performance che ha introdotto in Italia la prima raccolta di Music Fund. Ha lavorato, tra gli altri, con Mario Brunello, Vinicio Capossela, Stefano Bollani, Moni Ovadia, Elio delle Storie Tese. Parla e scrive correttamente in inglese e francese, conosce il greco e con il bosniaco può tranquillamente conversare con le sue due cagne. Ama John Cage e si chiede sempre quando potrà giocare a scacchi con lui…

Saul Beretta

Maria Alessandra Ferrari: Dopo il diploma in pianoforte, conseguito a pieni voti, quando si è aperto il nuovo importante capitolo della sua storia di musicista “musicomane”? Saul Beretta: Stavo nuotando su e giù nella piscina dei corsi e concorsi post diploma quando mia sorella Gemma, direttrice sociale di Natur&onlus, mi ha offerto la possibilità di far vivere uno spazio pubblico con la musica. Nacque in collaborazione con Sandra Bertoli, meravigliosa cuoca, un percorso che prese il nome di Colazione Concerto. Era il 1995 e accanto a me c’era un gruppo di amici che aveva voglia di far amare ad altri la musica che suonava. Il cibo, in un percorso articolato con musica e parola, è stato un meraviglioso pretesto e contesto per far passare l’idea di piacere: piacere di ascoltare, scoprire, suonare e condividere. La musicomania è iniziata lì, con il desiderio di contagiare altri e altre. Da allora sono un grande untore, per passione e per professione. È tempo di far musica, sembra dire l’associazione Musicamorfosi. Suonare per testimoniare il senso del vivere. Quali immagini si rievocano alla memoria che fanno render conto com’è venuto maturando? “Ma parliamo per un attimo del latte contemporaneo: a temperatura ambiente cambia, diventa acido ecc. e così ci vuole una nuova bottiglia ecc., a meno che non lo separiamo dal suo cambiamento mediante la trasformazione in polvere o la refrigerazione (che è un modo per rallentare la sua vitalità) (come dire che le accademie e i musei sono modi per conservare) noi separiamo temporaneamente le cose dalla vita (dal cambiamento) ma in qualsiasi istante la distruzione può giungere inaspettatamente e allora ciò che accade è più fresco”. Così scriveva John Cage. La musica è un’arte meravigliosamente in movimento e in questo senso è ovunque ci sia vita, infatti è dappertutto. Non quella che esce dai telefonini o dalle casse acustiche di bar o supermercati, ma quella che facciamo quando non c’è musica.

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La violoncellista irlandese Naomi Berrill nella copertina del CD From the ground, inciso per Musicamorfosi


Le immagini che si affastellano nella mia memoria sono i locali piccoli de “La Petitosa” (il primo luogo dei nostri concerti), la “Sala Grande” del Conservatorio Verdi (la prima volta che l’ho vista piena guardando dal palco verso l’alto), il Teatrino di Villa Reale a Monza con la sua acustica magica, il gesto di suonare su un pianoforte caricato su un trattore che girava impazzito per la Brianza. Finalmente stavo portando il pianoforte davvero dappertutto! Nella condizione trepida e rapita del fare estetico concreto è assillato dal tempo che incalza, quando organizza festival e stagioni? Il pensiero è sempre in movimento. Ascolto, annoto, fotografo e registro, accumulo e poi perdo. È nel silenzio dello spazio della meditazione che arrivano le idee e affiorano gli appunti perduti. Dopo parte la corsa contro il tempo, tutto è sempre due settimane troppo tardi, misteriosamente. Cosa la gratifica di più? La gratitudine e l’amore. Veder riconosciuto che non lesino mai né l’una né l’altra nelle cose che faccio. Quella volta che, scoraggiato, vide un’improvvisa apertura d’orizzonte… Dopo la tesi di laurea, tra il 2000 e il 2001, ho combattuto una lotta impari con una “malattia” che rapidamente mi ha impedito di continuare a suonare. Tornavo dal Policlinico di Milano e, dopo l’ennesima iniezione, la mia mano destra cominciava ad assomigliare a un fazzoletto stropicciato, a un “mocio vileda” inadatto a qualsiasi cosa. Perfino allacciare le scarpe diventava un’impresa impossibile. Ricordo benissimo la sequenza: camminavo raso muro con la morte nel cuore e una cagata di piccione mi centrò in pieno. Sono scoppiato a ridere; invece di arrabbiarmi, mi sembrò un segno del destino. Il tardo pomeriggio di quel giorno ricevetti la telefonata di Mario Brunello che aveva appena terminato di leggere la mia tesi di laurea e voleva incontrarmi per cominciare quella che è poi stata una lunga collaborazione e l’inizio della mia seconda vita musicale non sopra il palco, ma sotto, di fianco, dietro.

Il violoncellista Mario Brunello

Era “giocoforza” che… Abbandonassi l’idea di poter guarire e che decidessi di continuare a suonare attraverso altri e altre senza il contatto diretto con lo strumento. Compiuta la giornata, prima di andarsene a letto, cosa riassapora Saul Beretta? Da piccolo mia madre nel cullarmi verso il sonno mi portava a fare l’analisi della giornata, a riviverne i momenti salienti e, nell’affidarmi all’angelo custode, a ringraziare per la vita di quel breve tempo passato. Spesso mia moglie Naida mi chiede la stessa cosa, coricandoci ci confidiamo il momento migliore e peggiore della giornata per riassaporare il primo e spegnere l’altro sul finire del giorno. Ogni giorno è un giorno nuovo, ma quando mi corico, mi piace pensare che mi sono meritato il sonno, che ho dato il meglio di me e, nei giorni “buoni”, assaporo la gratitudine per questa vita, un momento breve di pura felicità. Quali sono i nessi che legano tra loro le varie parti della sua vita? Ho sempre avuto una certa inclinazione a fare solo quello che mi piaceva. Da piccolo sembrava un vizio, ora credo si possa parlare di virtù e anche di una certa fortuna Saul e il cappello: aneddoti e abitudini. Il cappello è parte di me, da ottobre a aprile non posso stare senza, non posso uscire se non lo indosso. Fin dalla terza liceo, quando ancora avevo abbondanti capelli, è stato mio compagno fedele, una dichiarazione di status. Dal Borsalino, nelle manifestazioni giovanili, ho usato un po’ di tutto, dal basco alla coppola fino al tricorno, forse il cappello più dichiaratamente anticonvenzionale che è passato sulle mie ventitré. Mia nonna materna, mantovana trapiantata a Milano, traduceva il cognome di mio padre semplicemente così: Beretta = Capell!

Il cantante della Mongolia Dandarvaanchig Enkhjargal (Epi) e il chitarrista sardo Paolo Angeli al Festival Suoni Mobili 2014 organizzato da Saul Beretta (ph Cristina Crippi)

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NOBUSHIGE AKIYAMA: SCULTURE IN CARTA KOZO di Ruggero Signoretti

N

obushige Akiyama è un artista giapponese che da anni risiede a Roma. Dopo essersi laureato all’Università d’Arte e Design di Tokyo nel corso di scultura, preso d’entusiasmo per i nostri grandi scultori - da Michelangelo a Bernini da Donatello a Canova - è giunto in Italia e ha completato i suoi studi, ancora in scultura, all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha scelto poi di rimanere nella capitale italiana, cominciando a esporre. Ma mano a mano che il rapporto con l’Italia si faceva più stretto, forse l’inconscia nostalgia per il suo paese l’ha portato ad occuparsi sempre più di carta fatta a mano, tipica del Giappone. Ha iniziato a studiarla, a produrla artigianalmente e a realizzare con essa le sue sculture. La carta a mano giapponese è nota col termine washi e, tra tecniche e materiali vari, da lui conosciuti e utilizzati, egli ha approfondito soprattutto la lavorazione della carta kozo, ottenuta con la corteccia del gelso, dopo complessi passaggi tra i quali la bollitura. Sono così nate opere che manifestano una vera e propria fusione Oriente-Occidente. Si tratta di sculture che vanno dalla dimensione di pochi centimetri a istallazioni ambientali di oltre 10 metri, spesso con l’integrazione di elementi in legno o in marmo. Importante è anche la sua attività di scenografo costumista. Ha collaborato, infatti, alla realizzazione di spettacoli su testi giapponesi messi in scena dal regista Massimiliano Milesi della compagnia “Permis de Conduire” La carriera artistica di Akiyama giunge a un importante traguardo con la mostra personale Il peso della leggerezza - sculture in carta Kozo di Nobushige Akiyama, allestita nel Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma, uno dei più grandi del genere al mondo. Posto più adeguato ad accogliere le sue opere non poteva esserci, in quanto una sala è dedicata proprio all’arte del Giappone. In tale ambiente, ma anche in altre sale, si dispiegano le sculture di Akiyama, provocando nel visitatore un forte impatto visivo in quanto alcune di esse, vere e proprie installazioni, coinvolgono ampiamente gli ambienti. La mostra è a cura di Stefania Severi la quale nel suo saggio in catalogo osserva che le realizzazioni in carta, leggere e aeree, dimostrano che la scultura non necessita di materiali quali il bronzo o il marmo e che tuttavia non può essere inserita nella corrente dell’Arte Povera, perché la carta utilizzata ha la stessa nobiltà delle materie tradizionalmente impiegate. Il catalogo (Ed. Booklab, Roma) - in italiano, inglese e giapponese - è arricchito anche dei testi di Massimiliano Milesi e del critico Emanuele Rinaldo Meschini che offre una interessante interpretazione socio-antropologica di questo tipo di scultura. Fumio Matsunaga, direttore dell’Istituto Giapponese di Cultura in Roma, osserva giustamente che: «Akiyama non fa del washi un utilizzo meramente materico, ma ne fa oggetto di ricerca, visitando i paesi produttori e apprendendone le tecniche tradizionali. I risultati, sorprendenti, si trovano in Viaggio nel Paese della carta (Edizioni Calliope, 2013)». Giuseppe Gennaro, direttore del Museo, sottolinea due aspetti fondamentali dell’esposizione: la sua capacità di dialogo interculturale e la specificità d’essere abbinata a stage di lavorazione della carta, tenuti dall’artista secondo un articolato calendario. Egli scrive: «Le proposte e le soluzioni esibite in questa mostra, che la Japan Foundation ha voluto finanziare su nostra richiesta e che siamo orgogliosi di ospitare nelle austere sale di Palazzo Brancaccio, appaiono ancora più sorprendenti, e funzionali all’integrazione delle diverse espressioni culturali, uno degli ambiti di attività da tempo perseguiti dal Museo Nazionale di Arte Orientale, allorché si apprende che Nobushige Akiyama ha vissuto a lungo in Italia e risiede proprio a Roma. Insieme agli stakeholders delle tante categorie che puntando il loro sguardo sul Museo Nazionale d’Arte Orientale ne valorizzano l’esistenza e ne accompagnano lo sviluppo, attendiamo con trepidazione ed interesse di vedere Akiyama preparare davanti a noi la carta che utilizzerà per le sue realizzazioni artistiche. Sarà una rara ed emozionante esperienza per tutti i visitatori osservare non soltanto la consueta esposizione di prodotti finiti lontano dal laboratorio in cui sono nati, ma - su un filone diverso da quello altresì sperimentato del cantiere sacralizzato e musealizzato - la preparazione artigianale di uno scultore che esibisce il suo sapere e le sue tecniche senza segreti, come un grande chef ha il coraggio di preparare tra i tavoli i suoi manicaretti».

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Installazione, 2007, circa m 10x10

Le forme dell’anima, 2008, carta kozo, cm 100x55x55

Face of today, 2009, kozo, gampi e legno, cm 110x40x26


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ROBERTO PORRONI CHITARRISTA a cura di Maria Alessandra Ferrari

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’uomo Roberto Porroni, uno dei più noti esponenti del concertismo chitarristico, è impeccabile, in dolci misure e sonorità, quanto il musicista. Fiducioso, vitale, con profonda pratica di mondo. La passione per la musica è manifesta e altrettanto manifesta la sua sensibilità verso i giovani attraverso il sogno del musicista che si fa mecenate. Vincitore di numerosi concorsi giovanili, si è perfezionato con Julian Bream e John Williams e nel 1977 ha inciso il suo primo LP. L’anno successivo è stato invitato in Spagna da Andrés Segovia e ha iniziato una brillante carriera internazionale che lo ha portato ad esibirsi in tutto il mondo. Ha collaborato con la Radio Televisione Italiana curando trasmissioni sulla chitarra. Nel 1980 è stato invitato a Vienna per l’Unicef ed ha compiuto il suo esordio come solista. Nel 1996 ha fondato l’Ensemble Duomo con cui, tra l’altro, ha tenuto concerti e attuato registrazioni di colonne sonore per film. È direttore artistico de I concerti della Domenica al Teatro Filodrammatici di Milano, del Festival Musica e Natura (Grigioni - Svizzera) e del Festival Tra Lago e Monti. Maria Alessandra Ferrari: Di ritorno dalle sue tournées apprezza la dolcezza dell’ambiente domestico o l’ordinario meschino, con le sue preoccupazioni, le fa accarezzare l’idea di ripartire subito per le vette del sublime nella musica? Roberto Porroni: “To leave is to die a little” dicono gli inglesi. “Partire è un po’ morire” lo diciamo anche noi italiani, ma in inglese suona meglio e lo preferisco. In effetti la partenza per una tournée porta sempre con sé questo sentimento. Per me il rientro dopo un viaggio concertistico ha un sapore dolce di ritorno a casa con un bagaglio di ricordi, emozioni ed esperienze arricchenti, quindi lo assaporo con calma senza pensare immediatamente alla successiva partenza.

Roberto Porroni durante un’esibizione

In terra straniera che tipo di lettura fa dell’angolo di mondo in cui si trova? Quasi “tattile”, con apertura d’animo? Anzitutto cerco di entrare in sintonia con la nuova realtà che mi circonda, di conoscere più persone possibili al termine del concerto, di parlare con loro, cercando di capire cosa è arrivato di quanto ho tentato di comunicare. Poi mi piace vivere il viaggio non solo da un punto di vista musicale, concedendo qualche ora meno del dovuto al riposo per esplorare luoghi nuovi e atmosfere che non ritroverei a casa. Cosa fare per non perdere di vista quelli che sono e, si spera, rimarranno il senso e l’onore della cultura? È un momento in cui la crisi economica è seconda alla crisi di valori e della cultura, soprattutto in Italia, un Paese che, mi spiace davvero dirlo, è spento, poco dinamico, incline al pessimismo. Chi fa cultura deve battersi allo stremo per portare agli occhi dei governanti e di chi detiene il potere economico l’idea che un mondo senza cultura è destinato a morire. Lei ha messo da parte il poco sensato accusare, deplorare, lamentare, ma la debilitazione della cultura, cominciata negli anni scorsi, è sempre più accentuata. Eppure nel 2006 ha approntato un solido concorso musicale, opera di tale impegno da offrire fondamenta sicure a giovani musicisti… Nella mia vita mi sono impegnato a fondo per riuscire ad essere un musicista libero; ho fatto davvero molti sacrifici ma sono stato ripagato da una carriera ricca di successi e soddisfazioni. Insomma mi ritengo una persona fortunata. Credo che sia mio dovere, ma soprattutto lo sento come esigenza di aiutare i giovani musicisti in questo percorso, oggi più arduo che mai. Perciò ho creato il Premio “Enrica Cremonesi”, che sostengo personalmente con le mie forze e che ho voluto intitolare a mia madre, una persona che mi ha dato tantissimo e che mi ha consentito di credere nel mio futuro di musicista; una donna che amava la musica e

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La madre del chitarrista, Enrica Cremonesi, alla quale è intitolato il Premio per giovani esecutori


i giovani e quindi è stata la naturale destinataria dell’intitolazione del Premio. Chi lo vince non riceve soldi ma ingaggi in festival prestigiosi, cioè ha la possibilità di entrare “in campo” esibendosi a fianco di rinomati musicisti. L’impostazione ha avuto grandi consensi, in primis proprio dai giovani di talento che si sono affermati in questi anni. È una goccia nel mare, ma è pur sempre una goccia. Il proposito più salutare a cui ci si dovrebbe attenere con rigidità? Non demordere mai anche nelle situazioni più difficili, consiglio che non riguarda solo i musicisti, ma ogni essere umano. Roberto Porroni ritiene il suo cammino un’ esistenza senza soste? Come dicono i tedeschi, consuma la candela da due parti? Non sono più giovane ma cerco di vivere, se la salute me lo consente, alla maggiore L’Ensemble Duomo di cui fa parte Roberto Porroni velocità e intensità possibile. Quando il Cardinale Ratzinger disse a Papa Woytila “Santità, dovrebbe riposarsi un po’” Giovanni Paolo II gli rispose che nella vita ultraterrena avrebbe avuto molto tempo per farlo. Un ricordo che vorrebbe agguantare tra i tanti in fuga? Dal punto di vista professionale l’incontro con grandi musicisti e grandi uomini che non sono più tra noi ma che per me sono un modello di arte e di vita, su tutti il grande direttore d’orchestra Carlo Maria Giulini, uomo straordinario, ricco di umanità, che mi fu prodigo di consigli. Sotto il profilo privato sono tanti e molto presenti, non c’è pericolo di fuga. Un presagio della sua vocazione di musicista risale a quando… Non si tratta di un presagio ma di un banale desiderio di emulazione tipico dei fratelli più piccoli. Mio fratello maggiore, Giorgio, suonava la chitarra, perché non potevo farlo anch’io? Cambiai però la direzione, da quella moderna a quella classica. Una voce che porta sempre con lei come l’ombrello quando piove Non c’è un’unica voce, piuttosto una “radio della mia vita” con varie stazioni in cui mi sintonizzo a seconda degli stati d’animo. La stagione più colma e felice della sua esistenza in cui affondano le sue radici più vitali? Questa che vivo. Bisogna amare ciò che si ha al momento e trovare nel presente gli spunti di felicità anche nei momenti difficili. Sono un grande sostenitore del “carpe diem”. Le stagioni passate, i bei ricordi sono un grande aiuto, ma le radici devono affondare sempre nel presente. La grande musica che, secondo lei, fa esistere in pienezza, sottrae al tempo banale? La musica ha molteplici funzioni: di arricchimento interiore, di piacere, di rilassamento, addirittura è terapeutica. Quando noi l’ascoltiamo perché vogliamo, perché ne sentiamo la necessità, è un cibo spirituale tra i più nutrienti e ci allontana dalla banalità, dalla consuetudinarità e anche dalla sofferenza. È collezionista di qualcosa? No, non ho collezioni ma passioni. Ad esempio, mi diletto di giochi di prestidigitazione che compro con continuità e in questo senso posso dire di avere una collezione di giochi di prestigio. Ritiene che l’eleganza maschile e femminile sia perfetta anche senza cappello? Lei è solito indossare questo accessorio? Amo molto indossare il cappello, ne posseggo tanti e mi piacciono le persone che lo indossano. Da uomo apprezzo le donne che portano il cappello e credo che un bel volto femminile venga valorizzato al massimo dal copricapo adatto.

Il Maestro con l’arpista Luisa Prandina dopo un Concerto della Domenica in favore di Italia Nostra al Teatro Filodrammatici di Milano

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I COPRICAPO DELLA CHIESA CATTOLICA di Stefania Severi

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copricapo usati dagli ecclesiastici sono vari e in relazione al ruolo e alle mansioni da essi svolte, pertanto ce n’è per i semplici sacerdoti, per i vescovi, per i cardinali e per il pontefice, con varie sottoclassi che rendono la visione articolata. Molti di essi furono aboliti da Paolo VI che, nel 1969, decise di semplificare l’abbigliamento. Sparirono così due copricapo tipici, la tiara papale e il galero. Invero la tiara non è stata espressamente abolita, ma fu papa Giovanni Paolo I a non volere che fosse usata per la sua incoronazione e da allora nessun pontefice ne ha fatto più uso. La tiara, o triregno, è una corona alta a forma cilindrica con la calotta emisferica che, per antichissima tradizione, è simbolo pontificio. È arricchita da un piccolo globo con la croce sulla sommità, da due infule o nastri che pendono lateralmente e dalla decorazione costituita da tre corone sovrapposte, da cui il nome di triregno. Le tre corone indicano il triplice potere del pontefice: Padre dei principi e dei re, Rettore del mondo, Vicario di Cristo in Terra. Secondo altre interpretazioni le tre corone sarebbero la Chiesa militante, la Chiesa sofferente e la Chiesa trionfante. La tiara era usata nell’incoronazione del pontefice e in eventi particolari. Accompagnata alle due chiavi di Pietro, per chiudere e ad aprire le porte del Paradiso, ha costituito lo stemma araldico dei pontefici fino a Giovanni Paolo II. Benedetto XVI l’abolì anche nello stemma dove inserì una mitria con tre fasce orizzontali, a ricordo delle antiche tre corone. E papa Francesco ne ha seguito l’esempio. Ancora oggi una tiara è conservata nel Museo del Tesoro di San Pietro e, secondo un’usanza che risale al XVIII secolo, il 29 giugno di ogni anno, in occasione della ricorrenza dei Santi Pietro e Paolo, è collocata sul capo della statua bronzea di San Pietro all’interno della Basilica Vaticana. Il galero era un grande cappello rotondo a calotta bassa e con ampia tesa. Ne esistevano due tipi. Quello indossabile, con cordone (che fungeva da soggolo) e con nappe (che scendevano lateralmente) era per vescovi, arcivescovi, patriarchi e cardinali. Il tipo non indossabile, con tesa larghissima, era per i cardinali. Giovanni XXIII fu l’ultimo pontefice ad insignirli con tale capricapo, rosso, in lana nella parte superiore e in seta nella parte inferiore e nell’interno, con la tesa bordata da nastro di seta. Due cordoni Galero in araldica sempre di seta rossa scendono uno per lato e vengono uniti con un fiocco frangiato a fare da soggolo. Il galero ha, come accessorio staccabile, la “fioccatura” di seta rossa, due nappe costituite da ghiande, cannelli e quindici fiocchi sovrapposti, in numero crescente da uno a cinque, per ciascun lato del cappello, e terminanti in lunghe frange. Quando il galero si indossava, la fioccatura veniva staccata. Il cardinale lo appendeva al soffitto della cattedrale, di cui era titolare, con la fioccatura. Alla sua morte il cappello, senza fioccatura, veniva posto ai piedi del feretro esposto nella camera ardente. Durante il funerale galero e fioccatura erano posti sulla bara, poi erano appesi sulla tomba dove rimanevano fino al disfacimento, a simbolo della caducità delle cose terrene. Il galero è rimasto nell’araldica. A seconda del colore (rosso, verde, paonazzo, nero) e il numero delle nappe indica il grado della persona. Ad esempio, se è verde con 12 nappe (6 per lato) è per il vescovo, se è nero con una sola nappa è per i sacerdoti. I copricapo attualmente in uso sono lo zucchetto, la berretta, il saturno, il camauro e la mitria. Distinguiamone l’uso. Lo zucchetto, o pileolo (in latino pileolus), una calotta emisferica a 8 spicchi con al sommo una linguetta, è indossato dagli ecclesiastici in genere anche sotto la

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Tiara o Triregno, Tesoro di San Pietro, Roma

Giovanni Paolo II con lo zucchetto bianco


mitria. Il colore, sempre uguale a quello della veste, distingue la dignità di chi lo porta. È nero per presbiteri, viola per vescovi, rosso per cardinali. Solo il papa ce l’ha bianco. Durante la celebrazione della Messa viene tolto al momento della liturgia eucaristica per sottolinearne la sacralità. Al di fuori dell’ambito ecclesiastico lo zucchetto, popolarmente detto papalina, era usato fino a qualche tempo fa anche dagli uomini anziani. Esso ha alcune affinità con la kippah, il copricapo dell’uomo ebreo, pure rotondo, ma realizzato in vari materiali, tra i quali il cotone lavorato all’uncinetto, il velluto, la seta, e non sempre è a tinta unita, ma può avere scritte e decorazioni. La berretta ha una forma approssimativamente cubica. Presenta, nella parte superiore, tre alette rigide e un fiocco. I modelli a quattro alette vengono indossati solo dai dottori in teologia nelle aule universitarie, in modo che un’aletta punti sulla fronte, una verso destra, una verso sinistra e un’altra sul retro della testa. I modelli e i colori indicano il grado ecclesiastico. Nera senza fiocco è per i chierici; nera col fiocco nero per il clero; nera con fiocco rosso per prelati di particolare importanza e con alti incarichi; paonazza con fiocco paonazzo per i vescovi; rosso marezzato con o senza fiocco per i cardinali. La berretta bianca marezzata è per il papa. L’ultimo a indossarla è stato Giovanni XXIII. A seconda dei casi è utilizzata anche all’interno delle celebrazioni, in processioni e funzioni all’aperto. Oggi, durante il Concistoro, la cerimonia di elezione dei cardinali presieduta dal pontefice, sulla testa dei nuovi cardinali vengono posti solo lo zucchetto e la berretta, tanto che l’espressione “ricevere lo zucchetto rosso” o “ricevere la berretta rossa” è sinonimo di carica cardinalizia. Alcuni cardinali ancor adesso, amando conservare la tradizione, acquistano privatamente un galero. Il saturno, detto anche cappello romano, è usato dai presbiteri con l’abito talare ma non nei riti. La sua forma ricorda il pianeta Saturno: calotta circolare e tesa larga, solitamente piatta, ma che può essere piegata sui lati. Di solito è nero e può essere ornato con i fiocchi di colore diverso, simbolo del differente grado dei prelati: verde per i vescovi, Stemma di Giovanni Paolo II con Triregno rosso per i cardinali. Quello del papa invece è di colore rosso con ornamenti d’oro. Papa Benedetto XVI durante un giro in automobile, in piazza San Pietro d’estate, aveva un saturno di paglia rossa. Il camauro è un copricapo del papa, più largo dello zucchetto e lungo fino alle orecchie, è in velluto rosso decorato di raso dello stesso colore, bordato di piume di cigno o foderato d’ermellino. Durante la Settimana in Albis è bianco. Giovanni XXIII e Benedetto XVI ne fecero largo uso nelle cerimonie invernali perché molto caldo e l’unico in grado di proteggere le orecchie. La mitria è un alto copricapo bicuspidato di forma vagamente conica, portato generalmente sullo zucchetto dal papa, dai cardinali, dai vescovi e dagli abati, più raramente da alcuni canonici e da altri prelati. È costituita da due parti separate e rese rigide da un interno in cartone o cuoio. Presenta nella parte posteriore due nastri o fanoni che possono essere ricamati e con frange. È spesso bianca, o in tessuto d’oro o d’argento, ma anche di colori diversi. Può avere raffinati ricami ed essere arricchita da pietre preziose e perle. La mitria più preziosa al mondo non è di un prelato ma di un Santo ed è destinata a coprire il capo del busto-reliquiario di San Gennaro, che fu vescovo di Napoli. Questa mitria, arricchita dai due fanoni, è uno degli oggetti più pregevoli del tesoro di San Gennaro. Realizzata dall’orafo napoletano Matteo Treglia nel 1713, è in argento dorato con 3326 diamanti, 164 rubini, 198 smeraldi e 2 granati. È stata esposta e ammirata a Roma nella mostra Il Tesoro di Napoli, allestita dalla Fondazione Roma Museo a Palazzo Sciarra tra l’ottobre 2013 e il febbraio 2014.

Berretta cardinalizia

Matteo Treglia, Mitria, Tesoro di San Gennaro, Napoli

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LA REGIONE SVIZZERA DELL’EMMENTAL di Luisa Chiumenti

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a regione di Emmental, in Svizzera, si presenta come un dolce paesaggio collinare adiacente alla città di Berna, la capitale, in cui si può vivere la natura in tutta la sua semplicità e si possono scoprire segreti, storie mistiche e proverbiale ospitalità. Il luogo è noto per il tradizionale “formaggio coi buchi”, ma questo è solo uno dei motivi che invitano a programmare un viaggio alla scoperta di una regione in cui il rispetto della tradizione, degli usi e i costumi sono testimonianze vive su un territorio colmo di sorprese. I musei, infatti, mostrano oggetti e documenti che ricordano le figure di personaggi come Jeremias Gotthelf, le cui opere letterarie sulla valle dell’Emmental sono ancora molto lette perché attuali come non mai. Al Centro Gotthelf può essere piacevole prendere un caffè al Bistrò Bitzius e soffermarsi “a filosofeggiare su Dio, Gotthelf e il mondo” attraverso i suoi scritti: Uli il servo, Uli il fittavolo e Il caseificio nella Vehfreude, tutti nati nella parrocchia di Lützelflüh. Ma ecco il Museo di Storia e Cultura locale che si trova a Trubschachen, agglomerato storico, raccolto e accogliente, con una casa colonica, lo Stöckli, un granaio, lo Spycher (nel cuore del villaggio), risalenti al XVIII secolo, che offrono uno spaccato dei costumi casalinghi - contadini e commerciali - del passato della Regione. La casa colonica ospita un laboratorio di ceramica, nel quale si producono manufatti dipinti. Artigianato e tradizioni si colgono anche a Eggiwil. Infatti, in un’officina si costruiscono “corni alpini”, antichissimi strumenti che si richiamano direttamente a usanze dell’Emmental. Dopo la visita guidata tutti i partecipanti possono intonare qualche nota con il corno alpino e, a chi lo desidera, la famiglia Bachmann propone un aperitivo o il pranzo o uno spuntino pomeridiano a base di prelibatezze. Una visita al caseificio, luogo d’incontro “sensoriale” a carattere rurale, offre l’opportunità di conoscere i metodi di produzione, sia tradizionali che moderni, del famoso formaggio conosciuto in tutto il mondo. Nel borgo in cui sorge il caseificio dimostrativo si coniuga tradizione con modernità e le terrazze del giardino dei due ristoranti invitano a trattenersi per gustare le squisite specialità regionali. Nel negozio di formaggi e in quello dell’artigianato, come pure nel panificio e nella pasticceria, si trovano prodotti caseari, souvenir e dolci tentazioni per ogni gusto. I visitatori sono invitati a cimentarsi nella preparazione di questo formaggio,

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Il dolce paesaggio della regione svizzera di Emmental

Deposito di formaggio Emmental

Porzione del famoso formaggio con i buchi

Prodotti gastronomici derivati dall’emmental


seguiti nelle varie fasi produttive dalla guida esperta di un casaro. Nella valle del fiume Emmen si svolge la festa campestre più antica della Svizzera (tradizione che vanta oltre seicento anni). Il momento clou sta nella “festa della lotta”, che si tiene in agosto, con musica popolare e gruppi di danza folcloristica. È pure di grande interesse lo Slow Up Emmental: una giornata senza auto, dedicata a tutte le forme alternative di mobilità (bicicletta, pattini in linea, etc.). Interessante anche avvicinarsi a un’altra lavorazione tipica, una visita alla fonderia delle campane di ogni genere, attiva dal 1730. L’interland della bella cittadina di Burgdorf, alle porte della valle dell’Emmen, situata nel cuore della Svizzera a est di Berna, tra amene colline e fitte foreste, appare punteggiato da fattorie. La zona è ricca di miniere d’oro da cui si estrae il metallo prezioso con un titolo più elevato rispetto a quello ricavato nell’Eldorado del West americano. La curiosità è che, con l’aiuto dei maestri artigiani, si può avere una rara visione generale sul lavaggio dell’oro e sulla sua industria in Svizzera. Oggi è possibile prenotare qualche “giornata didattica” che regala un affascinante “viaggio nel tempo”. La cittadina, dal centro storico con case patrizie e un poderoso castello, è punto di partenza ideale per effettuare belle gite in tutta la valle dell’Emmen o per visitare le città di Berna, Bienne e Thun. Il castello degli Zahringen, che figura tra i più grandi e meglio conservati della Svizzera, è un edificio i cui mattoni hanno più di 800 anni; la costruzione del mastio risale al XII secolo e da esso i visitatori godono di una bella vista sulla città e sulle Alpi bernesi. Con un assetto urbanistico equilibrato, il centro storico di Burgdorf si articola in “città alta” - tra il castello e la collina della chiesa, con le sue case in stile tardo barocco - e la “città bassa” con i suoi edifici in stile classico. Il quartiere, situato ai piedi del castello, collegava, attraverso una scala, la parte superiore del borgo con la parte inferiore dedicata al commercio. Ai nostri giorni i vicoli del centro storico appaiono costellati di bar con dehors e deliziose piazze dove sedersi a gustare i prodotti del posto in un’atmosfera d’altri tempi. Consigliabile dare uno sguardo ai costumi caratteristici nell’ambito dell’evento che si svolge annualmente a giugno, una solennità per Burgdorf, ossia una festa della scuola che si ripete dal 1729. Le allieve appaiono in gonna bianca e corone di fiori, i maschi in divisa nera e bianca. La sfilata si svolge nel pomeriggio, con grande partecipazione di cittadini e visitatori. Partendo da Burgdorf, gli sportivi hanno anche la possibilità di esplorare in bicicletta la valle dell’Emmen e il Mitterland, mentre nella vicina località di Oberburg i golfisti dispongono di un attraente campo a 18 buche. Storia, cultura, tradizioni, sport, buona cucina… La Regione dell’Emmental merita una visita e vi attende a braccia aperte…!

L’agglomerato storico di Trubschachen

Corni alpini

Caseificio dimostrativo

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Torresi Lorenzo L’esercizio di commercio ambulante del padre, iniziato nel 1947 e trasformatosi poi in piccolo laboratorio famigliare dedito al confezionamento di cappelli in tessuto, è stato determinante per la scelta e per l’avvio dell’attività imprenditoriale di Lorenzo. Nel 1972 nasce il cappellificio che si sviluppa come impresa artigiana produttrice di cappelli donna, uomo, bambino. Oggi la ditta Torresi Lorenzo si contraddistingue per il design innovativo nel settore moda, supportato da una ricerca continua dei materiali e dal know how aziendale maturato durante un’esperienza di oltre quarant’anni.



Voci del silenzio

incontro tra arte e poesia di Ruggero Signoretti

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i sono artisti, come Michelangelo, che si sono dedicati anche alla poesia, e poeti, come Tonino Guerra, che si sono espressi anche con le arti figurative. Senza individuare casi così diretti, il legame poesia-arte è sempre stato fortissimo. “Ut pictura poësis, “Come nella pittura così nella poesia”, scriveva il poeta latino Orazio, sottolineando i rimandi tra le due arti. Ugo Foscolo per il suo poema Le Grazie si ispirò al celebre gruppo statuario del Canova, e la Divina Commedia ha suggerito splendide illustrazioni a Botticelli, Doré e Dalì. Ancora oggi é possibile tale legame? Certamente sì! Lo dimostra la mostra Voci del Silenzio in cui sono stati messi in dialogo le poesie di Claudio Claudi (Serrapetrona, 1914-Roma, 1972) e alcuni libri d’artista. Il punto di contatto tra questi due “mondi” è avvenuto con l’individuazione di una tematica che da un lato fosse presente nelle poesie e dall’altro potesse essere acquisita dagli artisti come fonte d’ispirazione. La Dott.ssa Cristina Ubaldini, attenta studiosa del poeta, ha scritto: «Tra meraviglia, morte ed amore si distendono le armonie, le dolcezze e gli orrori che il silenzio conduce fra i versi di Claudio Claudi. Metafisico, nichilista, incessante ricercatore di una impossibile salvezza nelle trascendenze di un Infinito cieco e sordo, egli ha saputo ascoltare e rendere anche con dolcezza e lirismo il vorticante sentimento del nulla, l’assenza atroce della speranza, la fame eterna d’amore». Ecco una delle poesie di Claudi pervase da più spiccato lirismo in cui il silenzio si identifica col Cosmo: «Ho contemplato tutta la notte il cielo / meraviglia di silenzio e di luci / fra veli d’ombra / magici cori senza nome. / Per tutta la notte la luna / ha effusa la sua umile presenza / finché è caduta nell’alba, / e Venere è apparsa, / splendore d’oro e smeraldo, / stella della speranza per la mia lunga giornata.». Proprio ispirato a questa poesia è il libro d’artista Speranza realizzato nel 2010 da Milena Maksimovic, all’epoca allieva della Facoltà di Belle Arti di Belgrado (Serbia). Questo libro, in varie tecniche calcografiche e nella forma a leporello, è stato realizzato su progetto attivato dal Centro Kaus di Urbino, sotto la guida di Giuliano Santini, negli anni 2008-2010, quando gruppi di allievi delle accademie di belle arti di Belgrado, Lodz (Polonia) e Vilnius (Lituania) hanno realizzato libri, tutti dello stesso formato, ispirandosi alle poesie di Claudio Claudi. Il progetto era stato promosso dalla Fondazione Claudi, voluta dal medico Vittorio Claudi (1920-2006) per valorizzare le figure della mamma Anna (1894-1976), pittrice, e del fratello Claudio, poeta e filosofo. Pertanto nello spirito del fondatore, l’attuale presidente, Prof. Massimo Ciambotti, ha promosso e sta promuovendo mostre di dipinti di Anna e manifestazioni per Claudio, come lo studio e la pubblicazione dei suoi testi inediti.

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Christiane Olivier, Messaggi confusi, 2014, mattoni di vetro, messale e libro bruciato, cm 20x20x7 (fotografia © Christiane Olivier)

Milena Maksimovic, Speranza, 2010, acquatinta, maniera zucchero, acquaforte, tipografia su carta, cm 23x23, Facoltà delle Belle Arti di Belgrado

Geneviene Ensch, Dormirò con tre dita sul cuore…, libro fisarmonica ispirato a una poesia di C. Claudi, calligrafia a penna metallica e gouache su carta di vario tipo, cm 20x20


Proprio in un’ottica di promozione dell’opera poetica di Claudi vanno considerate la creazione dei libri da parte degli allievi delle accademie e la realizzazione di eventi espositivi quali Il canto della Terra e Voci del Silenzio. Il primo ha fatto conoscere la poesia di Claudi in paesi di lingua tedesca (2011-2013) e l’altro in paesi di lingua francese (2014-2015). In questa circostanza la poesia di Claudi, nello specifico le liriche in cui il silenzio è elemento determinante, entrano in dialettica non solo con i libri specificatamente realizzati dagli allievi ma anche con lavori di artisti internazionali. L’intero evento ha come fulcro non solo il silenzio ma anche il libro, come oggetto creativo sul quale si “solidificano” le parole poetiche. Alla mostra - a cura di Stefania Severi e di Maria Luisa Caldognetto - hanno aderito gli artisti italiani Vito Capone e Francesca Cataldi, le belghe Andrée Liroux e Geneviève Ensch, le francesi Isabelle Frank e Christiane Olivier e i lussemburghesi Bettina Scholl Sabbatini e Jean-Claude Salvi. Ma se è chiaro il “silenzio” nella poesia di Claudi e nel libro di Milena Maksimovic, come è il “silenzio” nelle opere di questi artisti? Ciascuno ha il suo tipo di “silenzio”. Come scrive la Severi in catalogo, per Capone il silenzio racchiude tutte le parole del mondo; per la Cataldi congela il ricordo; per la Ensch è un sonno sereno; per la Liroux è la complessità dei sentimenti che l’uomo prova dal concepimento alla morte; per la Frank è l’eternità, stato di grazia assoluta; per la Olivier è l’incomunicabilità; per Salvi è la morte ed infine per la Scholl-Sabbatini è il mistero della creazione artistica. Insomma tanti tipi di silenzio su cui meditare… iniziando a fare silenzio da se stessi. Questa mostra è “itinerante”. è stata a Serrapetrona (MC), nel bel Palazzo Claudi, sede della Fondazione (15 giugno - 14 settembre 2014) ed a Roma, presso il prestigioso spazio della Biblioteca Nazionale Centrale a Castro Pretorio (9 ottobre - 8 novembre 2014), dove, grazie all’impegno di Eleonora Cardinale e Giuliana Zagra, sono stati esposti anche testi sul silenzio presenti nel patrimonio della Biblioteca. La mostra è destinata ad andare oltralpe: in Lussemburgo, a Bertrange e Dudelange (in occasione delle Giornate del Libro dell’UNESCO); in Francia, a Mont Saint Martin ed in Belgio ad Arlon. E chi sa che non si aggiungano nuove tappe espositive. Numerosi sono gli enti che si sono attivati per realizzare l’evento, dalla casa editrice Convivium di Lussemburgo alla Cooperativa Sociale “Apriti Sesamo” di Roma che ha curato l’intero progetto. La poesia di Claudi, ancora nota solo agli addetti ai lavori, veicolata attraverso tante forme espressive e attuali, è destinata a raggiungere un pubblico sempre più vasto. L’occasione è altresì un modo per rinnovare il dialogo tra poesia ed arte, sempre fruttuoso per le reciproche stimolanti interferenze. Inoltre l’evento invita a riflettere sull’importanza del silenzio, tema presente nella filosofia e nella teologia, al quale la nostra società chiassosa dovrebbe invece attingere. Intanto andiamo ad ascoltare anche la Voce del Silenzio di Andrea Bocelli…

Isabelle Frank, Solo un breve momento di silenzio, 2014, tecnica mista, inchiostro, carta, cartone, pietra, cm 33x14x14

Vito Capone, Meno pagine rumorose, 1998, carta industriale sagomata, cm 39x39x8

Bettina Scholl-Sabbatini, Libro Conchiglia: il silenzio del mare, 2014, alluminio (fusione a cera persa), patina acrilica, carta dipinta, tessuto, cm 35x18x17 (fotografia © Christiane Olivier)

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PAOLO FERRUZZI SCENOGRAFO ARCHITETTO ARTISTA a cura di Maria Alessandra Ferrari

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n un lavoro quotidiano mai interrotto, per Paolo Ferruzzi apprendere vuole dire creare, potenziare e affinare le capacità espressive. Saper dare, di volta in volta, un senso naturale del fantastico, rendere grandioso l’effimero ed effimero il grandioso. Nella realtà fluttuante dell’arte è arduo, ma vi riesce. Con la stessa levità e limpidezza dei suoi cieli elbani profondi e ventilati, striati da cirri, cumuli, veli. Maria Alessandra Ferrari: Architettura e scenografia, aspetti di un unico interesse culturale e figurativo… Paolo Ferruzzi: Aggiungerei anche scultura dal momento che i miei primi interessi si sono rivolti a questa disciplina moltissimi anni fa, quando, dopo le scuole frequentate a Portoferraio, mi iscrissi al Magistero d’Arte di Porta Romana a Firenze, come allievo di Bruno Innocenti, e lavorai nello studio che era stato del suo maestro Libero Andreotti. Ero l’unico discente di questa nobilissima arte e per questo, forse, anche privilegiato nel rapporto con l’artista che proprio in quegli anni - siamo nei primi anni ’60 del secolo scorso - stava realizzando il Cristo Redentore che sarà poi collocato, come imponente statua alta oltre venti metri, nel monte San Biagio affacciato a perpendicolo sulla città di Maratea. E sono stato io il modello vivente per quella scultura perché l’artista volle che posassi per lui per lunghi mesi, non interminabili perché ricchi di esperienze come mai più ebbi a vivere successivamente. Nelle ore di posa ascoltavo le parole del maestro, le sue riflessioni, i suoi dubbi creativi. Amai la musica perché egli me la fece amare. Beethoven, Mozart, Vivaldi volavano assieme alla mia fantasia tra le alte volte dello studio, riflettendosi nelle luminose vetrate affacciate sul Giardino del Boboli a ridosso di Palazzo Pitti. E oggi nel Cristo Redentore di Maratea rivedo me, giovane studente di diciannove anni, con il viso incorniciato da una ribelle e romantica barba. Seguì Roma dove il mio connaturato desiderio di conoscenza mi spinse tra le braccia dell’effimera scenografia, come dai più viene identificata questa particolare disciplina artistica. E mi confrontavo e scontravo tra quello che avevo lasciato e quello che andavo trovando. Tra il rigore plastico che Jacopo disegnava su Ilaria del Carretto e il “teatrale” Bernini con la luce che bagna le sensuali carni di Teresa nella sua estatica visione. Tra la luce che dall’infinito illumina i panneggi cristallini di Piero della Francesca e quella “finita” che taglia il buio delle tele caravaggesche. Dal rigore prospettico rinascimentale fiorentino all’esplosione dello spazio nel barocco romano. Mi inondavo di questo nuovo che entrava in me. Vivevo e amavo il teatro. Studiai scenografia nella prestigiosa Accademia di Belle Arti. Conclusi i miei studi con una tesi su Goldoni. A ottobre dello stesso anno ero assistente della medesima cattedra e nel nuovo ruolo mi ritrovai - parrà inconsueto - a confrontarmi con l’architettura. Dopo un anno di insegnamento, in occasione degli esami, stavo dall’altra parte della cattedra rispetto ai miei molti amici che, pur sentendosi ancora tali, vedevano in me il “professore” provando l’angoscia e la tensione degli “esami”. Così mi sono allontanato da loro e mi sono “distratto” dalla realtà e dal contatto umano. Ma non sarei potuto essere, penso, un buon docente e volli ritornare allo studio; a provare sulla mia pelle quell’ansie, quelle tensioni. Uscii dall’Accademia di via Ripetta e mi iscrissi alla Facoltà di Architettura dell’Università “La Sapienza”. Da quel momento divenni discente da una parte e docente dall’altra. Quando mi trovai, nella mia “solitudine” di studente, a sostenere il primo esame ebbi nuovamente paura, capii e da allora, forse, sono stato un bravo insegnante cercando di comprendere “l’altro”. Lei è anche un oratore versato a tutti i segreti di Quintiliano. È dunque amante di sedi ufficiali ed occasioni accademiche, insomma della mondanità? Forse nascondo la mia timidezza. Forse devo riprendermi quegli anni in cui, a detta di mia

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Il Cristo di Maratea dello scultore Bruno Innocenti con il volto di Paolo Ferruzzi

Studio del Magistero d’Arte di Porta Romana a Firenze

Uno degli scatti di Ferruzzi di un’alba ripresa dalla sua abitazione di Poggio all’Isola d’Elba


madre Corrada, non parlavo, tanto da preoccuparla seriamente fino a quando il medico di famiglia le fece capire che se dicevo “mamma” problemi non ne avrei avuti. Infatti è stato così e non mi dispiace confrontarmi con gli altri, anche se non mi ritengo oratore “versato” - come lei dice – “a tutti i segreti di Quintiliano”. Non vado oltre quello che conosco. Non entro con impudenza nei territori a me sconosciuti. Mi piace stare tra la gente, ma non amo la mondanità. Sono sempre e comunque un uomo di teatro. Quella volta che, avvolgendolo tra le spire della sua facoltà di persuasione, ha fatto credere a colui che aveva davanti, di averlo trattato da pari a pari. Non l’ho mai fatto credere. Ho sempre ritenuto, ritengo, e riterrò che non ci sia disparità tra gli uomini. Siamo tutti uguali: da pari a pari. Forse la sola cosa che ci distingue è la sensibilità e questa non ha bisogno di alcuna alchimia persuasiva di convinzione. O c’è o non c’è!!!

L’artista tra i suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma

La felicità dello sguardo per lo scenografo Ferruzzi… Nel sapere guardare il giorno che viene e che dietro un cielo rannuvolato e tempestoso c’è sempre il sole. L’umore più favorevole che rappresenta, per lei, l’optimum per creare. La tensione. Lo spazio scenico naturale che non finisce mai di incantarla? La vista che si gode da casa mia, a Poggio nell’isola d’Elba, affacciata su quella parte del Continente che da Grosseto va, con lo sguardo, oltre La Spezia. Ricorda Smoke il film di Wayne Wang e Paul Auster con Harvey Keitel, con la stupenda canzone di Tom Waits Innocent when you dream. In quel film il protagonista tutti i giorni alla stessa ora e dallo stesso punto fotografa lo stesso posto e non c’è una foto uguale all’altra sempre che la si sappia guardare. Da anni, dalla mia terrazza, tutti i giorni faccio la stessa cosa e le assicuro che non c’è una foto uguale all’altra, sempre che la si sappia guardare. Come maestro preferisce che per le tesi i suoi allievi indaghino opere creative relative del passato, periodi non ancora fissati nella storia o appena usciti dal corso del tempo? Sicuramente periodi non ancora fissati nella storia o appena usciti dal corso del tempo. Per spiegarmi meglio le narro quanto segue. Molti anni fa un mio allievo mi avvicina chiedendomi se posso essere il relatore della sua tesi. Chiedo l’argomento che intende trattare e mi risponde che vorrebbe farla sul “Teatro no” (forma di teatro sorta in Giappone nel XIV secolo), ma lo sconsiglio perché non conosce il Giappone e la sua cultura. Cerco di fargli capire che avrebbe trattato un argomento leggendo, tagliando e ricucendo quanto altri già avevano scritto prima di lui e senza averne prova diretta di verifica. Niente!!! Durante gli anni precedenti mi ero accorto che questo allievo aveva tendenze omosessuali e che drammaticamente le andava vivendo, perché non era ancora facile manifestarsi in un mondo pur sempre bigotto e infastidito. Proposi allora un diverso argomento per la sua tesi: “Il teatro gay underground”. Il giovane mi guardò e capì che io avevo capito. È risultata una delle più belle tesi di cui sia stato relatore e ricordo ancora che la discussione avvenne di fronte a una sconcertata Commissione su una passerella che avevo fatto predisporre nell’Aula Magna e sulla quale sfilarono coloratissimi trans come modelli del teatro da discutere. Cosa la rende suscettibile? Se “suscettibile” è inteso come stato d’animo di risentimento, posso rispondere tranquillamente: niente. Se inteso come lo stato d’animo del sentirsi offeso, posso dire: dipende da chi porta offesa. Se inteso come stato d’animo dell’ essere permaloso: un poco. Il copricapo sulla scena e nella vita. Sulla scena il Colbacco. Nella vita nessuno.

La piscina dell’Hotel “da Giacomino” progettata da Ferruzzi a Sant’Andrea nell’Isola d’Elba tra le scogliere di granito

Paolo Ferruzzi è nato a Poggio (Isola d’Elba) nel 1944. Laureato in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma e in Architettura all’Università “La Sapienza”, nella Capitale è stato assistente della Prima Cattedra di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti (vincitore di concorso nazionale) e titolare della Cattedra di Scenografia all’Accademia di Belle Arti. È passato poi alla Cattedra di Scenografia teatrale, cinematografica e televisiva all’Accademia di Belle Arti di Torino e a quella di Roma. Dal 2005 presiede il coordinamento della manifestazione “Il Ventaglio del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato, del Presidente della Camera”. Nel 2006 è stato nominato Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Dal 2011 è coordinatore generale della Fondazione Isola d’Elba e membro votante del Premio Strega. In qualità di scenografo è stato aiuto di Luca Ronconi, Vittorio Cottafavi e ha lavorato per Rai2. Varie le sue mostre personali e collettive. Ha illustrato libri per Mondadori, Giunti e Vanini. Come architetto ha progettato e diretto lavori, anche di ristrutturazione di Beni Artistici, all’Isola d’Elba. Relatore, conferenziere e scrittore, ha pubblicato opere per Mondadori e Italia Nostra.

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Specializzata nella confezione di cappelli uomo-donna, l’Azienda Axis realizza campionari personalizzati per tutti coloro che desiderano creare la propria collezione valorizzando al meglio ogni singola progettazione del cliente. Collabora con grandi firme del settore moda e abbigliamento; vasta è la gamma dei materiali disponibili per la realizzazione dei vari modelli. La Axis include diverse tipologie di lavorazione, capaci di soddisfare i differenti e molteplici gusti della clientela; interpreta di stagione in stagione le tendenze proposte dal sistema moda. Il tessuto estivo ed invernale, i filati, la maglia, la pelliccia, la pelle, la paglia e il feltro vengono trattati distintamente con la metodologia consona alle loro elaborazioni che denotano notevole competenza, acquisita in tanti anni di esperienze nel settore del “Made in Italy”. Un’impronta che richiede notevoli conoscenze, anche per quanto concerne la qualità del prodotto da realizzare.

Foto Proc’ Art

La Axis opera con costante impegno per ottenere manufatti straordinari. I prodotti “Made in Italy” sono l’espressione singolare di una sapiente tradizione, nonché di grande cura del dettaglio. Spesso sono le minuziose rifiniture del prodotto a valorizzare e rendere meraviglioso un intero processo produttivo, che include numerose e complesse fasi di lavorazione. Su queste solide basi si fonda l’identità della Axis. L’Azienda mette in atto l’innata passione per i cappelli che da sempre contraddistingue Carlo Forti il quale, per il suo eccellente operato, vanta di possedere anche la certificazione dell’Artigianato Artistico.

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via Mossa, 24 Montappone (FM) tel e fax +39 734 760590 info@axis-italy.com carlo@axis-italy.com www.axis-italy.com


LUCA MARIA PATELLA Creatività come necessità relazionale di Luciano Marucci

L

maturate successivamente. Per non a produzione dell’artista romano Luca Maria Patella è multiforme dire del suo concettuale caldo e e intensa, performativa e circolare, dell’uso di mezzi multimediali, che così in questo servizio mi limiterò ad andavano oltre le tendenze del moesaminare solo alcuni aspetti della mento e la specificità dei generi ancosua poliedrica attività. Chi ha tempo e ra troppo legati ai codici tradizionali. interesse per penetrare maggiormente Il tutto rappresentato da interviste in nel suo universo può leggere nel sito progress; divertiti scatti fotografici www.lucanomarucci.it i miei testi, i per documentare performance o per nostri dialoghi e la lunga Intervista creare nuove immagini; progetti, concontinua1 rimasta inedita. cretizzati o rimasti inevasi; repliche Qui allestirò un collage di miei scritdifferenziate2, opere scritturali3. Da ti, elaborando brani di conversazioni lì traevo motivi per articoli e per un tra me e Luca, anche per confermare precedenti analisi sugli sconfinamenti Occhio nel paesaggio, 1965, foto b. n., cm 17,8x23,7 con la scritta: “Immagine og- originale libro-intervista diviso in due in altri ambiti, giacché siamo di fronte gettiva per Luciano Marucci”. Una delle prime fotografie firmate dall’artista come parti: Incontro con Luca Maria Paopera. Nel soggetto si compenetrano il paesaggio e la testa di Luca (con la fotocamera, tella e La logique du Tout. Tra l’altro, a un’arte non convenzionale, ma in- mentre sta scattando questo fotogramma). alcune opere tridimensionali e fototerdisciplinare e propositiva dal lato grafie di quel periodo sono state esposte e pubblicate. Vedi, ad esempio, plurisensoriale e mentale. Confesso che anch’io, nonostante la lunga quella scattata alle mani di Luca sulla battigia di “Sbèn” (così aveva frequentazione dell’uomo e dell’artista, ho fatto fatica a trovare la “disoprannominato San Benedetto, associando foneticamente le iniziali ritta via” nel suo labirintico percorso creativo. E dovrei esplorare nuove della città al rumore delle onde del mare che si infrangono sul molo), costellazioni, più alte, anche perché sono rimasto assente… dalle sue inserita anche in una pubblicazione della Biennale d’Arte di Venezia. ultime realizzazioni; mentre egli, sulle ali dell’immaginario e del penInsomma, la nostra è stata una frequentazione di cui restano signifisiero, volava in altre orbite… cative testimonianze. Essendo in sintonia con lui, più che con altri ho Il sodalizio con l’artista avuto modo di esternare certe mie possibilità inventive e questo forse prova che il critico e il curatore possono stimolare processi creativi e Ho incontrato Patella nel 1967, quando lo invitai a esporre le incisioni contribuire ad accelerare le trasformazioni della cultura artistica. a colori simultanei nella sezione di “Grafica internazionale” della VII Devo anche alle sue insistenze... il consolidamento della mia inclinazioBiennale d’Arte di San Benedetto del Tronto. All’VIII edizione sul tema ne all’interdisciplinarità e il ritorno all’arte dopo un periodo in cui avevo Al di là della pittura, in cui egli aveva partecipato con un’installaziocreduto soprattutto all’OperAzione sociale a difesa dell’ambiente di vita. ne e la proiezione del film SKMP2, la conoscenza si era già trasformata Con lui ci sono stati anche lunghi silenzi stampa..., conseguenti a in amicizia. Da allora, per un trentennio, quasi ininterrottamente, nei scontri di identità causati dal mio intransigente perfezionismo e dal mesi estivi egli è stato mio ospite nella città rivierasca e io, più volte, suo esasperato egocentrismo: un nanella sua storica casa di Montepulciaturale cortocircuito tra critico e artista no, dove ebbi modo di stimare pure dalle visioni non sempre convergenti. le doti di suo padre Luigi, affettuosaL’ultima separazione... risale a dieci mente chiamato “Gigi San”, estroso anni fa, nata da disaccordi dopo un ingegnere dagli interessi ‘cosmici’, estenuante lavoro per la definizione autore di progetti utopici. di un Cd-Rom, congelato poco priFu quello un periodo caratterizzato da ma della diffusione. Al di là dell’inscambi di idee e di esperienze; da una cidente..., provocato più dalle nostre dialettica piuttosto costruttiva in tutti nevrosi che da motivi sostanziali, non i sensi. Colloqui interminabili diurni ho smesso di apprezzare la sua produe notturni (in spiaggia, quando divezione poetica e alchemica; continuo niva deserta, per strada, in pineta e in a considerare Luca un intellettuale giardino), specialmente sulla ‘comUn’immagine della serie Lu’ capa tella, 1973, bagnasciuga della spiaggia di San Beplessità’, non soltanto linguistica, di nedetto del Tronto, scatti di Luciano Marucci per una performance fotografica di Luca dalle risorse non comuni, un creativo cui egli è stato certamente un pre- Maria Patella Lu’ capa tella = Lui, Luca Patella, sceglie le telline: gioco linguistico geniale per l’intensità dell’opera e la cursore rispetto alle contaminazioni autocitazionista, tautologico e concettuale. modernità del linguaggio.

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La de-formazione

al divenire del mondo con un’articolata ideaideale e compie la sua intellettuale e poetica rivoluzione tentando di diffondere, con insistenza quasi didattica e narcisistica, la sua profetica utopia concreta e di recuperare l’uomo come essere radicato nella totalità della storia del territorio planetario. L’atto creativo per lui non è un fatto episodico e ogni attimo dell’esistenza è in funzione dell’arte in cui è coinvolto dalla testa ai piedi: è sempre in tensione per arricchirsi intellettualmente, per estrarre dalle cose l’essenza e restituirsi interamente con l’opera. Affronta problemi sempre più ardui e conduce un lavoro di sperimentazione in progressione, senza preoccuparsi molto di dare forma commerciale alla sua creatività, sicché anche la critica, spesso, è impreparata a captare tempestivamente le sue intuizioni che, a volte, percorrono quelle di correnti e gruppi.

Patella è nato a Roma ed è vissuto anche in Francia e in Sud America. La sua formazione è stata sia artistica (con suo padre e con Stanley William Hayter, a Parigi) che scientifica (Chimica Strutturale, con Eugen Riesz, a Montevideo; Psicologia Analitica, con Ernst Bernhard, a Roma). Negli anni Sessanta ha iniziato ad esprimersi con pittura, fotografia, film. È stato invitato a partecipare a sei edizioni della Biennale Internazionale Arti Visive di Venezia e nel 2012 al Festival del Cinema, sempre a Venezia. Nel 2002 ha ricevuto il “Premio alla Carriera”del DAMS di Bologna e nel 2004 il “Premio Pavese / Grinzane Cavour” per la po- Luca Patella inquadra se stesso, Moltepulciano, 1986 esia. A Place de Ninove di Bruxelles è installata (ph L. Marucci) la sua Magrittefontaine, una fontana fisiognomica di 4x3 metri di “pierre bleu” con il profilo di René Magritte. Patella è giunto ai risultati attuali dopo anni L’identità individuale e plurima di di studi e di singolari realizzazioni. All’inizio LMP ha usato procedimenti anche tradizionali, ma Per formazione non soltanto artistica, vocazione dando loro una forte individualità (come nelle sperimentale e multidisciplinare Luca Maria Paricerche grafiche e fotografiche). Dopo i films e tella può essere considerato un operatore visuale le opere ambientali, ha sviluppato e raccordato anomalo. Fin dagli esordi ha condotto esperienvarie attività, dalla dimensione comportamentize non convenzionali, anticipando tendenze e stica a quella delle installazioni, alla scritturale ammodernando generi codificati: dalla grafica e fonetica e, quindi, al testo creativo e critico. alla fotografia creativa, al cinema indipendente; Ha poi assunto nuovamente, in termini ‘suoi’, i L’Artista inquadra il mare di Sbèn, 1986 (ph L. Marucci) dalle azioni landartistiche e comportamentali mezzi pittorici e realizzato oggetti-sculture plualle performance ‘intelligenti’; dalle ambientarisignificanti e un ciclo di poesie. Luca è uno dei zioni interattive alla reinterpretazione del ready-made e alle elaborapochi artisti che opera a più dimensioni ampliando i confini naturali zioni informatiche. Ha avuto il merito di dare dignità di opera all’imdell’arte figurativa e annullando le differenze tra pittura e altri linmagine fotografica in anni in cui era emarginata; di aver introdotto, guaggi, perché ha messo in campo tanti elementi di diversa derivazione dichiaratamente, nelle arti figurative la dimensione psicoanalitica, le facendoli interagire senza però proporre un enciclopedismo puramente discipline considerate extra e le nuove tecnologie all’epoca ritenute razionale. Nel suo caso più che di arte si dovrebbe parlare di “attività troppo mediali e poco poveriste. Tutto questo non per sfruttare un eclettotalizzante dove tutto confluisce e tutto è permesso”. Per essere più tismo generico, ma apportando sostanziali innovazioni e senza farsi espliciti, la sua opera proviene da una concezione dinamica dell’arcondizionare dal mercato, all’epoca poco interessato alle opere non te ed è fortemente dialettica e mentale, ma fa presa anche sui sensi, ripetitive e non facilmente classificabili come le perciò non è mai asettica e impersonale. Quella sue. Patella, per proprie urgenze, dopo aver ragdi P. è un’ansiosa attività di ricerca in continua giunto un obiettivo, va oltre per sondare altri amespansione e trasgressione, che si compie denbiti espressivi. È un laboratorio iperattivo sempre tro la storia, si spinge in ambiti rimasti estranei in fermento. Ha volontà e capacità di fare. Se gli alle arti visive e si avvale di un concettualismo si offre l’occasione, finisce per strafare… arricchito di riferimenti colti e autocitazioni. In tempi non sospetti ha teorizzato e praticato Un lavoro artistico radicale, aperto a Tutto, in un’arte capace di penetrare meglio nella realtà particolare a letteratura, psicologia e scienza; a culturale. E l’ha sempre sostenuta con vigore, sia varie esperienze fisiche, ma anche a sentimenti, per autodifesa sia per promuovere l’evoluzione di poesia e sogno, fino alla proiezione nell’opera di linguaggi ancora troppo legati al gusto ottocenogni risorsa personale e reperibile all’esterno, per tesco, all’istinto e allo specifico. La sua “Logique coniugare privato e pubblico, arte e vita. Patella du Tout”, di estrazione diderotiana, lo induce a usa il linguaggio artistico come ingrediente per speculare su ogni cosa, a entrare nella globalità fare quella che chiamerei un’ “arte strategica”, praticata per il bisogno di penetrare con impegno Patella mentre realizza un’opera con fresa elettrica alla e a espandere al massimo il concetto di arte. L’almorale nel reale e… nell’irreale. Partecipa così presenza di Marucci ta concezione che ha di essa, la consapevolezza

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delle sue possibilità e lo spirito antagonistico lo portano a emularesfidare l’esistente. L’ansia di affermare l’identità, associata al bisogno di comunicare, gli fa assumere toni autopromozionali e talvolta polemici nei confronti delle altre esperienze caratterizzate dalla linearità di pensiero e dalla superficialità, che contrastano con le proprie convinzioni. La sua produzione è fortemente dialettica e connotata da una circolarità quasi maniacale. Egli coniuga l’Io al mondo, i media usati, le diverse entità in apparente contrapposizione, come storia/attualità, arte/ vita, citazione/invenzione, pensiero/sentimento, pulsioni profonde/ calcolo, ironia/drammaticità, modi aulici e volgari… Tra le costanti spiccano l’amore per la classicità e i valori atemporali, la densità di significati (spesso ottenuta pure con rimandi e spezzature di parole), l’alchimia, la scrittura e la poesia, la meticolosa esecuzione… In sintesi, la sua è un’opera autoproiettiva e, nel contempo, aperta e relazionale, strutturale e problematica. Ma è anche pedagogico-politica e alternativa nei confronti del sistema vigente, poiché indica una via per fare-arte veramente moderna4.

La poesia come immagine plastica Quale testimone della sua avventura umana e artistica vorrei focalizzare alcuni aspetti della sua attività poetica. Va subito ricordato che la poesia di P. è l’altra faccia della produzione ‘oggettuale’; un lavoro autonomo, ma anche un mezzo, non accessorio, di collegamento tra immagine e letteratura, forse insostituibile, per colmare gli immancabili vuoti esistenti tra l’artista e la sua opera visuale. Come da abitudine, affronta anche quest’altro settore quasi scientificamente per sperimentare nuove possibilità linguistiche ed espressive, unificandole armonicamente su un terreno composito dove sembra operino più intelligenze di qualità diverse. Qui è possibile individuare, con più chiarezza, le sue intenzioni di fare quell’arte globale, intesa come dialogo culturale, da cui deriva un tipo di opera indefinibile. Anche per dare forma alle poesie egli usa vari ‘materiali’ non per puro esercizio intellettuale, ma perché tutto nasce da ‘sinceri’ impulsi interni e dalla profondità del sentimento, da fatti di vita e si sviluppa nelle aree dell’Inconscio e della Coscienza. Quindi, parte dal soggettivo, dal microcosmo e, senza mai annullare il rapporto con la realtà, sconfina in una dimensione universale, usando culture umane e allargando la visione del quotidiano. La sua poesia si differenzia dalla produzione contemporanea dei ‘poeti di mestiere’ per la complessità. Infatti viene da lui concepita come immagine plastica e luogo di assemblaggio plurilinguistico, di confrontoscontro-incontro di più esperienze, di processi di idee e di psicologie. È un campo d’azione dove Luca, attraverso un uso personale della scrittura, cerca di fondere la visione interiore con quella esterna e tende a integrare, pensare e fare ponendo in grande rilievo la funzione autentica, profonda ed attiva del sentimento. Per ottenere il più alto risultato, ricorre pure all’autoanalisi e ricorda, libera pensieri, sensazioni e sentimenti in una sorta di vivisezione psicologica fino a scoprire gli impulsi più intimi da cui nascono relazioni, reazioni e ardenti desideri. In tutto questo c’è il tentativo, direi riuscito, di trovare un nuovo metodo di espressione. Riguardo alla sostanza il lavoro è senz’altro tra i più autoproiettivi e sentiti dell’artista-scrittore, anche perché si attua in una fase forse delicata della sua vita in cui fa prevalere, senza censurarsi e frenare le emozioni, il desiderio di essere, di vivere intensamente, in tutti i sensi. Ma la vera rivoluzione del nuovo Patella consiste nell’aver

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Nella scruttura [struttura della scrittura], 1974, replica differenziata con tre tipi di scrittura (letraset, mecanorma e autografa a colori diversificati) in 10 esemplari numerati e firmati dall’Autore, di cui 8 su cartoncino quadrettato Plan (4 di cm 60x84 e 4 di cm 42x60) e 2 su cartoncino bianco Bristol quadrettato a mano di cm 48x65

scelto di appartarsi per riflettere sulla sua esistenza e sul ruolo di artista e dare un senso più vero al lavoro, prendendo le distanze dagli aspetti artificiali, teorici e astratti dell’arte, e dalle esagerate speculazioni mercantili in atto sul prodotto creativo. Direi che la Poesia di P. sorge dal suo vissuto, dalle necessità ‘fisiche’ e spirituali. Non è però un mezzo per abbandonarsi nostalgicamente alla ‘ricerca del tempo perduto’, ma per agire nel ‘tempo ritrovato’. Nelle liriche amorose, al centro delle sue attenzioni, c’è ancora una volta la Dea Donna, vista nelle sue ‘forme terrene’ e come entità Cosmica (la sensibilità, l’Inconscio..). Parafrasando Diderot, dice “Tutte le donne sono i miei pensieri”. In questo territorio si compie la profonda, ossessiva e drammatica investigazione che diviene fonte di ispirazione e corpo della sua arte. C’è sotto anche il bi-sogno di dare sfogo al fervore creativo e alle capacità letterarie; l’esigenza di capire e di raccontare; il piacere di vedere tutto, con la luce della ragione, nel buio del subconscio e di cercare, nella turbolenza dei

Scrittura enantiodromica, 1982, incisione su cristallo e specchio, installazione Le Noveau Musée, Lione, 1983


sentimenti, la via d’uscita dall’anriguarda le spaziature e il rapporto goscioso labirinto: quella felice che dei versi col foglio che le contiene, per lo avvicina di più all’arte della vita. cui anche la pagina scritta ha una Per comporre le poesie con spirito struttura funzionale all’espressione. In definitiva sono un documento di antiaccademico, o addirittura anarvita creativa che esce dal laboratorio chico, e l’acume del concettuale alchemico di un artista sempre all’asfrutta tutte le possibilità della parovanguardia, intelligente e sensibile. la scritta, di cui è un virtuoso maMa cerchiamo di capire meglio il nipolatore alla Joyce. Con spezzature pensiero di Patella, con riferimento e combinazioni inventa parole comall’attività poetica, da stralci di una posite che spesso hanno valore onomia intervista tratta dalla cassetta matopeico. Con stratagemmi tecniaudio allegata al libro-opera P’alma co-linguistici conia nuovi vocaboli di mano. poema da quadrivio5: per creare allusive associazioni che hanno il significato dell’immagine Luca, perché anche la poesia generata nella mente dal loro suoscritta? no. Così modifica il senso conosciuto Perché non anche la poesia scritta? di certe parole, andando ben oltre le Se ti ho parlato del Tutto, di tutto libertà poetiche, e mostra ribellione quello che io sono, voglio conoscere, contro la convenzione letteraria, di tutto quello che voglio essere (si “per essere all’altezza della verità Sacello fosforescente di Den & Duch, 1983, installazione al MUHKA Museum, Anversa, spera per me e per gli altri).. la poedelle cose”, come egli dice. E con le Belgio, 1990 sia mi interessa. parole (e il sapiente uso di ‘segni’ e ‘simboli’) crea una scrittura che gli Cosa ti sollecita a scrivere poesie? consente di fissare con più rapidità il flusso delle idee che emerge dal Potrei dirti che mi sollecita Tutto, come al solito; poi, certo, c’è la meprofondo, di esprimere la complessità dell’assunto e di definire meglio diazione culturale, il linguaggio. Io sono uno che muove attraverso gli la sua psico-ideo-logia. strumenti della cultura e della storia, ma con questi strumenti faccio Dentro le poesie, elaborate, ma anche spontanee (qui risiede il paralavoro. La spinta viene da me stesso, da quello che mi succede, da queldosso vitale) e riassuntive dei suoi sentimenti e pensieri anche più sottilo che vedo, dalla mia trasformazione, dalla necessità di esprimermi. li, ci sono contenuti che fanno ridere e commuovere; sbalzi di stile con livelli più bassi (da strada) o più solenni; toni appassionati e volutaQuali sono i ‘soggetti’ preferiti? mente umoristici; testi esplicativi (per vincere il complesso della comQuelli che “il cor mi ditta dentro”, sono le mie necessità, sono anplessità…) - che talvolta tornano ad essere versi -, citazioni autorevoli che quello che vedo. e note che spiegano il Spesso le poesie sono perché di certi giuocose - ma non semchi di parole. Alcune, pre - scritte dal vero, apparentemente più cioè urgenze di artifacili, hanno versi colare un discorso, aulici con riferimenma anche di reagire ti ai grandi poeti del a una sensazione, a passato; altre parlaun sentimento. no di ‘volgarità’. E poi: segreti stilistici, Poesia per vivecostruzioni con mere la realtà o per trica classica; versi fuggire da essa? sciolti, in prosa e in L’arte, purtroppo, ha forma di filastrocca; anche questa comespressioni dialettali; ponente del fuggire parole nude e modi dalla realtà, anche di dire comuni. se non per rifugiarsi nell’intimismo. Quasi tutte le liriE quindi lo spirito che sono integrate è quello di: ‘essere da piccoli grafici (sinergici e ironici) Prima di copertina del libro-intervista incontro con Luca Maria Patella. La Logique du Tout (diviso in due parti), 1988. per..’. Questo è un L’immagine deriva dall’opera fotografica “Rosa & Luca.. Arnolfini-Mazzola” con la ‘patella’ in primo piano in una stanza della e si avvalgono pure loro casa di Montepulciano, 1987. Lo stesso soggetto è stato utilizzato per la grafica a tiratura limitata Gli Arnolfini Mazzola crinale un po’ difdi requisiti ‘visivi’, ~ Citrinitras a Montefolle del 1967. Sulla quarta di copertina figura il Letto Wrong, 1983-1986, cm 95,8x144x110, sempre di ficile, perché certe cose, chiaramente, specie per quanto Patella: una “interpretazione”, a partire dal piccolo ready-made duchampiano Apolinére Enameled del 1916-’17.

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non le puoi fare. Non puoi ‘volare’.. e, quindi, scrivi del volare. Altre, forse, sarebbe meglio che le facessi.. Insomma, l’arte è una sorte di ‘pesce surgelato’ che, se lo metti davanti ad un pesce vivo, ci scapita. D’altra parte, il pesce vivo ha una vita breve. ..Ars longa, vita brevis. Questo lavoro ti offre l’occasione di dare sfogo anche alle tendenze letterarie ed è complementare di altri testi che hai scritto in precedenza? Non sono suddiviso in tante cose. Io sono io. Non è che complementano qualcosa. Continuano un processo, non è un altro cammino. Con la parola scritta riesci ad esprimere tutto ciò che senti? Io, come sai, uso varie gamme, vari mezzi, proprio per avere tante possibilità relazionate fra loro. Adopro un mezzo quando sento che è il momento di adoprarlo. A quel punto tutto ciò che mi interessa ce lo metto dentro, naturalmente attraverso la forma che sto elaborando. Per andare più in profondità, ..perché non credo che l’arte esaurisca il sentire del mondo. Secondo te ci sono oggi altre possibilità per fare una nuova poesia? Mah, io faccio la mia arte, la mia poesia. Se non ci fossero altre possibilità, avrei smesso da quel dì. La mia esigenza non è solo quella di esprimermi, ma di vedere o di credere di fare cose che non sono ovvie. E, se non sono ovvie, bisogna farle. Per comporle ti assoggetti a delle regole? Be’, per forza: fare è sempre costruire. ..Delle regole che ti sei dato, che ti ha dato la tradizione, che inventi reagendo ad essa. Poi, in questo fare c’è una libertà. Non regole nel senso dogmatico che qualcuno mi ha detto che devo fare così. L’arte deve avere all’interno di sé una struttura se no non è arte. Le nuove poesie sono più leggibili per tue esigenze comunicative? Potrei dire di si, ma, se vai a scartabellare fra quelle del passato, ne troverai alcune che non sono affatto prive di comunicazione, di comunicativa. Come vanno lette? Sai, anche qui regole non vorrei darle. In genere, però, io metto le mani avanti dicendo: “Leggi come se ascoltassi lèggere; prima di tutto, cogli il mio racconto e, parallelamente, se sei sensibile - come credo - la struttura fatta di ritmo e di musica. Allora commuoviti, capisci, rigetta. Poi, se vuoi, ad una seconda lettura, vai a vedere perché ho spezzato o alterato certe parole, perché ho reso complesse le cose, ma non soffermarti, non essere razionalizzante fin dall’inizio!”. In esse c’è una riconsiderazione dell’amore e dell’elementare? Sì, ma c’era pure in espressioni passate.. Anche “Conlezione ß”, il nostro lavoro annoso.. (del ’77) aveva proprio per tema Donna / Uomo, cioè l’amore. Comunque, in questi ultimi poemi siamo proprio nel cuore dell’amore; ma attenzione! una delle cose meno elementari e più sublimi. Fino a che punto riflettono i tuoi problemi esistenziali? Da tutti i punti di vista ma - come sai - non ingenuamente.. La mia arte, anche nelle forme più apparentemente complesse, non è mai un’astrazione cerebrale fine a se stessa: è un fatto di bisogno mediato dalla forma espressiva. Altrimenti che arte è?

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Si può coniugare misticismo con erotismo? Si può staccare la testa dal corpo? Le cose fra loro si integrano sempre. Un settore di queste poesie recenti si chiama “porno-mistica”. Che cosa dovremmo distinguere, l’amore nel senso fisico, da quell’altro nel senso di dedizione? Ma può esistere praticamente l’uno al di fuori totalmente dell’altro? Questa volta hai combinato il pensiero del tuo amato Jung a quello di Freud? Potrei anche dire, in parte, di sì, ma sarebbe semplicistico. Io poi non ho idoli. Jung è stato tacciato di misticismo, perché credeva che certi simboli del sogno che appaiono come sessuali, possono alludere ad altre cose, magari alle cose più grandi a cui uno possa aspirare. Ma anche il sesso, anche l’amore per capirci meglio, penso che sia la cosa più grande a cui uno possa aspirare. Anche per questo nelle poesie introduci delle ‘volgarità’, ma poi, in contrapposizione, usi delle forme auliche..? Già nel libro “Avventure & Cultura”, che ho scritto nel ’70, c’era l’uso del dialetto, il passare dall’alto al basso. Qui c’è di nuovo, forse di più (?) ..ma c’è nella vita.. Mi piace contrapporre questi registri diversi, per dare al lettore uno scossone e dirgli: “Attento! qui le cose sono ‘vere’, sono complesse! Quando ti dico parole quasi volgari, guarda che lì, magari parlo di qualcosa di profondo oppure di molto accorato”. La tua attuale produzione poetica ha una corrispondenza nell’attività plastica? Sì e no. Io non vado dritto come un treno su di un binario. La mia linea ha molti scambi, il mio treno è duttile. [Il riferimento non è casuale, perché stiamo registrando all’aperto.., vicino alla ferrovia]. Comunque, per esempio, in altra occasione, ti ho detto del progetto di due ‘oggetti-Templi Venerei’ che sto realizzando anche in questa direzione. Il libro-cartella che stiamo facendo non rientra in questa logica? È un oggetto plastico, ci sono delle poesie, delle immagini, delle porzioni di donna, altre forme.. Questo ‘libro’ ha la forma.. di un bel sedere. Ma non è che da ora in poi farò tutto così, non ci credere! Puoi spiegare il significato che attribuisci al titolo del ‘librocartella’ che raccoglie l’attuale ciclo di poesie? Questo ‘poema’ si chiama “P’alma di mano”. Si dice “portare in palma di mano” e “palma di mano” è anche un porgere, un privilegiare, un amare: la mano fa e l’anima le sta dietro. Il sottotitolo è “Poema da quadrivio”, cioè non da trivio, da quadrivio. Non è triviale, è anche l’orientamento nelle quattro direzioni, come nella bussola. Jung adopera quattro dimensioni e direzioni per strutturare, individuare la psiche. Il quadrivio, poi, era la divisione delle arti dell’antichità. Però, appunto, non si chiama “Poema del quadrivio”, ma “Poema da quadrivio” ed allude anche a trivio, casino; ma non è affatto un poema da casino, né incasinato; tratta della “rosa degli eventi”, della complessità del Tutto e non ha paura di trattarne anche attraverso dei temi porno-mistici. Vedi? La complessità vuol essere ‘verità’, non complicazione! In questo momento senti la necessità di portare nell’arte più vita? Se uno non è spinto da una pulsione: che fa a fare l’arte? Ma c’è l’altra questione che non la fai solo col cuore! Voglio portare più vita nell’arte? Vorrei portare più vita nella vita, ..se la vuoi come ‘confessione’. In un momento in cui magari sono o voglio essere più vivo, mi piace di più


andare a ‘toccare’ le cose. Non è che ho cambiato rotta. ..Luca, insomma, vorrebbe essere autentico, come sempre si è proposto, e l’autenticità sta nel capire e amare gli altri: cosa difficile, ma unica!

contro la vita. Non perché non creda nell’arte, anzi, ci credo forse troppo, questo può essere il difetto.. L’attività letteraria di Patella rappresenta un altro transito, abbastanza trasversale, ma sempre consequenziale, del suo itinerario. Le opere scritturali, in fondo, sono ‘pretesti’ per uscire dalla cornice; occasioni per dare sfogo alle inclinazioni letterarie e all’immaginazione. La parola scritta non è usata per astrarre, ma per costruire una nuova immagine concettuale con un diverso strumento linguistico-creativo facendo interagire le arti visive con la letteratura. E la scrittura - su carta, lastra, cristallo; scrittura ovunque e per chiunque - è anche disegno e diagramma della psiche; medium per un’espressione più intensa e immediata.

Per finire: hai mai pensato di uscire dall’arte come fece Duchamp dopo aver detto tutto o quasi? È difficile risponderti, ma solo perché non so cosa farò. Se lo sapessi già non lo farei.. Comunque, la parabola di Duchamp lasciala stare, è un problema che non mi interessa tanto. La sua proposta non è la mia. È un artista che stimo molto, ma non certo al di sopra di tutto. Non è il mio idolo. Non credo che Duch abbia chiuso o concluso. A un bivio, a una scelta così non vorrei mai arrivarci, perché l’arte spero che sia sempre anche quella che vuole essere in me una costruzione di verità. Ti ricordi quelle ‘sfere’ che ho esposto nel ’69 alla Biennale “Al di là della pittura” che organizzasti proprio qui, a Sbèn? Si chiamavano “Sfere per amare”, non a caso. Allora, quest’arte per amare, è un surrogato dell’amare vero? Sì e no, perché, se io non scrivo, non faccio degli oggetti e poi scompaio, quel che ho fatto, ho fatto, per cui questa testimonianza.. Torno a dirti che, di fronte al bruciare delle cose, senti che l’arte è anche una congelazione necessaria.. E in certi momenti, è invece necessario, dopo averla imparata, ..metterla da parte. Ma io credo in un processo che non ha fine: può essere la vita che ti porta all’arte, l’arte alla vita.. Dovendo scegliere, a un bivio così manicheo, sceglierei.. la ‘manica’ della vita, ma spero che la mia camicia abbia tutte e due le maniche! Oppure di togliermi la camicia e mostrarmi nella mia pochezza o nella mia bellezza, a quelli a cui possa piacere.. Non credo che a un certo punto smetterò di fare arte: sia per ‘limite’ mio, e sia perché il limite di Duchamp è anche un falso limite. Io spero di fare tutto. Certo, se mi trovassi costretto a scegliere, mi spaccherei

Ora vorrei portare l’attenzione sul composito libro-opera P’alma di mano. poema da quadrivio (nel quale fui coinvolto per il lavoro di editing), dalla laboriosa gestazione piuttosto intrigante, a causa delle sue non sperimentate componenti che richiedevano mezzi tecnici inusuali e un casuale risvolto spettacolare. La realizzazione, letteraria e plastica, ha insolite componenti e caratteristiche: libro-oggetto (edizione Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 1989-’94) a forma di sedere (di una bella giovane che scoprimmo... fotograficamente prima della televisione con la complicità… del fotografo Angelo Caligaris, a cui si deve l’immagine di copertina); box-scrigno di cm 37x26.5, rivestito in raso rosso; poesie porno-mistiche stampate con scrittura rossa su carta rosa, integrate con grafici in celeste; tiratura cento + xxx esemplari,

Poesia autografa di Patella scritta con matita multicolore

Poesia da Versi Sale, pubblicata anche in “NONONO Sì”, © LP 6.93 gazn° 14

Corpo e anima del “Librosedere”

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Immagine del libro aperto

Il libro P’alma di mano nella custodia di raso rosso

Stelle esplosive a Montefollonico, 1970 (dall’Analisi di psico vita), diacolor: sovrimpressione, flash con filtro apposito (immagine base ripresa a lunga posa notturna). Questa foto, quella di destra e altre tre fanno parte del libro P’alma di mano.

Le Volentier de Vénus, 1989, cm 90x60x45, dalla psico installazione Le Boudoir de Vénus realizzata nel 1990 al MUHKA Museum di Anversa (Belgio). L’immagine fotografica è una delle cinque inserite nel libro di cui sopra.

Tavola rotonda-performance alla Galleria Planita di Roma (21 aprile 1994), per la presentazione del libro-opera P’alma di mano

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contenenti una cassetta-audio con poesie lette dall’artista e l’intervista ‘volante’ di chi scrive sopra riportata (‘accompagnata’ dai rumori ambientali dei giardini pubblici di Sbèn, liricamente valorizzati…); primi trenta esemplari anche con cinque opere fotografiche e un disegno-collage originale. In realtà sono stati realizzati solo 6 esemplari riservati all’autore e agli addetti ai lavori; mentre successivamente la foto di copertina è stata utilizzata in tre opere grafiche seriali di diversa concezione e grandezza. Ecco come il “librosedere” marino è stato progettato, costruito fisicamente e presentato al pubblico. L’edizione doveva avere la forma di un bel fondoschiena femminile, tipo quello della famosa opera dadaista di Man Ray Violon d’Ingres. Occorreva perciò trovare una forma ideale da fotografare. Iniziarono subito le ricerche… ma non era facile scoprire… certe parti anatomiche. Dopo vari tentativi andati a vuoto, fu sparsa la voce… e finalmente arrivò la segnalazione di un fotografo professionista che assicurava l’esistenza del ‘soggetto’ con i lineamenti curvilinei adatti al caso. Luca ed io facemmo subito un sopralluogo allo studio fotografico di Roma dove si trovava la ragazza che passeggiava nel loft già in disinvolta veste adamitica. Verificati i requisiti…, sedutastante furono scattate cinque foto. Il libro d’artista, non avendo la solita forma geometrica, creò problemi specialmente per fustellare la “sagoma” e costruire il relativo involucro. Dopo qualche anno, guardando un popolare programma televisivo, con sorpresa riconoscemmo la fotomodella che, grazie a un appropriato look, era divenuta una nota soubrette abbondantemente

presente in spettacoli televisivi, giornali e periodici. La nostra, dunque, fu una fortunata avanscoperta o, meglio, una retro-scoperta e una inconscia scelta cul-turale, dato l’uso artistico della porzione di corpo. Nell’aprile 1994 Patella inaugurò a Roma un’esposizione alla Galleria Planita di Via Ripetta con alcune sue opere, scritturali e plastiche, eseguite manualmente con oggetti trovati ed elaborati concettualmente o con sofisticate apparecchiature. Il giorno dell’inaugurazione attuò una performance incentrata proprio sulla presentazione di P’alma di mano... In mezzo alla Galleria era stato collocato un tavolinetto-opera (ideato a Sbèn per materializzare una visione ideale e mentale riferita a Duchamp, padre delle neo-avanguardie), denominato Red-made con Epergne, con al centro una fontanella ‘coccotièra’ che di tanto in tanto faceva zampillare l’acqua. Attorno ad esso tre noti critici - Bruno Corà (anch’egli poeta), Maria Grazia Tolomeo Speranza (curatrice di esposizioni alla Galleria d’Arte Moderna di Roma), Gabriele Perretta (portavoce del Medialismo) - e una ragazza nuda (“Ready maid”, cioè ragazza “pronta”, svelata…), che sostituiva degnamente la soubrette impegnata nella registrazione di una puntata di uno spettacolo televisivo. I tre discutevano creativamente del “libro”; mentre “Ella” - che rappresentava l’inconscio dell’artista - ogni tanto interveniva con brevi, misteriose frasi. Intanto Patella (seminascosto tra l’attento… pubblico accorso…) interferiva leggendo alcune poesie ironico-patetiche e porno-mistiche.

Copertina della rivista di poesia e arte “Hortus” n. 7/1990 con il servizio speciale di Marucci su Patella. L’opera qui riprodotta si intitola Luca, Luce, Lumière, 1992, fotografia a colori, cm 170x130, Collezione Fondazione G. Morra, Napoli (da Polaraid gigante, collez. Polaroid Corporation, Boston), ph L.P.: autoritratto dell’artista che lancia una “Cauda Pavonis”.

L’Artista scruta dal buco di un dischetto e mostra l’immagine rotonda di GLOVIS in una sua pubblicazione del 1999, diacolor, San Benedetto del Tronto, 2003 (giardino di casa Novelli, ph L. Marucci)

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Note L’Intervista continua... a Luca Maria Patella rappresenta un’esperienza irripetibile… per entrambi. Va ad aggiungersi alle numerose conversazioni avute nel corso di una lunga frequentazione ed è rimasta pressoché inedita, nonostante fosse curata nei dettagli. Si tratta di un lavoro datato, ma resta attuale, anche se Luca, avendo l’abitudine di rimaneggiare gli scritti, forse l’avrebbe ulteriormente ritoccata linguisticamente e concettualmente. Diviso in tre parti, affronta varie tematiche e offre l’opportunità di conoscere meglio le motivazioni della complessa attività dell’artista e il suo pensiero; svela la genesi e lo sviluppo delle principali realizzazioni e documenta, dal lato creativo e umano, un periodo significativo della sua esistenza. Quando egli spazia in altri ambiti, riporta sempre l’attenzione su di lui, fornendo altri elementi utili alla comprensione della sua operAzione. Inoltre, sentendosi stimolato e libero di esprimersi senza limiti, fa emergere le insolite doti di intellettuale dalle capacità comunicative e inventive, dando sfogo pure alla sua vena ironica. L’intervista in progress, concepita come azione complementare alle altre nostre collaborazioni di vario genere, è stata praticata allorché si rendeva necessario indagare determinati aspetti rimasti inesplorati; durante incontri in luoghi diversi, spesso ‘sacrificando’ le vacanze; all’aperto, al telefono, per via epistolare ed email. Poi - come in altre occasioni - è subentrata la fase piuttosto impegnativa del perfezionamento, a più riprese, da cui è scaturita la versione definitiva. I momenti della revisione, così partecipati e carichi di tensioni, hanno portato alla sua interruzione fino a pregiudicare la finalizzazione. In seguito ci sono stati altri dialoghi per il servizio monografico su “Hortus” ampiamente rielaborato per la formazione di un Cd-Rom, anche questo congelato per dissensi. Da allora, fra noi, silenzio assoluto.

1.

Fin dagli esordi Patella si è dedicato, sempre con spirito sperimentale, anche all’attività incisoria. Negli anni in cui passava le vacanze a San Benedetto, stabilimmo un costruttivo rapporto teorico-pratico. Così furono ideati originali lavori che si possono definire repliche differenziate più che opere seriali o moltiplicate, in quanto realizzate in pochi esemplari, con procedimenti non convenzionali e senza finalità mercantili. Anche quando le parti costitutive erano assunte come ready-made, si giovavano di manualità e soggettività. Le edizioni - nate da una stretta collaborazione tra l’autore e l’esecutore per il piacere di inventare - si differenziano l’una dall’altra, anche perché costruite con particolari materiali. In esse il supporto non è inerte: interagisce con il soggetto mettendo in evidenza la duplice componente figurale e scritturale-concettuale... L’artista interviene

2.

personalmente e, passando da un elaborato all’altro, attua un processo performativo che si esaurisce con l’ultimo esemplare. Così l’opera si connota come replica e, al tempo stesso, come pezzo unico. Ciascun esemplare è accompagnato da un “certificato di autentica” e da una “di chiar azione” - come “appen dice del lavoro” da “es porre a lato dell’opera” - con indicate le caratteristiche della serie di opere, che consente di focalizzare l’idea di base. Queste realizzazioni hanno anche la pretesa di ridimensionare l’abusato ricorso ai metodi di riproduzione industriale standardizzati per fini commerciali, in cui il codice artistico viene sostituito da quello puramente estetico. Con la loro individualità si oppongono alla pratica, ormai consolidata, di delegare totalmente all’editore la formalizzazione, per cui l’artista non ha alcun rapporto con lo stampatore, ma solo il compito di firmare la tiratura. Tra l’altro veicolano la conoscenza delle modalità linguistiche dell’autore, contribuiscono a ristabilire un rapporto di fiducia con il fruitore e a riqualificare l’opera moltiplicata in generale. Vocazione letteraria e capacità manuali sono alla base del ciclo di specchi scritti con ‘penna elettrica’. L’uso di questo mezzo iniziò nel 1974, allorché furono prodotte le repliche differenziate tridimensionali. Esse consistevano in cristalli e specchi incisi con la fresa elettrica usata dai dentisti. In particolare, lavorando al multiplo Storia della neve - costituito da cornice in legno, cristallo e specchio - fu visto che nei 10 esemplari dell’edizione la scritta ‘bianca’ su cristallo trasparente, con specchio retrostante posto a una certa distanza, creava un suggestivo effetto speculare, dove l’elemento visivo grafico-figurale si univa a quello concettuale. Fin dall’inizio Patella aveva dimostrato grande maestria nell’uso di questo utensile, che gli consentiva di ‘scrivere’ con una certa scioltezza su un supporto diverso. In quella circostanza improvvisò per me un’opera scritta utilizzando uno degli specchi di riserva con cui doveva realizzare l’edizione e fu quello il primo pezzo unico eseguito con tale tecnica. Visti gli ottimi risultati, egli mostrò interesse per il nuovo medium e così acquistai per lui quel ‘motorino con cordone ombelicale’ e alcune frese. Da allora Luca, con quella ‘penna’, ha riempito ‘pagine circolari di cristallo’ con la scritta a spirale. 3.

Testo liberamente tratto da «Juliet» (Trieste), n. 114, ottobre-novembre 2003, p. 52. 4.

Dialogo registrato ai Giardini pubblici di San Benedetto del Tronto il 14 agosto 1989; pubblicato in “Hortus”, n. 7, gennaio-giugno 1990, pp. 4-12. 5.

Patella ressemble a Patella, installazione con dipinti ovali dal 1964 al 2007, Napoli, Castel Sant’Elmo, 2007 (ph F. Donato; © Fondazione Morra)

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CELEBRAZIONE DI GIOVANNI TEBALDINI NEL 150° DELLA NASCITA di Anna Maria Novelli

1

864-2014: 150 anni dalla nascita del musicista e musicologo GioAl termine la Corale Polifonica ha eseguito l’Inno alla Madonna del vanni Tebaldini, che le giovani generazioni conoscono poco, ma SS. Sacramento (composto da Tebaldini nel 1944 per la chiesa che era che, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, fu una figura di solito frequentare) e un brano del Bianchi. rilievo, specialmente nell’ambito della musica sacra, non soltanto in Il 26 settembre, presso l’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Brescia si Italia. Antesignano della paleografia musicale, riportò alla luce parè svolto un Pomeriggio di Studio con sapienti relazioni. Don Alberto titure di talenti del passato, dimenticate tra la polvere degli archivi, e Donini (direttore della Scuola diocesana di Musica) ha inquadrato le fece eseguire in “concerti storici” fin dal 1891. Fu anche precursore La riforma della musica sacra tra Otto e Novecento in Europa; della moderna musicologia con saggi pubblicati sui più prestigiosi Mariella Sala (direttrice della Biblioteca del Conservatorio “Luca Maperiodici specializzati, compositore, ameno conferenziere, direttore renzio”), a seguito di un’attenta ricerca, ha parlato d’orchestra e di cori. Aveva frequentato il Conservade La corrispondenza di Tebaldini con gli amici torio di Brescia e quello di Milano, avendo tra gli altri docenti Amilcare Ponchielli. Dopo un iniziale bresciani, in cui egli spesso lamentava la disaffezioperiodo in cui compose musica profana, si trasferì ne della sua città per la musica classica. Marco Biza Regenburg, in Germania, per perfezionarsi alla zarini (critico musicale e ricercatore dell’Università famosa Kirchenmusikschule in musica sacra e in di Padova) ha trattato con acume un interessante, questo settore fu anche fervente attivista, apprezzato particolare aspetto della sua attività, Tra Dante e soprattutto per i rigorosi principi che difese costanPalestrina: l’estetica comparata nei saggi inediti temente pure con atteggiamenti polemici. di Tebaldini. Egli merita di essere ricordato per la genialità, la Gli omaggi di Brescia sono proseguiti con tre conmultiforme produzione, l’intregrità morale, le idealità artistiche ed umane. Quest’anno è stato celebracerti a lui dedicati (19 ottobre, 30 novembre e 24 to (e si continuerà a farlo fino alla prima metà del dicembre), voluti dalla Congregazione Sacra Fami2015), nelle città in cui operò, a iniziare da Ascoli glia di Nazareth di San Piamarta (cugino di seconPiceno (sede del Centro Studi e Ricerche a lui intitodo grado di Tebaldini). Nel primo l’organista Anlato) che gli ha intestato una via, come già Brescia drea Macinanti ha eseguito con i Ragazzi del Coro (città natale), Loreto (dal 1902 al 1925 fu direttore di San Giovanni in Persiceto musiche di M. E. Bossi, della Cappella Lauretana), Roma (dove diresse conunitamente a Comunione e Sonata di T. certi, tenne conferenze, espletò incarichi ministeriaIn novembre si svolgeranno altri due concerti che li) e San Benedetto del Tronto (in cui trascorse gli prevedono composizioni di Tebaldini: il 22 la sopraultimi dieci anni dell’esistenza e morì nel 1952). Giovanni Tebaldini a Regensburg (1889) no Gloria Busi proporrà musiche profane; il 30 un E proprio dalla città balneare, il 13 settembre, ha coro aderente all’USCI brani sacri nella Rassegna “Musica Divina”. avuto avvio il primo Convegno, L’Unissono ideale. San Pio X e Giovanni Tebaldini: La musica sacra per educare alla bellezza, preIl 19 gennaio 2015 sarà la volta di Parma, dove Tebaldini diresse il ceduto, il 25 maggio a Roma, da una Messa commemorativa nella Regio Conservatorio dal 1897 al 1902. In quelli anni si allontanò dal Basilica della SS. Immacolata e San Giuseppe Labre, durante la quale lavoro legato alla musica sacra per dedicarsi alla formazione musicale il M° Graziano Fronzuto aveva eseguito suoi brani d’organo. e interdisciplinare dei giovani ed ebbe la soddisfazione di orientarne La manifestazione di San Benedetto è stata organizzata, presso l’Audialcuni e di assistere alla loro affermazione, in primis Ildebrando Piztorium comunale che porta il suo nome, dalla Corale Polifonica “G. zetti, il più autorevole operista del Novecento dopo Giuseppe Verdi. A Tebaldini” (che ha festeggiato il decennio di esibizioni sotto la direproposito di quest’ultimo va ricordato che nel periodo parmense Tebalzione del M° Guerrino Tamburrini) e dall’Assessorato alle Politiche dini poté stabilire un amichevole rapporto con lui. A Parma, dunque, Culturali del Comune. a cura del Conservatorio, si terrà una Giornata di Studi con qualificati Don Vincenzo Catani (parroco della Chiesa San Pio X) ha letto una relatori (Lucia Brighenti, Marco Capra, Carlo Lo Presti, Giuseppe Mardocumentata Lectio magistralis sul Magistero di San Pio X (del quale ricorre il centenario della morte) che, tra l’altro, con il Motu tini, Gian Paolo Minardi, Raffaella Nardella, Paolo Peretti, Donatella proprio del 1903 impose il ritorno al canto gregoriano e alla polifonia Saccardi) e un Concerto Corale, diretto dal M° Tommaso Ziliani, che palestriniana nelle funzioni religiose. Il Pontefice, santificato di recenvedrà protagonisti gli allievi di quell’Istituto musicale. te, quando era vescovo di Mantova, divenne amico di Tebaldini che in A conclusione dell’anno tebaldiniano anche l’Università di Padoquel periodo dirigeva la Schola Cantorum della Basilica di San Marco va (città in cui il maestro diresse la Cappella Antoniana dal 1894 al a Venezia (1889-1894) e si adoperava perché la riforma fosse applicata 1897) organizzerà per la primavera del 2015 una Giornata di Studi in tutte le chiese. Il M° Tamburrini ha rievocato gli incontri tra Tebale un Concerto; mentre la Fondazione “Ugo e Olga Levi” di Venezia dini e il Papa, mentre il musicologo Paolo Peretti - docente di Storia pubblicherà il Catalogo tematico delle composizioni sacre, profane e della Musica al Conservatorio “G. B. Pergolesi” di Fermo - restando trascrizioni di Tebaldini (che ha comportato anni di ricerche). in clima di recupero dell’antico, ha presentato un libro con trascriIntanto quotidiani e riviste stanno dando spazio alla ricorrenza. zioni di Mottetti di Giulio Cesare Bianchi, autore piceno del Seicento.

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Jommi Demetrio La storia La Ditta “Jommi Demetrio” inizia la sua attività nel 1970 quando l’attuale titolare, dopo aver fatto esperienza per un lungo periodo nelle aziende di più antica tradizione di Montappone, decide di mettersi in proprio. Nei primi anni si presenta sul mercato nazionale con una vasta gamma di articoli nella linea classica. Da lì parte un graduale sviluppo che vede allargarsi ed arricchirsi sempre più le tipologie di lavorazione, la struttura produttiva e le collezioni che si compongono anche di capi estrosi ed elaborati per importanti defilé di moda. Nel 1984 viene avviata un’attività di commercializzazione di cappelli estivi ed articoli da mare lungo la costa adriatica. Attualmente la “Jommi Demetrio” è una delle realtà più importanti del settore in diverse regioni. Il continuo aggiornamento e il moltiplicarsi di iniziative imprenditoriali, insieme a una curata attenzione al prodotto, rendono l’Azienda ancora fortemente competitiva. La produzione Dedicata per la maggior parte agli articoli invernali, la produzione si sviluppa sia sul programmato che sul pronto moda. Gli articoli per uomo, donna e bambino sono di livello medio-fine. Le esperienze tecniche accumulate in tanti anni di attività, la manodopera specializzata, la continua collaborazione con le firme più prestigiose dell’alta moda e del prêt-à-porter, la costante ricerca nella modelleria, l’impiego di materiali eleganti e di qualità, sono gli elementi che rendono la Ditta capace di interpretare i mutamenti delle tendenze e di adattare tempestivamente ad essi le collezioni e la produzione. La politica aziendale Alla base del successo della “Jommi Demetrio” c’è sempre stata l’intenzione di soddisfare i clienti, sia nel servizio che nel prodotto. L’Azienda mira alla competenza per ottenere risultati certi e Jommi Demetrio

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costanti e ad instaurare rapporti stabili e di reciproca fiducia con chi si rivolge ad essa.


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LIONE CITTÀ DELLA SETA E DEI CAPPELLI di Stefania Severi

L

ione è la terza città della Francia, dopo Parigi e Marsiglia, che però supera in estensione territoriale, ed è capoluogo della regione Rodano-Alpi. Anche se nella zona esisteva un insediamento gallico, il suo primo sviluppo si ebbe con la fondazione, nel 43 a.C., della città romana da parte di Lucio Munazio Planco, luogotenente di Giulio Cesare, il quale forse aveva già impiantato in quel luogo il suo accampamento. Fu Cicerone a proporne in Senato la costruzione. Planco con l’aratro tracciò, in collina, sulla riva destra della Saona, i confini della città che chiamò Lugdunum, “fortezza del dio Lúg”, suprema divinità dei Galli. La zona della fondazione ancora oggi conserva nel nome, Fourvière, traccia dell’indicazione “Forum Vetus”, foro antico. La posizione, alla confluenza del Rodano con la Saona, ha fatto di Lione un centro sempre più importante, per cui divenne capitale della Gallia Lugdunense, una delle tre province in cui era suddivisa la Gallia. Vi nacquero gli imperatori Claudio (10 a.C.) e Caracalla (188). Ma lasciamo la storia per venire ai nostri giorni e sottolineare che la Lione romana, le cui vestigia più importanti sono costituite da un teatro, è particolarmente ben conservata, e vanta un bellissimo museo, sapientemente mimetizzato nel sito archeologico, ricco di reperti valorizzati da pannelli esplicativi e proiezioni. Nel Medioevo la città non si estese molto, ma ebbe intensa vita religiosa, tanto che vi si tennero due Concili. Alla fine del 1400 alcuni tessitori italiani introdussero l’industria della seta, che trovò nella città le condizioni per prosperare, grazie anche all’interesse del re di Francia Francesco I il quale, nel 1536, decretò che la città fosse la sola autorizzata, nella regione, al commercio della seta. La ricchezza arrivò a partire dal 1500, quando i banchieri fiorentini, tra i quali i Medici, vi giunsero, attirati dalla libertà di commercio, dalle quattro fiere annuali e dalla facilità di collegamento con l’Italia. È in quest’epoca che la produzione della seta crebbe al punto da far diventare la città uno dei centri produttivi più importanti. Nel 1805 Jacquard inventò la macchina che apportò alla produzione un grande miglioramento tecnico. E oggi? Purtroppo sono pochi

La Chapellerie Weiss, specializzata in cappelli da uomo

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Veduta della collina della Fourvière con la Basilica di Notre-Dame da una delle passerelle sulla Saona

Il Teatro Romano visto da una delle finestre del Museo Gallo-Romano


gli artigiani della seta e lavorano soprattutto come restauratori di tessuti antichi o per una élite, ma un tempo i Canuts, così venivano chiamati i setaioli, costituivano una parte significativa della popolazione. Girando per la città vecchia si incontra ancora qualche bottega artigianale, come la Soierie Saint-Georges. Oggi il Museo dei tessuti e delle arti decorative, fondato a metà del 1800, conserva splendidi manufatti in seta che documentano l’evoluzione del gusto e delle tecniche dal Rinascimento agli anni Cinquanta del 1900. È uno dei musei più ricchi di tessuti al mondo, contando circa 2 milioni e 500 mila pezzi, tra i quali anche vestiti e accessori, che sono posti in esposizione a rotazione per evitare che si deteriorino. Il Museo è anche centro di studi sui tessuti ed ha due laboratori di restauro. Vi abbiamo scoperto pure dei cappelli di seta, moda francese del 1700, e la bella cartolina, edita dall’Istituzione, che li presenta unitamente a uno splendido paio di guanti e a una borsettina (sempre della stessa epoca). Tra i tanti abiti c’è un elegante vestito da sera di Mariano Fortuny, “Delphos”, ispirato all’antica Grecia, realizzato a Venezia nel 1920-’30, in satin, seta e perle di vetro. Ma belli sono anche i nastri di guarnizione che si producevano fino agli anni Cinquanta del secolo scorso e che ancora arricchiscono i cuscini delle nostre nonne. Lione è oggi una città attraente. L’area romana è perfettamente conservata e valorizzata. La parte vecchia, caratterizzata dai traboule (passaggi interni che collegano i vari palazzi) è patrimonio dell’Unesco. I quartieri moderni, che a partire dal 1700 sono andati espandendosi sulla riva sinistra della Saona fino a raggiungere il Rodano, sono tutto un susseguirsi di ampie piazze con monumenti e fontane, strade con bei palazzi, tra i quali il Municipio e il Museo delle Belle Arti, il secondo di Francia dopo il Louvre. Poi c’è la Lione contemporanea, con gli edifici della Confluence, la zona dove il Rodano e la Saona si incontrano, e la Città Internazionale, presso il Parco della Testa d’Oro, ristrutturata dall’architetto Renzo Piano, in cui sorge anche il Museo d’Arte Contemporanea, aperto solo per esposizioni temporanee. Lione è la città dei fratelli Lumière, gli inventori del cinema; di Saint-Exupéry, l’autore de Il Piccolo Principe, e del celebre cuoco Paul Bocuse (nato a pochi chilometri dalla città), il che la dice lunga in fatto di cultura e di gastronomia. Siamo andati a cercare negozi di cappelli e li abbiamo trovati presso Place Bellecour, una delle più grandi d’Europa. Dalle immagini che corredano l’articolo si può dedurre che Lione merita a pieno titolo l’appellativo di “città elegante”. Questo e molto altro è Lione.

Chapellerie Cartier con vasto assortimento di cappelli per uomo e donna

Acconciature femminili esposte nella vetrina della Chapellerie Carrel

La macchina per realizzare i cordoni nella Soierie Saint-Georges

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VINCENZO RACCOSTA e il suo casale di Nanda Anibaldi Edizione 2014. Edizione speciale. una famiglia contadina nata nel 1927. E per i figli. Il luogo lo stesso, Casette d’Ete di Sant’Elpidio a Silvana me lo indica per timore che mi sfugga. Le Mare civico 738. La strada per arrivarci porta il suo sorelle Silvana e Bianca hanno ripreso in mano il cognome. Bianca. Polverosa. Accidentata. E poi il sogno di Vincenzo che voleva vicino a sé artisti marCasale il cui nucleo più antico è del 1700 con una chigiani perché avessero una visibilità anche tra sua dignità e immancabile accoglienza. un pubblico più minuto, più vicino al suo cuore. La prima mostra d’arte parte nel 2011 e doveva Sognava un sogno possibile. Realizzabile e lo ha essere una biennale. Ci saremmo dovuti rincontradimostrato. Silvana mi dice che il non continuare re nel 2015 dopo il bellissimo incontro del 2013. avrebbe significato fargli un torto. E doveva e deve L’anticipazione purtroppo per il tristissimo evento continuare lì dove il tutto è cominciato. della morte improvvisa e del tutto inaspettata di In quella campagna che odora di fieno tagliato su Vincenzo. Per ricordarlo. Per celebrarlo insieme ad quell’impiantito dell’aia ancora intatto tra quei altri pittori suoi amici. Lui, il vero pittore naïf, allemuri che sanno di tempo. Tra ricordi di famiglia a vatore di oche. Oggi neppure loro ci sono più. Solo Vincenzo Raccosta indica le immagini di una sua opera cui Vincenzo teneva molto tanto che ha ricostruito qualche esemplare con cui firmava le sue opere. Un citazionista la storia dei Raccosta dal 1750 ad oggi. marchio di fabbrica. Un inconfondibile segno di ricoNumerosi ad applaudirlo. Di artisti 36. Per lo più dinoscimento. plomati e accademici. Solo qualcuno autodidatta come Perito in telecomunicazioni, Vincenzo si è dedicato Carla Abbondi che presenta un suo acquerello Senza alla sua campagna che amava sopra ogni altra cosa titolo Graziella Gabrielli con un olio su tela. Marisa e alla quale ha rubato ogni espressione che colora le Marconi Cipriano Olivieti Cleofe Ramadoro Maria Sisue pitture. lenzi. Indubbiamente talentosi. Il vero naïf senza filtri. Rappresenta ciò che vede. Ciò Qualcuno più conosciuto come Carlo Iacomucci con che sente. Rapisce con passione e occhi avidi quello che il Volo oltre lo spazio, acquacrilico e penna china. gli si presenta nella quotidianità. La generosità della Giampiero Castellucci con Senza titolo, tecnica minatura gli corrisponde. C’è una reciprocità di scambio. sta su carta. Maurizio Governatori con Transiti, olio su A salutare Vincenzo circa trecento persone tra artisti tela. Qualcun’altro conosciuto e apprezzato in Italia e amici familiari più o meno prossimi. all’estero come il pittore Sandro Trotti presente con La L’ho incontrata per prima la sorella Silvana a cui le ladonna di Quilin, olio su tavola, e lo scultore Arnoldo crime non facevano difetto. Un po’ impacciata alle mie Anibaldi con Acquario, pittorilievo acrilico/smalto. prime domande, poi si è sciolta facendomi fare il percorNomi più noti e meno noti ma tutti animati dallo stesso so della casa fin nella camera dove Vincenzo è morto. Un desiderio di esserci e di esprimere il meglio delle loro percorso d’arte. I suoi quadri appesi dappertutto. Una possibilità. Uniti dall’arte che, come ha sottolineato la casa-museo. Un percorso d’arte di affetti di ricordi. Di un critica e direttrice artistica Cecilia Casadei, vede l’invipresente e di un passato più o meno lontano più o meno sibile o quello che altri non vedono. Veramente comrecente. E quando il passato ritorna potenzia il tempo mossa nella sua introduzione alla mostra Artenatureale. Lui amava quei letti quei cassettoni quegli ar- Sandro Trotti, Donna di Quilin, olio su tavola, ralmente, ricorda Vincenzo con i suoi occhiali fuori madi di metà-fine ottocento e primi novecento. Come cm 21,5x12 moda la sua maglietta verde i pantaloni arrotolati e affetti. Come rapporti di relazione che il nipote Martino la sua oca prediletta più volte risparmiata. Ricorda il dice di essere stato costretto ad interrompere. E lo dice suo modo spontaneo-genuino di approcciarsi all’arte. con le lacrime a fior di ciglio. Segue il percorso inLa sua generosità e la sua sincera amicizia legasieme alla madre Silvana avido di ascoltare le cose te sempre da una sottile ironia. L’arte - continua che conosce già. Cecilia Casadei - ci dà la possibilità di arrivare Ho conosciuto fisicamente pure Bianca, la sorella all’eternità. Regala l’immortalità ma anche la più giovane di Vincenzo ma, calamitata com’era giovinezza.Forse non ha la possibilità di cambiare da interviste televisive, il nostro fugace incontro il mondo ma può modificare lo sguardo che abbianon ha avuto la possibilità di sciogliersi in un diamo sul mondo. logo. Ce ne andiamo con il desiderio di tornare. Con altri Un percorso di famiglia dunque che ha evidenziato eventi. Con il beneficio che nasce da una caratura anche il diploma incorniciato della madre dei fradimensionata su colori forme immagini emozioni telli Raccosta. Motivo di orgoglio per una donna di parole. Carla Abbondi, Senza titolo, acquarello, cm 56x76

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U

n’azienda che affonda solide radici nella tradizione artigianale tramandata da tre generazioni, in grado di coniugare la sapienza del passato con l’innovazione e la ricerca, sempre pronta ad intercettare le richieste del mercato in continua e rapida evoluzione. Il Factory Store, brillantissima operazione di Marketing, con la sua eterogeneità di prodotti eccellenti crea pluralità di suggestioni in ogni cliente che sceglie di immergersi in una affascinante esperienza di shopping carica di glamour. Avvolti da un’atmosfera chic, si possono trovare oltre ai materiali tradizionali come la paglia, una moltitudine di inserti ed applicazioni che vanno dai tessuti ai filati pregiati, a pelle, perline, merletti o pizzi: il tutto per impreziosire cappelli, accessori e borse dall’inconfondibile gusto italiano. Non mancano poi, in questo viaggio degno della penna di Truman Capote, sciarpe dalle fantasie policrome e raffinati bijoux in ambra, madreperla e quarzo. Una menzione speciale infine per le cinture di pelle: accessori di alta qualità realizzati interamente a mano, con lavorazioni particolari e di alta qualità. www.ferrucciovecchi.com

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