HAT, Primavera-Estate 2015, n. 61 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita
PERIODICO DI ARTE CULTURA E MODO DI VESTIRE ABBINATO AL CAPPELLO
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BIENNALE DI VENEZIA 2015 IL FUTURO NELL’ARTE DEL PRESENTE di A. M. Novelli - pag. 4 LO TSUNAMI UMANO di C. Paci - pag. 10 BIENNALE OFF MAREA DI EVENTI A VENEZIA di L. Morelli - pag. 11 NOVITÀ POLITICHE A MASSA CON LO STATUTO DEI FERMANI DEL 1252 di C. Tomassini - pag. 15
Giugno 2015 Periodico di arte, cultura e modo di vestire abbinato al cappello edito da HAT - Via Fontecorata, 4 I-63834 Massa Fermana (FM) Tel. +39 0734 760099 serafini.renato@libero.it
massa fermana - cenni storici NICOLA MARINI E L’INDUSTRIA DEL CAPPELLO DI PAGLIA di G. R. Serafini - pag. 18 Il CONVENTO DI SAN FRANCESCO A MASSA FERMANA RECUPERO DI UN MONUMENTO di G. R. Serafini - pag. 22
La direzione non risponde del contenuto degli articoli che sono di responsabilità degli autori Anno XIX numero 61 Primavera - Estate 2015 Reg. Trib. di Fermo n. 4 del 4.3.1992 Direttore Responsabile Stefania Severi Capo Redattore Maria Alessandra Ferrari alessandra_ferrari@tiscali.it Segretario di Redazione Ruggero Signoretti Stampa Manservigi – Monsano (AN) Redazione fotografica Archivio fotografico HAT Hanno scritto in questo numero: Nanda Anibaldi Pasquale Barbella Maria Alessandra Ferrari Bruno Ferretti Rita Forlini Belinda Formentini Luciano Marucci Loretta Morelli Anna Maria Novelli Carlo Paci Matteo Petracci Luigi Rossi Giuseppe R. Serafini Stefania Severi Ruggero Signoretti Carlo Tomassini Annacarla Valeriano
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LA MODISTA DI MARIA ANTONIETTA REGINA DI FRANCIA di B. Formentini - pag. 24 DISTRETTO DEL CAPPELLO di G. R. Serafini - pag. 29 Concerto al Conservatorio di Milano LA VENDETTA DEL SAXOFONO di P. Barbella - pag. 32
In copertina: Martial Raysse, Beauté, 2008, tempera su tela, 92,3 x 73,4 cm, opera esposta nella mostra monografica a Palazzo Grassi (collezione privata, courtesy Fondation François Pinault) Martial Raysse (Golfe-Juan, Provenza 1936) è uno dei protagonisti dell’arte francese del secondo dopoguerra. L’antologica a lui dedicata a Palazzo Grassi di Venezia dalla Foundation Pinault ospita più di trecento opere tra dipinti, sculture, installazioni al neon e video; la metà delle quali inedite, disseminate dall’atrio fino al secondo piano. Nel 1960, insieme con Arman, Yves Klein, François Dufrêne, Raymond Hains, Daniel Spoerri, Jean Tinguely, Jacques Villeglé e il critico d’arte e filosofo Pierre Restany, fondò il movimento Nouveau Réalisme. I componenti del gruppo definivano l’arte “una nuova prospettiva - un nuovo modo di vedere la realtà”. Il loro lavoro è stato un tentativo di rivalutare il concetto di arte e di artista nel contesto della società dei consumi del XX secolo, riaffermando gli ideali umanistici di fronte all’espansione industriale. Nel 1972 Raysse, a soli 36 anni, dichiarando chiusa la sua parabola artistica, affermava: “Sono stato un pittore molto noto”. Gli inizi erano stati folgoranti. Annoverato tra gli esponenti di spicco della predetta corrente artistica, aveva assemblato improbabili cataste di oggetti comuni e realizzato un delfino gonfiabile in gomma, molto prima del celebre cane di Jeff Koons. Ma la sua inclinazione era verso la Pop Art, come è visibile nei ritratti di donne dai tratti decisi che emergono da uno sfondo colorato. Poi il lungo silenzio, interrotto, a partire dagli anni Ottanta, con la ripresa del lavoro caratterizzato da quadri di grande formato. Infine l’apoteosi del 2014, grazie all’assegnazione del giapponese “Praemium Imperiale” (una specie di oscar delle arti) e alla grande retrospettiva-omaggio del Centre Pompidou di Parigi. (l.morelli)
JAZZ DI RICERCA DI ROSARIO GIULIANI a cura di M. A. Ferrari - pag. 36 GALLERIA SINOPIA A ROMA ABITARE CON L’ARTE di S. Severi - pag. 38 La moda alle soglie della Grande Guerra di R. Signoretti - pag. 42 MOSTRA AL MAXXI BELLISSIMA. L’ITALIA DELL’ALTA MODA 1945-1968 di S. Severi - pag. 46 LA TRADIZIONE DEL “fatto in casa” di L. Rossi - pag. 48 Il De Oratore di Cicerone primo libro stampato in Italia con i caratteri mobili di S. Severi - pag. 51 BENEDETTO BUSTINI LA PITTURA NEGATA a cura di L. Marucci - pag. 52 Il Texas di Jose Greco a cura di N. Anibaldi - pag. 56 MEMORIE DI VIAGGIO LA BIODIVERSITÀ DELL’ECUADOR di L. Marucci e A. M. Novelli - pag. 60 Dal jipijapa al Panama di B. Formentini - pag. 66 GIORNATA DI STUDIO AL CONSERVATORIO DI PARMA a cura del Centro Studi e Ricerche “G. Tebaldini” - pag. 67 ENZO MORGANTI FOTO-OMAGGIO AL PAESAGGIO ASCOLANO di L.Marucci - pag. 70 Il DRAMMA DEI MANICOMI a cura di L. Marucci - pag. 72 due incontri all’ISML di Ascoli Piceno LA FOLLIA DI GUERRA a cura di R. Forlini, A. Valeriano, M. Petracci - pag. 76 CARLO VITTORI IL GURU DELL’ATLETICA ITALIANA a cura di B. Ferretti - pag. 80
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IL FUTURO NELL’ARTE DEL PRESENTE di Anna Maria Novelli
Una delle contestate navi da crociera mette a subbuglio la Laguna nei pressi di Piazza San Marco
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Akwui Enwezor, direttore del settore arti visive - la Biennale di Venezia (courtesy la Biennale d’Arte, Venezia; ph Giorgio Zucchiatti)
enezia. Biennale Internazionale d’Arte 2015. Per la preview riser- sollecitazioni provenienti dal mondo esterno, dall’incalzare delle vivata alla stampa e agli addetti ai lavori, dal 6 all’8 maggio (con cende storiche, sociali, politiche del presente, che lacerano il mondo un mese di anticipo rispetto all’abituale calendario per permettere con gravi fratture, diffondendo ovunque un sentimento di anxiety”. di raggiungere la città lagunare a quanti sono arrivati a Milano per Del resto, a un secolo dalla Grande Guerra, certe aree del mondo sono l’apertura dell’EXPO e del nuovo spazio espositivo della Fondazione ancora sotto i bombardamenti; i migranti cercano rifugio in terre dove Prada), hotel esauriti, ormeggi occupati da deturpanti maxi yacht, in- pensano di trovare tranquillità, sicurezza e lavoro; i cambiamenti amtroiti record per l’indotto turistico (ristoranti, bientali, economici e sociali sono nei fatti, negozi di lusso, artigianato del vetro); taxi senza che se ne possano prevedere le estreme e gondolieri al top delle chiamate; jet-set di conseguenze. ogni paese impegnata in cene, feste esclusive Visitare la megamostra è piuttosto faticoso. e a godere una città resa più luminosa dalle Dislocata tra il Padiglione Centrale ai Giarcondizioni meteorologiche favorevoli. Venedini (3.000 mq) e l’Arsenale (9.000 mq), zia in questo è veramente all’avanguardia, la comprende anche 88 Padiglioni nazionali: migliore delle vetrine internazionali per di29 nelle costruzioni storiche ai Giardini, 31 mostrare che si è “in”. E i residenti ne approall’Arsenale, altri 29 in palazzi storici della fittano per affittare, a prezzi fuori mercato, città. E, come se non bastasse, ci sono pure ogni spazio anche scomodo. molti eventi collaterali. Edizione speciale, dunque, questa 56. BienBaratta considera questa Biennale la connale, la più lunga della storia, in quanto clusione di una trilogia: nel 2011 la svizzera rimarrà aperta fino al 22 novembre. Ha 120 Bice Curiger puntò sul tema della luce e sul anni, ma resiste all’usura del tempo, anzi rapporto artista-fruitore; nel 2013 l’italiano ad ogni biennio si rinnova e reagisce agli Massimiliano Gioni indagò “sulle utopie e attacchi della concorrenza straniera, alla sulle ansie che conducono l’uomo a creare”. crisi economica e al diffuso materialismo Non meno intrigante quanto Enwezor propocon l’energia della cultura. Titolo scelto dal ne quest’anno, cosciente che la fattualità artiCecilia Matteucci Lavarini (collezionista di alta moda) davanti direttore artistico, il nigeriano Okwui Enwestica prenda avvio dalle lacerazioni del nostro di Fabio Mauri Il muro Occidentale o del pianto, 1993, zor, All World’s Futures, per un incontro di all’opera tempo. Così ha voluto far dialogare liberavaligie, borse, bauli, materiale da imballaggio, tessuto e legno, 400 civiltà che, a detta del Presidente dell’Istitu- x 400 x 80 cm (courtesy the Estate of Fabio Mauri e Hauser & Wirth mente il pluralismo di idee di 136 artisti di zione, Paolo Baratta, ha voluto “verificare le Gallery, Zurigo/Londra/New York) 53 paesi, di cui 89 presenti per la prima volta.
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Tra le opere di maggiore impatto, all’entrata del Padiglione delle Nazioni, le funeree tende di Oscar Murillo. All’interno l’installazione di Fabio Mauri con un muro di valigie (che fanno pensare a quelle dei reclusi in campo di concentramento o dei migranti), scritte concettuali alle pareti e altro con la voce di Pasolini che legge La Guinea, “lamento allegorico per l’Italia contadina”. Proseguendo: il gigantesco Dead tree del landartista statunitense Robert Smithson, le totemiche sculture della pakistana Huma Bhabha e, sulla parete di fondo, dipinti dalla armoniosa figurazione naturalistica informale di Emily Kama Kngwarreye. Poi quelli scuri di Victor Man, ispirati al rinascimento italiano che, a guardar bene, raccontano le tristi sorti dei rifugiati politici; l’installazione con progetti di arte urbana di Isa Genzken e quella filmica di Rosa Barba; Vertigo Sea, il video-documentario di John Akomfrah sulle bellezze marine sfruttate dalle azioni distruttive delle “economie immorali” (vedi le stragi di balene); le immagini dei popolati mercati azionari di Andreas Gursky; le foto “scartavetrate e sovrastemperate” di Adrian Piper; i disegni delle manifestazioni di protesta di tante nazioni del tailandese-americano Rirkrit Tiravanija. Non passa inosservato Hans Haacke con i vari ‘fogli’ dai contenuti politici (anche se non facilmente leggibili…) e la metamorfica vela blu orizzontale al centro della sala; l’appartato ambiente naturale-culturale plurilinguistico di Marcel Broodthaers; la minimale opera ‘luminosa’, replicata in più ambienti, di Philippe Parreno; i collages fotografici, la video-installazione e, tra gli alberi dei Giardini, la giostra a carosello a dimensione reale (ovviamente giocosa) di Carsten Höller; la sequenza di piccoli dipinti di Marlene Dumas con l’abituale tema della morte che fa riflettere sulla precarietà dell’esistenza; il tetto del Padiglione, sfondato da Thomas Hirschhorn, che riversa sul pavimento una colonna di macerie, tra
Olaf Nicolai, Non consumiamo… (to Luigi Nono), 2015, un momento dell’opera spettacolo nell’Arena, Counter-tenor Daniel Gloger (courtesy l’Artista e la Biennale d’Arte, Venezia)
Christian Boltanski, Animitas, 2014, video colore, suono, 24 ore; girato in Cile a Talabre, San Pedro de Atacama (courtesy l’Artista)
Thomas Hirschhorn, Roof Off, 2015, installazione site-specific, materiali vari, dimensione ambiente (courtesy l’Artista; Gallerie Artiaco Napoli, Crousel Parigi, S. Friedmman Londra, Gladstone New York)
cui i fogli non a caso scritti in greco; l’Animitas di Christian Boltanski, sacrale immagine - proiettata su un’ampia parete - con 850 campanelle giapponesi che nel deserto cileno di Atacama oscillano su esili, flessibili steli metallici, producendo una delicata visione instabile e un poetico mormorio. Novità assoluta e vitale l’Arena: spazio spettacolare all’interno dello stesso Padiglione Centrale (sempre attivo nei sette mesi di apertura) dedicato a una diversificata programmazione disciplinare, dove attori scelti - sotto la regia dell’artista inglese Isaac Julien - vanno leggendo Das Kapital di Karl Marx, come fosse un Oratorio drammaturgico, nel presupposto che il capitalismo avanzato ha debordato grazie… alla conquista di eccessiva libertà. In questa sezione artisti di diversa estrazione propongono quotidianamente nuove partiture e performance, approfondendo le potenzialità della voce come strumento per scandire “il ritmo della narrazione”. In questo contesto il tedesco Olaf Nicolai si ispira alla composizione in due tempi, Un volto, e del mare / Non consumiamo Marx, del noto musicista dodecafonico veneziano Luigi Nono; Jason Moran e Alicia Hall presentano i canti di lavoro nelle prigioni, nei campi, nelle case; Jeremy Deller le condizioni di vita nelle fabbriche dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri; Charles Gaines esegue la sua nuova composizione Notes on Social Justice; Mathieu Kleyebe Abonnenc partecipa con un memoriale sulla musica di Julius Eastman. Andando all’Arsenale, con o senza navetta, si scopre che i muri laterali della disadorna via di passaggio, per un lungo tratto, sono stati rivestiti da un’infinita… distesa di sacchi cuciti tra loro, importati dal Ghana dall’artista Ibrahim Mahama, per esibire una condizione di vita lontana dalla nostra. Al termine di quello spaesante attraversamento inizia il percorso interno del lungo contenitore storico,
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reso labirintico e intrigante per quantità di opere di ogni genere. Nel commentarlo non seguo l’ordine mappale, ma quello dettato dalle mie impressioni emozionali. Colpisce… il Cannone semovente di Pino Pascali del 1965 (ispirato ai giochi di guerra dei bambini, ma dirompente per la critica ironica al sistema militare). Altra significativa presenza italiana la Latent Combustion di Monica Bonvicini (insieme di seghe - immobilizzate da uno strato di gomma liquida nera - pendenti dal soffitto come spade di Damocle). Ed ecco il sempre vitale e stimolante Bruce Nauman con le sue allusive, intermittenti scritte colorate al neon; la minacciosa distesa di bouquets di alti coltelli, un video e un tappeto vagamente fiorito di Adel Abdassemed; i dipinti tridimensionali e le terre colorate di Katharina Grosse; la morte violenta di un ragazzo in un video di Steve McQueen; i giganteschi autoritratti di Georg Baselitz dal corpo ‘lacerato’, come di consueto a testa in giù; le 10.000 foto-tessere di Kutlug˘ Ataman su un pannello a cristalli liquidi in continuo movimento, sospeso al soffitto come una vela orizzontale; le fotografie dei lavori nei campi della Louisiana di Keith Calhoun e Chandra McCormick; i ritratti di Kay Hassan accompagnati da un pianoforte suonato a intervalli; i vestiti appesi ad alte grucce con storie di donne scritte sul dritto e rovescio del tessuto da Gluklya, che lotta per una Russia più libera; gli 85 film di Harun Farocki che fanno conoscere a una platea più ampia il suo impegnato (in senso civile e politico) corpus di opere. Eppoi: Barthélémy Tonguo, che dà voce a quanti soffrono per le ingiustizie; il video di Cao Fei realizzato con diorami e modellini, ispirato a reali accadimenti, ma “sublimato dalla finzione”; i troni ‘armati’ di Gonçalo Mabunda; le raffinate e liriche tele di Chris Ofili; gli Invisible Borders dell’Associazione The TransAfrican Project; la fabbrica di mattoni di Tiravanija, contrassegnati da una
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Joan Jonas, They Come to Us without a Word, 2013-2015, veduta della composita installazione nel Padiglione Stati Uniti, Giardini della Biennale (courtesy l’Artista e MIT List Visual Arts Centre, in collaborazione con Solomon R. Guggenheim Foundation di New York)
Hitoshi Nakano, curatore del Padiglione Giappone (Giardini della Biennale) nell’installazione The Key in the Hand di Chiharu Shiota, 2015 (courtesy l’Artista e The Japan Foundation)
Irina Nakhova, The Green Pavilion (particolare), 2015, Padiglione Russia ai Giardini della Biennale (courtesy l’Artista)
frase in ideogrammi cinesi, che il suo assistente consegna a chi ne fa richiesta per aprire ad altre comunità. Anche l’Arsenale è vivacizzato da alcune performance. La coppia statunitense Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla coinvolge un corposo coro in un arrangiamento di Gene Coleman riferito a La Creazione di Haydn; Theaster Gates, con un multimediale intervento che affronta la questione dello smantellamento di chiese in quartieri abitati da afroamericani e ispanici; Dora García in The Sinthome Score (collegata a un seminario di Lacan) approfondisce il concetto di linguaggio e inconscio con 10 serie di movimenti delegati a due interpreti (un lettore e un esecutore), i quali possono rispondere alle domande dei fruitori. Insomma ogni visitatore, con la propria sensibilità, può scoprire altri lavori più o meno interessanti per qualità e contenuti. Un po’ frastornati da tante opere di autori affermati o emergenti, si arriva al Padiglione Italia dove Vincenzo Trione (critico d’arte del “Corriere della Sera” e docente universitario) con Codice Italia ha voluto strutturare l’ampio spazio in stanze autonome incaricando l’architetto G. F. Frascino. Così i 15 operatori visuali di diverse generazioni da lui invitati, hanno realizzato in ‘isolamento’ opere monografiche reinterpretando, con i loro linguaggi, “i caratteri originali della nostra creatività” e si sono ricollegati al tema della memoria, pure con l’impiego di nuovi media. Al di là dell’annosa querelle artista unico o collettiva, la scelta ha avuto una sua motivazione. Tra i più convincenti, anche se a volte prevedibili: Jannis Kounellis con un ‘reperto’ classico seminascosto in un cappotto compresso da fune metallica, ‘dimenticato’ su una sedia, concettualmente e visivamente associato a una serie di cappotti neri bloccati da barre di ferro composti a tutta parete, mentre una trave metallica verticale volutamente ne impedisce la percezione con-
templativa; Mimmo Paladino evoca un’arcaica e moderna ‘grotta’ con graffiti neri sui muri bianchi, abitata da una sua tipica statua italica, mentre una piccola scatola, posta in un angolo, lascia intravvedere in lenta sequenza certe immagini della tradizione; Claudio Parmiggiani ha fatto sbucare una grande ancora da una parete di vetro lasciando i frammenti alla base; Vanessa Breecroft ripropone la sua poetica ma con componenti fisiche ed ha chiuso il suo spazio con due lastre di marmo rosa venato, permettendo però di sbirciare in un interno concepito come ‘giardino’ stipato di reperti archeologici; Marzia Migliora ha ricostruito un nostalgico deposito di pannocchie di granturco a ricordo di autentiche pratiche contadine ormai sparite. A supportare il progetto, Trione ha chiamato in causa Umberto Eco, intervenuto con una video-intervista, sempre sul tema della memoria, a cura del regista Davide Ferrario, e tre individualità internazionali di rilievo, affascinate dalla cultura e dalla storia dell’arte dell’Italia che ha dettato “i fondamenti del vocabolario europeo nel corso degli ultimi duemila anni”: Jean-Marie Straub (regista) ha effettuato il rimontaggio del film Lezioni di storia; il sudafricano William Kentridge ha esposto alcuni disegni preparatori di Triumphs and Laments (500 metri di murales che verranno realizzati nel cuore di Roma, sui muraglioni lungo le sponde del Tevere), altri ispirati alla Colonna Traiana e un luttuoso corpo di Pasolini assassinato; Peter Greenaway (pittore, regista e sceneggiatore gallese) ha elaborato una coinvolgente videoinstallazione con sei schermi sulle quattro pareti di una ‘piazza’, dove scorrono immagini, in dissolvenza e sovrapposte, di pitture, sculture, architetture della nostra storia dell’arte. Il tutto accompagnato da una colonna sonora e da altre componenti spettacolari. Passando ad altri padiglioni nazionali spesso si resta un po’ delusi.
Ivan Grubanov, United Dead Nations, 2015, installazione a pavimento (particolare) nel Padiglione Serbia ai Giardini della Biennale (courtesy l’Artista)
Ibrahim Mahama, Out of Bounds, installazione site specific con sacchi di carbone, targhette di metallo e corde di juta (cortesy l’Artista e A Palazzo Gallery, Brescia)
Marzia Migliora, Stilleven /Natura in posa, 2015 (particolare), installazione, materiali vari, dimensioni ambiente, (courtesy l’Artista, Padiglione Italia Biennale di Venezia e Galleria Lia Rumma Milano/Napoli)
Il Cile propone iperrealistiche foto di Paz Errazuriz e Lotty Rosenfeld, raffiguranti pazienti di ospedali psichiatrici e travestiti; l’Albania (a cura di Marco Scotini) lavori di Armando Lulaj in tre differenti linguaggi ideologicamente ben articolati: un simbolico scheletro di capodoglio, una video proiezione e due grandi dipinti. Il Padiglione Stati Uniti assembla video, disegni ed elementi scultorei di Joan Jonas, storicizzata precorritrice di tecniche espressive che indaga, con inventiva sensibilità poetica, il legame dell’uomo con la natura (in luglio nell’ambito della Biennale sarà protagonista di una performance insieme a Jason Moran); il Brasile è occupato da interessanti opere site specific di Antonio Miguel, André Komatsu e Berna Reale basate su individuali concezioni architettoniche dello spazio; la Francia accoglie i visitatori con tre pini marittimi semoventi di Céleste Boursier-Mougenot (uno all’interno del Padiglione e due a ‘spasso’ per i giardini) come organismi viventi che vanno incontro ai visitatori per sensibilizzarli alle sorti della natura; in Australia fa bella mostra l’ambiziosa Wunderkammer di Fiona Hall, tra natura e politica; implicazioni naturali anche in Olanda con la personale dell’anziano maestro herman de vries; la Gran Bretagna con Sarah Lucas personifica organi sessuali in materiale plastico; la Spagna rende omaggio a Salvador Dalì associato a lavori attuali di Pepo Salazar, Cabello/Canceller e Francesc Ruiz (edicola fasulla sulle disgrazie italiane, tra cui i quotidiani taroccati sugli scandali di Berlusconi); in Giappone la giovane Chiharu Shiota ha invaso lo spazio con migliaia di fili arancioni e simboliche chiavi pendenti dall’alto che ricoprono due barche; la Corea con Moon Kyungwon & Jeon Joonho su due pareti proietta diafane, intermittenti immagini in interni asettici con presenze rese artificiali dalla civiltà tecnologica. La Germania - attraverso Jasmina Metwaly,
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Jannis Kounellis, Senza titolo, 2015 (particolare), ferro, cappotti e materiali vari, dimensioni ambiente, (courtesy l’Artista e Padiglione Italia Biennale di Venezia)
Mimmo Paladino, Senza titolo, 2015 (particolare), carbone su muro, fusione in alluminio, schermo a cristalli liquidi e vetroresina, dimensioni ambiente, (courtesy l’Artista, Padiglione Italia Biennale di Venezia e Galleria Christian Stein, Milano)
Philip Rizk, Olaf Nicolai, Hito Steyerl, Tobias Zielony - ha proposto Fabrik, un archivio di ‘illustrazioni’ che portano alla luce gli squilibri del mondo globalizzato. La Russia meraviglia con l’astronauta fuori misura di Irina Nakhova. In Grecia (curatrice Gabi Scardi) Maria Papadimitriou rappresenta con intento critico il rapporto uomo-animale ricostruendo, pari pari, un negozio di tassidermista esistente a Velos. Nel Padiglione Serbia Ivan Grubanov ha raggruppato sul pavimento, come stracci abbandonati, le bandiere di paesi che non esistono più. La Norvegia nel suo ampio spazio interno-esterno associa entità visivearchitettioniche-sonore di Camille Norment. Deludenti Cina, Santa Sede, Danimarca, Israele, Svizzera e Austria. Infine non va tralasciata l’Armenia (curatrice Adelina von Fürstenberg) con Unexposed di Hhair Sarkissian - sul tema dei dissidenti armeni convertitisi all’Islam per scampare al genocidio del 1915, poi tornati cristiani ma ancora costretti a tenere nascosta la loro scelta religiosa - e opere di un’altra ventina di artisti della diaspora che
Vanessa Beecroft, Le membre fantôme, 2015, particolare dell’installazione con tre sculture di bronzo, varie sculture, 2 lastre e basi di marmo, dimensioni ambiente (courtesy Padiglione Italia Biennale di Venezia e Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli)
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focalizzano “la nozione di dislocamento e di territorio, di giustizia e di riconciliazione, di èthos e di resilienza”. I premi sono stati così assegnati: Leone d’oro alla carriera al ghanese El Anatsui (il più attivo artista del continente africano) anche per quanto svolto a favore delle arti e a Susanne Ghez, direttrice di Documenta 11 e curatrice per “Renaissance Society” di oltre 160 mostre di giovani artisti, oggi maestri a livello internazionale; Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale alla Repubblica dell’Armenia e per il miglior artista della mostra All the World’s Futures ad Adrian Piper; Leone d’argento per un promettente giovane artista a Im Hueng-Soon. Le menzioni speciali sono andate a Harun Farocki, a Massinissa Selmani e al collettivo Abounaddara. Un doveroso riconoscimento speciale è stato riservato al Padiglione Stati Uniti per aver prescelto Joan Jonas “artista importante per la sua opera e la sua influenza”. (le foto dell’intero reportage, eccetto quella di Akwui Enwezor, sono di Luciano Marucci)
William Kentridge, Pasolini, 2 novembre 1975, 2015, cartone, cartamodello, resina epossidica e tempera nera, 298 x 706 cm (courtesy l’Artista e Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli)
Armando Lulaj, Albanian Trilogy: A Series of Devious Strtagems, 2015, installazione, Padiglione Albania con il supporto di Servizi Italia Spa e delle gallerie Paolo Maria Deanesi e Artra (courtesy l’Artista)
Chris Ofili, uno dei dipinti del 2015 esposti all’Arsenale (courtesy l’Artista e Zwirner Gallery New York/Londra)
Gonçalo Mabunda, The Knowledge Throne, 2014, proiettili e pistole, 117 x 86 x 60 cm (courtesy l’Artista e Galerie du Passage, Parigi)
Georg Baselitz, uno dei 4 dipinti su tela del 2014 esposti all’Arsenale (courtesy l’Artista; Gallerie Gagosian, Thaddeus Ropac e White Cube)
Natalya Pershina-Yakimanskaya (Gluklya), Clothes for the demonstration against false election of Vladimir Putin, 2011-2015, tessuto, scritte a mano, legno (courtesy l’Artista e MONKI Fashion, Amsterdam)
Sarkis, opera compresa nel progetto Respiro, Padiglione Turchia all’Arsenale (courtesy l’Artista)
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L’ E D I T O R I A L E
LO TSUNAMI UMANO di Carlo Paci
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ltre un secolo fa la comunità italiana era impegnaarrivi di massa nei nostri porti con l’orribile ombra degli ta nella e-migrazione, mentre oggi siamo sotto la annegati o addirittura degli uccisi durante drammatiche sferza della i-migrazione. Mi sia perdonato l’involontatraversate. rio calembour, ma lo sconcertante fenomeno dei flussi All’immigrazione per mare, che contempla sempre più migratori che l’Italia, l’Europa e anche il mondo stanno migliaia di persone in fuga dalle zone di morte dell’Avivendo, almeno per noi, non può ridursi banalmente a frica e dell’Asia, non vanno trascurati gli immigrati via un cambio di vocale. terra: un tempo gli albanesi, ora gli zingari rom, solo per La differenza sostanziale sta nel fatto che, al tempo dei citare le maggiori etnie. nostri nonni, le braccia italiane a migliaia raggiungeNon è facile discettare sulle cause delle ondate migratovano principalmente le coste del Nord e del Sud America. rie, tanto esse presentano aspetti complessi, contorti, inPer la verità non furono tutte rose e i nostri compatrioti compatibili con la quotidianità occidentale. Sta di fatto sopportarono con pazienza, ma con fine intelligenza, che, mentre sulle sponde orientali del Mediterraneo esiinsulti e umiliazioni prima di stono luridi scafisti, sfruttatori conquistare dollari e posizioni di chi affronta i perigli del mare perfino istituzionali. con tanta fiducia, altrettanti Senza ulteriori digressioni vengo luridi personaggi si muovono a quanto attualmente ci penanella nostra penisola per accalizza rispetto alla più elementare parrarsi umile manodopera da valutazione delle responsabilità sfruttare in nero, generando l’eeuropee. Un po’ di speranza si splosivo diffondersi di una nuosta facendo luce: gli accorati, va schiavitù nel mondo globainsistenti e tenaci appelli del lizzato. Uno sfruttamento che, nostro Governo sull’emergenza tra l’altro, non si limita alla sola umanitaria che ci coinvolge, raccolta episodica di prodotti sono stati oggetto di discussione agricoli, ma si registra in molti e l’UE, almeno in parte, ha comcantieri edilizi. preso la gravità degli eventi. A dirla tutta, bisogna anche Affrontando le tematiche legate guardarsi dai troppi ‘esperti’ Migranti che invocano soccorso (Palermo, 2015) all’immigrazione, si deve anche che si occupano della questione, ammettere che il problema non possiede e non concede alimentando l’illusione con panacee miracolose. Invece una definizione dei suoi confini, soprattutto se - come le problematiche dell’immigrazione (che sono molte, in oggi è regola - si deve ragionare su dati precisi, che diprimis quella di una razionale politica di integrazione) mostrano come sia fluttuante, mutabile il numero degli vanno affrontate sulla base di autentiche esperienze con stranieri che mettono piede sul nostro territorio. Le masse documentati titoli di comprovata capacità. - ché tali sono divenute - fuggono, per scelta obbligata, Voglio augurarmi che sulla scorta di lecite attese non si da fame, malattie e guerra, affrontando “viaggi della difinisca col partorire il tradizionale topolino... È vitale sperazione” dalla meta incerta. Nelle aree critiche le parti non solo per l’Europa - che le soluzioni siano al tempo in conflitto sono sempre più eterogenee: si va dai califfati stesso intelligenti, applicative e quindi costruttive; altriai terroristi, agli speculatori in genere che non osservano menti salterebbero i basilari schemi dell’economia e delpiù la legge dei diritti umani. Non per nulla gli studiosi la stessa convivenza civile. parlano a ragion veduta di terza guerra mondiale, questa Insomma, i media si sono trasformati in infinite necrolovolta nel continente africano e nel Medio Oriente. gie che, bene o male, pesano anche sulle nostre coscienze I racconti dei sopravvissuti sono da brividi; la vita delle spesso oscurate dall’indifferenza. Basti pensare che, se persone non vale più un centesimo. In Nigeria, in Siria e per ogni vittima degli imprevedibili esodi si potesse acnella stessa Libia non esistono più riferimenti utili. È tutcendere una croce bianca, come nei cimiteri di guerra dei to un magma bellicistico senza il minimo rispetto nemcaduti stranieri in Italia, si comporrebbe un tragico viale meno per donne e bambini: pura criminalità assassina! lacrimevole che approderebbe funestamente fin sulle noNon c’è giorno, ormai, in cui le cronache non annuncino stre spiagge meridionali.
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MAREA DI EVENTI A VENEZIA di Loretta Morelli
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Esposizione Internazionale d’Arartificio proprio come Venezia. te di Venezia da più di un secolo si Al Museo Correr convivono la Nuorelaziona con il contemporaneo, dialoga va Oggettività, mostra sull’arte in Gercon la ricerca artistica più avanzata e inmania al tempo della Repubblica di duce il nostro Paese a interrogarsi su se Weimer (1919-33), con 150 opere tra stesso, su un patrimonio che necessita di dipinti, fotografie, disegni e incisioni una memoria attiva e critica. Oltre alle di oltre 30 autori con cui si ribadisce il sedi principali ai Giardini e all’Arsenale, ruolo centrale dell’arte che Hitler defiinvade Venezia con mostre, installazioni, nì degenerata, e la personale di Jenny performance. E richiama visitatori, turiHolzer - curata da Thomas Kellein con sti e addetti ai lavori da tutto il mondo, la direzione artistica di Gabriella Belcoinvolgendoli in un vortice di appuntali - in cui l’artista questa volta esibisce menti e in un calendario fittissimo che un ciclo di quadri grafico-pittorici che giunge fino a novembre. Okwui Enwezor, indaga politica, violenza e morte attracuratore dell’edizione di quest’anno, ha verso documenti governativi statunitensi scelto il titolo “Tutti i Futuri del Mondo”, desecretati e altro materiale riservato del un tema che, cercando di mettere in sceGoverno USA, inerenti i conflitti in Iraq, na le tensioni attuali che sollecitano gli Jos de Gruyter & Haral Thys, Hildegard, 2013, esposto in Slip of the Tongue a Punta Afghanistan e la lotta al terrorismo dopo artisti, focalizza il senso di precarietà e di della Dogana (courtesy Fondation François Pinault, ph L. Marucci) l’11 settembre 2001. disagio dei nostri tempi. E ha spiegato: Nel cinquecentesco Palazzo Grima“Non volevo fare un’esibizione che raccontasse la vita tranquilla. Volevo far ni Tagore Foundation International presenta Frontiers Reimagined, fitto sentire il rumore del mondo, le vibrazioni, lo shock. Anche perché non posdialogo interculturale messo in atto da apposite realizzazioni di 44 artisti, siamo parlare del presente senza considerarlo complicato”. emergenti ed affermati, tra i quali Christo e Jeanne-Claude, Sebastião SalgaA latere di questa Biennale 44 eventi collaterali offrono la possibilità di do e Robert Rauschenberg. Un percorso coinvolgente e ricco di occasioni di scoprire mostre in palazzi, musei, gallerie pubbliche e private, in un conriflessione sull’importanza della fusione di idee oltre i confini per combattere tinuum esperienziale che trasporta fisicamente e idealmente il pubblico fra le barriere del nazionalismo, dell’etno-centrismo e della politica identitaria. mondi, materie e idee. Purtroppo l’elevato numero costringe a una scelta. Sui due piani della Fondazione Bevilacqua-La Masa in Piazza San Come due anni fa la storica Casa dei Tre Oci, alla Giudecca, presenta Marco Profumo di Sogno. Viaggio nel mondo del caffè aggrega 75 immauna corposa mostra a cura della V-A-C- Foundation di Mosca. Future Higini in b/n di Sebastião Salgado sulle piantagioni e la produzione del caffè in stories, con installazioni inedite e una selezione di vari paesi del pianeta, dal Brasile all’India, da Etiolavori precedenti (video, disegni, sculture) di Mark pia a Guatemala, Indonesia, Costa Rica, Cina… Dion e Arseny Zhilyaev, ha trasformato l’ambiente La qualità estetica delle foto è integrata dalla dodinamico e immersivo in una Wunderkammer in cumentazione delle varie fasi dei processi produttivi formazione e in un futuro museo immaginario. Da assumendo un insolito valore espressivo, evocativo una parte Dion mette in scena l’origine pre-illumied emozionale. nista delle collezioni dove i gabinetti delle curiosiA Palazzetto Tito, altra location dell’Istituzione, i tà conservano artefatti di provenienza eterogenea; curatori Milovan Farronato e Angela Vettese propondall’altra Zhilyaev indaga il ruolo ambivalente del gono, per la prima volta in Italia, la ricerca di Peter museo nella formazione del pensiero sul mondo e Doig, noto per i paesaggi e le atmosfere stranianti in sulla vita all’interno delle condizioni socio-politiche cui immerge l’essere umano attraverso una pittura contemporanee. liquida e nello stesso tempo pastosa, dando luogo a Per l’inaugurazione della nuova ala destinata ad visioni intense e misteriose. Si tratta di un corpus accogliere le esposizioni temporanee delle Gallerie inedito di dipinti figurativi di grandi e piccole didell’Accademia è stata presentata l’esposizione mensioni che rimandano a molteplici immaginari Mario Merz - Città irreale, prima retrospettiva reprovenienti anche dalla sfera personale dell’autore. alizzata in un’istituzione pubblica italiana dopo la La monumentale tela Murale, commissionata nel scomparsa dell’artista nel 2003. La città offre spazi 1943 a Jackson Pollock dalla famosa mecenate in cui si confrontano natura e cultura, tradizione Cy Twombly, Untitled (Camino Real 5), 2011, acrilico su americana Peggy Guggenheim per la sua casa newe innovazione, tutte fonti di energia che Merz ave- legno, 252,5 x 187,2 cm (courtesy MUVE, Venezia, © Cy yorchese è al centro della mostra itinerante espova inglobato nelle sue opere, sospese tra realtà e Twombly Foundation) sta presso il Palazzo Venier dei Leoni dove è
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conservata la sua prestigiosa collezione. Dopo un lungo periodo di restauro al Getty Conservation Institute, si possono ammirare di nuovo i colori originari. Nella stessa sede viene messa in luce l’attività pittorica del fratello maggiore di Pollock, Charles, vissuto all’ombra ma senza dubbio punto di riferimento per il grande Jackson, come dimostrano lettere, foto e schizzi scaturiti dal loro rapporto. La Fondazione François Pinault dà luogo a un doppio appuntamento a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana. Nel primo sono esibiti 350 realizzazioni di Martial Raysse che, utilizzando differenti media, esplora soprattutto sempre nuove formulazioni del ritratto femminile; il secondo nella collettiva Slip of the Tongue, a cura dell’artista vietnamita Danh Vo e di Caroline Bourgeois, coniuga preziose miniature del XIII-XV secolo, dipinti di Bellini, Marescalco e della Scuola di Tiziano con le installazioni di Nancy Spero, gli smalti colorati di Sadamasa Motonaga o i rilievi istantanei di Robert Manson. In totale 35 creativi tra cui Fischli & Weiss, Felix Gonzalez-Torres, David Hammons, Jos de Gruyter & Harald Thys, lo stesso Vanh Do e nomi storici come Constantin Brancusi e Pablo Picasso. Ca’ Pesaro ospita Paradise, retrospettiva di Cy Twombly allestita nel nuovo Spazio Dom Perignon. L’intera carriera dell’artista è documentata da circa sessanta opere tra disegni, sculture e dipinti; insieme raccontano un cammino di passioni e sensualità, ma anche sensibile agli eventi storici come prova la Battaglia di Lepanto connotata dal suo inconfondibile segno graffiante. All’Isola di San Giorgio la Fondazione Cini propone progetti di alta qualità. I due piani delle Sale del Convitto sono riservati alle creazioni di uno degli artisti più influenti del panorama cinese degli ultimi due decenni, Liu Xiaodong. Questa prima personale esplora a livello europeo esplora la sua tecnica nutrita da sensibilità e riflessioni verso i profondi chiasmi sociali ed economici della società odierna. Il tutto visto con gli occhi e la modalità dello storyboard tipica dei cineasti con cui si comprendono le varie fasi operative: da semplici note sul diario alle foto scattate. Le testimonianze raccolte vanno a ricomporsi sul quadro come in un set cinematografico. Di grande impatto la ‘folla’ di Magdalena Abakanowicz che, dopo 35 anni ritorna in laguna con un site specific dalle atmosfere intime e al contempo universali. L’artista polacca, nota per l’impiego della tela grezza, raggruppa 110 figure acefale a fronte di un singolo individuo dalle sembianze animalesche. L’assembramento, in penombra, è privo della propria identità e carico di interrogativi esistenziali. Nuove installazioni sculturali
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Mario Merz, Verso lo Zenith, 1985, struttura metallica, legno, cera, lana di vetro (collezione privata, ph L. Marucci)
Jenny Holzer, Doddoacid 008769 blue white, 2008, testo U.S. governmet document (© 2008 l’Artista, membro Artists Right Society - ARS, New York)
Peter Doig, Rain in the Port of Spain (White Oak), 2015, tempera su tela di lino (courtesy l’Artista e Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia)
di Jaumes Plensa, che attraggono l’attenzione per la loro ‘monumentalità’, sono raccolte sotto il titolo di Together nella Chiesa di San Giorgio. Arrivando in Palazzo Cini, a San Vio, nel secondo piano di recente rinnovato, si può godere la raffinata mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, di Ettore Spalletti, che con la consueta sensibilità mediterranea minimale, si è posto in dialogo con gli arredi e i capolavori della collezione. La Fondazione Querini Stampalia ha scelto visioni plurali dinamiche. I vincitori del Premio Furla 2015 Maria Iorio & Raphael Cuomo presentano Logica del passaggio, con cui hanno analizzato il contesto generale dei fenomeni d’emigrazione economica italiana dal Sud del continente verso il nord a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dalle modalità di attraversamento del confine alle condizioni di lavoro, dallo sfruttamento alle limitazioni dei diritti. Attraverso un film e un sistema spaziale leggono e ritrascrivono questo fenomeno non in modo documentaristico ma svelandone la struttura replicabile che lo sostiene e le sue regole. Nello spazio Carlo Scarpa la curatrice Chiara Bertola ha esposto l’esito di un progetto, durato quattro anni, di Jimmie Durham, invitato a lavorare sulle materie di cui è formata la città: pietra, legno, ferro, vetro, acqua, oro, tessuto. Venice: Objects, Work and Tourism è costituito da sculture nuove derivate da combinazioni inattese, da dialoghi intercorsi con coloro che quotidianamente operano a Venezia: carpentieri, maestri vetrai, intagliatori, ristoratori... Pezzi di vetro raccolti nel corso di anni accanto a vernici dalle tinte vivaci, mattoni vecchi di trecento anni sono stati combinati a elementi dell’industria turistica e del commercio quotidiano: opere che diventano veicolo di comunicazione, incarnano la complessità dell’idea di turismo, di immaginario sociale, di lavoro e oggetto artigianale. Ancora da Querini Stampalia l’esordio veneziano dell’autorevole artista russo Grisha Bruskin ha scelto Alefbet: alfabeto della memoria: 5 grandi arazzi, i loro disegni preparatori, gouaches e dipinti, oltre ad eccezionali apparati multimediali che fanno una sintesi della millenaria tradizione ebraica del Talmud e della Kabbalah in rapporto a una “lettura simbolica della nostra storia e del nostro presente”. Tra le tante mostre attuate a Venezia al di fuori della Biennale quella a Palazzo Fortuny dal titolo Proportio - curatori Axel Vervoordt e Daniela Ferretti - è tra le più interessanti. Poiché resterà aperta fino al 22 novembre e merita un approfondito commento, nel prossimo numero di questa rivista le verrà dedicato un servizio speciale.
Mark Dion, Il laboratorio delle Meraviglie, 2015, esposizione Future Histories alla Casa dei Tre Oci (courtesy V-A-C Foundation, Mosca; ph L. Morelli)
Liu Xiaodong, Bent Rib, 2010, olio su tela, dalla mostra Painting as Shooting alla Fondazione Cini, Isola San Giorgio Maggiore (courtesy l’Artista e Fondazione Cini, Venezia)
Jaume Plensa, Lou, Olivia, Duna, Sanna II, Laura III, 2015, alabastro, dimensioni variabili, vista dell’installazione Togheter (particolare), Chiesa di San Giorgio Maggiore (courtesy l’Artista, Fondazione Cini e Gallerie Gray Londra e Lelong Parigi/New York; ph Jonty Wilde)
Arseny Zhilyaev, particolare del progetto Culla dell’umanità, 2015, esposizione Future Histories alla Casa dei Tre Oci (courtesy V-A-C Foundation, Mosca)
Magdalena Abakanowicz, Crown and Individual, installazione (particolare), Isola San Giorgio Maggiore (courtesy l’Artista, Galleria Beck & Eggelin International Fine Art di Düsserdolf, Sigifredo di Canossa, Fondazione Cini Venezia)
Jimmie Durham, On The Island of Burano Women Make Lace Hopefully, 2015, cotone, legno, pelle, metallo, pittura, inchiostro su carta (courtesy l’Artista e Fondazione Querini Stampalia, Venezia; ph. L. Marucci)
Grisha Bruskin, Alefbet: Alfabeto della memoria (particolare), gouache per un arazzo (courtesy l’Artista, Centro Studi sulle Arti della Russia e Università Ca’ Fiscari, Venezia; ph L. Marucci)
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NOVITÀ POLITICHE A MASSA STATUTO DEI FERMANI DEL 1252 di Carlo Tomassini
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urante il pontificato di Inmanufatti artigianali. D’altra parte, nocenzo IV, dopo la morte morto Federico II, non c’era più la dell’imperatore Federico II, si ebbe compagine ghibellina. Fermo era una riorganizzazione politica del sotto la sicurezza del papato. Allora territorio fermano con nuove leggi per loro comodo i castelli del conche non erano soltanto della città, tado fecero veri e propri contratti ma per tutti i comuni della zona. scritti con il podestà di Fermo. Nel Il 17 luglio 1251 il papa Innocengennaio e nel febbraio 1252 i sizo IV confermava al Governo fergnori di Camporo (località tenuta mano tutti i precedenti privilegi, le dai signori di Massa a Carassai) inautorizzazioni e le esenzioni. Da sieme con quelli di Sant’Angelo in allora alcune personalità di alta Pontano, di Mogliano, di Loro Piesperienza governativa nella Sereceno e di Monteverde giurarono di nissima Repubblica, appartenenti essere cittadini fermani. Guglielmo alle famiglie dei dogi di Venezia, da Massa in data 13 gennaio 1252, come Raniero Zeno, Lorenzo Gentile da Mogliano il 14 febbraio Tiepolo (Teodopulos) e i loro didello stesso anno. Così eseguivano scendenti, divennero podestà del gli ordini del podestà fermano, ricontado di Fermo. I Veneti colleconoscevano le leggi dello Statuto, gavano amministrativamente la partecipavano all’esercito ed alla città di Venezia con tutti i castelli cavalcata (cerimonia dimostrativa dell’entroterra e la stessa cosa quei di Ferragosto), acquistavano abipodestà fecero nelle Marche con tazioni in una contrada di Fermo, lo Statuto dei Fermani. La Marca pagavano la tassa calcolata, teneFermana era formata da molti vano per amici oppure per nemici castelli dall’ovest all’est, dagli quelli che erano tali per Fermo; in Appennini all’Adriatico, dal nord caso di inosservanza accettavano al sud, dal Maceratese (fiume Pola multa di 2000 libre volterrane. tenza) al Sanbenedettese (fiume La torre d’ingresso tra fine ‘300 e inizio ‘400 con le caratteristiche belliche per la difesa. Visibili la Fermo li obbligava a tenere armati Tronto). Con i podestà veneti Mas- sede dei bolzoni dell’antico ponte levatoio, le caditoie, la battagliera e le bombardiere. due uomini con il cavallo, da unire sa e altri castelli sottoscrissero gli all’esercito per la sicurezza comuatti notarili degli accordi con il governo di Fermo, come si legge ne e il governo offriva a Massa ed ai castelli fermani i servizi nelle pergamene 1095 e 1096 dell’archivio fermano. amministrativi, politici, giuridici, economici, finanziari, scolaI piccoli castelli come Massa facevano gola ai vicini più grossi, stici, diocesani, sociali. Il castello di Massa, quando era vescovo per esempio a Montegiorgio, ma Fermo impediva ogni tentativo Gerardo da Massa, risulta fermano secondo lo Statuto di quel di usurpazione. Collegandosi con Fermo, i nobili di Massa rigoverno costituzionale. Lo stesso vescovo Gerardo aveva affidato cevevano la conferma delle loro possessioni. Il vocabolo Massa ai podestà di Fermo la pubblica amministrazione civile di Monte significava appunto la tenuta dell’insieme delle possessioni di San Pietrangeli in precedenza controllata dall’episcopato (perterreni e di edifici. Nello stesso tempo Fermo permetteva la pargamena 2090). Come il rappresentante di Massa viveva a Fermo, tecipazione all’amministrazione comunale del castello e, seguianche il rappresentante del governo di Fermo risiedeva a Massa, tando a tenere le proprietà rurali, aveva la collaborazione delle e decidevano di comune intesa. Massa aveva una regolata vita famiglie che vi lavoravano. Insieme con queste famiglie i podestà comunale e, con gli scambi commerciali, potenziava le attività svolgevano i loro affari con sicurezza. Le famiglie pagavano sì economiche, grazie anche al movimento delle merci nel Porto di una piccola tassa (altrove dai 30 ai 40 soldi) ma poi non eraFermo, dove arrivavano prodotti da varie parti e da dove venivano no più incomodate sia per le vendite di prodotti agricoli sia dei esportate le tipicità locali
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Specializzata nella confezione di cappelli uomo-donna, l’Azienda Axis realizza campionari personalizzati per tutti coloro che desiderano creare la propria collezione valorizzando al meglio ogni singola progettazione del cliente. Collabora con grandi firme del settore moda e abbigliamento; vasta è la gamma dei materiali disponibili per la realizzazione dei vari modelli. La Axis include diverse tipologie di lavorazione, capaci di soddisfare i differenti e molteplici gusti della clientela; interpreta di stagione in stagione le tendenze proposte dal sistema moda. Il tessuto estivo ed invernale, i filati, la maglia, la pelliccia, la pelle, la paglia e il feltro vengono trattati distintamente con la metodologia consona alle loro elaborazioni che denotano notevole competenza, acquisita in tanti anni di esperienze nel settore del “Made in Italy”. Un’impronta che richiede notevoli conoscenze, anche per quanto concerne la qualità del prodotto da realizzare.
Foto Proc’ Art
La Axis opera con costante impegno per ottenere manufatti straordinari. I prodotti “Made in Italy” sono l’espressione singolare di una sapiente tradizione, nonché di grande cura del dettaglio. Spesso sono le minuziose rifiniture del prodotto a valorizzare e rendere meraviglioso un intero processo produttivo, che include numerose e complesse fasi di lavorazione. Su queste solide basi si fonda l’identità della Axis. L’Azienda mette in atto l’innata passione per i cappelli che da sempre contraddistingue Carlo Forti il quale, per il suo eccellente operato, vanta di possedere anche la certificazione dell’Artigianato Artistico.
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massa fermana - cenni storici
NICOLA MARINI E L’INDUSTRIA DEL CAPPELLO DI PAGLIA di Giuseppe. R. Serafini
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e prime testimonianze di stanziamento umano nell’area dove oggi è situata Massa Fermana risalgono all’età picena. Tale insediamento doveva essere costituito da primitive capanne lignee, parte raggruppate in un nucleo centrale abitativo di modesta entità, parte sparse sui versanti della collina, con funzione agricola. L’esistenza di una continuità di insediamento, a partire dall’epoca romana, è attestata dal ritrovamento di steli funerarie in pietra calcarea che permettono di documentare la presenza in loco di Villici. Massa, infatti, fu Stele funeraria del I sec. a.C. con la scritta importante centro nella produzione cereagricola già dal tempo di Augusto e il suo territorio interamente colli “Sermo, Apolloni vilici v(erna), v(ixit) a(nnis) VI”w (foto Proc’ Art) nare era caratterizzato da una struttura fondiaria storica detta “centuriazione romana”, pertinente all’antica colonia di Falerio Picenus. Dopo la metà dell’VIII secolo Massa, che era già costituita da un nucleo castellano, fu amministrata economicamente dal gastaldato di Falerone, asservito al Ducato di Fermo. L’intero castello fu costruito a più riprese in un arco cronologico racchiuso tra l’inizio della dinastia carolingia e la formazione dei comuni. Nel XIII secolo nella zona sud-ovest si registrò un’ulteriore espansione. La cinta muraria, con le torri di avvistamento che delimitano il nucleo storico, si è andata sviluppando dall’estremo nord-ovest della collina (attuale Scampatesta) in direzione nord-est, con andamento tendenzialmente ovale verso un livello inferiore dell’altura stessa. Gaidulfo Vescovo della santa Chiesa di Fermo, con il consenso dei sacerdoti primari, nel 977 concesse in usufrutto per tre generazioni al conte Mainardo, della stirpe dei Longobardi, alcuni territori nella vallata del Tenna. Aveva così inizio un sistema di tipo feudale che, di fatto, è andato a ricostituire il legame che, nell’epoca romana, Massa aveva con Fermo, e che era stato rescisso dalle invasioni barbariche. occidentale del Castello di Massa Fermana (foto scattata nel 1913, su committenza di Nicola Dalla dinastia Comitale di Mainardo, che per volere del Vescovo aveva Facciata Marini, dal suo agente parigino - courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone). anche lo scopo di impedire l’espansione farfense, si staccarono i ceppi feudali dei Massa, dei Fallerone, dei Monteverde, dei Brunforte, degli Acquaviva, i quali presero possesso della media e alta Valtenna sottomettendo alcuni castelli. Massa, sullo sfondo delle lotte tra i vari Signori feudali della Marca, si è distinta per potenza e importanza strategico-politica. Gerardo nacque nel castello di Massa da genitori aristocratici e fu, più che uomo di chiesa, un governatore. Già decano della cattedrale di Fermo, nel 1250, non appena nominato da Innocenzo IV Vescovo-Podestà di Fermo, mise in atto una politica espansionistica condivisa anche dal successore Zeno Ranieri (poi doge di Venezia) che favorì l’unione dei signori locali con la città di Fermo (ove il vescovo era Principe) e l’accumulo di beni da parte dei discendenti del Conte Mainardo. Nel 1251, per far posto a 20 nuovi frati minori francescani, Gerardo promosse l’ampliamento del convento di Massa. Nel 1252 Guglielmo da Massa, fratello del Vescovo Gerardo, con il suo comportamento oppressivo, costrinse i propri vassalli, stanchi di sentirsi vessati e oltremodo taglieggiati, a chiedere protezione allo Stato Fermano, conservando però metà del fortilizio al quale forse in quell’occasione venne demolita la rocca. Nello stesso periodo si registrò uno spostamento dei Signori di Massa verso Sud dove Guglielmo ottenne, sempre dal fratello Vescovo Gerardo, la piena giurisdizione sul possedimento di Montevarmine. Il castello di Massa che, come tutti i paesi della zona, fu alternativamente guelfo o ghibellino, è stato un baluardo strategico per le dinastie che l’hanno posseduto almeno fino alla metà del XIII secolo, quando iniziarono le cessioni delle proprietà dei Signori di Massa a favore di Amandola: i castelli di Scoppio, Vena e Merema e successivamente la parte di Civitella appartenente a Bellaflora de Clarmonte, moglie di Guglielmo da Massa. Il 27 marzo del 1327 i reggenti di Massa, allo scopo di rafforzare l’unione già esistente tra le parti, inviarono Affresco del sec. XV, riportato su tavola raffiguranil loro sindaco, Tebaldo di Jacopo, presso i Priori di Fermo per stipulare un nuovo atto di sottomissione che si te la “Madonna con il Bambino”, opera dell’arprotrasse fino al XVIII secolo. tista camerte Olivuccio Ceccarello di Ciccarello
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In particolare è da ricordare la tirannia ghibellina di Filippo da Massa dei Tibaldeschi che governò gli ascolani per un solo anno, tra il 1360 ed il 1361, e di Folco da Massa, altro membro della sua famiglia anch’esso ghibellino, il quale fu capitano di ventura a Perugia (1358-1359) e Podestà di Firenze (1369-1370). Boffo da Massa, anch’egli della famiglia Tebaldeschi, nel gennaio del 1376 si unì, grazie alla sua politica ghibellina, con la Lega di Firenze, divenendo un capitano di quell’importante esercito contrapposto alle forze militari del Papa. Per i suoi meriti egli ottenne la cittadinanza ascolana e l’anno successivo divenne Signore di Cossignano e di Castignano. La sua adesione alla Lega di Firenze e all’antipapa Niccolò V, per Fermo e per la collegata Massa ebbe come conseguenza l’interdizione da parte di papa Giovanni XXII. Pertanto Fermo venne oppressa da Mercenario da Monteverde, Gentile da Mogliano e Rinaldo da Monteverde, e anche Massa dovette subire gli stessi soprusi. Solo nel 1379 i fermani, e di conseguenza anche gli abitanti di Massa, con l’aiuto di Ancona, Recanati e Camerino riacquistarono la piena indipendenza. Di lì a qualche anno ebbe fine, per Boffo da Massa, il periodo fortunato. Infatti venne ucciso il 4 settembre del 1387 mentre cercava di riassoggettare alla sua famiglia il Castello di Carassai, appartenuto a Lino da Massa. Nel 1433 il capitano Francesco Sforza entrò pacificamente a Fermo come Vicario perpetuo per volere del papa Eugenio IV. Quale difensore dello Stato Pontificio in Francesco si rivelò la tracotanza dei dominatori e, come un despota militare, conquistò feudi nel territorio marchigiano. Ma nel 1442 il Papa, per opporsi alle tirannie dello Sforza, si alleò con Alfonso, re d’Aragona e con Filippo Visconti, duca di Milano. Il 24 novembre 1445 i Fermani, sostenuti anche dal loro vescovo e cardinale Domenico Capranica, lo sconfissero sulla rocca e finalmente lo cacciarono. Massa Fermana, che aveva dovuto giurare fedeltà al nuovo signore, tornò a godere di tutte le franchigie. La loggia a due ordini di arcate a tutto sesto, che in quel periodo aureo venne affiancata alla massiccia mole della torre angolare a Mezzogiorno, conferì al prospetto frontale del castello, esaltato dalla valenza architettonica della porta d’ingresso a sesto acuto della precedente struttura medievale, un aspetto cortese a cui la nobiltà guerriera di Massa volle conformarsi. La chiesa del convento di San Francesco, che rivestiva una fondamentale importanza per la vita Nicola Marini (1838-1914) religiosa del Paese, si andava abbellendo ed arricchendo di affreschi, retabli e altre opere per il culto grazie alle committenze dei francescani osservanti a grandi artisti come Olivuccio di Ciccarello e i fratelli Carlo e Vittore Crivelli. Oltre l’aspetto storico, artistico e monumentale Massa ha anche una cultura antica legata al mondo agricolo e alla lavorazione della paglia. Con lo sviluppo dell’appoderamento i contadini iniziarono a considerare il cappello locale per uso domestico una fonte di guadagno complementare alla produzione agricola. Intorno al castello e al convento, in un panorama di rinascimento rurale dominato dal latifondo e dalla mezzadria, si raccoglievano le dimore contadine. All’interno delle stalle la fattura del cappello di paglia sembrava prefigurarsi come un modello imprenditoriale della nostra epoca. Infatti, questa attività - rimasta all’interno di un ristretto ambito territoriale ben circoscritto della regione Marche - nel XVI secolo, col fiorire dei commerci, divenne, seppur nei suoi limiti, prospettiva economica per Falerone, Monte Vidon Corrado, Montappone e Massa Fermana. Intorno alla metà del XVIII secolo, nell’area urbana dell’antico castello di Massa e in quella dell’edificato sorto a ridosso delle mura di cinta, la produzione delle trecce di paglia, a poco a poco, diventò un’attività sussidiaria per quasi tutte le famiglie. La discontinuità nella produzione del cappello di paglia nell’arco dell’anno, non richiedeva necessariamente l’organizzazione del lavoro in fabbrica. I cappellai ambulanti, che a maggio partivano a piedi o con carretti tirati da ronzini per vendere i cappelli in ogni dove, durante la stagione invernale organizzavano, gestivano e seguivano l’intero iter produttivo e stabilivano il numero di cappelli da confezionare e immagazzinare per l’estate Anna Tirabasso nel 1862 sposa Nicola Marini seguente. La domanda crescente del mercato, basata su un maggior uso del cappello di paglia, negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, diede a fittavoli, casanolanti, braccianti e a tutti quelli che non possedevano nulla, se non la loro capacità di lavorare, l’opportunità di uscire dall’agricoltura e di intraprendere un’attività con migliori prospettive per il futuro. Il 22 febbraio 1863 il Prefetto di Ascoli Piceno scrisse all’Amministrazione comunale di Massa per sapere quanti opifici esistessero in quel Comune. Il 1° marzo dello stesso anno, il sindaco Andrea Guerrini rispose dicendo che non esistevano fabbriche e che la manifattura di cappelli di paglia era opera dell’intera popolazione. La sequenza delle lavorazioni, che permetteva la trasformazione della paglia in cappelli, coinvolgeva contadini, trecciaioli, ambulanti e negozianti in ruoli distinti ma interdipendenti che spesso venivano svolti da un’unica persona. Dei
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fratelli Filippo, Ermenegildo e Lorenzo Marini, i quali erano impegnati nel commercio di cappelli e nella lavorazione della paglia (mestiere di famiglia), dopo la morte del padre Felice, solo Filippo proseguì tale attività. Dal matrimonio di Filippo con Tarulli Lucia, nel 1838, a Massa Fermana nacque Nicola. Affascinato fin da bambino dal lavoro di suo padre, dopo i primi rudimenti della scuola primaria, sufficienti allo svolgimento di un mestiere, Nicola scelse di aiutarlo nella conduzione dell’azienda. L’innata capacità imprenditoriale e la lunga esperienza lo indusse a tentativi di vendita nel nord d’Italia e in Francia, anche se avrebbe preferito i mercati dell’Egeo. Spesso andava a Firenze per lavoro e nel contempo migliorava la fattura dei cappelli nelle forme e nello stile. La straordinaria voglia di emergere lo spinse a partecipare a fiere, mostre ed esposizioni internazionali. All’età di ventiquattro anni, a Montappone, dove si era trasferito da qualche tempo, sposò Anna Tirabasso dalla quale ebbe 10 figli: Maria 1865, Michelina 1866, Enrico 1869, Carolina 1871, Felice 1873, Alessandro 1876, Andrea 1878, Pasquale 1881, Valeria 1884 e Decimo 1887. Nel 1866 ritornò a Massa Fermana, intensificò il lavoro di fabbricante e ampliò gli orizzonti di vendita. I considerevoli guadagni gli consentirono di investire su immobili e terreni agricoli utili per la raccolta della paglia e di poter condurre una vita più agiata con ampie prospettive. Nell’estate del 1869, alcuni mesi dopo la nascita di Enrico, suo primo figlio maschio, Nicola intraprese un viaggio in Grecia e nel vicino Oriente con lo scopo di aprirsi verso nuovi canali di vendita e di estendere la propria attività. Al suo rientro in Italia d’oro dell’Esposizione Grand Prix del 1905, presso il Cristal Palace di riorganizzò la produzione dei cappelli di paglia riunendo all’interno di uno stabile le Medaglia Londra (Courtesy Famiglia Marini Alesi, Falerone) diverse fasi della lavorazione prima svolte all’esterno. Grazie all’evoluzione dell’economia greca nel corso del XIX secolo l’export per l’azienda Marini si rivelò un vero e proprio successo. Nel 1883 Nicola, all’interno del paese vecchio, in via di Mezzo n. 12, acquistò Palazzo Zambuti e vi si trasferì con la sua attività. Il pioniere dell’industria locale - così si può definire Nicola - sul finire del sec. XIX affidò l’ufficio commerciale che aveva in Patrasso al genero Santucci, sposato con la figlia Maria. In seguito ai soddisfacenti risultati con l’esportazione di oltre 70.000 cappelli annui verso il bacino orientale del Mediterraneo, l’azienda, dopo aver aperto un recapito commerciale a Trieste per vendere nei Balcani, iniziò ad interessarsi attivamente ai mercati del nord Europa. La Marini è stata presente in Francia con un suo agente di Parigi e in Inghilterra, dove partecipò con successo all’esposizione del 1905 presso il Cristal Palace di Londra, esportando pagliette rigide fatte con treccie a 4 fili. L’8 gennaio 1911 passò la sua azienda ai figli Enrico ed Alessandro con la gestione del servizio commerciale all’ultimogenito Decimo, che continuò a lavorare nella fabbrica anche da reduce della guerra mondiale. La Camera di Commercio di Fermo, con una lettera del 21 ottobre 1911, chiese al Sindaco di Massa Fermana, quali fossero le ditte esportatrici di cappelli di paglia in Enrico Marini (Massa Fermana,1869), fabbricante di cappelli Turchia. Il Sindaco rispose: “...la ditta Marini Enrico unico esportatore di questo comune per cappelli di paglia in Turchia.” Nelle mani di Enrico, Alessandro e Decimo l’azienda proseguì a pieno ritmo la produzione e l’esportazione all’estero. L’anno successivo alla morte di Nicola Marini, avvenuta nel febbraio del 1914, la ditta, a causa di un carico di semilavorati di paglia in strisce diretto in Germania e bloccato al Brennero in coincidenza con l’entrata in guerra dell’Italia contro gli imperi centrali, subì un notevole danno economico. Nel 1917 a soli 41 anni d’età venne a mancare Alessandro che lasciò 4 figli piccoli: Egidio di 9 anni, Licia di 4, Nicola di 3 e Claudio di 1. Nel 1922 Decimo Marini, che durante la guerra aveva conseguito la laurea in Farmacia, si allontanò dalla fabbrica per aprire a Montappone, in via Borgo XX Settembre n° 30, un negozio per la vendita di prodotti farmaceutici. Il 5 gennaio 1925 (lettera con Prot. n° 56) il commissario governativo della Camera di Commercio e Industria Ampia panoramica di Massa Fermana del 1920 di Fermo comunicò alla ditta E. & A. Marini la cessazione del trattato commerciale del 30 dicembre 1899, tra l’Italia e la Grecia. Tale fatto costrinse la ditta quasi alla chiusura. Enrico nel 1926 fu nominato Podestà di Massa Fermana e, nonostante fosse celibe, da solo, con l’aiuto di qualche operaio, tenne la fabbrica aperta fino al 1932, anno in cui si spense.
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Figli e nipoti di Nicola Marini
Cav. Felice Marini (Massa Fermana,1873), direttore della Centrale Termo Elettrica di Torino
Alessandro Marini (Massa Fermana,1876), fabbricante di cappelli
Andrea Marini (Massa Fermana,1878), avvocato dedito all’agricoltura a Camerino
Pasquale Marini (Massa Fermana,1881), dottore a Falerone
Decimo Marini (Massa Fermana,1887), farmacista a Montappone
Ubaldo Marini di Felice (Massa Fermana,1902), direttore della Cassa di Risparmio di Macerata a Montappone
Egidio Marini di Alessandro (Massa Fermana,1908), impiegato alla Cassa di Risparmio di Loreto
Nicola Marini di Alessandro (Massa Fermana 1914), direttore FA.MA. farmaceutica maceratese
Werther Marini di Decimo (Montappone,1932-vivente), dirigente di azienda industriale a Roma
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Il CONVENTO DI SAN FRANCESCO A MASSA FERMANA RECUPERO DI UN MONUMENTO di G. Renato Serafini
L
a storiografia locale francescana spesso si rivela scarna di notizie e di esaurienti fonti archivistiche, tuttavia non mancano informazioni sui Frati Minori a Massa Fermana. L’antica sede del Cenobio francescano, ubicata quasi alla sommità del vicino colle prospiciente il Castello, poggia su fondamenta risalenti a una villa rustica romana. Già alla fine del XII secolo doveva essere stata realizzata la prima costruzione, dedicata alla SS. Annunziata, ed in essa, ancora vivente Francesco, si installarono i suoi frati. Nel 1251 per far posto a nuovi Minori, fu ampliata per volere del vescovo di Fermo. La comunità dei frati Minori, intorno al 1339 cominciò ad organizzarsi per celebrare Capitoli Provinciali e Congregazioni e nel 1385 aderì alla riforma di Paoluccio Trinci da Foligno che ambiva a una più stretta osservanza della regola di San Francesco. In questo convento minoritico, citato nei “Fioretti”, furono ospitati Fra Jacopo e Fra Giovanni (detto poi della Verna) e vi predicarono San Bernardino da Siena e San Giacomo della Marca. Nel XV secolo, grazie a iniziative legate al mecenatismo, il convento accrebbe il suo patrimonio artistico con statue in legno e in terracotta dipinta, affreschi e preziosi retablo. Su committenza dei francescani operarono per la Chiesa Olivuccio di Ciccarello, Carlo e Vittore Crivelli, Vincenzo Pagani e molti altri pittori altrettanto eccelsi. Nella Chiesa a due navate, di larghezza e lunghezza disuguale, furono costruiti altari e sepolture patronali. La navata centrale, con terminazione ad abside, ha un soffitto a botte, con lunette in cui si aprono ampie finestre semicircolari presenti su campate alterne e una cupola emisferica innestata davanti al presbiterio. Si può ipotizzare che nel corso del 1500 fosse iniziato un ampliamento che venne ben presto interrotto, come starebbe a documentare la presenza di un’unica navata laterale. Questa, aggiunta nel 1536, è più stretta e più corta rispetto alla principale, con la parte absidale a terminazione piatta, coperta da un soffitto a crociera a 4 campate. Elegante nella sua sobrietà è il portale romanico-gotico con arco a tutto sesto e architrave in pietra calcarea. Sottolineato da mattoni che formano effetto di dicromia, è arricchito da sottili fregi e da esili colonne spinate a torciglione. Il ricco possidente Polidori Antonio da Massa, che in vita fu benefattore del convento, con testamento redatto l’11 ottobre 1555 dal notaio Giovanni Marino Stasciano, lasciò ai Riformati anche gran parte del terreno del Colle. Tra il 1622 e il 1675 la comunità divenne sede di Noviziato e Professorio.
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Resti di un antico muro misto, emersi durante un accertamento di scavo archeologico nei pressi del Convento (lato sud-ovest)
Chiostro del Convento di San Francesco con archi a tutto sesto (su tre lati) e a profilo appena ogivale (sul quarto), poggiati su pilastri quadrati in mattoni
Nei decenni successivi si attuarono nuove fasi costruttive e interventi di ristrutturazione. Le modifiche e gli ampliamenti, tutti funzionali alle mutate esigenze della comunità minoritica, contribuirono a definire il carattere e la fisionomia del suggestivo e composito palinsesto architettonico. In forza del decreto napoleonico di soppressione del 12 maggio 1810, la Chiesa, dopo l’estromissione dei frati, rimase aperta al culto e fu dichiarata succursale dell’unica parrocchia del Paese. Il Convento con l’annesso terreno fu preso in affitto da un privato, ma con la Restaurazione fu di nuovo restituito ai frati che riassunsero l’abito nel corso del 1816. I Regi decreti del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 dispersero di nuovo i frati. Malgrado la Chiesa fosse stata lasciata aperta e consentita la permanenza a un custode, un sacerdote, un converso e a un terziario, il convento venne venduto a un privato. Quando fu rescisso il contratto, essa passò in proprietà al Comune con atto del 17 agosto 1878. In seguito, ma per un imprecisato periodo, parte del convento fu adibita ad ospedale, mentre il resto continuò ad essere abitato dal padre custode che vi rimase fino al novembre del 1898, quando lo lasciò definitivamente per motivi di sopraggiunta vecchiaia. Durante la seconda guerra mondiale il complesso venne adibito a caserma, fatto che ha notevolmente contribuito ad accelerare il processo di degrado. Successivamente fu destinato dal comune ad abitazione ed affittato ad alcune famiglie del paese, alle quali bisogna riconoscere il merito, seppure inconsapevole, della conservazione attraverso una costante operazione di manutenzione ordinaria. Nello stesso periodo un locale adiacente alla chiesa fu destinato a scuola pluriclasse elementare di campagna. Dal 1967, quando le restanti famiglie Romagnoli Luigi, Pedroni Carlo e Achilli Luigi trovarono una diversa sistemazione, il completo abbandono aprì evidentemente la strada a un triste epilogo, accelerato - in epoca recente - da incontrollate forme di saccheggio e da vandalismi rimasti impuniti. Tra il 19 gennaio ed il 12 maggio del 1998 vennero eseguiti, per conto della Soprintendenza ai Beni Architettonici ed Ambientali della Regione Marche, i lavori di somma urgenza per il rifacimento della copertura. Da allora l’intero complesso monumentale versa in stato precario, mettendo in evidenza l’aspetto desolato della rovina. Sui muri cadenti delle piccole stanze intorno al chiostro crescono erbe e arbusti selvatici; a sud-est del complesso le pareti esterne sono ricoperte di piante rampicanti e all’interno della struttura alcuni spazi aperti sono completamente invasi da rovi. L’esigenza di salvaguardare il bene artistico nel suo insieme non deve nascere solo da “un compiacimento verso un unicum irripetibile” quanto dal riconoscimento di una costruzione come simbolo della memoria e della riflessione storica.
Convento di San Francesco
Interno della Chiesa con rivestimento barocco nella sola navata principale
Portale romanico-gotico
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LA MODISTA DI MARIA ANTONIETTA REGINA DI FRANCIA di Belinda Formentini
P
uò essere considerata la prima stilista francese, anche se ai suoi tempi c’erano ancora i limiti posti dalle corporazioni. Siamo alla fine del ‘700 e la protagonista è Marie-Jeanne Rose Bertin. Nata ad Abbeville (Piccardia) il 2 luglio 1747 da una famiglia modesta, ebbe un’educazione e un’istruzione limitata. Si distinse però per l’ambizione e il coraggio. Partì, infatti, molto giovane per Parigi dove lavorò nella boutique “Trait Galant” di Mademoiselle Pagelle. Ebbe così modo di conoscere l’élite femminile della società di quei tempi facendo notare le sue lavorazioni nell’ambiente vicino alla corte regale. Da lì a incontrare la Delfina il passo fu breve. La stessa Maria Antonietta le diede modo di aprire una boutique che ella chiamò “Le Grand Mogol”. Era il 1772 e iniziava una collaborazione che sarebbe durata per vent’anni e che divenne ben stretta, tanto che Rose aveva regolarmente due appuntamenti settimanali con Maria Antonietta negli appartamenti privati senza neanche la presenza delle dame di compagnia, cosa che le diede un potere tale da essere considerata ben presto il “ministro della moda”. Ad ogni incontro le due signore stabilivano i criteri e le mode del giorno e Rose, che era anche modista, doveva darsi molto da fare visto che la regina richiedeva 36 abiti a stagione divisi tra vesti di gala, vesti fantasia e abiti da cerimonia, più altri cento durante l’arco dell’anno per ogni evenienza; senza contare cappelli, accappatoi, corsetti, scialli e sciarpe, cuffie e cinture, guanti, calze e sottovesti, che erano il non plus della moda. La regina sceglieva la mise da indossare giorno per giorno appuntando degli spilli sul libro delle stoffe e degli abiti disponibili cosicché le governanti si preoccupavano solo di recarle l’abito prescelto per poi aiutarla ad indossarlo. Tale era la bravura di Rose Bertin che, mentre qualsiasi altro artista alla corte di Versailles aveva il divieto di lavorare fuori dalla reggia, ella ottenne la possibilità di creare abiti nella sua boutique anche per altre dame della società parigina ed europea. L’idea era che il maggior lavoro portasse nuova linfa alle già stravaganti mode della regina. Nel suo negozio Rose vendeva abiti, cappelli e altri articoli già confezionati. Le nobildonne di Parigi si contendevano le attenzioni della creatrice di moda cercando di emulare la regina e spendendo forti somme per ottenerle. La fama e l’eleganza della sovrana divenne anche internazionale tanto che negli Stati Uniti e nelle corti europee si cercava di imitare il fascino della moda di Maria Antonietta che divenne il simbolo di un’epoca. Difatti la Boutique vede sfilare principesse di sangue reale tra le quali la principessa Elisabeth, Maria Feodorovna (moglie dello tsarevitch Paolo I), la regina di Svezia, ecc., ma anche aristocratici, borghesi e attrici. La moda viaggiava su bambole di legno, cera o porcellana chiamate Pandora che la stessa Bertin vestiva quale esempio della sua creatività. La corte francese, però, eccedeva nelle spese che divennero così sostenute e pazze da essere uno dei motivi della decapitazione dei regnanti. Rose Bertin vestì la regina fino all’anno in cui quest’ultima venne imprigionata, ma continuò a creare abiti anche a Londra, durante la Rivoluzione Francese, e si ritirò a vita privata solo all’inizio del secolo successivo. Morì a Epinay sur Seine il 22 settembre 1813.
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Ritratto di Marie Rose Bertin eseguito da Jean Francois Janinet
Cappelli di fine ‘700
Ritratto di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, regina di Francia
La ditta Sorbatti, in virtù del suo retaggio familiare e professionale nel settore del cappello, si è evoluta nell’odierna realtà come industria affidabile e dinamica. Fa dell’innovazione tecnologica e della qualità dei prodotti il proprio fiore all’occhiello. Crea e cura nei minimi dettagli i prototipi personalizzati per la promozione dei brand aziendali forniti dai clienti, anche i più esigenti. La vita aziendale della Sorbatti srl si svolge attualmente in tre luoghi: Montappone, via Leopardi 18 Qui si trova l’opificio industriale, uno stabilimento di produzione di 1800 mq proprio nel cuore del distretto. L’Azienda produce cappelli e berretti di qualità come feltri, panama originali, coppole e altro. Tutto il processo produttivo è seguito con cura, dalla selezione delle materie prime all’imballaggio. Strada Provinciale Montapponese Sorbatti Outlet, punto vendita al pubblico di cappelli, berretti in tessuto, paglia, feltro e accessori di produzione propria. Online Store Vendita online a privati e rivenditori su www.sorbatti.it Monte Vidon Corrado C.da Vallemarina (Z.ind.) Magazzino di 2500 mq per lo stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti commercializzati. SORBATTI srl via G. Leopardi, 18 63835 Montappone (FM) - ITALIA tel. 0039 0734760982
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Marche. Land of hats di G. Renato Serafini
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DISTRETTO DEL CAPPELLO di G. Renato Serafini
I
Longobardi che avevano Volvet come capo (tomba del 769 a San Paolino di Falerone) chiamarono Massa questo luogo che (in lingua longobarda) significa Terra presa (ai residenti) e Masser era il coltivatore agricolo. In questo affascinante territorio tra monti e mare, situato nella fascia collinare medio adriatica dell’entroterra fermano, in cui nel corso dei secoli si è sviluppata e diffusa la lavorazione della paglia per la produzione di cappelli, oggi è presente un agglomerato di imprese di piccola e media dimensione dello stesso settore che si concentrano in uno spazio ristretto di pochi Comuni. L’evoluzione del comparto del cappello, dovuto all’uso di altri materiali oltre all’impiego della paglia, ha progressivamente orientato la produzione delle aziende verso le esigenze di una clientela nuova e più attenta ai gusti e alle tendenze della moda. Se dell’attuale distretto produttivo i paesi di Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado e Falerone decidessero di aggregarsi a formare un unico toponimo dando vita ad un nuovo Comune, oltre ad usufruire degli incentivi finanziari e a guadagnarci in termini di servizi, potrebbero ricoprire un ruolo importante nell’ambito della Regione e avere in particolare un positivo risvolto economico a livello internazionale. Di fronte all’attuale crisi, essendosi rarefatte le condizioni di crescita a fronte di una domanda sempre più difficile e l’evoluzione di un mercato sempre più globale, le aziende del distretto, per rimanere competitive nel moderno sistema economico-produttivo, necessitano di un’organizzazione flessibile e dinamica che può cambiare profondamente il rapporto tra i lavoratori e l’impresa. Infatti, la persistente flessibilità, poiché si basa su soluzioni di sviluppo e servizi per la ricerca e innovazione tecnologica, richiede la disponibilità a continue e repentine riqualificazioni professionali che possono conferire ai salariati un profondo senso di inadeguatezza e di confusione mettendoli a rischio di mobilità dovuto all’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide del mercato del lavoro. Oggi è imperativo categorico per qualsiasi tipo di azienda migliorare le proprie performance, stare al passo con la moda e fare benchmark, ma soprattutto realizzare un prodotto docg 100% Made in Italy. A tal proposito, per dar risposta alle esigenze degli imprenditori del distretto produttivo, il 21 marzo scorso a Fermo si è tenuto il convegno: Il cappello
Mazzo di Calbigia del 1890. Le spighe di grano senza ariste erano molto alte e stagione permettendo, la parte apicale dello stelo superava l’altezza di ottanta centimetri. La Calbigia, grazie alla sua eccellente flessibilità e resistenza alla torsione, veniva usata per la manifattura della treccia. La Stanga consisteva in una lunga pertica di salix viminalis di lunghezza dai tre ai quattro metri e da un bastone più corto chiamato pungolo. Ad un’estremità di quest’ultimo era fissato un punzone di ferro, ricavato normalmente da una vanga o da un forcone fuori uso, per poterlo piantare ritto in terra. In un foro alla sua sommità era legata una cordicella che permetteva di sistemare in orizzontale e a bilancia la pertica. Il pungolo era utile anche da bastone per sostenere e mantenere in equilibrio sulle spalle la stanga. Cappelli di ogni sorta erano appesi con un filo di refe l’uno accanto all’altro sulla pertica e venivano protetti dal sole con due ampi sacchi di juta. La stanga veniva utilizzata come mezzo di trasporto nei trasferimenti e come bancarella di esposizione e vendita nelle soste. Il venditore ambulante peregrinava di paese in paese, di fiera in fiera, di mercato in mercato, di casolare in casolare offrendo a tutti la propria mercanzia.
tra economia, arte e salute promosso dal Comitato del Cappello di Massa Fermana (onlus) con il contributo della Regione Marche, il patrocinio dei Comuni del distretto, dell’Università Politecnica delle Marche, dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, delle Camere di Commercio di Fermo e di Macerata e con la collaborazione di Marca Fermana. A partire dalle 9.30 presso la sala dei Ritratti del Palazzo dei Priori, dopo la proiezione del cortometraggio dal titolo “Genesi del cappello di paglia nella tradizione locale”, con Barbara Capponi quale moderatrice della conferenza, i presenti hanno avuto il piacere di ascoltare Stefano Papetti, docente di Museologia e Restauro dei Beni Culturali all’Unicam; Sauro Longhi, Rettore dell’Università Politecnica delle Marche; Patrizia Sopranzi, dell’Osservatorio nazionale per le Politiche di Ricerca e Innovazione; Daniele Travaglini, primario di chirurgia vascolare nella casa di cura Villa Verde e coordinatore scientifico dell’Accademia Medica Cappello & Salute; Evio Hermas Ercoli, presidente dell’Accademia di Belle Arti di Macerata; Sara Giannini, assessore alle Attività produttive della Regione Marche; Graziano Di Battista, Presidente della Camera di Commercio di Fermo. Presenti Enrico Loccioni, Orietta Varnelli e Paolo Marzialetti, testimonial insieme ad altri 15 personaggi di successo delle Marche per Expo 2015. Matteo Cavelli, Presidente Federazione Italiana dei Tessili Vari e del Cappello, ha colto l’occasione per ricordare le ultime stime su scala nazionale, anno 2014. “Circa l’82% della produzione viene esportata, con un incremento del 4,9% e si rivolge principalmente verso la Francia, seguita dalla Germania, dalla Spagna, dagli Stati Uniti e dal Giappone. Il Paese maggior fornitore è di gran lunga la Cina con 44,2 milioni di e, pari al 45% circa del totale importato”. Il programma del convegno è stato improntato a un approccio multidisciplinare con la partecipazione di relatori che, con i loro sapienti interventi, hanno saputo evidenziare sotto vari aspetti l’importanza di un territorio in cui piccole e medie imprese tendono a sviluppare e ad attuare strategie basate su sviluppo, ricerca e innovazione. L’ottimo risultato dell’iniziativa ha costituito un documento finalizzato a proporre idee e conoscenze all’imprenditoria distrettuale. Da un’apprezzabile l’elogio di Graziano Di Battista, rivolto ai distretti del territorio marchigiano, inclusi i complimenti del saper fare e del fare bene delle imprese del cappello, il convegno ha saputo, con uno straordinario intreccio tra arte, cultura e tecnologia, fornire agli imprenditori presenti importanti stimoli e indirizzi. Il cappello nel Medioevo e nel Rinascimento, rappresentato nei dipinti come un segno di distinzione sociale, descritto da Stefano Papetti, era anche oggetto di un’attenta legislazione da parte di molte amministrazioni comunali che emanavano leggi suntuarie per regolarne l’uso. Partendo dai Piceni, dal “Guazzarò”, antichissimo abito contadino da lavoro caratterizzato da una tunica bianca legata in vita, arricchito da un fazzoletto rosso legato al collo e da un cappello di paglia, Evio Hermas Ercoli, senza trascurare l’importante periodo di grande fioritura per il mondo della moda ha ricostruito con simpatia la storia del cappello. Un percorso che dalla moda della Belle époque, attraverso lo stile del modernismo d’inizio XX secolo, arte tanto cara
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Graziano Di Battista
Stefano Papetti
Evio Hermas Ercoli
Patrizia Sopranzi
Sauro Longhi
Daniele Travaglini
Sara Giannini
Matteo Cavelli
all’industria tessile, si ricongiunge alla lavorazione della paglia e si conclude con il cappello di paglia che indossò Vincent Van Gogh nel suo ultimo autoritratto. Le Marche possono contare su una dotazione finanziaria di 337 milioni di euro per promuovere la competitività e lo sviluppo sostenibile del territorio regionale. Le risorse sono quelle del Fondo europeo di sviluppo regionale, stanziate dal Programma operativo regionale che la Commissione europea ha prorogato lo scorso 12 febbraio 2014 e avrà la durata di sei anni. Patrizia Sopranzi, riaffermando la centralità e l’importanza del settore manifatturiero che però deve rinnovarsi e deve riqualificarsi, ha proposto alcune tipologie di intervento che riguarda soprattutto l’eco-sostenibilità, l’innovazione nei sistemi produttivi e le tecnologie dell’informazione applicate ai processi aziendali. L’università, per Sauro Longhi, ha l’obbligo morale di accumulare i saperi e renderli utilizzabili a partire dal territorio che la ospita per valorizzare la manifattura attraverso l’utilizzo dei cluster e deve farsi carico di trasferire competenze e nuove tecnologie alle imprese. Daniele Travaglini ha fornito alcune anticipazioni sul lavoro di ricerca che il mondo della medicina sta effettuando per portare il proprio contributo all’industria del cappello e risolvere problematiche come le allergie e alcuni malanni stagionali, sia negli adulti che nei bambini. In chiusura Sara Giannini ha fatto cenno ad iniziative promozionali della Regione su progetti, utili al rilancio della cultura, della produzione di qualità e del territorio. Al progetto Marche. Land of hats, portato avanti dal Comitato del Cappello, hanno aderito il Cappellificio Adriatico, Artes, Atum, il Cappellificio Bordoni Pierina, il Cappellificio Cecchi, il Cappellificio Giuliana, Mar Sport, Marini Silvano, NewLad, Olimpia, Paimar, Sorbatti, Tirabasso Group e il Cappellificio Torresi Lorenzo.
Enrico Loccioni con Orietta Varnelli
Paolo Marzialetti e Barbara Capponi
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Concerto al Conservatorio di Milano
LA VENDETTA DEL SAXOFONO di Pasquale Barbella
I
conservatori sfornano più sorprese di quante il loro nome sembri negare. Un diffuso pregiudizio popolare tende a immaginarli come monasteri della cenere e della polvere. La parola conservatorio spaventa gli ignari per l’implicito aroma di anticume e di chiuso che la impregna; fa pensare a depositi di archiviazione archeologica, a liturgie burocratiche per la restaurazione di chissà quale ancien régime. Che sciocchezza! Per assistere alla vendetta del saxofono contro i luoghi comuni avreste dovuto trovarvi, per esempio, nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano la sera del 13 marzo 2015: una bella occasione per ripulire tutte le idee che vi siete fatti sulla presunta aridità della musica contemporanea. Sul palco c’era un duo di valenti artificieri, il sax player Jacopo Taddei e il pianista Luigi Nicolardi, impegnati nella dimostrazione artistica e scientifica d’un teorema promettente: la buona musica è viva e sta bene. Anche quella più nascosta, anche la più ripudiata dalla cosiddetta “industria culturale”. E hanno scelto dei brani innovativi e per molti inediti. Paul Creston (1906-1985), statunitense di origine siciliana, era un pianista, ma tra i suoi lavori più apprezzati ed eseguiti ci sono le composizioni per saxofono, come la Sonata op. 19 del 1939 per sax contralto e pianoforte. Ciò lo iscrive a pieno titolo fra i pionieri più maturi dell’uso del sax in ambiti non jazzistici. Un mood a metà strada tra l’impressionismo e Stravinskij attraversa la partitura, che offre anche al pianista un ruolo di rilievo nell’esecuzione. Del francese Alfred Desenclos (1912-1971), Taddei e Nicolardi ci hanno fatto ascoltare un Il pianista Luigi Nicolardi (a sx) con il sax player Jacopo Taddei brano del 1956, Prélude, cadence et finale per sax contralto e pianoforte. Musica spirituale: Desenclos è ricordato anche, o soprattutto, per le sue composizioni di musica sacra. Fu pure autore di Quatuor, un quartetto di saxofoni. Con il belga Piet Swerts e il britannico Graham Fitkin, autori rispettivamente di Klonos (1993) e Gate (2001), si è avuto un bell’assaggio di attualità: eclettico il primo, minimalista il secondo, hanno contribuito entrambi a completare il quadro storico sotteso al programma del recital. I due (uno addirittura in stampelle, per un accidente che non gli ha impedito di svolgere la sua missione), entrambi allievi del Conservatorio di Milano, sono riusciti a spargere nell’aria una freschezza di suoni ed emozioni che avrà conseguenze persino sul mio portafoglio: dopo averli ascoltati dovrò per forza colmare certe lacune della mia collezione di dischi. Le esecuzioni erano congegnate in modo efficace. Spaziando in un repertorio compreso tra gli anni trenta e fine millennio, Taddei e Nicolardi hanno aperto spiragli rivelatori non solo sulle virtù dell’accoppiata fra i due strumenti, ma sull’evoluzione compositiva che riguarda il saxofono nella musica da camera. La scrittura, col passare del tempo, si è fatta sempre più ardita, fino ad esplorare e mettere in luce modulazioni impensabili, almeno per le orecchie d’un profano come il sottoscritto. Darius Milhaud ha avuto un ruolo centrale nell’ibridazione dei canoni classici con il jazz afroamericano e il folklore esotico, soprattutto brasiliano. La suite in tre movimenti Scaramouche (1937) - che si conclude con un tempo di samba, Brazileira, reminiscente di fantasie ritmiche già esplorate dall’autore tra il 1918 e il 1920 - è una delle sue opere minori e più accessibili (composta in origine per due pianoforti, poi per saxofono e orchestra), ma utile a documentare nel modo più sintetico, pratico e brioso il progressivo passaggio dalla cultura “paludata” dell’Ottocento al pensiero libero e trasversale della modernità. Coadiuvato alla tastiera da un complice ideale, il giovane Taddei (19 anni) ha esibito virtuosismi vertiginosi nel cavare dal suo strumento le prove di una sorprendente flessibilità. Il duo ha infine messo le ali all’anima dell’uditorio con gli incantesimi orientali della Fuzzy Nicolardi e Taddei in concerto bird sonata (1991) di Takashi Yoshimatsu. Chi credeva che gli uccelli avessero già ispirato ai compositori - da Rameau a Vivaldi, da Haydn a Messiaen - tutto ciò che potevano, ha scoperto che nell’ancia del sax, e nelle dita e nel respiro d’un esecutore sensibile, si nasconde la più variopinta e fremente voliera del mondo. Taddei e Nicolardi si sono incontrati nella classe di Emanuela Piemonti del Conservatorio milanese, dove sono iscritti a corsi di perfezionamento. Entrambi diplomati con il massimo dei voti e la lode in altri istituti (Lecce per Nicolardi e Pesaro per Taddei), hanno già un curriculum carico di riconoscimenti individuali e di coppia. Insieme hanno conseguito, nel 2014, il Premio Enrica Cremonesi e il primo premio assoluto al Concorso Internazionale Luigi Nono, piazzandosi più che onorevolmente in altre competizioni. Nicolardi ha anche registrato un album per l’etichetta Nireo, con trascrizioni per due pianoforti (i poemi sinfonici di Liszt) e pianoforte a sei mani (musiche operistiche di Czerny). http://interpab.blogspot.it/2015/03/la-riscossa-del-saxofono.html Nicolardi e Taddei hanno ottenuto insieme il premio Enrica Cremonesi e il primo premio assoluto al Concorso internazionale Luigi Nono. Jacopo Taddei è stato allievo di Federico Mondelci, direttore d’orchestra, solista di saxofono e specialista di musica contemporanea di fama internazionale.
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Fotografo: Vincenzo Antonini
CAPPELLIFICIO
Cecchi Angelo
s.r.l.
LAVORAZIONE CAPPELLI in TESSUTO, PAGLIA & AFFINI
Via O. Licini, 5 - MASSA FERMANA (FM) Tel. +39 0734 760058 www.cappellificiocecchi.com info@cappellificiocecchi.com
CAPPELLIFICIO CECCHI ANGELO Il cappellificio Cecchi Angelo produce e commercializza cappelli e accessori dal 1980 nella sua sede di Massa Fermana, nel cuore delle Marche. Da un’iniziale produzione di cappelli in paglia, l’azienda si afferma in Italia negli anni ‘90 con linee in tessuto per bambino e donna, in particolare nella realizzazione di cappelli per neonati e ragazzi. Grazie alla passione e alla ricerca svolta quotidianamente, le collezioni dell’azienda Cecchi assumono un ruolo fondamentale nel mondo della moda del cappello Made in Italy. La lavorazione realizzata con tessuti e filati di qualità, la manodopera qualificata e il controllo assiduo e costante su ogni singolo pezzo, sono i termini di garanzia e affidabilità del prodotto dell’azienda. La cura nella creazione di cappelli per grandi e piccini fanno del cappellificio Cecchi un punto di riferimento nel settore dell’artigianato locale.
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Fotografo: Vincenzo Antonini
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JAZZ DI RICERCA DI ROSARIO GIULIANI a cura di Maria Alessandra Ferrari
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’improvvisazione jazzistica spesso ha per destinatario un ascoltatore indefinito, in possesso però di diritti precisi. Primo, quello di essere informato con chiarezza. Forse non individuerà molto di ciò che ascolterà; può ignorare tutto sul jazz, ma vuole cavare profitto dal concerto. Fargli assaporare suono, ritmo e spunti tematici non è agevole come quando il jazz va ad orecchie esperte. Esporre un’elaborazione formale richiede padronanza tecnica, stile, senso della misura, gusto. E humour, più raro a trovarsi di quanto sembra. L’improvvisazione jazz è un’operazione critica. Un delicato procedimento di assimilazione e ricostruzione. C’è chi fa consistere in esso la musica intera. Nella costellazione del jazz europeo Rosario Giuliani ha da tempo acquistato un suo posto. Fin dalla lontana stagione in cui, prodromo magistrale, vinse il premio Massimo Urbani e l’Europe Jazz Contest. E chi lo ha seguito fino ad oggi conosce lo svolgimento del suo seguito eccellente, pieno di forza, di equilibrio e di appassionata ricerca espressiva. Il musicista si svela in questa conversazione.
esprimere sensazioni forti e profonde che non saprei descrivere con le parole. Le è mai capitato di arrivare fuori tempo massimo?
Per ora no, fortunatamente! Con quale spirito sale sul palco e con quale insegna?
Rosario Giuliani in una foto di P. Galletta
Tra il suo pubblico preferisce l’inesperto o il presuntuoso?
Sicuramente l’inesperto al presuntuoso. Il primo riesce a percepire spesso la semplicità e l’essenza della musica passando dalla strada più breve; il secondo invece, convinto di sapere tutto, entra in un labirinto perdendosi quasi sempre senza trovare la via di uscita. La indispone, di solito…
La superficialità e la presunzione, appunto. La vita è fatta di scambi, spesso si può dimostrare la propria intelligenza mettendo a nudo la propria ignoranza.
Le coordinate principali della sua esistenza…
Sono nato a Terracina, una cittadina sulla costa tirrenica, dove ho vissuto fino all’età di 20 anni. Il mare è stato sempre un luogo dove raccogliere forza ed energia. Da quelle riflessioni ho costruito il mio modo di pensare e vivere i rapporti: con la famiglia, gli amici, i musicisti con i quali collaboro e con i miei studenti, cercando l’equilibrio, proprio come quello che regala il mare.
È vanitoso?
Molto, è forse per il lavoro che faccio. Ho bisogno di stare al centro dell’attenzione. Anche un po’ egocentrico, in maniera sana però, avendo sempre rispetto per chi e cosa ho di fronte. Ritiene sia controproducente…
Il fulcro della sua vita?
La passione per la musica. Non solo perché è il mio lavoro, ma come espressione, regola di vita, impegno e sacrificio. Attraverso essa riesco a trasmettere le mie emozioni, le note mi permettono di
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Sentendo sempre una grande responsabilità. Il pubblico paga il biglietto e ti applaude per tutto il concerto; un musicista deve ricordarlo sempre. Salgo, quindi, con un pensiero di gratitudine e sentendo il dovere di trasmettere le mie più profonde emozioni con ogni singola nota, pausa o respiro. Le persone che vengono a sentirmi reagiscono secondo il mio modo di suonare, per me è come guardarmi allo specchio.
Il duo Roberto Gatto (batteria) e Rosario Giuliani (sax) improvvisano all’Auditorium Parco della Musica in un recital dell’aprile 2014 (ph Daniele Crescenzi)
Non mettersi in discussione. Una ragionevole autocritica produce innovazione, crescita e creatività nell’affrontare giornalmente la propria vita e tutto quello che la compone. Non sopporto l’autocelebrazione. Dagli studi in Conservatorio cosa si porta dietro per la vita?
Una base fondamentale grazie alla quale ho creato il mio percorso nella musica. Più sono importanti le fondamenta più sarà grande quello che andremo a costruire sopra. La sua grandezza è fondata e non necessita di essere ampliata. La urtano, quindi, le recensioni sui suoi dischi con attributi encomiastici, i richiami con musicisti che di rado sono quelli giusti? E se invece le sono utili, in che modo e in quale misura?
Preferisco la sincerità. I dischi e i concerti si fanno per essere recensiti, quindi è giusto che ciò avvenga. Una sana critica può essere di aiuto, purchè la penna non venga usata dal giornalista come una spada. Pensa che gli incontri, nella vita, siano un po’ come un riff, combinazione melodica da seguire con ostinazione, elementi utili per introdurre, proporre, avviare un tema? C’è stato per lei, un motivo ispiratore di cui ha assecondato e sviluppato la bontà?
Gli incontri sono l’essenza della nostra vita e spesso sono quelli casuali che la segnano in modo indelebile e che aiutano a crescere e a trovare nuovi stimoli. Diventano una fonte cui dissetarsi durante il cammino. I miei genitori sono stati fondamentali; nella loro semplicità mi hanno trasmesso il senso del sacrificio e dell’onestà.
Il sassofonista in concerto (ph E. Vergani)
Il cappello: lo indossa, le piace, ha qualche aneddoto?
Uso il cappello soltanto quando devo coprirmi dal freddo. Però vorrei raccontare un episodio divertente che ho vissuto qualche anno fa durante un concerto di Phil Woods. Essendo un musicista che ama il suono acustico degli strumenti, appena entrato sul palco, vedendo un microfono nascosto in un angolo del palco, si è tolto il cappello e lo ha appoggiato sul microfono dicendo “a questo servono i microfoni”. Un pensiero, sintetico ma efficace, rilasciato durante un’intervista a un giornalista francese, rappresenta bene Rosario Giuliani. “Il y avait des partitions et j’ai pris un plaisir immense à les interpréter. A Terracina, le jazz
Moncalieri Jazz Festival: Flavio Boltro (tromba) e Rosario Giuliani (alto e soprano sax) si esibiscono in “Tribute to Ornelle Coleman” con il Quartetto di cui fanno parte anche Enzo Pietropaoli (contrabbasso) e Benjamin Henocq (batteria)
sn’existait pas. Mais il y a une vraie scène en Italie. Chez nous, la culture musicale est forte. On entretient avec elle des rapports intenses. Le folklore qui tient une grande place, sert d’initiation à l’art en générale et plus particulièrement à la musique”. Lo spartito era di Charlie Parker e il musicista aveva solo dodici anni. Qualche anno più tardi, stimolato da quell’incontro con l’opera del sassofonista americano, Rosario completerà gli studi classici presso il Conservatorio di Musica “L. Refice” di Frosinone, ottenendo il massimo dei voti. Tenacia - in una città dove “le jazz n’existait pas” - talento, una profonda passione per la musica tutta ed una grande tecnica lo hanno condotto alla ribalta della scena europea ed internazionale, facendo scrivere la critica di lui come di una vera e propria rivelazione, une bénédiction. Di rilievo il palmarès, che annovera autorevoli riconoscimenti. Nel 1996 risulta vincitore del premio intitolato a Massimo Urbani e l’anno seguente dello “Europe Jazz Contest”, assegnatogli in Belgio come miglior solista e miglior gruppo; nel 2000 si aggiudica il “Top Jazz” nella categoria nuovi talenti e nel 2010 quale miglior sassofonista dell’anno, risultando primo nel referendum annuale indetto della rivista specializzata “Musica Jazz”. Inoltre vince nel 2010 e nel 2013 il Jazz It Awards come miglior sax alto. Ha suonato nei più importanti festival del mondo. Tante e prestigiose le sue collaborazioni nell’ambito del jazz, dove ha avuto modo di affiancare musicisti di valore assoluto quali Charlie Haden, Gonzalo Rubalcaba, Phil Woods, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Martial Solal, Jeff “Tain” Watts, Mark Turner, Kurt Rosenwinkel, Joe Locke, Joe La Barbera, Daniel Humair, Stefano Bollani, John Patitucci, Cedar Walton, Biréli Lagrene, Marc Johnson, Joey Baron, Richard Galliano e altri. Dopo le tante incisioni con diverse etichette italiane e non solo, nel settembre del 2000 ha firmato un importante contratto con la prestigiosa casa discografica francese Dreyfus Jazz, con la quale ha registrato cinque album di grande successo.
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GALLERIA SINOPIA A ROMA ABITARE CON L’ARTE di Stefania Severi
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el cuore di Roma, in via dei Banchi Nuovi, non lontano da Piazza Navona, si apre lo spazio espositivo della Galleria di Raffaella Lupi. La Galleria è un luogo prima di tutto piacevole. Articolata in due ambienti, si espande in un cortiletto dove in estate c’è fresco per gustare l’aperitivo e in inverno c’è caldo per assaporare il vin brulé. Ovunque ci sono piccoli sedili sui quali riposare ed osservare, perché il luogo è un po’ una wunderkammer. Ci sono mobili d’antiquariato, mobili “creativi” e oggetti d’arte contemporanea e altro ancora, dai cappelli alle composizioni floreali, dalle fotografie ai tessuti, dai vestiti ai profumi. Tutto quello che potete qui trovare è “firmato” nel senso autentico della definizione. Oggi che la doppia C di Chanel e la V di Valentino, così come tantissime altre firme, sono in realtà su oggetti realizzati in numero altissimo, qui la firma recupera il valore autentico e originario di garanzia che quell’opera firmata è unica. Qui è esaltata e promossa l’unicità, che garantisce al possessore di quell’oggetto o di quel capo di abbigliamento l’esclusiva. La Galleria Sinopia non è una galleria d’arte tradizionale né un negozio di arredamento o di abbigliamento tradizionale, è un luogo dove nascono associazioni creative e sperimentali tra l’eleganza dell’arredamento antico e la forza espressiva dell’arte contemporanea. Inoltre la Galleria offre consulenza nel campo della conservazione e del restauro dei beni artistici antichi Raffaella Lupi nella sua galleria e moderni, e collabora con architetti e progettisti nell’allestimento di interni. Insomma qui convivono arte contemporanea, artigianato, design e antiquariato e viene alimentato un vero e proprio “sentimento” dell’indossare e dell’abitare. Come nasce questa nuova idea di galleria? Raffaella Lupi, che proviene da famiglia di antiquari e che si dedica da anni all’arte contemporanea, ci dice che oggi le gallerie tradizionali non vanno più, perché il collezionista di un tempo è svanito ed i giovani raramente entrano in una galleria per comperare una scultura o un dipinto. Lo stesso vale per il mobile importante di antiquariato, che oltre tutto è poco adatto ad essere inserito in un piccolo appartamento. Lei espone mobili d’antiquariato che piacciono anche ai ragazzi e al contempo li avvicina all’arte contemporanea con opere di piccolo formato e di prezzo contenuto. Qualche esempio di abbinamento antico-moderno? Sicuramente i mobili di Contaminarte, firmati da Susanna Antonini e Cesare Gilento, che vanno in cerca di antichi mobili rotti e inventano un nuovo mobile abbinandoci materiali contemporanei: ecco ad esempio il comodino di plexiglass con cassetti in legno dell’Ottocento e la voluta di una grande specchiera che diventa il dorsale di una panchetta d’acciaio. Ciclicamente la Lupi propone delle vere e proprie mostre, sempre in dialogo con i suoi mobili antichi e di design, caratterizzate da un filo conduttore, così da creare, di volta in volta, un diverso sentimento dell’abitare. L’ultima mostra del 2014 è Riccardo Pieroni: La stanza di Piero (particolare) stata proprio “FIBER ART Moda e sentimento dell’abitare”. Fascinosi erano gli imponenti arazzi, una tecnica di lavorazione molto antica rivisitata da artisti contemporanei. C’erano quelli tridimensionali in feltro
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di Claudio Varone e Anneke Copier, lui architetto italiano lei artista olandese che hanno creato il progetto “Felt for Architecture”. Tridimensionali erano anche gli arazzi di Marussia Kalimerova, un’artista tessile bulgara da anni in Italia che tesse fibre diverse, dal sisal al rexor, dalla seta alla lana. Ed alle pareti spiccavano i pannelli di Lydia Predominato, in cui il tessile si unisce alla più moderne tecniche di riproduzioni tra le quali la termografia. E sui mobili e sulle librerie (qui non ci sono scaffali) c’erano le mini sculture tessili di Tania Kalimerova. Ma sono stati i cappelli a colpirci, posti su una libreria accanto alle sculture, essi stessi splendide sculture. Fanno parte della collezione OGM di Claudio Varone e Mirjam Nuver che trova la sua fonte di ispirazione nell’arte tribale dei paramenti rituali dei popoli della foresta pluviale. Queste popolazioni per i loro copricapo usano fiori, rami, foglie e tutto quello che la natura fornisce loro. I nostri creativi, ispirandosi a quelle forme, le hanno realizzate con altri materiali, quelli che la foresta “metropolitana” fornisce, dal feltro al sisal ai fili di plastica per le etichette. Ma ci sono anche altri cappelli, forse meno fantasiosi, caratterizzati dal fatto che sono fatti con un feltro leggerissimo e, se si ripiegano, tornano subito nella forma originaria. Sono anch’essi di Mirjam Nuver che ha anche questa produzione più “mettibile”. Raffaella Lupi, che ha aperto la Galleria nel 1988, ha sempre avuto l’esigenza di rafforzare il dialogo, mai interrotto, tra il nuovo e l’antico, e tra artisti di diverse generazioni, ottenendo un effetto ‘senza tempo’. Ella si interessa soprattutto a quelle che vengono definite le arti applicate o “preziose” quali, ad esempio, oltre al tessile, il vetro e la ceramica. E sui suoi mobili si “incontrano” le sculture in ceramica di Antonio Grieco, Riccardo Monachesi e Jasmine Pignatelli. Prossimamente la Lupi ricreerà nella sua galleria “La stanza di Piero”, una vera e propria stanza delle meraviglie ricostruita con i curiosi mobili originari provenienti dal laboratorio dell’Ingegner Piero Conti, recentemente scomparso, le foto di Riccardo Pieroni e le sculture in vetro di Francesca Cataldi. Pieroni, che si definisce fotografo “ordinato”, è rimasto impressionato dalla quantità di oggetti presenti nella stanza, ed ha cercato di ricreare, attraverso le sue foto, il sentimento del luogo, dove, come egli osserva: «convivono diverse lingue. I cartellini sui contenitori, le marche sulle scatole, i dati tecnici sugli strumenti di misura, i dati di identificazione di ogni singolo oggetto, i cartellini nei cassetti. L’ordine è anche convivenza di linguaggi, uscire dalla torre di Babele significa razionalizzare e dare una funzione ad ogni parola, ad ogni modo di organizzare le parole». La Cataldi ha cristallizzato alcuni di questi oggetti sottraendoli dall’effimero e lo ha fatto attraverso una sorta di copertura in vetro. Tale rivestimento vitreo si fa bacheca-reliquiario per il singolo oggetto, adatta a conservarlo nel tempo, ad isolarlo ed a dargli forza evocativa, sottraendolo dalla molteplicità ed assegnandolo alla unicità. Nell’odierno periodo di “fermo” generalizzato, Raffaella si entusiasma ancora e sollecita gli artisti che la circondano a produrre opere nuove su idee nuove e con materiali nuovi. E gli artisti hanno bisogno di stimoli, hanno bisogno di poter far vedere i loro lavori… insomma Raffaella, sostenuta dal suo amore per il bello e da un sicuro intuito, è da lodare particolarmente perché in una congiuntura così complessa non demorde, crea e invita a creare guardando con fiducia al futuro. E questo entusiasmo contamina chi entra nella sua galleria (www.sinopiagalleria.com)
Credenza di Contaminarte con cappelli di Mirjam Nuver
Claudio Varone e Mirjam Nuver, cappello della collezione OGM
Francesca Cataldi: La stanza di Piero, sculture polimateriche con vetro
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Fotografo: Beatrice Livi
Via G.E. Alessandrini, 4 - 63835 MONTAPPONE (FM) ITALY Tel. 0734.760487 info@paimar.com
PAIMAR Paimar ad oggi è un marchio di riferimento per la produzione di cappelli artigianali da uomo, donna e bambino. L’azienda, nata nel 1975 nel cuore delle Marche, realizza copricapo e accessori moda in tessuto, paglia, feltro, pelle, maglia ed affini. Il design e la ricerca sono interni all’azienda e la produzione viene effettuata nel distretto produttivo di Montappone, con una manodopera altamente qualificata. Realizza inoltre in licenza anche il marchio Barnum. Paimar distribuisce i propri prodotti anche sui mercati internazionali, rivolgendosi al segmento del lusso e collaborando con molte griffe ed aziende di confezioni per l’abbigliamento. Si fregia del marchio Marche Eccellenza Artigiana dal 2011, riconoscimento con cui la Regione Marche ha voluto valorizzare, promuovere e tutelare la tradizione degli antichi mestieri artigiani.
La moda alle soglie della Grande Guerra di Ruggero Signoretti
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a prima Guerra Mondiale (1915- 1918), anche nota come la Grande Guerra, che coinvolse tutti i popoli d’Europa e oltre, mietendo un numero altissimo di vittime e cancellando imperi, come quello Austro Ungarico, ha di fatto dato l’avvio alla modernità. La guerra ha posto fine alla Belle Epoque, quel periodo di gioiosa fiducia nel progresso, e l’Europa che ne uscì fu completamente diversa. Diverse furono soprattutto le donne, che durante la guerra avevano scoperto di poter lavorare in ambiti un tempo impensati, come le fabbriche di armi. E cambiava decisamente anche la moda. Sparivano i mutandoni, i busti, le pettorine, i fichus, le collarette, le camicie da giorno, che, di lì a poco, sarebbero state sostituite dalle sottovesti. I giornali del 1914 ci restituiscono l’immagine di una donna ancora e quasi esclusivamente angelo della casa, intenta a lavori di ricamo e di cucito. Sfogliando l’annata 1914 del settimanale “Il Ricamo”, edito dalla casa editrice Sonzogno di Milano, troviamo descrizioni di cuffie, biancheria per signora e per bambini da giorno e da notte, vestiti, cuscini, paralumi, tovaglie, tovaglie d’altare, emblemi ricamati per vestiti alla marinara, cifre, borse in stoffa…. Colpiscono in particolare i busti ed i reggiseno, concepiti in linee che oggi sembrano assurde, infatti i reggiseno erano semplicemente dei copri-seno ed i busti erano lunghe guaine. Del resto a riguardare con attenzione gli abiti dell’epoca, affusolati e con un davanti che nascondeva le forme, si comprende come quella fosse in effetti la biancheria adatta ad assecondare quella linea, o viceversa come quella linea si adeguasse alla forma che il corpo assumeva con quella biancheria. Da quelle pagine di carta sottile, del formato di cm 29,5 x 42, rigorosamente in bianco e nero ma con la copertina, sempre dello stesso tipo di carta, con tenui colori, emerge un mondo di lavori preziosi che pochissime donne oggi saprebbero eseguire, salvo forse le ricamatrici di professione. E tra le pagine qualche rara pubblicità. Interessante notare che alcuni prodotti sono ancora in uso come la pastiglie Valda, le telerie Frette, l’amaro Ramazzotti e l’olio Sasso. è curiosa la presenza di un prodotto della ditta Palma che produceva veri tacchi di “cauciù”. Il marchio Sonzogno, l’editore della rivista, c’è ancora anche se la Casa Editrice nel 2010 è stata rilevata da Marsilio. Nata come tipografia nel 1804, grazie a Francesco Sonzogno, era diventata casa editrice nel 1861, col nipote Edoardo, e si era espansa con la pubblicazione di edizioni musicali e di periodici e quotidiani tra i quali una serie di riviste femminili come “La Novità - Tesoro delle famiglie”, “La Moda Illustrata”, “La Moda Illustrata dei Bambini” (4 numeri l’anno, uno per stagione), “Il Giornale dei sarti” ed altre. Sfogliando il settimanale “Il Ricamo”, relativamente ai numeri pubblicati nel 1914, notiamo una moda raffinatissima nei particolari ma già verso la fine dell’anno, e precisamente nel numero del 6 dicembre, troviamo la spiegazione per realizzare indumenti completamente diversi da quelli che si trovano in tutte le altre pagine dell’annata, sono una serie di berretti, guanti, ginocchiere e scarpette di lana, destinati ai soldati al fronte. …il clima, non solo atmosferico, stava cambiando. Particolare la foggia dei guanti: un tipo è a manopola, un tipo è con tre dita, uno per il pollice, uno per l’indice ed uno per le restanti tre dita: una forma comoda per azionare il fucile! I modelli degli abiti, se non sono decisamente abiti da casa, sono tutti accompagnati dal cappello. E ci sono cappelli veramente graziosi come quello scozzese con una rosa su una falda rialzata. Cappelli con piume, con asprit, con fiori. E gli abiti estivi sono sempre abbinati a cappellini di paglia. I modelli sono corredati da indicazione sui tipi di tessuto adatti ed anche i bottoni sono indicati nei minimi particolari, così da non far sentire la mancanza del colore. Troviamo, ad esempio, bottoni in “galatite” e bottoni “dal cuore in cachemir di lana grigia e cerchietti di acciaio brunito”. Tutti i modelli che presentiamo risalgono al 1914.
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Il gruppo Tirabasso ha ampliato la propria struttura aziendale L’azienda Tirabasso Group amplia il reparto progettazione e design Tecnologie innovative, attività di ricerca e sviluppo caratterizzano il gruppo Tirabasso. L’azienda, grazie all’aggiornato reparto di progettazione risolve e ottimizza al massimo le richieste dei propri clienti sotto tutti gli aspetti.
Michela Morganti Licensing Manager and Fashion coordinator Tirabasso Group Srl
La realizzazione di prodotti originali e di design ricercato qualificano il servizio offerto dal Gruppo e l’esperto staff aziendale. La progettazione e la pianificazione per la realizzazione di un cappello richiedeva disponibilità di tempo e una Sample Room ingolfata da nuove richieste. Con la nuova progettazione, i disegni e le illustrazioni in 2D, la modellazione dei cappelli è ora più diretta e mirata. Il team della Tirabasso è ancora più efficiente, l’ottimizzazione della progettazione consentirà di garantire servizi e prestazioni destinati ad aumentare ancor più la soddisfazione della clientela.
Foto: Cappello di paglia con effetto stampato a Pois
Foto: Progettazione Cappello
MOSTRA AL MAXXI BELLISSIMA. L’ITALIA DELL’ALTA MODA 1945-1968 di Stefania Severi
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a mostra Bellissima. L’Italia dell’alta moda 19451968 prodotta dal MAXXI di Roma, il Museo dell’Arte del XXI secolo, a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo e Stefano Tonchi (2 dicembre 2014 - 3 maggio 2015), è stata una ricognizione nella grande moda italiana agli albori di quel successo che l’ha vista trionfare in tutto il mondo. Era infatti il primo dopoguerra quando si affacciarono alla ribalta sarte e sarti che avrebbero cambiato un trend che voleva che l’unico luogo di produzione dell’alta moda fosse Parigi. Queste sarte e questi sarti, attivi soprattutto a Firenze, Milano e Roma, avrebbero dato vita a creazioni sartoriali “made in Italy”, un marchio che sarebbe diventato sinonimo di eleganza, raffinatezza, maestria dell’esecuzione e alta qualità delle materie prime. Nella galleria 5 del Museo, uno spazio caratterizzato da una parete di vetro con vista su Roma, è stata creata una sorta di passerella con altezze variabili ed andamento sinuoso, sulla quale incedevano o erano sedute o sdraiate donnemanichino, con abiti da giorno, da cocktail e da gran sera. A coppie andavano come le modelle sulle passerelle, indossando abiti di Roberto Capucci, Germana Marucelli, Mila Schön, Fernanda Gattinoni, Emilio Schuberth, Valentino, Alberto Fabiani, le Sorelle Fontana, Irene Galitzine (che nel 1960 inventa, insieme al suo giovane collaboratore Federico Forquet, il Pijama Palazzo, che riscuote un grande successo alle manifestazioni di moda fiorentine), Pino Lancetti, Delia Biagiotti, le Fendi, Carosa... è proprio da questa alta moda che prende il via quel prêt-àporter che è ancora un nostro vanto. C’erano gli abiti “spaziali” degli anni ‘60, quelli della Hollywood sul Tevere … e accanto agli abiti le borse di Gucci e di Roberta di Camerino, le scarpe di Ferragamo, i gioielli di Bulgari e i bijoux fantastici di Coppola e Toppo. Il termine alta moda indica la lavorazione artigianale di capi unici e su misura per una elite. E quei capi di pochissime diventano il sogno di tante. L’alta moda italiana è fiorentina per nascita ma si consolida a Roma. Qui, in quegli anni, il bel mondo frequentava bar, studi d’artisti e gallerie d’arte nella zona tra Via di Ripetta e Via Margutta e qui sorgevano anche le sartorie. Gli artisti entravano nel gioco disegnando per le seterie di Como (Dorazio, Sanfilippo, Carla Accardi…) e i couturier si ispiravano agli artisti: Capucci prediligeva Burri e Vasarely e Mila Schön ammiccava a Fontana e Calder.
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Tre grandi fotografi hanno raccontato l’alta moda italiana ai suoi esordi: Pasquale De Antonis (Teramo 1908 - Roma 2001) metteva gli abiti in dialogo con la classicità della Roma antica; Federico Garolla (Napoli 1925 - Milano 2012) riprendeva le modelle nella Roma moderna; Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia 1928 - Milano 1973) fotografava le modelle in giro per l’Italia. Le riviste di moda si moltiplicavano: “Bellezza”, “Vogue”, “Linea Italiana”, “Novità”. Negli anni ’50 e ‘60 Cinecittà e le grandi produzioni internazionali guardavano all’alta moda romana. L’atelier delle Sorelle Fontana è lo scenario del film di Luciano Emmer Le ragazze di Piazza di Spagna (1952). Delle Sorelle Fontana sono anche gli abiti che sfilano nella sartoria torinese del film di Michelangelo Antonioni Le amiche (1955). E le grandi attrici, da Ingrid Bergman a Ava Gardner, da Gina Lollobrigida a Sofia Loren, da Audrey Hepburn ad Anna Magnani, da Silvana Mangano a Elizabeth Taylor, si vestivano dai grandi sarti romani. Valentino vestiva anche Jacqueline Kennedy Onassis. La mostra, arricchita da video tratti dalle teche della Rai con sfilate e interviste ai protagonisti, era corredata da catalogo Electa. E i cappelli? I cappelli in mostra erano 14, divisi in due sezioni, ed erano di Clemente Cartoni (dalla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze - Donazione Tornabuoni) e di Gallia e Peter, una modisteria di Milano (Via Moscova 60) fondata negli anni Trenta ed ancora attiva. Da Gallia e Peter giungevano, tra l’altro: un turbante di seta con ricamo di jais, perle e strass e con aigrettes del 1945; una veletta di crine con bordi dorati degli anni Cinquanta; una cuffietta in pelle (1968); un basco in nappa (1968); un toc in maglina di paglia intrecciata (1953); un cappello in organza di seta realizzato per Biki (1967). Di Clemente erano: una cloche di feltro con soprafalda in piume, un cappello a girandola in piume, un grande cappello di paglia nero con fiori e una cupolina con ventaglio di marabù, tutti della metà degli anni Cinquanta; un cappello in feltro e lapin realizzato per Capucci (anni ‘60). Tutte le creazioni erano di grande raffinatezza, curate nei minimi particolari e con materiali spesso preziosissimi. Le foto sono state scattate nella mostra. In particolare si segnala l’abito redingote di ispirazione ecclesiale, in lana con profili in rosso, cappello cardinalizio con cordone e nappe, catena con croce, realizzato dalle Sorelle Fontana nel 1955 per Ava Gardner.
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LA TRADIZIONE DEL “fatto in casa” di Luigi Rossi
S
arà per la crisi che da troppi anni ci attanaglia, sarà per la disoccupazione e il tanto tempo libero che abbiamo, sarà per la noia dei prodotti preconfezionati o il disgusto per quelli usa e getta, sta di fatto che è in corso una sorta di rivoluzione della manualità individuale all’insegna del “fatto in casa”. Lo vediamo dal successo delle trasmissioni televisive dedicate alla cucina, dal proliferare delle riviste di bricolage, dal moltiplicarsi dei canali del “fai da te” sui social network. Sembra che le donne e gli uomini di questi ultimi tempi avvertano impellente il bisogno di mettersi alla prova, di verificare le proprie capacità operative, di tornare ad essere protagonisti del momento produttivo. La rivoluzione industriale e tecnologica, infatti, se da una parte ci ha liberato dai bisogni e dalla fatica, dall’altra ha soffocato l’insopprimibile istanza alla creatività e alla manipolazione che fanno parte del DNA umano. Si è così creata una frattura con la nostra storia millenaria e si è affermato un modello di società informe, indifferente e “liquida” - come dicono i sociologi - dove tutto si misura in termini economici e consumistici e non anche estetici, individuali e pratici. Lo sviluppo delle modalità di produzione seriale ha finito per uniformare i modelli comportamentali, abitativi, alimentari, per cui oggi è molto difficile poter ipotizzare un ritorno su larga scala alla produzione domestica che resta comunque come auspicio, linea di tendenza, fenomeno di nicchia. Sono venuti a mancare i prodotti,
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Casa colonica abbandonata, Castel di Lama - Villa Sant’Antonio-AP (foto Enzo Morganti, 1980)
La vërgara (foto Scuola Media Montefalcone Appennino-AP, anni Ottanta)
gli strumenti, gli spazi per un ritorno ai vecchi modelli produttivi. Che l’istanza comunque sia forte e universalmente condivisa lo si può cogliere dal successo e dall’interesse che stanno suscitando le iniziative intraprese per l’Expo 2015 di Milano dove tutti i paesi, sia quelli sviluppati che quelli cosiddetti in via di sviluppo, si stanno cimentando sul tema della produzione e distribuzione del cibo attraverso il recupero di un rapporto diretto e sostenibile con la terra, che torna inevitabilmente ad essere al centro dell’attenzione dell’uomo. La ricerca forsennata di incrementi di produttività immediati, realizzati attraverso tecniche di sfruttamento e pratiche invasive e distruttive, hanno messo a repentaglio la naturale capacità rigenerativa della terra, quindi si rende necessario e urgente un ripensamento delle modalità di coltivazione partendo dagli insegnamenti del passato. La società rurale, nel suo rapporto diretto con la terra, aveva sviluppato conoscenze, esperienze e tecniche che per millenni hanno assicurato un corretto equilibrio tra produzione e riproduzione della fertilità, riducendo al minimo il consumo di suolo. La forma di conduzione, che forse meglio di tutte ha garantito negli ultimi secoli un corretto rapporto tra produzione, consumo e risparmio energetico, è quella mezzadrile. Ad essa gli storici economici riferiscono, tra l’altro, un modello di sviluppo chiamato NEC (ossia Nord-Est-Centro dalle regioni di massima diffusione della
mezzadria) basato sulla piccola impresa familiare, sull’inventiva e la creatività manuale, sulla flessibilità del lavoro e sulla valorizzazione delle materie prime e delle strutture materiali e sociali ereditate dal passato. Un modello che funziona non tanto sulle economie di scala come quello industriale, quanto piuttosto sulle economie marginali. Ossia non attraverso l’incremento della produzione e quindi dei consumi, ma con l’uso di risorse reperibili in loco, rinnovabili e secondarie o addirittura di scarto. Dagli stracci, dalla paglia, dalle pelli, dalle ossa e dalle corna degli animali, dal legno e persino dalla feccia di botte sono nati, per restare alle Marche, i distretti industriali della carta, delle calzature, dei cappelli, degli strumenti musicali, del mobile, dell’agroindustria. Per secoli i mezzadri, tenuti ad abitare in campagna lontano dai mercati cittadini, hanno provveduto a garantirsi l’autosufficienza producendo nel fondo loro assegnato tutto il necessario per la sussistenza non solo alimentare. Essi nel tempo hanno acquisito le abilità necessarie alla lavorazione e trasformazione delle materie prime che avveniva in casa. La casa, pertanto, era ben altra cosa rispetto alla scatola di cemento o cartongesso dove oggi viviamo. Per quanto povera, disadorna e fredda, essa è stata non solo abitazione della famiglia ma anche e soprattutto centro aziendale di produzione, trasformazione e conservazione di ciò che si riusciva ad ottenere dal fondo. Per questo era dotata di stalla, ovile, porcile, pollaio, bigattiera per l’allevamento degli animali che fornivano forza-lavoro, cibo (carne, uova, latte), prodotti per manifatture (lana, piume, seta) e concime. Inoltre, disponeva di
Fémmëna che caccia lu pa da lu furne a legna, Roccafluvione-AP (foto Franco Morganti, 15 marzo 1979)
Una fase della lavorazione de lu cascë a Capodicolle di Roccafluvione-AP (foto Franco Morganti, settembre 1979)
L’òrze ‘bbresculite: la fémmëna sbatte lu ‘bbresculitorë, Casebianche di Roccafluvione-AP (foto Franco Morganti, 25 maggio 1979)
magazzino, cantina, forno per conservare e trasformare i prodotti, e di capanna, fienile e letamaio per il ricovero degli attrezzi e la custodia dei foraggi e dei concimi. Gli ambienti abitativi e quelli di servizio erano generalmente polifunzionali: in cucina si faceva il pane, la polenta, il formaggio ma si filava anche, si ricamava e cuciva; nel magazzino o nella bigattiera, dove in primavera si allevava il baco da seta, potevano esserci il telaio, i filatoi e gli stenditoi; nel caldo della stalla durante la stagione invernale si intrecciavano vimini e canne per realizzare cesti e canestri, si modellavano salici per forche, forconi e rastrelli, si facevano trecce per i cappelli; la capanna, oltre che rimessa per gli attrezzi, era laboratorio di falegnameria con un bancone e gli utensili necessari per realizzare tregge, perticare, carri agricoli, scale a pioli, manici, ma anche mobili e persino il telaio che richiedeva legni diversi per ogni sua parte. Nella giornata “senza ore” del mezzadro, perennemente occupato nei campi o in casa, un ruolo di fondamentale importanza era svolto dalle donne. Oltre al lavoro nei campi a fianco agli uomini, esse provvedevano al cibo e al vestire della famiglia che in genere era polinucleare e numerosa. Una volta a settimana facevano il pane dopo aver provveduto a mettere da parte del lievito di pasta madre. A partire dal Settecento, per risparmiare il grano, cominciarono a usare il mais, sia per il pane che per polente e polentoni. Quando nell’Ottocento si diffuse il pomodoro, appresero ben presto il modo di poterne disporre tutto l’anno imbottigliandolo e trasformandolo in conserva. Essendo ammessi nella stalla del mezzadro solo bovini da lavoro, per il latte e il
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Lu sapó: separazione de la pizza de sapó da lu lapì, Casebianche di Roccafluvione-AP (foto Franco Morganti, 1980)
formaggio si ricorreva alle pecore. Realizzato il caglio dallo stomaco di un agnello da latte, per tutta la stagione primaverile la “vergara”, che soprintendeva ai lavori femminili, si alzava all’alba per scaldare il latte e fare il formaggio. Con i grumi di ricotta residui preparava la colazione per i bambini, mentre per gli adulti aveva provveduto ad abbrustolire e macinare l’orzo in cui intingere il pane secco e raramente ciambelle e maritozzi. Poiché nel podere intensamente coltivato non era possibile detenere un numero sufficiente di pecore, per sopperire alla scarsità di lana si coltivavano ovunque lino e canapa le cui piante, tenute a macerare quindi essiccate, sfibrate e pettinate, finivano sulla conocchia e filate col fuso, stese col filarello, raccolte in matasse e passate al telaio dove le giovani contadine le trasformavano in rotoli di panno per il corredo. Panno che doveva essere “curato” ossia ammorbidito e sbiancato con frequenti immersioni in acqua corrente e prolungata esposizione al sole. Le competenze femminili si manifestavano anche in attività
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La liscié: la vërgara mette la cé sopra lu culature, Vallesenzana di Ascoli Piceno (foto Franco Morganti, 18 maggio 1978)
Li mmasciate de lu puorche: li fémmenë pëliscë li vëdèlla, Casebianche di Roccafluvione-AP (foto Franco Morganti, dicembre 1980)
più complesse, come preparare la lisciva o liscia e fare il sapone con gli scarti della lavorazione del maiale. L’uccisione del maiale e la lavorazione delle sue carni è generalmente attività degli uomini ma il contributo delle donne è indispensabile per la preparazione delle spezie e degli ingredienti per la “salata”, la “pista” o “li mmasciate”, come localmente è detta tale operazione, che si è tramandata di generazione in generazione fino ad oggi, quando il “progresso” ha cancellato tutto questo per darci i detersivi chimici e il prosciutto affettato nella plastica. Benché non sia ipotizzabile, e neppure auspicabile, un ritorno al passato, data la fase avanzata e ormai irreversibile del processo di globalizzazione, il richiamo del “fatto in casa” rappresenta, se non altro, una sorta di coscienza critica nei confronti dei consumi e dei costumi di massa, e nello stesso tempo è un invito a considerare che i valori locali possono contribuire a definire una globalizzazione dal volto umano, altrimenti detta ”glocalizzazione”.
Il De Oratore di Cicerone primo libro stampato in Italia con i caratteri mobili di Stefania Severi
E
ra il 1465, esattamente 550 anni fa, quando, presso il Monastero di Santa Scolastica di Subiaco, due chierici tedeschi, Corrado Pannartz e Arnoldo Sweynheym, allievi di Gutenberg, impiantarono la prima tipografia in Italia con caratteri mobili da stampa, vanto del loro maestro, e stamparono il primo libro. Subiaco, adagiata su di un colle roccioso nell’alta Valle dell’Aniene, era ed è uno dei centri più importanti del Lazio per il grande richiamo religioso dei suoi monasteri, la bellezza dei suoi monumenti e il fascino della natura circostante. Antico centro degli Equi passò ai Romani e piacque a Nerone che vi fece costruire una grandiosa villa, detta “Sublaqueum”, cioè sotto i laghi, sulle rive di tre laghetti artificiali, ricavati sbarrando le acque del fiume con tre poderose dighe, i “simbruina stagna” di Tacito. Sono ancora visibili i resti della villa lungo la strada che conduce ai Monasteri. Il Cristianesimo si diffuse assai presto nella vallata e sul finire del V secolo arrivò a Subiaco Benedetto da Norcia, fuggito da Roma. Il giovanetto si ritirò per tre anni in una grotta del monte Talèo dove fu raggiunto da molti fedeli ed in seguito fondò il primo Monastero che fu seguito da altri dodici. Con le incursioni saracene, però, i monasteri furono tutti distrutti, ad eccezione del primo, chiamato Sacro Speco, e di quello che verrà poi dedicato a Santa Scolastica, sorella gemella di Benedetto. Col passare del tempo Santa Scolastica divenne un grandioso monastero, una vera e propria potenza feudale, poiché i suoi possedimenti si estendevano per larghissimo raggio nella regione laziale. è qui dunque che è stato stampato il primo libro. Era un testo di Cicerone, De Oratore, destinato a studiosi ecclesiastici e laici. Oggi di quel libro sono rimasti pochissimi esemplari, uno dei quali alla Biblioteca Angelica di Roma. Proprio dalla sua analisi emerge il profondo legame col Monastero: la forma dei caratteri è dedotta da due manoscritti conservati ancor oggi nella Biblioteca. In particolare le maiuscole sono tratte da un manoscritto del X secolo con vite dei Santi tra le quali la Vita di Santa Eufrosina. Infatti i caratteri gotici tedeschi non sarebbero stati bene accolti dal fruitore italiano, aduso a caratteri meno spigolosi ed allungati. Pertanto la bella e chiara scrittura degli amanuensi ha fornito i tipi per i caratteri mobili usati nel libro che, non a caso, si chiamano sublacensi. Ma come questi chierici tedeschi sono arrivati a Subiaco? Il loro scopo era quello di creare una stamperia a Roma, ma inizialmente non ci riuscirono e ripiegarono su Subiaco dove c’era una cospicua presenza di monaci tedeschi e c’era sufficiente ricchezza perché il loro laboratorio potesse essere finanziato. Negli anni 1464-1468 furono certamente stampati: la Piccola Grammatica Latina del Donato, di cui non è giunto nessun esemplare; il De Oratore di Cicerone, che è diventato così il primo libro; De Divinis institutionibus, De ira Dei e De opificio hominis del Lattanzio. Dopo aver realizzato questi libri i due stampatori tornarono a Roma e vi impiantarono una tipografia. A breve le tipografie si moltiplicarono ed i tipografi iniziarono anche a specializzarsi. Il Cardinale Giulio Torquemada, già Abate di Subiaco, pur avendo incoraggiato i nostri, preferì in seguito rivolgersi ad un altro stampatore perché specializzato in illustrazioni. In occasione del 550° anniversario della stampa del primo libro a caratteri mobili in Italia, il Comune di Subiaco ha lanciato il progetto “Subiaco 2015” di cui sono paladini l’abate Dom Mauro Meacci e il Sindaco Francesco Pelliccia. Presso il Monastero di Santa Scolastica è stata allestita una mostra che presenta i manoscritti sublacensi ai quali i due stampatori si sono ispirati, unitamente ad altri preziosi materiali tra i quali scritti autografi del Cardinale Nicola Cusano e di papa Pio II Piccolomini. Il De Oratore di Cicerone, gentilmente concesso in prestito da Fiammetta Terlizzi, Direttrice della Biblioteca Angelica, è stato riprodotto in copia anastatica a cura del Comitato “La culla della stampa”. è stato inaugurato il Borgo dei Cartai, un nuovo museo-laboratorio installato in un ex Mulino, sulle sponde del fiume Aniene, con l’obiettivo di recuperare le tecniche artigianali della produzione di carta e di ridar vita ai processi di stampa tradizionali. La presenza della carta a Subiaco si deve a papa Sisto V che, nel 1487, fece impiantare una cartiera che subito prosperò grazie anche alla presenza dell’acqua, indispensabile alla lavorazione, fornita in abbondanza dall’Aniene. Nei secoli la cartiera venne ampliata ed incrementata raggiungendo, a metà del 1800, il periodo di massima produzione. Gli operai erano 160 e l’apparecchiatura era, per i tempi, all’avanguardia. Dopo l’unità d’Italia la cartiera ha continuato a funzionare, anche se sempre in riduzione, fino alla chiusura definitiva nel 2004. Il Borgo dei Cartai si propone come museo “produttivo” che fa carta ed oggettistica in carta con tecniche artigianali, coinvolgendo i visitatori in vari corsi e cicli produttivi. Si auspica che tutte queste iniziative favoriscano la ripresa culturale ed economica dell’intero territorio.
Subiaco, Santa Scolastica, Biblioteca, allestimento dei manoscritti per la mostra in occasione dei 550 anni dalla stampa del primo libro a caratteri mobili
Subiaco, il Sacro Speco (visione parziale)
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BENEDETTO BUSTINI
LA PITTURA NEGATA a cura di Luciano Marucci
Q
uando si parla di una persona che si dedica totalmente alla pittura, anche se il prodotto creativo ha una sua intelligenza, credo sia utile conoscere pure l’uomo, specie se i lavori, in una certa misura, ne riflettono la biografia . Ed è doveroso dargli spazio quando non ha i riconoscimenti ufficiali di altri operatori che riescono a procurarsi consensi più per la scaltrezza che per i meriti artistici. Inoltre l’esercizio dell’immaginario va incoraggiato, se non altro per contrastare la dilagante materialità del quotidiano, in chi ha talento e un’attendibile formazione. Queste considerazioni valgono anche se si hanno preferenze linguistiche diverse. Mi riferisco, in particolare, al caso di Benedetto Bustini che, a causa di sfortunate vicende familiari, a un certo punto della sua carriera ha dovuto abbandonare l’insegnamento e la residenza a Siena, per ritirarsi nel paese di origine del Piceno, allontanandosi dal contesto competitivo del sistema dell’arte. Tra l’altro egli, a causa di un male sopraggiunto recentemente, è do- Benedetto Bustini, Nella luce vuto tornare in Toscana dalla figlia e non può più masonite (courtesy l’Artista) neanche dipingere. Poiché gli è rimasta soltanto la possibilità di parlare, ho voluto coinvolgerlo in un dialogo a distanza, dove ha potuto esternare le riflessioni, scaturite dall’attuale condizione esistenziale, che svelano sensibili e profondi valori umani, tutt’altro che secondari rispetto al prodotto visivo. Ed è servito anche a me per comprendere meglio il pensiero di un artista costretto a vivere senza osservare e senza poter comunicare con il medium abituale. Caro Benedetto, mi è dispiaciuto apprendere che sei stato colpito in modo irreversibile da trombosi oculare, tanto più che la pittura, in cui davi sfogo alla fantasia vagando nello sconfinato spazio virtuale, era la vera ragione della tua vita. Pensi che l’intensa e meticolosa pratica pittorica possa aver accelerato il processo patologico? Non so dire se il mio lavoro può avermi causato il danno, ma ho sempre saputo che il diabete distrugge gli arti inferiori e la vista. D’altra parte tutti i problemi fregano la libertà. Adesso sono ancora meno libero; così la prima poesia che ho scritto è questa: “LIBERI” | nati senza saperlo | moriremo senza volerlo | “noi uomini liberi” | spediti nel mondo ostile | “tra perfidi fratelli” | e ansie, malanni, disgrazie | dotati di impari forze | anelanti difficili mete | nell’amara certezza di morte. I guai non mi trovano impreparato, me lo ha insegnato l’arte. Tra i pittori del XIX secolo Cézanne e Van Gogh mi hanno veramente interessato e non sono mai riuscito a capire come fossero i più ignorati. Forse perché nel mondo la fanno da padrone merda e ottusità. Amen! In compenso…, sia pure involontariamente, puoi riposarti…
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È vero, ma il mio non è riposo. È cosa atroce, distruzione, nella noia della poltrona di uomo finito, “inutile”. Cerco di sopportare il tempo recuperando il passato remoto alla maniera di Proust e faccio riaffiorare nella mia mente il ricordo di certi episodi o personaggi. Capisco che ti manca la possibilità di ri-creare le forme luminose delle opere, ma puoi accontentarti dei risultati raggiunti. La privazione della luce è terribile per tutti, specialmente per me, che sono stato sempre legato ad essa, come del resto lo è stata tutta la pittura. Il Rinascimento è luce, la grandezza di Masaccio è scoperta della luce (che apre l’era nuova); quella limpida, mattinale, pervade per intero la Scuola Fiorentina, fatta eccezione per Domenico Veneziano e Piero Della Francesca che inventarono il “colore luce” e per Leonardo da Vinci che amò la luce crepuscolare, come se il pittore osservasse le immagini dalla cavità di una grotta. Dopo di lui gli artisti si chiara, 2005, acrilico su impegnarono nella ricerca dei più raffinati effetti scenografici e prospettici. Alcuni si identificarono col mattino che possiede l’immagine limpida, non ispessita da densità atmosferiche. Ne fu massimo interprete Sandro Botticelli. Nessuno ha dipinto meglio di lui la primavera (mattino dell’anno) né la nascita di Venere, trionfo della giovinezza (mattino della vita). Gli faceva eco Lorenzo il Magnifico: “Quant’è bella giovinezza | che si fugge tuttavia! | Chi vuole esser lieto, sia, | di doman non c’è certezza”. La densa luminosità del tramonto, vellutato e sensuale, fu il grande merito della Scuola Veneta (Giorgione, Tiziano, Palma e gli altri). La luce del lume nella notte fece la gloria di Caravaggio. Tutta la Scuola Fiamminga e nordica fu un fatto luministico (Van Eych, Rembrandt, Vermeer, ecc.). Il Settecento si espresse nella bellezza del “tocco” e con il ritorno alla luce chiara, nei colori filtrati e con effetti basati sulla levità della “grazia” e ricercate piacevolezze cromatiche. Dopo il Rococò ci fu la “reazione romantica”, a iniziare dalla grande scuola inglese di Constable e Turner, quest’ultimo impareggiabile pittore della luce solare. Il secondo Ottocento propose l’estetica impressionista che esplose con paesaggi caldi e assolati, passeggiate, merende sui prati ed anche con locali da ballo notturni, viali illuminati dalle nuove luci artificiali, nel vivere spensierato di una Parigi che stava diventando metropoli, cuore pulsante del mondo e della cultura moderna. E qui mi fermo perché non sono in grado di parlare degli artisti che fanno uso di nuovi mezzi di luce. Ero e sono rimasto un pittore: la luce colorata e quella fredda di Wood sono state lo scopo del mio lavoro; ho dipinto fino all’aprile 2014 e non sentivo nessuna stanchezza. Credo che l’arte debba rinnovarsi in continuazione, ma io non mi sono mai sentito di imitare qualcuno. Adesso, purtroppo, sono quasi al buio, con l’amarezza che puoi immaginare.
Apparizione 2006, acrilico su masonite (courtesy l’Artista)
Ora che il buio della notte e quello innaturale del giorno si sono fusi, come trascorri il tempo?
La mancanza della luce mi ha reso un rudere, cerco spesso di sonnecchiare, anche se talora questo mi irrita perché in fondo è la preparazione al sonno eterno. Ti pesa dipendere dagli altri? Certo. Per gli altri si diventa un onere; i nostri simili sono veramente disponibili solo quando siamo bambini. Comunque puoi viaggiare con l’apparecchio… telefonico. Uso il telefono soltanto nella noia macroscopica, ma serve a ben poco. La sola comunicazione verbale può favorire le relazioni amichevoli, affettive… Hai ragione, ma oggi le persone valide stanno poco in casa, prese, come sono, dal lavoro, dalle necessità, dallo svago.
Mi sono sempre addentrato nell’interiore, ma alla mia età… Essendo portato per la poesia, potresti dettare i versi a qualcuno, anche se poi non sarebbe agevole strutturare testi lirici e, tanto meno, quelli narrativi. Lo sto facendo, ma questo implica la disponibilità degli altri… Mi rendo conto che è un caso pressoché unico quello del geniale e mitico Borghes, il quale ad occhi chiusi, sfruttando la sua prodigiosa memoria culturale, riusciva a esprimere il meglio di sé in modo illuminante per tutti. Credo che il caso Borghes non sia paragonabile al mio. Lui perse la vista totalmente, ma lentamente e in un tempo lontano dalla fine della vita. A me restano gli spiccioli.
Cerca di andare avanti con il realismo e il senTi stai abituando all’isolamento e all’inazione? so dell’humour - che hai sempre avuto - senza Nessuno gradisce “inazione” e “isolamento”, ma Germinazione spaziale, 2013, acrilici su cartone, perderti d’animo. sono nell’impotenza totale. Certo! L’uomo non deve mai arrendersi. Desidero cm 35 x 25 (courtesy l’Artista) Conosco un artista piuttosto propositivo che ‘speprecisare che quanto scrivo sull’arte deriva da mie cula’ sui propri sogni e sulle forme aniconiche o figurali che possono valutazioni. Quello che ho imparato a scuola è il solito tritume nozionistiapparire chiudendo gli occhi. Naturalmente può farlo grazie alla possico. In genere la storia dell’arte si studia a livelli minimi e banali. Nessuno, bilità di rappresentare visivamente anche certi fenomeni… ad esempio, mi ha mai detto che la Scuola Fiorentina è un’estetica basaI fantasmi degli artisti vivono anche nella loro notte e non servono gli occhi ta sulla luce mattinale né le altre cose. Fino al 1945-1946 ho totalmente per guardare in noi stessi, ma non è possibile trasmettere immagini ad altri, creduto ai professori, in seguito ho concluso che il loro insegnamento era se non con le parole. Io amo anche la poesia, ma non è la stessa cosa. Poi i limitato e si poteva aprire la propria strada con l’intuito, per scoprire cose versi non affiorano così numerosi come i soggetti dei quadri. che i docenti nemmeno sospettano. La mia attuale residenza - nel Chianti bello e pulito - peggiora la situazione per via dell’isolamento, interrotto da Può consolarti pensando che nella storia non mancano esempi di indiqualche rara visita (che mi è sempre gradita, anche se l’ospite è noioso). vidui che, pur avendo perso la facoltà di vedere, hanno continuato l’atLe tele che avrei dovuto dipingere, i colori divenuti inutili, i pennelli non tività creativa. Però un pittore, non potendo formalizzare le ideazioni, usati mi procurano un’infinita tristezza anche se li intravvedo precariamendovrebbe inventarsi altri mezzi linguistici. te. Ormai tutto è precario e difficile (non posso più Non so se avrò la capacità di trovare altri mezzi. Ho tagliarmi le unghie né farmi la barba); mi resta 85 anni, quasi tutti i miei amici sono dietro una solo sbracarmi sulla poltrona e pensare... Mi sovlapide. So bene che li raggiungerò presto. viene il ricordo di Piero Della Francesca. Per tanti Anche per un artista della gestualità segnica, anni non ho saputo nulla sulla sua vecchiaia. Anquasi automatica, sarebbe impossibile dipingeche la critica cercò inutilmente. Un giorno seppi di re con esiti apprezzabili. un’indagine fatta sugli operai del Rinascimento. Si Hai perfettamente ragione. Spesso ho pensato scelse un paese - non ne ricordo il nome - che ave(dopo la trombosi) che, se avessi la sbrigativa senva un archivio completo sul XV secolo e si venne a sibilità di De Pisis o di Sironi, avrei potuto tentare scoprire che uno dei suoi abitanti si guadagnava la di dipingere ancora. Invece, come sai, mi interessavita “conducendo per mano Piero dal Borgo, pittono le raffinatezze, le lievi modulazioni chiaroscure famoso che era accecato”. Povero, grande Piero! rali e, senza una buona vista, sono spacciato. Come hai intuito, un po’ mi aiuta l’interiorità che ho sempre avuto. Ma in passato questa caratteristiNell’oscurità si perde la dimensione spaziale ca mi ha dato solo guai. Nel periodo della scuola “fisica”, ma per fortuna non il senso di quella media la mia professoressa sosteneva che gli scritti immateriale… non erano farina del mio sacco. Mia madre se ne Senza la visione l’immaterialità rimane nella fanfaceva un problema: mi portò in presidenza a protasia. testare; ne ricavammo solo umiliazioni. Il preside Il buco nero dell’universo terreno in cui sei disse che la professoressa era bravissima e se così caduto ti stimola riflessioni altre? … Un altro aveva scritto, quella era la verità. Ci indicò sbrigaimmaginario? tivamente la porta. Ricordo anche la nascita delle Possono nascere anche nuove immagini ma, per Verso l’alto, 2014, acrilico su cartone, cm 35 x 25 prime esperienze introspettive. Quando ero ancora (ultima opera dipinta da Bustini; courtesy l’Artista) realizzarle con coerenza, non ho più i mezzi. molto piccolo, al mattino venivano a vestirmi mia madre o mia nonna; se tardavano combattevo la noia a modo mio: chiudeParadossalmente solo la cecità verso l’esterno può far ritrovare se stessi, vo gli occhi e facendo pressione sulle palpebre muovevo le dita in tondo. Si il proprio pensiero libero e la capacità di esplorare in profondità l’informavano immagini di vortici che (forse) hanno suggerito a Van Gogh le teriore. sue visioni travolgenti. La vita interiore non muta anche nella cecità.
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MARZIALETTI ACCESSORIES SINCE 1980
Mar Sport nasce nel 1980 per iniziativa dei fratelli Alberto, Renata e Renzo Marzialetti. L’ Azienda artigiana a conduzione famigliare si specializza nella confezione di cappelli da cacciapesca e la produzione viene distribuita quasi interamente nei negozi di articoli sportivi. Col passare degli anni senza mai una battuta d’arresto e con una continua e attenta ricerca innovativa dei materiali la ditta è notevolmente evoluta. Nel 1996 per opera di Germano, Simone e Catia la Mar Sport cambia radicalmente la lavorazione precedente. Oggi produce cappelli, sciarpe e guanti ed ogni tipo di accessorio per abbigliamento, in tutti i generi di tessuti e di maglia ed in ogni modello, sia da adulto che da bambino e ragazzo, da città, da montagna e per il tempo libero. L’ esperienza maturata nel corso dei decenni come azienda manufatturiera, l’aver stretto collaborazioni importanti con firme dell’alta moda italiana li ha persuasi a creare un proprio brand che riassumesse le qualità del nostro Made in Italy in cui sono rappresentati da sempre. Gli articoli che compongono la loro collezione sono realizzati con tessuti e filati attentamente selezionati da tessiture italiane e particolare attenzione è dedicata alla progettazione dove le tendenze moda sono mirate, curate ed enfatizzate. Una continua ricerca di mercato per esplorare il futuro.
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Il Texas di Jose Greco a cura di Nanda Anibaldi
U
di Hollywood. Il Texas sta crescendo in economia e in città bellissime e moderne. Hai ragione, Nanda, è molto esteso... Un solo quartiere è cinque volte Porto S. Giorgio dove attualmente abito. Ho vissuto tanti anni nel Texas dalle dimensioni spropositate. Palazzi, strade, negozi, ville, ponti, parchi, automobili. Una nazione molto ricca e in forte crescita a tutti i livelli. Anche il sole e la luna sono più grandi; sembra che ti cadano addosso e che tu li possa toccare. Per allenarmi e fare coreografie avevo metri e metri di Studi. A Porto S. Giorgio faccio i miei allenamenti in un posto fatiscente. Ci sono rimasto perché ho una compagna, ma non so fino a quando. Il Texas è lontano, sì, ma non troppo finché è vicino al mio cuore. Anzi, finché mi palpita dentro, per me è a chilometro zero.
n cappello un cow boy un rodeo e il gioco è fatto. Almeno così nell’immaginario. Da qui è tutto tanto. Tanto lontano. Tanto esteso. Tanto popoloso. Tanto vario. Dei Paesi conosciuti visitati calpestati il Texas è il più intrigante anche perché è una rotta insolita. Lo abbiamo conosciuto più dal cinema, più dai racconti. Per andarci ci vuole un motivo serio e per rimanerci un grande ideale. Incontrare la figlia Aira per il suo debutto nella migliore società texana può essere un buon motivo? Jose Greco ci ha fatto una corsa pochi mesi fa e poi di nuovo nelle Marche. Ci siamo incuriositi. Nanda Anibaldi: Raccontaci di questa geografia in cui ti sei rituffato. Jose Greco: Ci ho vissuto alcuni anni. C’è mia figlia, molti amici importanti e il mio nome è grande ancora. Oggi ci si è spostata tutta la crema degli attori
Jose Greco
Jose Greco senior e Lola de Ronda mentre ballano il flamenco
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Per il tuo lavoro, ovvio, ti devi spostare continuamente in palcoscenici di grande respiro anche se non disdegni i nostri
Jose Greco nel Texas, in un’esibizione di flamenco in costume da rodeo
teatri di più piccola dimensione. Qual è la differenza di rapporto? Nessuna differenza tra palcoscenico grande o piccolo, ci vogliono la stessa intensità e la stessa tensione emotiva. Va detto però che la grande città offre maggiori opportunità di lavoro, ma è stressante viverci e la dimensione interiore ne paga le conseguenze. A livello emozionale mi piace però vivere dove la natura è dominante e si può guardare il cielo e il mare. Forse perché parte delle mie radici è in un paesino del Molise, Montorio nei Frentani, dove mio padre Jose Greco senior è nato e dove io e le mie sorelle Carmela e Lola andavamo spesso da piccoli. Un paese ricco di sorgenti d’acqua con le strade che vanno in discesa verso un poetico cimitero. È per questo che sono legato anche a piccoli paesi. Ovviamente la mia vita professionale si è svolta altrove. Intanto, anche se ho radici del sud Italia, io sono nato a Madrid, da madre spagnola, Lola de Ronda, una famosa ballerina di flamenco esile e bellissima. È l’altra parte della mia natura. Due culture simili e diverse. Talvolta separate talaltra fuse. Ho studiato danza classica per molti anni insieme a mia sorella Lola, poi tutti gli altri tipi di danze, dalla moderna alle acrobazie ungheresi e quindi il flamenco. La mia vita lavorativa di ballerino e coreografo si è svolta per lo più nelle grandi capitali di tutto il mondo. Sono stato anche in Alaska dove ci si muoveva con piccoli aerei perché non esistevano le strade che collegavano le città e mi chiedevo sempre da dove uscissero fuori le migliaia di persone che venivano a vedere lo spettacolo nei mega teatri. Con tuo padre a livello interpersonale e a livello professionale? È difficile misurarsi con una grande star anche se si è figli. Anzi la consanguineità rende ancora più difficile il rapporto. Da una parte si esige sempre di più, dall’altra c’è il timore di non essere all’altezza. Lo vedevamo poco, una volta l’anno. Quando lo incontravamo ci faceva piangere, ci sgridava se non riteneva giusto qualcosa che avevamo fatto. Da grandi ci ha portato con sé
dopo che ci ha visti ballare. Non ha fatto niente per incoraggiarci in questo lavoro, ci ha presi quando eravamo già pronti e avevamo fatto tutte le scuole e le Accademie possibili. Il periodo più bello lo passavamo d’estate a Marbella. Ci svegliavamo con musica meravigliosa ed eravamo circondati da artisti e attori famosi come Anthony Queen e Yul Brynner che teneva sempre in braccio Carmela. Era un grande. Quando arrivava negli aeroporti gli veniva tributato l’onore di un presidente.
Jose Greco in “Vogue America”
Aira, di professione ballerina, figlia di Jose Greco
Quanto ti è costato chiamarti Greco? Molto, soprattutto per essere quello che sono diventato e per essere quello che sono. Mi son dovuto misurare con un mito. Mi è costato tutto il doppio, ma ce l’ho fatta tanto da potermi permettere talvolta di contestare per esprimere non solo i miei punti di vista ma la mia fisicità e la mia interpretazione nel modo di ballare il flamenco... rompendo anche alcuni schemi della tradizione. Infatti, avendo studiato tanti stili di danza, amavo contaminare, ovviamente con delicatezza e rispetto. Ero giovanissimo con una struttura muscolare incredibile e sul palcoscenico spesso veniva fuori la forza della mia giovinezza e osavo. Mio padre cercava di riportarmi alla pulizia del flamenco classico, della farruca, ma avevo troppa forza e quando ballavo certe musiche sentivo di poter volare e lo facevo. Prossimamente dove? Tra poco in Spagna per seminari e spettacoli poi a giugno a Chicago.
Jose Greco e John Fitzgerald Kennedy
Sembrerebbe abbordabile ma non è così. A vederlo ballare si muove tra terra e cielo. Porto S. Giorgio gli va stretta. Fortuna che c’è il mare. Qualche anno fa l’ho incontrato a dicembre sulla spiaggia innevata. Le sue anime sono tante, troppe per un’anima sola. A volte s’incontrano a volte no ma convivono. Lo conosco da molti anni e posso dire di essere stata un punto di prima accoglienza e mi sono anche divertita temerariamente a ballare con lui. Non certo il flamenco. Dimenticavo. Suona le nacchere da dio.
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CAPPELLIFICIO TORRESI LORENZO Nasce nel 1971 sulla scia del laboratorio familiare dedito al confezionamento di cappelli in tessuto. L’impresa si contraddistingue nel settore degli accessori da bambino da 0 a 12 anni e nel corso degli anni, seguendo le richieste del mercato, inizia a specializzarsi anche nella produzione di cappelli da uomo-donna. I modelli vengono creati e realizzati completamente all’interno dell’azienda, utilizzando diversi materiali quali pile, lana, cotone, pelliccia. Cura del dettaglio, scelta dei materiali e qualità del Made in Italy, hanno permesso all’impresa di ampliare i propri confini e sviluppare un notevole commercio estero. Ad oggi, l’azienda Torresi si evidenzia per il design innovativo nel settore della moda e dei materiali, grazie al know how aziendale maturato durante un’esperienza di oltre quarant’anni.
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MEMORIE DI VIAGGIO
LA BIODIVERSITÀ DELL’ECUADOR di Luciano Marucci e Anna Maria Novelli
U
n viaggio in Ecuador (ex colonia spagnola, indipendente dal 1830) offre una straordinaria biodiversità (giungla misteriosa, montagne maestose, vulcani fumanti, spiagge soleggiate, acque termali), mercati vivaci e colorati, cultura precolombiana precedente a quella degli Inca del Perù, gente semplice e laboriosa dalle caratteristiche somatiche inconfondibili. Partito da Roma e da Milano nell’estate del 2003, il nostro gruppo di dieci partecipanti, dopo aver superato i movimentati e supercontrollati scali (conseguenza dei fatti dell’11 settembre di due anni prima) di Londra, Boston e Miami, giunge a Quito (la capitale): 2850 metri sul livello del mare, fondata nel 1534 sopra i resti di un antico villaggio precolombiano in una valle incoronata da imponenti vulcani tra cui il Pichincha. La notte non si riesce a dormire tranquillamente per l’affanno causato dall’altitudine. Al mattino a piedi iniziamo il giro della città vecchia: intatto il fascino che nel 1978 le ha fatto meritare dall’Unesco il riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”. Nel centro storico vanta ancora numerosi palazzi del periodo coloniale con i caratteristici balconi, le finestre arabescate, i portoni di legno massiccio. Nell’ampia Plaza de la Independencia si possono ammirare il Palazzo del Governo e la Cattedrale; poco distante, la Chiesa de la Compañia de Jesus e il Monastero di San Francisco, il più barocco della Nazione, con l’interno decorato da pesanti stucchi aurei. Non mancano, però, caotici
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Cattedrale di Quito in Plaza de la Independencia
Basilica del Voto Nacional dedicata al Sacro Cuore di Gesù
Favelas intorno a Quito
accostamenti architettonici. Le lunghe e strette strade che conducono verso le residenze più alte sono assediate dalle automobili, costrette a procedere al rallentatore; mentre le principali sono animate dalle minute figure degli indios solo in parte vestiti nei loro costumi. Molti indossano i jeans e, al loro tipico copricapo, hanno sostituito cappelli a lunga e larga visiera di foggia sportiva. Per fortuna l’adesione alla moda è neutralizzata da altri indumenti colorati, per cui restano ancora vive certe connotazioni tradizionali. S’ingegnano a vendere le mercanzie più impensabili, anche di scarso valore; tanti i bambini lustrascarpe. Anche qui - come in Perù - sono abilissimi a schivare l’obbiettivo fotografico pure a distanza, per cui spesso gli scatti devono essere rubati. Raramente si fanno fotografare volentieri e, a pagamento, si mettono in posa… I turisti devono guardarsi da abili borseggiatori. Uno di noi, passato in una via affollata, si è ritrovato senza portafogli, peraltro nascosto dentro un altro borsello. Con un po’ di fatica, dato il saliscendi delle avenida e delle calli, frastornati per la differenza di fuso orario e il problema non superato dell’acclimatazione, siamo alla Basilica del Voto Nacional (fine ottocento, in falso stile gotico), benedetta nel 1985 dal Papa Giovanni Paolo II e consacrata tre anni più tardi. I fianchi delle montagne intorno sono incasate fino a perdita d’occhio da alveari umani con piccole costruzioni multicolori a forma di parallelepipedo. L’escursione al
Mirador El Panecillo conduce alla statua della Virgen, con una corona di stelle e le ali d’aquila. Da lassù si domina tutta la città e, al mattino presto, si scorgono anche i vulcani periferici. La zona è piuttosto “periglosa”, perché battuta dai ladrones, e l’aria nelle ore di punta è molto inquinata dal traffico, quindi optiamo per il taxi che ci permette un altro sguardo panoramico da una postazione più sicura. La Mitad del Mundo è la meta più frequentata nei dintorni di Quito, in quanto si trova sulla linea dell’Equatore, segnata nel 1736 da una spedizione scientifica con a capo Charles Marie de la Condamine. Né i turisti né i residenti resistono al desiderio di farsi fotografare su quella linea arancione. Una imponente costruzionemonumento, alta 30 metri, è stata eretta proprio sulla metà del globo terrestre. All’interno si può visitare un interessante Museo Etnografico con testimonianze sulle diverse tribù da cui hanno avuto origine le attuali comunità. Eccoci in marcia con una furgoneta (guidata da un gentile driver, Washington detto Guacho) lungo il tragitto che dalla capitale porta all’importante cittadina di Ambato, capoluogo della provincia del Tungurahua, con l’omonimo vulcano e il mercato più grande della Nazione che si tiene ogni lunedì. Al momento il Tungurahua (5023 m) è in eruzione e l’evento allarma i turisti, meno gli indios abituati a convivere con le forze della natura non sempre benigne. Pur non essendo giorno di mercato, per le strade si incontrano numerosi ‘banchetti’ ricolmi di frutta e di fiori esotici. Alcune donne con gli immancabili bambini nel marsupio sul petto o sulla schiena, sedute a terra, vendono dolcetti fatti in casa e manufatti in lana. Facciamo conoscenza con il tomate des arbres,
Anna Maria cavalca la linea dell’Equatore
La Virgen alata che schiaccia il serpente
Il trenino che porta a El Nariz del Diablo tra impervie montagne
frutto asprigno che sa di pomodoro. Ci aspetta un esaltante percorso che permetterà di arrivare a El Nariz del Diablo (Il naso del Diavolo). In una giornata giungiamo a Riobamba (2600 m, quarta città dell’Ecuador). Gli indios, in costume con cappelli tipici, scendono dai villaggi a commerciare i prodotti). Alloggiamo nell’Hotel Tren Dorado, a due passi dalla stazioncina del trenino che ci porterà ad Alausì. Il Chimborazo è per metà coperto di nubi. Ceniamo al Ristorante El Delirio dove, oltre al buon cibo, gustiamo l’esibizione di cantanti con musica folkloristica sudamericana. Inevitabile chiedere il bis della famosa zarzuela El cóndor pasa. Nonostante le informazioni attinte qua e là, il viaggio è ancora avvolto nel mistero: dall’orario di partenza alla possibilità o meno di prendere posto dentro o sopra la carrozza, agli indumenti da indossare per fronteggiare le annunciate intemperie, alla durata e alle difficoltà di superare il dislivello di 1000 metri. E ancora: si potrà ammirare e fotografare il paesaggio dall’interno? Ci sarà il wc per eventuali emergenze…? Trepidanti, con i biglietti già acquistati il giorno prima, ci presentiamo in stazione con mezz’ora di anticipo, ma troviamo solo qualche venditore di bibite, caffè e dolciumi. Scopriamo alcuni vagoni in sosta su binari morti e ci affrettiamo a ispezionarli per non trovarci impreparati... Sono chiusi come quelli per il bestiame; esternamente hanno una scaletta metallica che porta al tetto con ai lati soltanto piccoli argini per puntare i piedi. Intanto arrivano pochi altri turisti. In totale siamo una ventina. Evidentemente la corsa straordinaria del martedì è passata inosservata agli stranieri. Infatti, alle sette in punto si presenta solo l’automotrice con sopra rassicuranti mancorrenti e tavole per sedersi. La carrozzeria
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è piuttosto moderna e la vistosa scritta EXPRESS lo conferma. Ha le dimensioni e le marce a leva come un autobus, ma per il resto è come un mezzo da strada ferrata. E dire che ci aspettavamo la vecchia vaporiera, invece collocata a riposo, forse perché spargeva fumo e fuliggine, dando qualche problema ai passeggeri en plein air. Ci affrettiamo a salire, mentre un addetto offre, per un dollaro, i cuscinetti in affitto a chi va sul tetto. I meno spericolati si sistemano sulle poltrone all’interno. Dopo aver ‘esibito’ un prolungato suono da tram d’altri tempi, il conduttore - affiancato da una persona preposta a segnalare (manualmente) situazioni di pericolo - avvia il convoglio che, traballante come un giocattolo, sul binario a scartamento ridotto inizia a farsi strada nell’abitato in mezzo al traffico cittadino. Ad ogni attraversamento stradale o di sentiero, tutti senza passaggio a livello o altro accorgimento di sicurezza, suona a più riprese per farsi notare…; rallenta a passo d’uomo e prosegue solo per il gesto di assenso del guardingo assistente. Addentrandosi nel paesaggio - spesso inseguito da cani abbaianti - ecco le prime frenate per schivare animali al pascolo. Ed ecco le prime grandi pietre sui binari, cadute dall’alto o forse poste per gioco da ragazzini, prontamente rimosse dall’aiuto macchinista che salta giù. Al secondo cumulo non abbiamo più dubbi sul movente degli innocui attentati, anche se il terzo (dietro una curva) fa pensare a qualche autore più malizioso. Comunque, “no problem!”: l’Express… va così lento che ogni volta può arrestarsi in tempo per ovviare a qualsiasi inconveniente o, addirittura, per far salire qualche indios che all’improvviso fa cenno. Non solo, se il conduttore si accorge che un turista armeggia con l’apparecchio fotografico, non esita a
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Le cupole colorate della Cattedrale di Cuenca
Gruppo etnico giunto dalla campagna in città
Timide bambine
Capanna di pastori
rallentare. In prossimità dei più attraenti… abissi, lo stesso si ferma di sua iniziativa per invogliare a scattare foto e sembra dispiacersi se non si apprezza l’offerta... Ovviamente lungo l’itinerario non c’è ombra di segnale o di chi scambia i binari: provvede il solito coadiutore che scende rapidamente ad azionare le leve. E, quando s’incontrano operai intenti a riparare traverse, si dà una mano per scansare con sollecitudine i materiali. Insomma il conduttore è prudente e disponibile ad ogni richiesta. Così, quell’anacronistico trenino dall’aspetto moderno finisce per risultare funzionale, familiare e comodo… per chi sta dentro, anche perché non si perdono le bellezze paesaggistiche. In ritardo ci accorgiamo che è dotato pure di un baño riservatissimo… (chiuso a lucchetto). Probabilmente la chiave viene fornita dietro pagamento di un altro dollaro. In circa un’ora e mezza si effettua la prima tratta, meno avvincente ma più divertente, e ci si ferma ufficialmente, tra bancarelle di frutta e di souvenir d’artisanian, alla ‘stazione’ (senza edificio) di Guamote, un villaggio famoso per il mercato rurale del giovedì (tra i più grandi dell’Ecuador) e per gli scippi… Scendiamo tutti per fare la fila all’unica toilette del vicino bar (con una ragazzina piazzata davanti alla porta a riscuotere il ‘pedaggio’) e per sorseggiare un the caldo, utile specialmente per gli intrepidi viaggiatori all’aperto. Prima che il treno riparta, qualcuno decide di continuare dentro la motrice-carrozza, altri resistono per non perdere alcun particolare del panorama che si va facendo più suggestivo. Il mezzo, dunque, comincia a penetrare tra i varchi delle aspre montagne, affronta stretti tornanti giù per i loro fianchi, ponticelli larghi quanto le rotaie e va scoprendo meraviglie inaspettate.
Ancheggia, sussulta, rompe il profondo silenzio delle valli con un buffo stridio di ferraglie. Verso la fine del percorso subentrano gli attesi avanti-indietro, gli zig-zag del tragitto supplementare, per permettere di immortalare El Nariz del Diablo e i punti più vertiginosi mirati dall’alto e dal basso. Trascorse cinque ore, arriviamo ad Alausì e andiamo ad occupare le panchine dello zócalo (piazza) in attesa di continuare il tour con la jeep del bravo Guacho. Ora l’esperienza del trenino sulla ruta RiobambaSibambe - unico al mondo - non ha più segreti. Offre, con allegria e semplicità, una quantità di visioni e di sensazioni che meriterebbero un intero romanzo o un lungometraggio, tanto più che, da lì a pochi giorni, il vulcano Tungurahua ammanterà di cenere Baños e la vicina Riobamba. Gli amici più ardimentosi si fanno condurre da un pulmino sul Chimborazo (6310 m). Raggiungono i 4800 del primo rifugio, poi a piedi i 5500. Bella fatica! In tre, per non sottoporci a un altro stress da altitudine, affittiamo un taxi e, su consiglio del manager dell’Hotel, arriviamo al villaggio di Cache, abitato da un pueblo di montagna. Una famiglia sta costruendo il tetto in paglia di una baracca che diventerà centro sociale; donne operaie cuciono cappelli di feltro bianco con fiocchi colorati. Entriamo in una scuola per l’infanzia con timorosi bambini. Giriamo in un mercato di frutta e verdura. Ci intratteniamo con alcuni contadini in attesa dell’autobus di ritorno nel piazzale della stazione degli autobus. Ci trasferiamo nella città coloniale di Cuenca, terza per numero di abitanti (fondata dai conquistadores spagnoli nel 1557), la più colta, visto che ben otto sono gli istituti universitari che accolgono 12.000
Donna al mercato di Zimbahua
Una delle lagune del Parque Nacional El Cajas con i lama
Indios Tsachile che suona un tipico strumento in canne di bambù
studenti. Tra gli edifici spicca la cattedrale dalle eleganti cupole azzurre. È conosciuta anche per le fabbriche dei cappelli Panama nei suoi tre tipi - standard, fino e superfino - che sono esportati in tutto il mondo. In realtà la materia prima, ricavata da una palma nana, arriva da Montecristi e Jipijapa (sulla costa centrale), dove viene manipolata e resa filamentosa così da poter essere intrecciata. Il giorno dopo, percorsi 40 km, siamo al Parque Nacional El Cajas con 178 lagune, situate in ampie vallate, che assicurano acqua ed energia elettrica a quasi tutto l’Ecuador. A Ingapirca irrinunciabili le rovine più importanti dell’Ecuador. Un tempo vi si svolgevano i riti religiosi; in realtà il luogo è deludente perché i resti sono stati vistosamente depredati e malamente restaurati: nessun paragone con l’archeologia peruviana. Presentano una piattaforma ellittica con lavori in pietra di raffinata fattura e alcuni edifici che dovevano essere adibiti a magazzini: sembra che vi facessero sosta i messaggeri dell’imperatore. Una loquace guida in costume locale dà spiegazioni fin troppo particolareggiate. Le solite venditrici di ciompas, sciarpe di alpaka e altri souvenir ci attendono all’uscita. Attraverso un lungo itinerario, tutto in salita, si può osservare la vita rurale andina che si svolge poveramente in villaggi ricchi di bellezze paesaggistiche. Ci fermiamo più volte per fotografare e filmare le primitive capanne sparse per la campagna, ma gli indigeni, forse non troppo abituati agli estranei, non vogliono essere ripresi, oppure chiedono “un dollaro” e non c’è modo di rubare qualche scatto. La vita dei rari abitanti si svolge tra pastorizia e agricoltura in un ambiente selvaggio. Le montagne
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sono vicine a sorprendenti lagune. Purtroppo il vento freddo e gli effetti negativi dell’altitudine non consentono di allontanarsi a lungo dall’auto per godere il paesaggio, spoglio e silenzioso, dai colori che mutano con il variare dell’incidenza della luce sulle rocce e sulla vegetazione. A distanza di anni resta l’insoddisfazione di non aver potuto apprezzare appieno quei luoghi emarginati dal fascino segreto. Percorsa una cinquantina di chilometri ci sistemiamo nel villaggetto di Zimbahua, che ogni venerdì sera comincia ad animarsi con l’arrivo di campesinos da zone non sempre circostanti. Si preparano al mercato settimanale del sabato e, tra un bicchiere e l’altro, ballano e cantano. Giungono con grandi carichi attaccati alla meno peggio sui servizievoli lama, e vendono di tutto: dai prodotti della terra a quelli dell’artigianato, agli accessori per bici e auto. Le radio diffondono musiche tradizionali, ma anche moderne. La gente s’incanta davanti agli schermi televisivi a colori. A circa 14 chilometri a nord si trova la Laguna del Quilotoa, la più suggestiva dell’Ecuador, posta nel cratere di un vulcano spento. È profonda 250 metri e, per raggiungere le rive, bisogna scendere un dislivello di 400 metri all’interno del cratere. In lontananza si intravvedono il Cotopaxi e le due cime gemelle dell’Illiniza; qua e là fumarole e ciuffi di cactus pelosi con fiori che sembrano disidratati. L’acqua del lago ha un’intensa colorazione azzurra vetriolo, con sfumature gialle e scure dovute alle nuvole e al sole che vi si riflettono, mentre il vento increspa la superficie. Nei paraggi abita l’artista naïf Humberto Latacunga che, insieme ad altri, si dedica alla produzione di quadretti con scene di vita nei paesaggi andini. Il supporto non è
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Borbon: la doppia alimentazione
Villaggio amazzonico lungo il Rio Cayapas
Vecchio oppresso dal fogliame
tela, ma pelle di pecora montata su telaietti di legno. Alcuni ambulanti ci propongono per pochi dollari questi lavori tra l’artigianale e l’artistico. Durante il trasferimento verso nord-ovest la natura va trasformandosi gradualmente e, perdute le caratteristiche montane, acquista quelle dell’ambiente tropicale: banani, papaye, ananas, caffè, the, cotone, vegetazione sempre più rigogliosa. Gli abitanti hanno la pelle scura: gli antenati furono trasportati come schiavi dall’Africa; riusciti a fuggire, si insediarono in questi luoghi. Si transita per Esmeraldas e si pernotta a Santo Domingo de los Colorados, cittadina caotica e poco sicura in cui, da un momento all’altro, ci si può trovare di fronte a qualche discussione che finisce in rissa con il morto. Appena fuori città abitano alcune famiglie Tsachile che si dipingono (oggi a scopo turistico) strisce nere sul viso e sul corpo, utilizzando la tinta naturale estratta dalla pianta dell’achiote (leggi aciote). In zona vivono anche i curanderos (guaritori) e i pazienti arrivano da altri paesi per beneficiare dei “poteri magici” della medicina alternativa. Con un’altra tappa arriviamo a Borbon (cittadina rilassante con alberghetti confortevoli, gente aperta e desiderosa di rapportarsi con i turisti), base per l’escursione nella Riserva Ecologica Cotacachi-Cayapas. Il giorno successivo affittiamo due canoe a motore e, bagagli al seguito, risaliamo il fiume per circa cinque ore, giungendo a San Miguel, accogliente villaggio alle porte della Riserva. Il lodge della Guardia Forestale domina l’abitato di una ventina di capanne e ha una bella visuale sul fiume e sulla foresta pluviale. Ogni pomeriggio piove regolarmente, per cui l’escursione è un’avventura, tra salite impervie,
discese scivolose, acqua e fango. La foresta costituisce l’habitat di formichieri, tapiri, giaguari e orsi dagli occhiali, ma la probabilità di avvistarli è remota. Più facile imbattersi in qualche scimmia, in farfalle giganti e uccelli, tra cui i petulanti pappagalli. Si torna al lodge stanchi e abbrutiti dal fango. Oltre tutto preoccupano le zanzare malariche che contrastiamo con l’uso abbondante di repellenti. La riserva è abitata dai Cachi, conosciuti per la capacità di intrecciare fibre e per l’abilità nella pesca e nella caccia. Praticano un’agricoltura di sussistenza e abitano in palafitte di canne di bambù con tetti di paglia. L’alfabetizzazione è problematica. Qua e là funzionano piccole scuole che i ragazzi raggiungono in canoa dalle abitazioni isolate. Purtroppo anche in Ecuador i rapporti tra le multinazionali che vorrebbero distruggere la foresta amazzonica per scavare pozzi di petrolio e gli abitanti che la vorrebbero salvaguardare a tutti i costi stanno divenendo più tesi. Prima di rientrare a Quito sostiamo per qualche giorno a Otavalo. In attesa del grandioso mercato del sabato, visitiamo i dintorni: Cotacachi (lavorazione del cuoio); Sant’Antonio de Ibarra (botteghe di artigianato con prodotti in legno lavorato); le lagune da grand’angolo di San Pablo e di Mojanda. Il mercato richiama i turisti anche per la diversità e i colori dei costumi. Esisteva in epoca preincaica, quando i prodotti della giungla venivano scambiati con quelli degli altopiani. Tutta la cittadina è invasa dagli ambulanti; la piazza principale pullula. Il baratto si pratica ancora al mercato del bestiame, riservato ai locali; mentre quello artigianale è più frequentato dai turisti. Gli otavalensi mostrano notevole capacità imprenditoriale e voglia di lavorare. Vendono princi-
Ragazza che appronta un manufatto in lana
Borbon: la doppia alimentazione
palmente tappeti, ponchos, sciarpe, cappelli. La caratteristica del luogo, infatti, è l’uso (da ben 4000 anni) del telaio a mano che si appoggia sulle gambe. Le donne ostentano lunghe trecce che abbelliscono con nastri colorati. Il costume maschile ha pantaloni bianchi fino al polpaccio, sandali di corda, ponchos blu o grigi, cappello di feltro scuro. Quello femminile: camicette ricamate a colori vivaci, lunghe gonne nere a tubo, scialli di velluto fucsia, verde o blu, e un fazzoletto abilmente ripiegato sul capo. Completano l’abbigliamento vistose collane e bracciali fatti con lunghi fili di perline dorate o di pietra rossa e rosa che sembra corallo. A questo punto noi due e il compagno di viaggio Bruno Berlendis (soprannominato l’esploratore) estendiamo il viaggio di un’altra settimana per visitare l’arcipelago di Cólon, alias Isole Galápagos. Da Quito raggiungiamo Guayaquil, la più moderna ed emancipata città dell’Ecuador. Un rapido giro tra negozi e gente elegante poi con volo “Frame” siamo all’isola di Baltra. Ci dà il benvenuto uno stormo di nere fregate giganti (dall’apertura alare anche di due metri), con le loro code biforcute e il palloncino rosso sotto la gola delle femmine poiché sono nel periodo dell’accoppiamento. [Il testo sull’Ecuador in generale è stato liberamente tratto dal commento di Luciano Marucci per il film di Bruno Berlendis; quello su El Nariz del Diablo dall’articolo dello stesso Marucci pubblicato su “Avventure nel Mondo” di Roma (n. 2, luglio-dicembre 2004, p. 95). Sull’estensione alle Galápagos vedi “Hat” n. 44, 2006, pp. 19-21, oppure vai all’indirizzo http://www.lucianomarucci. it/cms/documenti/pdf/AvventureMondoHatGalapagos06.pdf )]
Esposizione stradale di cappelli
(servizio fotografico di L. Marucci)
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Dal jipijapa al Panama di Belinda Formentini
È
noto che i cappelli di Panama o jipijapa sono dei compagni di viaggio resistenti, elastici, morbidi e leggeri. Nello stile denotano sicurezza, buon gusto e successo. Devono il loro nome ai cercatori d’oro che nel lontano 1849, diretti in California, passarono per l’istmo di Panama e trovarono nel cappello ivi venduto, ma in realtà prodotto in Ecuador, un valido riparo dal sole. In Europa e negli Stati Uniti il Panama divenne famoso dal 1906, anno in cui Theodore Roosvelt venne fotografato mentre azionava una pala a vapore nel canale di Panama con in testa uno di essi. Ha ricoperto le teste di Napoleone III di Francia, Edoardo VII e Giorgio V d’Inghilterra. Anche Winston Churchill lo portava, come pure Franklin Delano Roosvelt e Harry Truman. Nel paese d’origine invece un cappello de paja toquilla indica chi lo porta come un appartenente alle classi più povere: contadini e indios. I cholos intrecciano cappelli la mattina presto, durante i giorni nuvolosi o di notte alla luce della luna. Questo perché nel resto del giorno le dita sudano e il sole rende troppo fragile la fibra della Carludovica palmata. Nei villaggi andini di Azogues, Biblian e Cuenca quasi tutti, maschi e femmine, posseggono un panama, dai bambini fino ai nonni, e lo indossano in qualsiasi ora del giorno. I migliori cappelli di Panama provengono dalla cittadina di Montecristi da cui prendono il nome. Il “Montecristi” è il più raffinato degli “extra-finos”. Deve essere senza imperfezioni di tessitura, dal colore resistente e con le enjiras, cioè i cerchi concentrici che si irradiano dalla rosita o corona, tessute così sottilmente da notarsi appena. Il numero di enjiras costituisce il livello di perfezione del cappello che una volta finito pesa poco più di un’oncia e che risulta tessuto in modo talmente serrato da poterci trasportare acqua senza che si perda una goccia. Il “Montecristi” ora è talmente raro che se ne producono al massimo una dozzina al giorno ed è praticamente senza valore. I pezzi migliori d’alta moda richiedono fino a 8 mesi per la fabbricazione. La popolarità del cappello Panama continuò per oltre un secolo, poi negli anni ‘60 cadde in disuso per via della moda di andare a capo scoperto, ma negli anni ‘90 bastò il film “Urban cowboy” a infondere nuova vita a un’industria in declino. Da pochi anni il cappello Panama è divenuto Patrimonio immateriale dell’UNESCO e questo chiaramente dimostra l’importanza e la peculiarità di un prodotto tanto prezioso. Il cappello Panama è molto delicato e facile a rovinarsi. Se ne possediamo uno lo si deve trattare con la massima cura, maneggiandolo per la falda ed evitando di appoggiarlo sulla tesa bensì sulla calotta. Non va lasciato al sole e al caldo in ambienti chiusi e va ricordato che il jipijapa una volta rotto non si aggiusta. Per la pulizia dello stesso va usata una gomma morbida da matita per rimuovere macchie o aloni e un panno bianco per spolverarlo spesso.
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Franklin Delano Roosevelt - con altri tre a Panama, in piedi sulla passerella della nave nella parte posteriore.
Equadoriano mentre intreccia un panama
GIORNATA DI STUDIO AL CONSERVATORIO DI PARMA
T
ra i Conservatori di musica italiani quello di Parma, intitolato ad Arrigo Boito, è uno dei più prestigiosi e vanta una storia gloriosa. Come scuola per orfani e bambini bisognosi operava dal 1769. Fu Maria Luisa d’Austria - ex moglie di Napoleone Bonaparte e duchessa della città - a volerne la trasformazione in istituto musicale. Nel 1888 il sindaco Giovanni Mariotti gli fece ottenere dal Ministero il riconoscimento di Regio Conservatorio e si stabilì che ad esso fosse accorpato l’Archivio musicale della Giovanni Tebaldini Biblioteca Palatina, una delle maggiori Il Conservatorio di Parma alla fine dell’Ottocento raccolte del genere. Anche la vicinanza di Giuseppe Verdi a Parma influì sulle sue sorti: fu lui a scegliere i direttori Giovanni Bottesini, Franco Faccio, Arrigo Boito e a indurre a partecipare al concorso Giovanni Tebaldini che lo diresse dal 1897 al 1902. A quest’ultimo, che aveva solo 33 anni, sembrò di aver raggiunto l’apice della carriera. In realtà furono anni in cui dovette combattere tenacemente, perché trovò forti opposizioni alle sue azioni ispirate da alte idealità. A oltre 110 anni di distanza il suo operato è tornato di attualità in una “Giornata di studio” e con un Concerto che il Conservatorio gli ha dedicato alcuni mesi dopo il 150° della nascita. Coordinatore dell’iniziativa il professore di Storia della Musica Carlo Lo Presti, che ha coinvolto importanti relatori.
Nell’ex Chiesa del Carmine, attigua alla Scuola, oggi Auditorium, ha aperto i lavori il Prof. Luca Tessadrelli, in rappresentanza del direttore del Conservatorio M° Roberto Cappello, ricordando con parole di apprezzamento le origini bresciane di Tebaldini; la sua statura di musicista completo; la capacità di fondere in sé la fervente fede catLuca Tessadrelli tolica inculcatagli dalla madre (cugina del futuro San Giovanni Battista Piamarta) e le spinte riformiste a cui lo aveva abituato il padre, armaiolo, cantore in chiesa, ma di idee socialiste, tanto che fu uno dei mille garibaldini che combatterono per l’unità d’Italia. Anna Maria Novelli, nipote di Tebaldini (direttrice del Centro Studi e Ricerche a lui intitolato), ha precisato come l’approdo a Parma avesse rappresentato un capitolo speciale della sua avventura artistica, sia per gli aspetti positivi - in quanto ebbe occasione di Anna Maria Novelli agire in un’istituzione di alta formazione musicale - sia per quelli negativi, giacché si trovò in un ambiente scolastico e socio-politico rivelatosi in contrasto con i suoi programmi didattici e i suoi rigorosi principi estetici ed etici. Tebaldini agì con competenza e onestà intellettuale per cercare di riformare la struttura convenzionale della Scuola e del Convitto; di ottenere dai docenti e dal personale amministrativo una collaborazione più responsabile e costruttiva; di
aprire le menti degli allievi a orizzonti conoscitivi più ampi. Purtroppo le innovazioni - come gli disse un giorno Toscanini - non furono capite ma, non a caso, più tardi vennero recepite dal Ministero perché fossero applicate negli altri istituti. Il professor Carlo Lo Presti ha premesso di aver potuto trarre informazioni sulla gestione Tebaldini dal ricco patrimonio documentario dell’Archivio (in via di sistemazione). Quindi ha ripercorso gli anni del suo direttorato, sottolineando che con lui si registrarono l’apertura dell’attività del Conservatorio alla città attraverso conferenze, saggi e concerti (compresi quelli della Società dei Concerti ai quali diede un forte incremento); la Carlo Lo Presti proposta di musica italiana antica; la partecipazione degli studenti, come interpreti, alle rappresentazioni del Teatro Regio; l’istituzione di un’orchestra di 40 elementi; le escursioni fuori Parma perché gli allievi potessero assistere a concerti di prim’ordine. Anche la campagna di stampa contro di lui, condotta dal quotidiano socialista “L’Idea”, in fondo fu il sintomo di un interesse, di una compartecipazione della cittadinanza alla vita dell’Istituto. E, malgrado le dimissioni di Tebaldini per incompatibilità con certo contesto parmense, le novità in seguito non andarono perse. Infine ha analizzato l’attività del direttore con un’ottica contemporanea, mettendo in rilievo alcune diversità.
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La dott.ssa Lucia Brighenti, corrispondente della “Gazzetta di Parma”, ha relazionato su Tebaldini e la Società dei Concerti dimostrando di aver effettuato un’indagine accurata. Così ha illustrato i programmi dell’Istituzione, sorta durante la direzione Gallignani. Tebaldini, arrivato a Parma, si attivò Lucia Brighenti immediatamente per organizzare concerti di grande spessore e, abituato ad alti repertori, prestò una particolare attenzione alla scelta dei brani di autori antichi e moderni, a volte fin troppo complessi per il pubblico locale. Ciò per offrire un repertorio insolito e integrare la formazione musicale di tutti gli allievi (quasi sempre redigeva note storiche per i programmi di sala). I più dotati potevano esibirsi nell’orchestra e nel coro, anche come solisti. Dagli “Annuari” risulta che i ragazzi in un anno e mezzo studiarono oltre 60 composizioni di diverso genere di una quarantina di autori di varie nazionalità e che la mole di lavoro fu pari a quella di cinque anni del periodo Gallignani. Nel concerto del 19 giugno 1900 incluse pure composizioni degli studenti Ildebrando Pizzetti, Gustavo Campanini e Gilmo Candiolo. Ma nel marzo 1901, con l’acuirsi dei problemi tebaldiniani, la Società dei Concerti si sciolse e riprese l’attività solo nel 1906 sotto il direttore Guido Alberto Fano. Nel 1927 fu la stessa Istituzione a richiamare a Parma Tebaldini che tenne quattro lezioni su G. P da Palestrina e una conferenza su Beethoven. Il successo ottenuto fu per lui una sorta di risarcimento morale rispetto alle ingiuste critiche che i detrattori gli avevano rivolto. La professoressa Donatella Saccardi, insegnante delle soprano che hanno preso parte al concerto, ha delineato la figura di Salvatore Auteri-Manzocchi, docente di canto dell’epoca Tebaldini. Palermitano nato nel 1845, figlio di una celebre interprete soprattutto delle opere di Bellini, come compositore di Donatella Saccardi melodrammi non ebbe vita facile e, per un periodo, dimorò a Londra. Rifiutò, però, l’invito di Franz Listz di insegnare a Budapest e preferì Parma. Pur non esistendo nell’Archivio parmense tanti documenti sui legami con Tebaldini, egli era stato un innovatore della didattica, avendo fatto approvare l’obbligatorietà della frequenza del corso di canto complementare per gli studenti di composizione del settimoottavo anno. Musicista attento al nuovo che stava arrivando, ma fedele alla classicità italiana, compose anche accattivanti musiche da camera. La dottoressa Raffaella Nardella, della Sezione Musicale della Biblioteca Palatina, con una circostanziata relazione ha dissertato sul consistente dono che Tebaldini fece nel 1928 al Conservatorio, fornendo ogni ragguaglio sulla genesi e l’iter di ciascun lavoro musicale: sue trascrizioni di partituRaffaella Nardella re antiche (di Pierluigi da Palestrina, Padre Martini, Bassani, Scarlatti, de’ Cavalieri, Peri e Caccini, Carissimi, Benedetto Marcello e altri), tolte dall’oblio degli archivi e fatte eseguire in
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Concerti Storici; una cinquantina di sue composizioni (tra le migliori); un centinaio di volumi di carattere musicologico (molti dei quali dedicatigli dagli autori), tra cui quelli di Felipe Pedrell, “il maggiore esponente della rinnovata coscienza musicale di Spagna” (conosciuto a Bilbao nel 1896 in occasione del Congresso di musica sacra a cui Tebaldini fu invitato come rappresentante dell’Italia); due spartiti autografi del famoso organista Marco Enrico Bossi: amico fraterno di T. con il quale aveva elaborato il “Metodo per l’organo moderno” (tuttora adottato) e partecipato attivamente alla riforma della musica sacra e al movimento ceciliano. Originale l’intervento del Dottor Giuseppe Martini dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani di Parma dal titolo Il colore Verdi. Pittura e musica in Tebaldini, che ha preso le mosse dal celebre detto verdiano “Tornate all’antico e sarà un progresso”. Seguendo quel conGiuseppe Martini cetto Tebaldini in più occasioni scrisse e tenne conferenze sull’estetica comparata tra musica e arti figurative con lo “scopo di sdoganare l’autorevolezza della musica cinque-seicentesca attribuendole esiti non inferiori a quelli di grandi pittori della stessa epoca e perciò di accreditare il ritorno alle sue fonti da parte della musica di fine Ottocento-inizio Novecento. […] Il metodo serviva a Tebaldini per chiarire il ruolo della tradizione nella creazione musicale”. Egli, infatti, sosteneva “la necessità di rielaborarne i modelli, di riscoprirli, non certo di imitarli”. E trovava nella tradizione “una spinta evolutiva che permette di rivestire ogni principio originale di nuove forme”. Il musicologo Gian Paolo Minardi (profondo conoscitore anche della storia musicale parmense) con un motivato saggio ha messo in rilievo l’importanza del rapporto tra Tebaldini e il suo allievo prediletto, Ildebrando Pizzetti, il quale divenne il più grande compositoGian Paolo Minardi re dopo gli operisti dell’Ottocento. E ha ricordato il libro su Pizzetti, scritto da Tebaldini nel 1931, che permette di seguirne il progredire della formazione artistica in uno con le vicende che hanno contrassegnato gli anni della direzione Tebaldini al Conservatorio di Parma, dove si era proposto “di infondere un alito di vita nova dal quale, col tempo, avesse a sorgere ed a formarsi la personalità degna del nome di artista quale, con intimo e profondo presentimento, già speravo di potere, in un giorno non lontano, licenziare dal Conservatorio parmense”. Tebaldini con Pizzetti riuscì nel suo intento sebbene il fervore che portava il giovane allievo “lungo i grandi itinerari dell’arte, poetica e drammatica del passato, venisse non poco frustrato al contatto con l’angustia intellettuale che dominava la vita parmigiana di quegli anni, ed ancor più l’ambiente del Conservatorio”. Il professor Paolo Peretti, del Conservatorio di Fermo, si è soffermato sulle Paolo Peretti
difficoltà che Tebaldini dovette fronteggiare all’interno e fuori dell’Istituzione parmense, perché il suo progetto venne contestato da chi non vedeva di buon occhio le non poche innovazioni da lui introdotte. Due inchieste ministeriali del 1901 si risolsero a suo favore. Anche una Commissione consultiva ministeriale approvò pienamente il suo operato, da lui puntualmente giustificato attraverso un circostanziato Memoriale. Nonostante ciò egli decise di allontanarsi da Parma, “divenuta un luogo ostile che non gli permetteva di perseguire serenamente gli intenti di insegnante e di musicista colto. Il travagliato periodo fu significativamente etichettato dal musicista e musicologo come Odissea parmense. L’esame dell’abbondante documentazione giornalistica, insieme con i memoriali e i documenti ufficiali, fa oggettivamente pendere la bilancia della storia a favore del Tebaldini e dell’onestà delle sue azioni. Basti dire che durante il suo direttorato furono approvati il nuovo Statuto e il Regolamento del Conservatorio, e per la prima volta pubblicati gli annuari. Tebaldini, tuttavia, continuò a riflettere con rammarico, per tutta la vita, su quei fatti che evidentemente considerava lesivi della sua dignità artistica e professionale”. L’eterogeneità dei nutriti interventi ha delineato un approfondito quadro tra fine Ottocento e primi anni del Novecento - della vita del Conservatorio, che poteva vantare glorie musicali del passato ma che era anche bisognoso di rinnovamenti oltre la cultura operistica di allora. La giornata ha avuto una degna cornice nel coinvolgente, applaudito concerto in cui si sono prodotti gli allievi migliori. Haruka Takahashi e Giovanna Iacobellis (soprani), Anna Carrà (violinista) - accompagnate al pianoforte dal bravo M° Raffaele Cortesi - Antonio Mazzoli (organo) hanno eseguito brani profani e sacri: undici di Tebaldini e due di Salvatore Auteri Manzocchi; mentre il Coro “Ildebrando Pizzetti” dell’Università di Parma, diretto da Ilaria Poldi, ha interpretato magistralmente il Coro dei catecumeni e delle cucitrici (dalle musiche di scena de La Nave di Gabriele d’Annunzio) e l’Agnus Dei dalla Messa di Requiem di Pizzetti. a cura del Centro Studi e Ricerche “Giovanni Tebaldini”, Ascoli Piceno
La soprano Haruka Takahashi
Il pianista Raffaele Cortesi e la soprano Giovanna Iacobellis
La violinista Anna Carrà e il Maestro Cortesi
Il Coro “Ildebrando Pizzetti” diretto da Ilario Poldi
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ENZO MORGANTI
FOTO-OMAGGIO AL PAESAGGIO ASCOLANO di Luciano Marucci
N
el corposo volume Paesaggi nell’Ascolano (pp. 370, Seros 2013) Enzo Morganti ha realizzato la mappa di “antichi borghi, dimore storiche, chiese rurali, nuovi nuclei urbani, paesaggi del territorio comunale di Ascoli Piceno” attraverso circa 300 fotografie, alcune a doppia pagina, di rilevanza scenografica. La pubblicazione si giova di vari scritti: Sindaco di Ascoli Guido Castelli, Presidente dell’Amministrazione provinciale Piero Celani, prefazione del professor Alighiero Massimi; testi della studiosa Erminia Tosti Luna (risultato di una certosina attività di ricerca nell’Archivio di Stato e in quelli parrocchiali); “Interventi sul filo della memoria” di Antonella Alesi, Luigi Capriotti, Giuliano Cipollini, Donatella Paci e altro ancora. Franco Laganà – ex Assessore comunale alla Cultura e Presidente della locale sezione CAI - definisce l’edizione “preziosa”, perché permette la lettura di un territorio attraverso la sensibilità dell’autore, profondamente legato alla sua terra. In verità il libro non colpisce solo per la qualità delle immagini, giacché restituisce visibilità a un patrimonio architettonico e paesaggistico che caratterizza il Piceno, ben presente nei ricordi degli anziani, ma spesso sconosciuto alle giovani generazioni: una tipologia tradizionale che in-volontariamente resiste agli assalti dell’invasiva globalizzazione spesso connotata da indifferenziazione e stereotipo. Ovunque domina silenzio e verde che favoriscono riposo mentale e fisico. I paesini delle aree collinari in genere sono abitati da gente che ha stabilito un legame più intimo e naturale con la campagna. Immersi in ampi spazi
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Pianaccero (in primo piano) e Colonna
Eremo di San Francesco sulla parete nord di Colle San Marco
Paesaggio invernale con le tipiche “Caciare”, antiche costruzioni dei pastori in località San Giacomo
impervi, se osservati da chi vive nelle città affollate, rumorose e dai ritmi frenetici, sembrano fuori del tempo presente. Le foto scattate da lontano li rendono ancor più anacronistici. Morganti probabilmente ha voluto privilegiare le visioni panoramiche anche per evitare i primi piani anonimi dell’edilizia introdotta dalla falsa modernità, che contaminano la bellezza delle costruzioni appartenenti a un passato archeologico entrato nella memoria collettiva. Comunque non occulta nulla e valorizza le località più o meno antropizzate con la tecnica fotografica usata che gli permette di cogliere gli aspetti più suggestivi per riproporli sotto un sapiente gioco di luci e ombre. Non fa prevalere i colori forti, sia per esaltare con discrezione il contesto ambientale che per evidenziare i dettagli e i muri edificati artigianalmente con i materiali autoctoni più poveri o consunti dagli agenti atmosferici. L’intera ricognizione è frutto dei suoi itinerari solitari e pazienti, sollecitati dalla passione di fissare inquadrature significative di luoghi in cui sono meno avvertibili gli interventi omologanti, se non deturpanti. L’operazione documentaria dalla valenza estetica non è associabile alle foto-denuncia di Oliviero Toscani, supportate dalle dotte e risentite motivazioni di Salvatore Settis, tendenti a sensibilizzare il grande pubblico e a salvaguardare il paesaggio del “Bel Paese” fin troppo oltraggiato. Ecco, questo potrebbe essere il tema che Morganti dovrebbe affrontare con l’ob(b)iettivo critico-prospettico. Sarebbe un ulteriore atto d’amore verso il suo, il nostro ambiente di vita quotidiana; un percorso di certo politicamente più scomodo, ma più responsabile in senso socio-culturale. Intanto, dopo questi gratificanti rilevamenti fotografici, il lavoro è proseguito e gli esiti sono stati esposti ad Ascoli, presso il Battistero di San Giovanni, nell’aprile e maggio scorso. Titolo: Tra cielo e terra. Tema: le chiese della città.
Veduta panoramica di Castellano, sulla strada per Colle San Marco
Torre Campanaria della Chiesa Santa Maria Assunta a Polesio, alle falde del Monte Ascensione
Campolungo, la settecentesca Villa Sgariglia (oggi adibita a Resort) con l’annessa Chiesa
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Il DRAMMA DEI MANICOMI a cura di Luciano Marucci
È
vero, il processo di civilizzazione di una nazione non sorge in un giorno, si sviluppa dal pensiero libero e da visioni progressiste con il concorso di conoscenze ed esperienze, capacità di analisi, considerazione di valori umani e immateriali, volontà di andare avanti ripartendo dalla storia. Tutto ciò vuol dire soprattutto superamento dei regimi totalitari e di altre forme retrograde di governo. Quindi, se costruire un futuro migliore è possibile, spetta a noi farlo accadere, operando nel presente con impegno sociale, un’etica che metta al primo posto, oltre alla salvaguardia della Natura e dei Beni Culturali, il rispetto dell’uomo, ossia la solidarietà, in particolare verso gli sfortunati e i meno abbienti, gli emarginati e i malati. Indubbiamente la chiusura dei manicomi in applicazione della Legge Basaglia 180/1978, con tutti i suoi pregi e difetti, è stata una conquista di civiltà; ha segnato la fine di un dramma dell’esistenza negata; ha insegnato a rispettare la vita. Per rendersene conto basti ricordare che, in assenza di conoscenze scientifiche, il manicomio era l’unica soluzione per togliere dalla circolazione l’individuo con problemi psichiatrici che poteva costituire un pericolo per sé e per gli altri. Un tempo si dava importanza solo alle cause organiche e il malato di mente andava “detenuto”. Le cure erano l’elettroshock, le docce fredde, l’insulinoterapia, la lobectomia, con le quali si cercava di modificare qualcosa. Non esistevano colloqui terapeutici con il paziente. La struttura manicomiale in sé era isolata come una prigione. Al recluso veniva impedito ogni contatto con il mondo esterno, quindi ogni relazione umana, con il risultato che le sue condizioni peggioravano dal lato mentale e fisico. Era privato di ogni oggetto e dei comuni rapporti di convivenza; trattato come essere anonimo a cui si attribuiva la generica identità di “pazzo”. Gli venivano tolti anche i diritti civili e politici. La malattia pesava su di lui come una colpa. Giacché era coinvolta la sua famiglia, essa tendeva a nascondere. Gli altri lo respingevano come se fosse affetto da una patologia contagiosa. Pure a livello politico si faceva un uso strumentale del manicomio: i dissidenti erano internati, perché da lì non era facile uscire. In genere i terapeuti, per non assumersi responsabilità, finivano per
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Un internato nel Manicomio Materdomini di Nocera Superiore (SA) nel 1965 (foto di Luciano D’Alessandro dal libro Gli esclusi, il Diagramma Ed.)
Altro ricoverato (foto di Luciano D’Alessandro dal libro Gli esclusi, il Diagramma Ed.)
Paziente ‘reclusa’
Legati a letto, 1968, Istituto Psichiatro di Firenze (foto di Gianni Berengo Gardin da Morire di classe, Einaudi Editore, 1969)
Luciano Marucci: L’ambiente promuovere il ricovero coatto degli fisico dell’Ospedale Psichia“intrattabili”. Magari per delle fistrico Provinciale di Fermo sazioni erano emarginati, abbanera accogliente? donati dai parenti; mentre i coSergio Fabiani: Come quasi tutti gli noscenti insensibili ridevano delle edifici pubblici, le scuole, gli ospeloro stranezze dando una soggetdali del neonato Stato italiano era tiva valutazione della normalità allocato in una costruzione esistenche - come si sa - non è sempre te, un ex convento requisito e opdefinibile secondo parametri conportunamente adattato e riadattato venzionali. Gli anni ’50 e ’60 sono nel tempo. Pertanto si prestava alla stati i più penosi. Tra i ricoverati bisogna con tutti i limiti immagic’erano anche omosessuali, down, nabili. orfani e poveri. I manicomi erano squallidi e non prevedevano Mediamente quanti malati alcuna occupazione. L’infermiere Veduta del Manicomio di Fermo (foto Mario Dondero, dalla pubblicazione Il volto che muta, ospitava? era più un custode che applicava a cura di Luana Trapè, Andrea Livi Editore, 2003) Circa 700. rigidamente le regole. Insomma, “700” è un numero piuttosto elevato. In vigeva una condizione antiterapeutica. ogni camerata quanti ce n’erano? Da questo deprecabile contesto, influenzato Le camerate erano numerose e non tutte uguali. anche dai moti del ’68, si formarono le basi Il numero dei letti variava anche a seconda dei per un’interpretazione della malattia mentareparti: quello dei tranquilli ospitava la parte più le che andava al di là delle cause biologiche. consistente. A distanza di 45 anni non ricordo La legge Mariotti, proprio del 1968, abbatteva quanti fossero. l’annotazione nel casellario giudiziario e per la prima volta sanciva la possibilità che l’amSuppongo che la convivenza fosse difmalato potesse ricoverarsi volontariamente. ficile. Cominciarono a nascere le cliniche private e Non lo era, se relazionata al numero dei pazienti. maturavano i presupposti per i movimenti di Fra loro si verificavano delle risse? psichiatria democratica che in Italia trovaroRaramente. no in Franco Basaglia il principale rapprePotevano godere della libera uscita, sia sentante. Da qui la sua legge che riconosceva pure sotto sorveglianza? l’importanza relazionale, ambientale, culQuando c’ero io, solo a qualcuno era permesso turale e dell’inserimento sociale, nella condi uscire per accompagnare un infermiere a fare vinzione che la devianza si manifesta sempre delle compere. In seguito, col nuovo direttore come frattura con la realtà. Si fondava anche io sappia - la situazione era migliorata. che su principi di prevenzione e riabilitazione. Dunque, determinò una svolta rivoluzioVi era la tendenza a trattenere i malati naria. Naturalmente alla sua applicazione più a lungo possibile? seguirono subito opposizioni perché la soluSì, nel periodo in cui le terapie non venivano zione era scomoda. Solo nel tempo c’è stata praticate su larga scala; successivamente si reuna sostanziale accettazione. gistrò un aumento delle dimissioni. In quegli anni, pur operando all’interno delI pazienti meno gravi desideravano esla Provincia di Ascoli Piceno, io non avevo sere dimessi? mai avuto modo di conoscere come veniva Naturalmente. governato l’Ospedale Psichiatrico situato a C’erano anche quelli che volevano reFermo. Anche per rispetto ai disabili, non trastare perché non riuscivano a reinsepelava quasi nulla. Ora che quei mortificanti rirsi nella società? luoghi di penitenza sono chiusi per sempre A volte sì. A causa della lunga durata dei ricoveri e che le amministrazioni provinciali sono alcuni soffrivano della malattia da istituzionasciolte, mi sono rivolto al dottor Sergio Fabializzazione: abituati alla segregazione in amni - che ho frequentato fin da ragazzo - per biente tutto sommato protetto, non si sentivano sapere, almeno sommariamente, come funzionava la struttura fermana presso la quale Interno del Manicomio di Fermo (foto di Eriberto Guidi, da a loro agio in luoghi che, pur essendo familiaegli aveva prestato servizio come assistente. Il volto che muta, a cura di Luana Trapè, Andrea Livi Editore, 2003) ri, non erano abbastanza rassicuranti. Un pa-
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ziente tornò a ricoverarsi una settimana dopo la dimissione perché non si ritrovava nel suo paese, che gli sembrava molto cambiato. Venivano riaccolti volentieri dalle famiglie? Non sempre. Specialmente le ‘buone’ famiglie, dimenticavano completamente i parenti. Da dove venivano? Da tutta la provincia di Ascoli Piceno.
acquisita nella clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Roma dove mi sono specializzato, ho introdotto l’uso di nuovi farmaci riuscendo a ottenere un notevole miglioramento delle loro condizioni psichiche, tanto che molti furono dimessi. Solo pochi, affetti da grave deficit intellettivo, a volte dovevano essere contenuti per evitare che si procurassero lesioni personali a causa del loro stato per il Donne ricoverate nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Fermo (da Il volto che muta, a cura di Luana Trapè, Andrea quale non esistevano cure.
Prevalevano gli an- Livi Editore, 2003) ziani? Considerata la lunghezza della degenza, forse sì.
Vi era anche qualche reduce di guerra? Che io ricordi no, ovvero non c’erano ricoverati per cause belliche. A quel tempo le cure erano molto diverse dalle attuali? Ho preso servizio nel 1963. Si era già entrati nell’era della psicofarmacologia ma, salvo qualcuno in osservazione, la maggior parte non faceva vere e proprie terapie: assumeva solo un ipnotico o un sedativo. Erano stati abbandonati elettroshock, shock insulinico e altro, che si praticavano in passato. I degenti accettavano le vostre cure? Quelli in grado di rendersi conto sì, gli altri non le rifiutavano.
L’organizzazione era soddisfacente? I ricoverati come trascorrevano il tempo? Qualcuno si dedicava ad attività creative? L’Ospedale era suddiviso in vari reparti: Osservazione, dove si trovavano i nuovi ricoverati; reparto Tranquilli, Agitati e quello dei pazienti più anziani. Poi c’era un reparto a sé per i piccoli con deficit intellettivo grave. Naturalmente gli uomini e le donne erano separati. Mancavano centri di aggregazione, spazi per attività ludiche o creative. I degenti trascorrevano le giornate nei loro reparti dove qualcuno si ritagliava uno spazio per dedicarsi alla scrittura. In passato, poiché quasi tutti i ricoverati provenivano dalla campagna, era stata attivata un’azienda agricola per l’ergoterapia, poi dismessa a seguito di un incidente mortale. Il personale di servizio era preparato? Soprattutto i caporeparto eseguivano il lavoro con passione e buona preparazione tecnica. Ricordo che, quando incominciammo ad usare le nuove terapie, svolgevano le mansioni con entusiasmo, come se finalmente si sentisseo appagati in un ruolo che non era più quasi di sola custodia, ma anche di cura, e seguivano i miglioramenti dei pazienti con soddisfazione.
Partecipavano alle vostre sedute psicoanalitiche o c’era incomunicabilità…? Dopo il primo colloquio non si facevano sedute psicoanalitiche in quanto eravamo solo due assistenti. Erano abbastanza gestibili? A causa della carenza di cure, purtroppo, si doveva ricorrere alla contenzione a letto. In seguito la cosa è stata evitata pressoché totalmente quando, grazie alla mia esperienza
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Internati nel manicomio di Fermo (da Il volto che muta, a cura di Luana Trapè, Andrea Livi Editore, 2003)
In quegli anni avevo
conosciuto il direttore Tomasino che, per questioni burocratiche, si recava negli uffici dell’Amministrazione Provinciale di Ascoli. Com’era il suo rapporto con i medici e i malati? Quando l’ho frequentato era una persona poco propensa ad accettare ciò che poteva turbare il tran tran quotidiano. Pare che in passato fosse stato diverso, in particolare nell’applicazione delle terapie in uso. Perciò le sue relazioni con i medici, specialmente con chi voleva introdurre qualche novità, non erano idilliache, anche se poi doveva riconoscere la validità di quanto gli veniva proposto. Con i ricoverati il suo rapporto era routinario. Tutto sommato, nel bene e nel male, hai acquisito esperienze utili. Tutte le esperienze nella vita sono utili, se vengono accettate e vissute nel modo giusto. Nonostante i limiti esposti, credo di essere riuscito, nel mio piccolo, a migliorare la vita, se ciò si può ritenere possibile, degli sfortunati pazienti per i quali ho lavorato. Quanti assistenti eravate? Due. Godevate di autonomia operativa? Se ce la prendevamo… Quali erano le vostre ‘sofferenze’? Non poter gestire il lavoro nella maniera che ritenevamo migliore.
degli stessi psicoanalisti sono malattie che hanno un’origine organica verosimilmente su base genetica e pertanto vanno curate con i farmaci come tutte le altre malattie, quando è necessario anche in ospedale e con supporti psicoterapeutici. Basaglia, per rompere una condizione di isolamento e di ghettizzazione di questi soggetti, ha dovuto radicalizzare il discorso facendo di ogni erba un fascio e mettendo insieme i malati organici - che necessitano di un certo tipo di cure ma non di isolamento dalla società - e quelli con le devianze, i quali - come diceva Nietzsche - non facendo parte del pensiero unico, dovevano andare in manicomio. La legge 180 ha ottenuto un grande risultato, ma la riforma, non essendo stata accompagnata da un’adeguata organizzazione di strutture fiancheggiatrici, ha creato situazioni critiche, che solo ora si vanno risolvendo. ‘Graffito’ sul muro orientale del Reparto Agitati del Manicomio di Fermo con il ‘commento’ di Luana Trapè: Per Emma […] Quando mi portarono qui avevo appena ventotto anni. Sono passati ventisei anni esatti. Per celebrare l’anniversario ho coniato una medaglia. Qualcuno dice che è la faccia di Mussolini, altri di Augusto, ma qui non circolano che idee deliranti. In realtà questo è il ritratto di come sono io, adesso. Molti si meravigliano della somiglianza che sono riuscito a infondere al mio viso, perché non abbiamo specchi, dicono. E anche se l’avessimo, chi potrebbe riuscire a vedere con precisione il proprio profilo? Ma dimmi, potrei piacerti ancora? (da Storie di mattoni, ne Il volto che muta, a cura di Luana Trapé, Andrea Livi Editore, 2003)
I momenti più gratificanti? Quando si riusciva a far stare meglio un paziente e a dimetterlo. Come hai considerato le innovazioni di Franco Basaglia che hanno portato alla chiusura dei manicomi? Ci sono diversi aspetti da considerare. Intanto provengo da una formazione essenzialmente medica, quindi sono portato a curare il malato. La psichiatria fino a qualche tempo fa era figlia del progresso tecnico-scientifico dell’Ottocento ed è stata sistematizzata nosograficamente dagli psichiatri tedeschi, in primis Emil Kraepelin. Così erano nate le diagnosi di schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, personalità psicopatiche con comportamenti antisociali che richiedevano l’internamento nelle strutture manicomiali. Le nevrosi e l’isteria, invece, rientrano nella psichiatria, che è stata oggetto di studio e di cura della psicoanalisi nelle sue varie forme. La schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva, oggi detta anche sindrome bipolare, per ammissione
I Centri di Igiene Mentale riuscivano a sopperire? Questi centri erano stati istituiti prima dell’entrata in vigore della legge Basaglia. Nella provincia di Ascoli ce n’erano 6: ad Ascoli, San Benedetto del Tronto e Fermo con aperture una volta la settimana; ad Amandola, Sant’Elpidio a Mare e Montegiorgio ogni 2 settimane. Io, con l’aiuto delle assistenti sociali, ero incaricato di seguirne il funzionamento. Devo dire che è stato un lavoro utile e gratificante. Riuscivo a seguire tutti i pazienti che erano stati dimessi, ne controllavo lo stato di salute e le relative terapie, evitando in tal modo nuovi ricoveri, sia per loro che per altri eventuali pazienti che facevano ricorso ai centri. Dopo il mio passaggio alla Neurologia di Ascoli ho continuato a curare con buon esito, in reparto neurologico, anche i pazienti psichiatrici in regime di libero ricovero, come quelli di un normale reparto ospedaliero. I malati come avevano accolto la chiusura dei manicomi avvenuta per legge? Ero già fuori dell’Ospedale Psichiatrico e non conosco le reazioni, ma immagino che alcuni l’abbiano accolta con entusiasmo; altri con indifferenza; quelli istituzionalizzati male.
Franco Basaglia
Quando sei divenuto primario del reparto di Neurologia dell’Ospedale di Ascoli suppongo che la situazione sia stata diversa. Non avendo vissuto il passaggio alla nuova organizzazione della psichiatria secondo la legge Basaglia, non so dire se i giovamenti siano tangibili o i problemi restino irrisolti. Penso, comunque, che non ci sia più bisogno di luoghi di internamento.
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due incontri all’ISML di Ascoli Piceno
LA FOLLIA DI GUERRA a cura di R. Forlini A. Valeriano M. Petracci
L’
Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione nelle Marche e dell’Età Contemporanea di Ascoli Piceno ha approntato una serie di iniziative per il Centenario della Prima Guerra Mondiale e per la celebrazione del Settantesimo della Liberazione del nostro Paese. Nella progettazione si è cercato un trait d’union tra i due grandi eventi del Novecento e l’attualità. È nato così il ciclo “Follia di Guerra”: conferenze sul tema del malattia mentale, del disagio psicologico come prodotto dell’esperienza di guerL’ex Ospedale Psichiatrico Sant’Antonio Abate di Teramo visto da Porta Melatina ra, ma anche come causa di conflitti. Dai reduci della prima guerra agli internati oppositori del Regime Fascista, alle forme di lotte armate contemporanee che accomunano l’evento bellico come “fatto sociale totale”. Il 31 marzo 2015 si è completato il percorso di chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, come previsto dalla normativa approvata nel 2011. Il provvedimento ha creato un dibattito vivace e piuttosto allarmato, segno del forte coinvolgimento dell’opinione pubblica che conferma la malattia psichiatrica e il disagio mentale- psicologico come un vulnus che in modi e forme diversi, con intensità variabile, connota le dinamiche sociali e culturali. Il primo incontro, dal titolo “Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo”, con Annacarla Valeriano si è svolto il 28 febbraio scorso. La ricercatrice, insieme con lo storico Costantino Di Sante e il direttore della Biblioteca Provinciale “M. Delfico” di Teramo, ha illustrato come dalla disamina della documentazione del manicomio sia emerso un quadro sociale, antropologico e culturale di enorme devastazione, dove la malattia mentale nelle sue varie forme, ha travolto non solo i reduci, ma le famiglie e in special modo le donne investite da nuove dinamiche di relazione e soverchianti responsabilità: tutti segnati da Un corridoio del Manicomio
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traumi come emigrazione, leva militare, guerra ai quali non sono riusciti ad adattarsi. Il 20 marzo si è tenuto il secondo incontro dal titolo “I matti del duce”, coordinato ancora da Costantino Di Sante in cui il ricercatore Matteo Petracci - che ha condotto un minuzioso lavoro di ricostruzione attraverso carte di polizia, cartelle cliniche e testimonianze - ha ampiamente raccontato delle esperienze drammatiche vissute dagli antifascisti finiti nella trappola del manicomio durante il regime fascista, in quanto oppositori da eliminare nella maniera più feroce e indignitosa. (Rita Forlini)
AMMALÒ DI TESTA di Annacarla Valeriano Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931), edito da Donzelli nel 2014, è un “grande racconto del dolore”. Al centro, infatti, vi sono le storie di vita di quasi 5.000 uomini e donne ricoverati nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo fra il 1881 e il 1931. Le loro cartelle cliniche - composte dai diari medici, dalle carte che scandivano le tappe dell’internamento, dalle lettere scritte alle famiglie e mai giunte a destinazione perché censurate – costituiscono il punto di partenza di un racconto che dal chiuso delle mura manicomiali si estende oltre, allargando il suo sguardo sulla società, sui modelli culturali che hanno contribuito a costruire storicamente i concetti di normalità e devianza, fino a incontrare i traumi profondi che hanno scosso la società italiana fra Otto e Novecento: la grande emigrazione e la grande guerra. Nel libro viene dedicata un’attenzione particolare ai contesti di appartenenza dei ricoverati poiché era proprio in famiglia, tra le comunità che avrebbero dovuto garantire protezione ai loro elementi più deboli, che s’innescava il meccanismo che portava all’esclusione
sociale e poi all’emarginazione fra le mura del manicomio. La maggior parte dei ricoverati provenivano da campagne poverissime segnate da miseria, sotto nutrizione, malattie endemiche che contribuivano a minare la loro salute fisica e mentale. In questi ambienti già fortemente destrutturati si innestavano modelli culturali che attingevano da un sostrato magico-superstizioso e che avevano un ruolo attivo nella costruzione dei concetti di normalità e devianza: maghi, magare, streghe, fattucchiere permeavano una cultura contadina che affondava le sue radici in un mondo di bisogni primari, precarietà esistenziale, fame, paure e inquietudini, conflitti familiari e sociali. Alla società, che con i suoi diversi agenti contribuiva a costruire la catena del disagio sociale e mentale, si aggiunsero poi i grandi traumi che hanno percorso la storia italiana fra Otto e Novecento. Furono soprattutto due gli eventi destinati a segnare nel profondo immaginari e mentalità collettive: l’emigrazione e la prima guerra mondiale. Entrambi questi traumi lasciarono ferite indelebili nelle menti di coloro che vissero sulla propria pelle le conseguenze più deteriori dei mancati adattamenti e della vita di trincea. Si calcola che in Italia, durante la prima guerra mondiale, furono inviati nei manicomi circa 40.000 soldati che avevano sviluppato forme di alienazione mentale direttamente riconducibili ai patimenti vissuti al fronte; è una cifra purtroppo non attendibile perché fa parte di una vicenda rimasta sommersa per molti anni. Nel manicomio di Teramo, che non aveva al suo interno una sezione psichiatrica militare, arrivarono 269 soldati originari delle province abruzzesi e in gran numero anche della provincia di Foggia. Questo esercito di traumatizzati era composto da uomini che avevano sviluppato sindromi confusionali, stati allucinatori, depressioni e che attraverso la “fuga nella follia” avevano scelto di manifestare il loro rifiuto a una guerra che li aveva disumanizzati, privandoli delle loro identità e della loro dimensione più intima. Accolti in manicomio rappresentarono attraverso deliri, pianti, mutismo, tremore, stupore tutti gli orrori della guerra; per gli stessi psichiatri i soldati traumatizzati significarono una realtà inedita con cui fare i conti. A prevalere nell’interpretazione di queste forme di malattia mentale fu la tesi della predisposizione ereditaria, per cui la guerra non aveva provocato il disagio mentale ma aveva agito solo come acceleratore per la manifestazione di disturbi latenti nella psiche degli uomini. Le cartelle cliniche raccontano anche le conseguenze patologiche del conflitto sul “fronte interno” e soprattutto sulle donne che, pur non conoscendo la realtà della prima linea, subirono perdite dolorose e dovettero riadattare le loro vite colmando faticosamente i vuoti scavati dalle assenze. Voci isolate, voci disperse, voci destinate a non lasciar tracce nella storia perché stritolate nell’ingranaggio di un’istituzione totale che doveva cancellarle; per una forma di nemesi storica sono oggi giunte fino a noi e riescono ancora a parlarci, come se il tempo non le avesse offese. Scriveva Livio, un giovane fante traumatizzato dalla guerra: “ora sono un povero matto, non ho più salute, né pace, il mal di capo non mi lascia un minuto, l’impressione del flagello non m’abbandona mai e la notte svegliandomi di soprassalto piango o urlo a seconda dei casi”. Allo stesso modo, risuonano vivide le parole di Paolina, una ragazza di 20 anni internata in manicomio con la diagnosi di “immoralità costituzionale”: la giovane scontava con il ricovero la colpa di non avere più nessuno al mondo; a ciò si aggiungeva una sessualità ritenuta “esuberante”, poiché non indirizzata verso il matrimonio e il dovere riproduttivo. Paolina, durante il periodo della degenza, scrisse lettere appassionate a una sua compagna di sventura, conosciuta proprio nel grigiore della vita ospedaliera. Grazie alla censura possiamo rileggere oggi, per la prima volta, le lettere di questa donna e di altri, ed emozionarci: “Mia cara Linda, Eppure anche in questo carcere un pallido raggio di gioia filtra attraverso un’amarezza ed un dolore impareggiabile ad ogni altro dolore. Cosa è mai tutto questo? Tutto è un mistero profondo. E a chi dovrei io presentare i miei sentimenti affettuosi se non a te? A te certamente che mi hai colpito più di ogni altra persona, a te che hai saputo sì bene attirarti la mia simpatia, a te che sapesti rubarti il mio cuore. […] Conto nella tua segretezza. Ti raccomando di non parlarne neanche a Dina. Di nuovo ti auguro felice il Natale e ti bacio mille volte. Paolina”
Il Dottor Raffaele Roscioli, primo direttore (1892-1916) dell’Ospedale Psichiatrico
Gruppo di alienati per cause di guerra con il loro medico
Camera di un internato
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Ospedale Neuropsichiatrico provinciale di Macerata
Il muratore Paolo F., 22 anni, ammalatosi durante il servizio di leva, scriveva: “Caro padre, vi farò sapere che mi trovo in un manicomio senza sapere il perché e il come mi trovo in questo brutto luogo che loro lo chiamano manicomio. Invece si vede benissimo che è un cimitero, perché chi entra non esce più. Ho visto entrare a diverse persone ma uscire a nessuno. Fra tante persone che ci si trovano, nessuno si guarisce”. E una madre lanciava la sua invocazione: “Figlia Carissima vieni immediatamente perche qui all’ospedale non e piu il caso di resisterci”.
I MATTI DEL DUCE di Matteo Petracci
Cosa emerge dalla ricerca? Emergono centinaia di casi (475). Essi permettono di affermare che - come in altri regimi europei negli anni a cavallo tra le due guerre - anche nell’Italia fascista si assistette a un uso politico dell’internamento psichiatrico e al tentativo di piegare la scienza ai fini della medicalizzazione del dissenso. Dei 475 casi ne sono stati selezionati 70, ricostruiti utilizzando i documenti presenti nei fascicoli di polizia, del Tribunale Speciale e nelle Cartelle cliniche dei manicomi. I percorsi che potevano condurre gli antifascisti in manicomio erano diversi, come diverse erano le ragioni di fondo, che a volte sembrano dettate dalle convinzioni scientifiche dell’epoca (ereditarietà), altre dalle necessità del controllo sociale verso i marginali (alcoolisti, vagabondi) e altre ancora dalle ragioni della repressione dell’opposizione politica e del dissenso.
Come nasce la ricerca? Il lavoro nasce nel 2009, quando, durante le ricerche condotte per la tesi di laurea, trovai alcuni documenti relativi ad antifascisti della provincia di Macerata internati in manicomio. In quel momento la ricerca ha preso avvio, estendendosi in tutto il territorio nazionale.
Quali percorsi conducevano gli antifascisti in manicomio? Nel mio libro I matti del duce vengono individuati tre modalità del loro internamento:
Corridoio del piano terra
Cineteatro
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1. Gli antifascisti internati d’urgenza negli ospedali psichiatrici provinciali. In questo primo gruppo emerge con forza l’arbitrarietà del provvedimento. Da strumento di cura dei malati il manicomio poteva facilmente trasformarsi in sistema per mettere fuori gioco gli oppositori, più o meno scomodi o più o meno pericolosi, spesso tramite il ricorso a diagnosi che si caratterizzavano per l’elasticità di interpretazione (come la paranoia) e il coinvolgimento di tutte le diramazioni del potere fascista: questori e prefetti, ma anche Ministero dell’Interno.
Ambulatorio
*** Annacarla Valeriano è ricercatrice di
2. Gli antifascisti internati in manicomio giudiziario. Si tratta di quegli oppositori politici che finivano sotto processo per dei reati commessi contro il regime e che, dai tribunali ordinari come dal Tribunale Speciale, venivano inviati nei manicomi giudiziari perché giudicati incapaci di intendere e volere. In questo secondo caso, grazie alla lettura delle perizie psichiatriche, si notano chiaramente le sovrapposizioni tra ragioni mediche e ragioni politiche, così come è possibile riscontrare l’attività degli psichiatri volta a trovare nelle sospette psicopatologie le cause di adesione alle ragioni delle opposizioni politiche. 3. Gli antifascisti internati in manicomio che si trovavano in carcere o al confino. In quest’ultimo gruppo troviamo gli antifascisti che, direttamente dal carcere o dalle isole di confino, passarono all’internamento in manicomio giudiziario o civile. Spesso, alla base dell’internamento c’erano cause legate alle violenze subite, alle torture (fisiche e psicologiche), alle pessime condizioni di vita vissute in cattività. Tuttavia, a volte emerge con forza come l’internamento in manicomio potesse essere utilizzato quale ulteriore e definitiva punizione, in grado di provocare quelle afflizioni che nemmeno il carcere riusciva a garantire.
da dignità e riscatto - dimostrano come, attraverso l’internamento in manicomio, il fascismo ricercasse a volte un di più di persecuzione. Dichiarare pazzo un oppositore significava infatti screditarlo, trasformare le sue idee in deliri, decretarne la morte civile con un’efficacia superiore a quella delle normali misure repressive. Dalla ricerca emerge che, nella sua aspirazione a divenire un regime compiutamente totalitario, il fascismo non solo mise in atto un’opera di medicalizzazione della devianza, ma anche dell’anticonformismo sociale e del dissenso politico.
Bagno
Conclusione Queste storie - che sono segnate da persecuzioni, dolore e sofferenze, ma anche Resti del vissuto in una camerata
Storia Contemporanea all’Università di Teramo. Le sue attività si concentrano sulla storia della psichiatria e sull’impiego delle fonti audiovisive. Nel 2004 ha contribuito a fondare l’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese della predetta Università. Per la Fondazione dell’Ateneo ha portato avanti il progetto “Voci dal manicomio” incentrato sul recupero, la valorizzazione e la divulgazione delle memorie del Manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo. Dopo il Premio Enriquez 2014 e il Premio di saggistica “Città delle Rose” 2014, il suo libro Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931) ha ricevuto il Premio internazionale di letteratura e saggistica “Francesco Alziator 2014”. Matteo Petracci è dottore di ricerca in
Storia, politica ed istituzioni dell’area euromediterranea in età contemporanea presso l’Università di Macerata. Ha pubblicato Pochissimi inevitabili bastardi. L’opposizione dei maceratesi al fascismo (il lavoro editoriale, 2009) e I matti del duce (Donzelli Editore, 2014). [Le foto degli interni riportate nell’intero servizio sono state scattate dopo la chiusura dei due manicomi. Per quelle dell’Ospedale Neopsichiatrico provinciale di Macerata del 2004 ca si ringrazia Paolo Brasca (che detiene il copyright), docente irc nelle scuole superiori dello Stato e responsabile didattico della Fototeca comunale di Civitanova Marche]
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CARLO VITTORI IL GURU DELL’ATLETICA ITALIANA a cura di Bruno Ferretti
L’
uomo che ha lasciato un segno indelebile nello sport azzurro, conquistando con i suoi atleti record europei e mondiali, medaglie olimpiche e memorabili primati, è Carlo Vittori ovvero “il professore”, come lo chiamano tutti con profondo rispetto e anche con una certa ammirazione. Il suo nome è legato in maniera indissolubile a quello di Pietro Mennea, il super velocista di Barletta che, sotto la sua guida, ha dominato per un ventennio la scena mondiale della velocità. A Mennea, scomparso nel 2013, a soli 61 anni, di recente la Rai ha dedicato un film (in due puntate) intitolato “La freccia del Sud”, ideato e diretto da Ricky Tognazzi. L’atleta è stato interpretato dall’attore Michele Riondino; Luca Barbareschi impersonava il maestro Vittori. La fiction ha avuto grande successo di ascolti con uno share del 25% nella serata conclusiva. E partiamo proprio da qui. Professor Vittori, le è piaciuto il film in Tv? Si è rivisto nella interpretazione di Barbareschi? Sì e no. È stato certamente un ottimo spot per l’atletica e ne sono soddisfatto. Alcune situazioni sono state rappresentate con un po’ di fantasia, ma in una fiction non può essere tutto completamente fedele alla realtà. Ho parlato diverse volte con il regista Tognazzi e con l’attore Barbareschi che mi ha chiesto tante informazioni per rendere meglio il ruolo. Mi ha rappresentato come un incallito fumatore e questo è vero, perché in quegli anni fumavo una sigaretta dietro l’altra. Poi nel 1989 decisi di smettere e non ne ho più toccata una. Lei da giovane è stato un grande atleta della velocità. Sono stato campione italiano dei 100 metri nel 1952 e nel 1953 e ho fatto parte della Nazionale in otto competizioni comprese le Olimpiadi di Helsinki del ‘52. Arrivai in semifinale ma potevo fare qualcosa di più. Ricordo che, dopo il raduno a Milano, partimmo in treno e il viaggio durò due giorni interi. Con me c’era il nuotatore Carlo Pedersoli, poi diventato
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famoso come attore cinematografico con il personaggio di Bud Spencer accanto a Terence Hill. Quando ha incontrato Mennea per la prima volta? Nel 1968, ad Ascoli durante il Trofeo Tartufoli, un meeting nazionale di atletica leggera. Aveva 16 anni e vinse la gara dei 300 metri con 50 di vantaggio. Con il tempo di 34”35 stabilì il record italiano della specialità e mi resi subito conto che aveva qualità eccezionali. Parlai con L’atleta ascolano Carlo Vittori esulta dopo una vittoria ai campionati assoluti Franco Mascolo, il suo allenatore degli esordi, e iniziammo una collaboraziosulla pista dello Stadio Olimpico di Roma ne. Due anni dopo Mennea cominciò ad allenarsi con me a Formia nel Centro di Preparazione Olimpica del CONI che dirigevo. Di Mennea, campione straordinario e primatista mondiale, è stato detto e scritto tutto. Aggiunga un suo particolare ricordo. Pietro era un fenomeno della natura. Aveva una grandissima forza di volontà ed era disposto a fare sacrifici per raggiungere un obiettivo. Negli allenamenti non si risparmiava e metteva notevole caparbietà. Ha ottenuto risultati eccezionali, ma a mio avviso, con le doti che aveva, poteva fare anche meglio. In allenamento era capace di correre dieci volte i 60 Incontro internazionale Argentina-Italia, Buenos Aires, novembre 1953. metri e due volte i 400 con tempi notevoli. L’azzurro Vittori vince la gara dei 100 metri con il tempo di 10”6 (il suo miglior tempo).
Pietro Mennea si allena in pista sotto lo sguardo di Vittori
Il record di velocità nei 200 metri stabilito nel 1979 alle Universiadi di Città del Messico, che ha resistito ben 17 anni, resta uno dei momenti più alti dello sport italiano. Lei c’era. Come visse quella emozione? Fu un’emozione unica, indimenticabile. Ricordo che insieme a Trifari, noto giornalista della “Gazzetta dello Sport”, per essere certo del tempo ottenuto, salii i 120 scalini dello stadio per leggere da vicino il risultato cronometrico del fotofinish. Era proprio così: 19’’ e 72. Ci abbracciammo per la felicità. Avete mai litigato? Disapprovai molto la sua scelta di lasciare l’atletica per mettersi a fare
l’imprenditore. Eravamo nel gennaio del 1981 e la Fiat, anche per sfruttare la sua popolarità, aprì una concessionaria a Barletta affidandola a Mennea che, attratto da quella offerta, decise di ritirarsi. Non riuscii a convincerlo. Peccato, perché era in un momento di grande forma e avrebbe potuto conseguire ottimi risultati. Quando tornò all’atletica, non era più come prima.
ho lavorato una vita e mi danno 1.230 euro al mese. Sì, ha capito bene: 1.230 euro. Ascoli Piceno città europea dello sport 2014. È motivo di soddisfazione? È una responsabilità che non meritiamo. Invito gli amministratori comunali ad andare al campo sportivo di atletica per rendersi conto della situazione. Zero. C’è solo Armando De Vincentis che non è in mezzo alle beghe e fa qualcosa. Adesso allena un discobolo di 16 anni, Marco Balloni, che disputerà i mondiali di categoria e promette molto bene. Non conosco la situazione delle altre discipline, ma so che siamo andati indietro. Ascoli aveva una squadra di basket in serie A, atleti di primo livello nazionale nella lotta e nel pugilato, ma anche nel ciclismo e nella pallavolo. Oggi, purtroppo, non è così.
Le dà fastidio il continuo abbinamento con Mennea che pure è stato il suo allievo migliore? Nessun fastidio, un sentimento di affetto mi ha sempre unito a lui. Ma nella mia lunga carriera di preparatore non c’è stato solo Mennea. Durante la mia gestione tecnica l’Italia ha portato a casa 47 medaglie fra campionati europei, mondiali e Olimpiadi in cinque tipi di gare: 100, 200 e 400 metri, staffette 4x100 e 4x400. Lei è stato uno dei primi a battersi con energia contro il doping nello sport. La battaglia si può ancora vincere? Si può e si deve vincere. Senza troppi discorsi basterebbe applicare una regola semplice ma efficace: chi si droga viene squalificato a vita e non potrà mai più fare sport. E chi ha uno sponsor che lo finanzia deve restituire ogni somma percepita ed eventualmente risarcire i danni di immagine procurati. Oggi, purtroppo, non si crede più nel lavoro e nella scienza: bisogna arrivare in fretta al risultato. Succede così da quando si puntò troppo sull’atleticaspettacolo con ricchi premi in denaro. Che futuro vede per lo sport italiano? Lo sport deve entrare nelle scuole ma in maniera seria con i suoi valori educativi e pedagogici. È fondamentale per i giovani in fase di sviluppo perché aiuta a governare le emozioni. Davanti a un ragazzo ci sono sempre due vie e il meno preparato e più debole prende quella sbagliata. Lo sport aiuta a evitare questo e ha un’importante valenza sociale: è formativo e consente ai giovani di conoscere innanzitutto se stessi. Penso che nelle scuole debbano essere rilanciati i campionati studenteschi come c’erano una volta, non i Giochi della Gioventù che erano solo una brutta copia. Professor Vittori, c’è qualcosa che più di altre la rende fiero? Ho sempre detto quello che penso e sono fiero di poter affermare che non mi ha mai aiutato alcun potentato, anzi spesso li ho mandati a quel paese. Bene o male, ho fatto tutto da solo. E sono orgoglioso anche della mia pensione:
Mennea alla conquista della medaglia d’oro nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1984
Universiadi di Città del Messico 1979: Vittori con Mennea, dopo aver stabilito il record del mondo sui 200 metri
Marzo 2013: Vittori nella camera ardente dà l’ultimo saluto al suo Mennea
Carlo Vittori è nato ad Ascoli Piceno il 10 marzo 1931. Prestigioso il suo passato di atleta. Nei primi anni Sessanta ha insegnato educazione fisica ad Ascoli, poi si è trasferito a Roma, chiamato dalla Federazione Italiana Atletica Leggera. Dal 1969 al 1986 è stato responsabile tecnico del settore velocità guidando - con particolare competenza e abilità numerosi azzurri alla conquista di medaglia olimpiche, record europei e mondiali che hanno fatto la storia dell’atletica italiana e internazionale. Il velocista Pietro Mennea è stato l’atleta che, sotto la sua guida, ha raggiunto i risultati più rilevanti. Nella sua lunga e luminosa carriera di tecnico e di preparatore ha pilotato verso risultati formidabili anche altri atleti come il mezzofondista Marcello Fiasconaro (record mondiale negli 800 m in 1’43”7), il velocista Donato Sabia (record mondiale under 23 nei 600 m in 1’15”77 e mondiale assoluto nei 500 m in 1’00”01), Pier Francesco Pavoni (record europeo juniores sui 100 m). A Formia ha diretto a lungo il Centro di Preparazione Olimpica del CONI. È autore di importanti pubblicazioni scientifiche sulle metodologie di allenamento. Nel corso degli anni ha tenuto - in Italia e all’estero - numerosi corsi e lezioni agli allenatori di atletica. Vanta positive esperienze professionali anche nel mondo del calcio. Dopo essere stato preparatore atletico della Del Duca Ascoli (anni Sessanta), a metà degli anni ’80 lavorò nella Fiorentina del compianto presidente Baretti, dove ebbe il grande merito di recuperare un campione assoluto come Roberto Baggio a seguito di un devastante infortunio al ginocchio che ne aveva messo in forse la prosecuzione della carriera. Coniugato con la signora Nadia Vitali (di Isola d’Istria, trapiantata ad Ascoli), è padre di due figli (Massimo e Fabia). Dal 1990 è tornato a vivere nella città di origine.
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Jommi Demetrio La storia La Ditta “Jommi Demetrio” inizia la sua attività nel 1970 quando l’attuale titolare, dopo aver fatto esperienza per un lungo periodo nelle aziende di più antica tradizione di Montappone, decide di mettersi in proprio. Nei primi anni si presenta sul mercato nazionale con una vasta gamma di articoli nella linea classica. Da lì parte un graduale sviluppo che vede allargarsi ed arricchirsi sempre più le tipologie di lavorazione, la struttura produttiva e le collezioni che si compongono anche di capi estrosi ed elaborati per importanti defilé di moda. Nel 1984 viene avviata un’attività di commercializzazione di cappelli estivi ed articoli da mare lungo la costa adriatica. Attualmente la “Jommi Demetrio” è una delle realtà più importanti del settore in diverse regioni. Il continuo aggiornamento e il moltiplicarsi di iniziative imprenditoriali, insieme a una curata attenzione al prodotto, rendono l’Azienda ancora fortemente competitiva. La produzione Dedicata per la maggior parte agli articoli invernali, la produzione si sviluppa sia sul programmato che sul pronto moda. Gli articoli per uomo, donna e bambino sono di livello medio-fine. Le esperienze tecniche accumulate in tanti anni di attività, la manodopera specializzata, la continua collaborazione con le firme più prestigiose dell’alta moda e del prêt-à-porter, la costante ricerca nella modelleria, l’impiego di materiali eleganti e di qualità, sono gli elementi che rendono la Ditta capace di interpretare i mutamenti delle tendenze e di adattare tempestivamente ad essi le collezioni e la produzione.
Jommi Demetrio
www.jommidemetrio.com
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La politica aziendale Alla base del successo della “Jommi Demetrio” c’è sempre stata l’intenzione di soddisfare i clienti, sia nel servizio che nel prodotto. L’Azienda mira alla competenza per ottenere risultati certi e costanti e ad instaurare rapporti stabili e di reciproca fiducia con chi si rivolge ad essa.
foto Giampietro Topini
C.da Sole, 12/16 63835 MONTAPPONE (FM) Tel. 0734.760541 info@jommidemetrio.com
O.M.M. Officine Minuterie Metalliche
Fondata nel 1969 per volontà di Antonio Nerpiti e Giacomo Belleggia, l’azienda marchigiana con sede di lavoro a Montegiorgio in provincia di Fermo è specializzata nella produzione di accessori per calzature e pelletterie. Di recente ha allargato la sua attività al settore dell’arredamento e del tessile-abbigliamento ed è in grado di realizzare su disegno del cliente un autentico prototipo in pochissimo tempo grazie anche a particolari macchine applicate al computer, sistema CAD/CAM. Ogni dettaglio, ogni singolo passaggio è accuratamente controllato ad iniziare dalla scelta dei materiali come l’ottone, l’alluminio, il rame, il ferro, la zama, il plexigas e degli elementi decorativi sempre di elevata qualità come le pietre Swarovski. Estremamente vasto il campionario a disposizione della clientela, che viene aggiornato stagionalmente e che include 20mila articoli diversi. L’azienda realizza prodotti dal design esclusivo su stampi personalizzati. Uno staff di esperti segue, in stretta collaborazione con disegnatori delle firme più prestigiose, tutte le fasi fino alla versione definitiva del modello prototipale. La O.M.M., dedita alla costante ricerca di soluzioni originali, rappresenta una delle realtà più significative dell’imprenditoria italiana, che ha saputo far tesoro del proprio know how acquisito e impiega con efficacia i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie.
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U
n’azienda che affonda solide radici nella tradizione artigianale tramandata da tre generazioni, in grado di coniugare la sapienza del passato con l’innovazione e la ricerca, sempre pronta ad intercettare le richieste del mercato in continua e rapida evoluzione. Il Factory Store, brillantissima operazione di Marketing, con la sua eterogeneità di prodotti eccellenti crea pluralità di suggestioni in ogni cliente che sceglie di immergersi in una affascinante esperienza di shopping carica di glamour. Avvolti da un’atmosfera chic, si possono trovare oltre ai materiali tradizionali come la paglia, una moltitudine di inserti ed applicazioni che vanno dai tessuti ai filati pregiati, a pelle, perline, merletti o pizzi: il tutto per impreziosire cappelli, accessori e borse dall’inconfondibile gusto italiano. Non mancano poi, in questo viaggio degno della penna di Truman Capote, sciarpe dalle fantasie policrome e raffinati bijoux in ambra, madreperla e quarzo. Una menzione speciale infine per le cinture di pelle: accessori di alta qualità realizzati interamente a mano, con lavorazioni particolari e di alta qualità. www.ferrucciovecchi.com
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