HAT, Primavera-Estate 2014, n. 59 - Sped. in Abb. post. 70% - Copia gratuita
PERIODICO DI ARTE CULTURA E MODO DI VESTIRE ABBINATO AL CAPPELLO
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DA TULLIO A PERICOLI Conversazione di L. Marucci con C. Paci - pag. 4 L’IMPRONTA DELLA PAROLA di N. Anibaldi - pag. 15 L’EDITORIALE di N. Anibaldi - pag. 16 LO SPAZIO COSMICO DI ALBERTO DI FABIO di A. M. Novelli - pag. 18
GIUGNO 2014 Periodico di arte, cultura e modo di vestire abbinato al cappello edito da HAT - Via Fontecorata, 4 I-63834 Massa Fermana (FM) Tel. +39 0734 760099 redazione@hatmagazine.it
MONTE VIDON CORRADO TRADIZIONI PERSONAGGI TRAMONTO DI UN’INDUSTRIA di G. R. Serafini - pag. 21 LA CASA MUSEO DI OSVALDO LICINI di L. Morelli - pag.24 MASSIMO MAZZONI DAL ROCK AL COUNTRY di L. M. Carlesi - pag. 30
La direzione non risponde del contenuto degli articoli che sono di responsabilità degli autori
MARCO BONTEMPO IL SAXOFONO PROTAGONISTA a cura di M. A. Ferrari - pag. 31
Anno XIX numero 59 Primavera - Estate 2014 Reg. Trib. di Fermo n. 4 del 4.3.1992
PIGIO ROSSI CAPPELLI DAI SACCHI DI CAFFÈ a cura di M. A. Ferrari - pag. 36
Direttore Responsabile Stefania Severi
IL CAPPELLO NELL’ARTE di A. M. Novelli - pag. 37
Capo Redattore Maria Alessandra Ferrari alessandra_ferrari@tiscali.it
VIAGGIO NELL’ARTE VISUALE E MUSICALE GLI SCONFINAMENTI DI BOGUSLAW SCHÄFFER di L. Marucci - pag. 44
Segretario di Redazione Ruggero Signoretti
ISOTTA ZERRI MODISTA DEL 900 di B. Formentini - pag. 50 L’ARTISTA-ANTROPOLOGO LUIGI MANCIOCCO di S. Severi - pag. 52
Stampa Manservigi – Monsano (AN) Redazione fotografica Archivio fotografico HAT Hanno scritto in questo numero: Nanda Anibaldi Lorenzo Maria Carlesi Luisa Chiumenti Maria Alessandra Ferrari Rita Forlini Belinda Formentini Rita Leone Luciano Marucci Loretta Morelli Anna Maria Novelli Daniela Rondinini Giuseppe R. Serafini Stefania Severi Ruggero Signoretti Paola Taddeucci
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In copertina: Tullio Pericoli, Primi verdi, 2013, olio su tela, cm 40x40. L’opera è riprodotta nel libro Paesaggi (Adelphi Editore, 2013).
ALMA-TADEMA E I PITTORI DELL’800 INGLESE di S. Severi - pag. 54 DONNE DELLE MARCHE NEL NOVECENTO PIONIERE E PROTAGONISTE DI EMANCIPAZIONE di R. Forlini - pag. 58 L’ANTICA CAPPELLERIA RUSSO DI SALERNO di S. Severi - pag. 62 I CAPPELLI ESUBERANTI DI ISABELLA SCOTTI di P. Taddeucci - pag. 64 IL VOLTO DEL ‘900 DA MATISSE A BACON di S. Severi - pag. 68 A PALAZZO PITTI DI FIRENZE OMAGGIO AI CAPPELLI STRAVAGANTI di L. Chiumenti - pag. 72 ARTE PER LA LITURGIA di R. Signoretti - pag. 76 COLLEZIONE UOMO AUTUNNO/INVERNO 2014-2015 di D. Rondinini - pag. 78 CIOCCOLATO… MON AMOUR di R. Leone - pag. 80
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Da Tullio a Pericoli Conversazione tra Luciano Marucci e Carlo Paci Prosegue la mappatura degli artisti marchigiani più autorevoli. Questa volta l’attenzione è rivolta a Tullio Pericoli, noto anche in ambito internazionale specialmente per l’attività grafica. Ne rivisitiamo il percorso creativo con l’aiuto del giornalista Carlo Paci che lo ha frequentato assiduamente fin da quando Tullio, studente, disegnava per la pagina di Ascoli Piceno de “Il Messaggero”. Speriamo così di arricchire la biografia dell’artista con particolari inediti e di aggiungere qualche riflessione sul suo intenso e appassionato lavoro.
I Tempo L’esordio ascolano Luciano Marucci: Come avvenne il tuo primo incontro con Tullio Pericoli e la scoperta della sua vocazione disegnativa? Carlo Paci: Sovente, quando si tenta la biografia di un personaggio geniale si scoprono situazioni casuali che, a mio parere, possono rientrare tra gli scherzi del destino. Tullio Pericoli - il piccolo (in altezza) ma grande artista - nasce a Colli del Tronto il 2 ottobre 1936; è il secondogenito di Ettore, solerte funzionario pubblico, segretario comunale del paese che si tuffa sulla Vallata del Tronto. Il genitore, di modeste vedute, spera per il figlio una laurea in legge che gli apra le porte di un tribunale o di un comune ben più grande; Tullio si scopre sempre più portato per il disegno (la mamma, Emma, asseriva che disegnava prima di parlare) e che presto ne diventerà un cantore tale da farlo emergere a livello internazionale. Veniamo ora a quello che può apparire un caso fortuito. Nel 1956-‘57 io ero il responsabile della redazione ascolana de “Il Messaggero”. Massimo Teodori - che faceva parte di una famiglia dove la cultura era di casa e che diventerà deputato della Repubblica Italiana - frequentava l’ultimo anno del locale Liceo Classico. Benché fosse minorenne, ero riuscito a farlo entrare come socio dell’allora Cine Club e un giorno mi parlò di un compagno di classe che aveva composto un originale orario scolastico inserendo le caricature dei volti dei professori secondo le rispettive materie. La cosa mi incuriosì e chiesi che mi fosse presentato. Il che avvenne a breve. Era Tullio Pericoli. Il primo colloquio fu essenziale: “Se è vero che sei un caricaturista così immediato, te la senti di venire con me alla prossima seduta del Consiglio comunale, forte di 40 componenti, e di ritrarli tutti nelle due ore dei lavori consiliari?”. Inutile sottolineare che l’affannato lavoro del giovane disegnatore richiamò molti curiosi attorno al tavolo della stampa, soprattutto al termine della seduta quando, sorridendo come chi ha vinto una gara, meglio una sfida, mi consegnò 40 foglietti con le eccellenti, spiritose caricature. L’indomani sulla cronaca ascolana del quotidiano romano apparvero tutte con adeguata didascalia di presentazione ai lettori. Quindi la pubblicazione delle sue caricature divenne ricorrente? Ovvia l’intesa con l’esordiente artista: doveva ritrarre gli ascolani di qualche notorietà, dipendenti pubblici e privati: gli impiegati della Cassa di Risparmio, quelli dell’INPS, i medici dell’ospedale, ma anche avvocati, camerieri e così via. Quasi ogni giorno, in fondo alla pagina facevo pubblicare una striscia con quindici profili. I prescelti si sedevano di fronte a Pericoli e stavano in posa per qualche minuto. Tullio li scrutava, poi schizzava di getto.
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Tullio in una autocaricatura dei primi anni Cinquanta (matita su carta, cm 20,5x15, collezione L. Marucci). Disegno riprodotto sulla copertina del catalogo della mostra “Pericoli - Opere Prime”.
Pericoli in un autoritratto del 1996 (china su carta, cm 20,5x15, collezione L. Marucci). Disegno eseguito sulla quarta di copertina del catalogo della mostra “Pericoli - Opere Prime”.
Orario di classe, 1956-’57, pastello su carta da pacchi, cm 87x67 (collezione A. Massimi)
Quale compenso avevate concordato? Gli proposi 500 lire a disegno, che accettò di buon grado con una sola precisazione: li avrebbe voluti in monete d’argento. Dopo un anno aveva ritratto centinaia di persone. Con i proventi avrebbe aiutato il padre a pagare le spese universitarie in Urbino. Da allora iniziò ad avere pure delle committenze? Ebbe subito decine di ammiratori che cominciarono a chiedergli i quadri. Non per nulla nel 1958 allestimmo la sua prima personale in una sala di Palazzo del Popolo. Tullio aveva suddiviso le opere tra scorci di angoli della città e ironici ritratti di personalità della comunità ascolana. In un certo senso una civetteria per conquistare rinomanza, ordinazioni e pecunia… La mostra ebbe tanto successo da fargli vendere tutto e da raccogliere ordinazioni. Costo: dalle 5 alle 10 mila lire. Anche l’amico ed estimatore Marco Scatasta nel 1960 presentò una sua mostra che si tenne presso l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo. Sinceramente non ricordo i particolari. Marco ha scritto che lo aveva aiutato a scegliere le opere - per lo più “tempere grasse, cioè disciolte nell’olio” - e a dare i titoli. Se non sbaglio, aveva ‘abitato’ subito il locale adiacente alla redazione. Fui io, per favorirne il lavoro e gli impegni, ad offrirgli una stanza della redazione che immediatamente trasformò in studio con un’incredibile, quanto ordinata e pignolesca esposizione di pastelli, penne, pennelli, tubetti di colore e quant’altro (come comparirà in vari quadri). La stanza gli consentì di coltivare amicizie culturalmente produttive come quelle con gli avvocati Luigi Romanucci, Giorgio Scatasta, Francesco Saladini, Gianni Lattanzi, per fare alcuni nomi. Pochi sanno che allora disegnò i cinque modi di gustare l’Anisetta Meletti, per i depliants tradotti nelle lingue dell’esportazione. Lavorò molto per gli enti turistici, realizzando le copertine delle guide ascolane e picene. Per la Quintana fece il famoso cavaliere con l’asta sull’elegante slanciato destriero, cartoncino per para-breeze di auto, distribuito per anni agli automobilisti italiani e stranieri. Si ricorda, inoltre, una serie di 10 cartoline le cui immagini non solo ritraevano con moderna interpretazione angoli e monumenti della città delle cento torri, ma segnavano i primi abbozzi del periodo delle “geologie”, quindi erano un’anteprima di quelli che diverranno i famosi paesaggi.
Carlo Paci, 1960, scultura in terracotta dipinta, cm 20,5x13x14 h (collezione C. Paci)
Luciano Marucci, anni Cinquanta, matita su carta, cm 18x15 (collezione L. Marucci)
Dott. Marco Scatasta, anni Cinquanta, matita su carta, cm 18x15 (collezione Gino e Luca Scatasta)
Quando nel 1996 organizzai con te e Scatasta la mostra “Pericoli - Opere Prime” a Palazzo dei Capitani, a fatica recuperai i lavori del periodo ascolano. Che fine avevano fatto le tante caricature a matita da lui realizzate? Un’ottima e incredibile fine. Pericoli aveva tenuto da parte i numerosi foglietti con i ritratti fatti all’epoca. Dopo molti anni, ritrovando casualmente la valigia, ce la portò in redazione e noi pubblicammo un trafiletto rivolto a quanti ricordavano di essere stati “caricaturati”, i quali potevano presentarsi in redazione per avere l’originale. Dovemmo fissare un orario per regolare l’afflusso degli interessati. Arrivarono perfino alcuni eredi di persone defunte. Sembrerà un assurdo, ma di quei foglietti non ne rimase nemmeno uno. Inizialmente aveva frequentato anche lo studio del pittore Ernesto Ercolani per acquisire almeno i rudimentali insegnamenti della tecnica pittorica, anche se aspirava ad andare oltre i codici tradizionali. Sapevo bene che la sua passione per il disegno e la pittura veniva seguita e indirizzata da Ercolani (molto apprezzato direttore della Civica Pinacoteca) che gli faceva copiare le sculture e lo riceveva nel suo studio, preziosissimo quanto inflessibile maestro. Tullio, però, trascurò i suoi impegni scolastici, tanto che in prima e seconda liceo venne bocciato e la situazione creò dissapori con il padre che attendeva con ansia la maturità. Nella sua ordinata giornata, di mattino, arrivava ad Ascoli in pullman; frequentava le lezioni (non sempre…); nel pomeriggio incontrava Ercolani, poi si presentava in redazione per conoscere quali fossero le sue ‘vittime’. Di quegli anni ricordi qualche episodio curioso? L’aneddotica sarebbe copiosa, ma mi piace rievocare un solo episodio (senza fare nomi): un impiegato della Carisap, dopo essere stato ritratto da Tullio, venne in redazione per contestare che non era stato ripreso come desiderava e, seduta stante, si fece ritrarre di nuovo come voleva, ma l’indomani sul giornale uscì (dispettosamente) la prima caricatura. Da lì la perdita di un’amicizia! Tenevi alla sua collaborazione anche per far assumere al quotidiano un accattivante carattere artistico-culturale? Certamente! Non era difficile comprendere che la collaborazione di Pericoli avrebbe fatto alzare il livello culturale della pagina.
Giorgio Scatasta, 1960, china su carta, cm 41x34 (collezione eredi Giangiacomo Lattanzi)
Con Pericoli “Il Messaggero” recuperò lo svantaggio che aveva nelle vendite rispetto a “Il Resto del Carlino”?
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Maschere classiche: prof. Alighiero Massimi, 1958, tempera su carta, cm 70x55,5 (collezione A. Massimi)
L’angelico diabolico Prof. Ernesto Ercolani, 1958, tempera su carta, cm 33x24 (collezione eredi Ercolani)
Ci fu un aumento delle vendite in continua ascesa, ma non ancora tale da superare “Il Resto del Carlino”. Intanto Tullio realizzava quadri dando al di-segno una connotazione pittorica: itinerari immaginari introversi, transiti per altri approdi. Così si allontanava sempre più dal lavoro per il giornale. Ripeto - e ne sono convinto - che in quel periodo il giornale rappresentò per lui il mezzo più efficace per uscire dall’anonimato. In fondo era stimolato ad andare avanti dall’insoddisfazione, dalla voglia di scoprirsi e di scoprire per elaborare un prodotto il più possibile personale, nonostante fosse un dichiarato citazionista. …Citazionista come nella mostra Rubare a Klee2. Di fatto quasi un’elencazione di maestri cui fare riferimento, con un’attenzione profonda per quanto essi espressero nell’agone mondiale delle arti e del sapere.
Sindaco avv. Serafino Orlini: la carica, senza data, tempera su carta, cm 48x34 (collezione eredi Antonio Orlini)
ed elevarsi al rango di artista a tutto tondo. Nel contempo cercava di uscire dall’opera bidimensionale dedicandosi alla scultura in terracotta e perfino alla ceramica, anche se per dare forma plastica alla caricatura. In quel periodo si cimentò, appunto, nelle opere plastiche, preferendo alla terracotta la ceramica (con gustose ‘illustrazioni’). In quest’ultima trasportava la ritrattistica satirica prendendo a soggetti gli amici della nostra cerchia. Tra gli altri c’ero anch’io con un mezzo busto di piccolo formato che successivamente volle dipingere e che tuttora conservo gelosamente. Pensi che l’essersi maturato da autodidatta abbia potuto ritardare lo sviluppo o favorito l’indipendenza dagli schieramenti artistici dominanti? Il fatto di non aver seguito studi artistici regolari lo ha reso refrattario ad ogni “ismo” e lo ha indotto a perseguire senza tentennamenti un personale modo di esprimersi.
Anch’io ne seguivo con curiosità la produzione e notavo la sua ansia di diventare “pittore”, di trovare un proprio linguaggio, facendo leva sul talento naturale. Utilizzava materiali con procedimenti personali per andare oltre le deformazioni figurali
Stando a contatto con lui avevi certamente capito il suo carattere fin da allora piuttosto definito. Un carattere che non ha mai mutato, perché patrimonio indissolubile del suo DNA.
Avv. Gigi Romanucci: l’ “aringa”, senza data, tempera su carta, cm 48x33 (collezione Luigi Romanucci)
Le contorsioni all’anice del dott. Silviano Meletti, senza data, tempera su carta, cm 33x48 (collezione eredi Silviano Meletti)
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Palazzo dei Capitani, 1960, olio su tela, cm 40x30 (collezione Serafino Fiocchi)
II Tempo L’affermazione a Milano
Benedetto Marini: Senatore… aggiunto, 1958, tempera su carta, cm 45x30 (collezione Benedetto Tito Marini)
Chiesa di San Francesco, 1960, olio su tela, cm 40x30 (collezione S. Fiocchi)
dello stesso Fusco e le illustrazioni per i Racconti della Domenica che il quotidiano aveva avviato con prestigiose firme. Al primo ritorno a Colli del Tronto Tullio portò in regalo a suo padre un televisore, anche per farsi perdonare di aver abbandonato l’università a quattro esami dalla laurea di giurisprudenza. In seguito a Milano gli si aprirono altre strade, come quella che lo condusse da Oreste del Buono e alla rivista “Linus” (1970), o quella che gli fece conoscere Emanuele Pirella con il quale stabilì un sodalizio storico: uno illustrava le caustiche battute satiriche dell’altro con l’appuntamento settimanale di Tutti da Fulvia sabato sera, prima sul “Corsera” (1976-1978), poi su “Repubblica” dal 1982 al 2009, quando Pirella fu colpito da malattia (morì nel marzo 2010). Le tematiche culturali e di costume erano moderne, sintetiche, graffianti, vera invenzione di nuova satira. Insieme avevano realizzato su “L’Espresso” intere pagine, copertine (tra cui quelle dedicate allo sfortunato Presidente della Repubblica Giovanni Leone) e dato vita al “Dottor Rigolo”, sprovveduto direttore di giornale alle prese con le riunioni mattutine di redazione…
Puoi ricostruire con esattezza l’avventurosa partenza di Pericoli da Ascoli alla ricerca di un lavoro più gratificante e redditizio? A visitare la mostra di Ascoli del 1960 venne una giornalista americana del “New York Times” che lo spronò a lasciare la provincia per tentare le opportunità della grande città e gli diede il biglietto da visita di un collega della redazione romana. Pericoli partì speranzoso con una cartella di disegni e incontrò il giornalista che si mostrò favorevolmente impressionato. Si presentò pure alla redazione de “Il Travaso”, a quella de “L’Espresso” e in altre sedi di giornali. Fu apprezzato, ma non approdò a nulla. Però conobbe il figlio del pittore Marussig, anch’egli giornalista, che gli suggerì di scrivere a Cesare Zavattini e di inviargli un disegno di piccolo formato, 6x6 centimetri, per la sua collezione di mini-quadri. Tullio seguì il consiglio e inviò allo scrittore-sceneggiatoregiornalista un autoritratto. Dopo pochi giorni Zavattini rispose invitandolo a Roma. Con la solita Una volta a Milano ovviamente i vostri rapporti cartella Tullio ripartì alla volta della capitale. si diradarono. Zavattini ammirò i suoi disegni e gli consegnò un Naturale. Però questo non significò mai un biglietto di presentazione per l’eclettico e fantasioso rallentamento dei vincoli di stretta amicizia. scrittore-giornalista-attore Giancarlo Fusco che a Milano conduceva una vita molto movimentata, Marco Scatasta ha raccontato3: «[…] i primi tempi furono duri e le sue lettere da nottambulo di night. Il nostro partì con 90mila disperate: io gli facevo coraggio consigliandolo di lire in tasca. Era il 1° maggio 1961. Fusco lo non cedere. […] Tullio a me invece scriveva spesso, accolse benevolmente, ma per circa un mese non lo presentò a nessuno. Gli pagò solo qualche còlto dalla malinconia, forse perché credeva che lo cena. Intanto Tullio, come uno studente, aveva capissi: mi mandava disegni con lui piccolissimo preso in affitto una stanza. Una notte Fusco gli sperduto in mezzo alla folla milanese o uno fece conoscere Angelo Rozzoni, vicedirettore de “Il intitolato “A piè pari” con lui che saltava i pasti Giorno”, che lo incaricò di fare 3-4 disegni al mese oppure che si arrampicava su una fune per sfuggire per 25-30.000 lire ciascuno (allora era una buona alla città nebbiosa, verso un cielo limpido, con luna Il giudice, 1960, tecnica mista su carta, cm 46x32 somma), i disegni per un racconto di gangsterismo (collezione Luigi Romanucci) e stelle, ma la corda si spezzava e ripiombava giù.
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(a piè pari)
(fune spezzata)
“Finalmente - mi annunciò con il collage di lettere ritagliate - Il Giorno di mercoledì e giovedì. Finito il tempo dello spago!” […] Mi accorsi che si era liberato di me (ero un suo padre putativo da beffeggiare perché gli dicevo che non doveva pensare al guadagno ma a lavorare sodo) e che era cresciuto, solo quando mi mandò, in risposta ad una mia solita lettera di consigli, una caricatura, questa volta somigliantissima, in cui io, vestito da prete, col dito alzato lo rimproveravo come sempre: la sua testa occhialuta, da un canto, mi faceva una fragorosa pernacchia.» Pure con te si lamentava? …Anch’io ero considerato un suo padre putativo, ma nei miei confronti era meno incline alla confessione dei suoi stati psicologici; forse mi riteneva ancora il suo primo datore di lavoro. In un’intervista del 1988 Tullio ha affermato: “Sono riconoscente ad Ascoli Piceno, perché incapace di darmi stimoli, mi ha costretto ad emigrare”. A Milano percorreva con grande determinazione la sua strada per poter raggiungere l’obiettivo prefissato di Artista. Subentrò in lui l’ambizione di andare oltre la caricatura istintiva ed essenziale dalle esasperazioni espressionistiche e ironiche che lo
Paesaggio, 1981, acquarello su carta, cm 57x76
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(pernacchia a Marco)
avrebbero portato nella più ‘dignitosa’ area della ritrattistica. La considerazione va collegata all’elevarsi della sua cultura e quindi all’evolversi della sua arte. Egli era sempre in cerca dell’originalità senza mai cadere nell’esagerazione e nell’ovvio. La sua crescita non s’è mai fermata e compiuta, così come la sua introspezione. Successivamente ebbe modo di far valere la sua identità come ritrattista e disegnatore; mentre i dipinti materici erano in fase esperienziale. Nella ritrattistica, in fondo, aveva sfruttato il lavoro di caricaturista che gli consentiva di cogliere i caratteri fisiognomici dei personaggi, rafforzato dal bisogno di definire i soggetti con un segno più raffinato e penetrante. È noto - egli stesso lo confessa tuttora - che i soggetti dei suoi ritratti non hanno come primo impatto la fedeltà fisiognomica ma soprattutto l’interpretazione del pensiero e dell’attività dei personaggi. Secondo me restava in lui il desiderio di compensare l’attività “pubblica” di grafico con quella “privata” di pittore, specialmente per il desiderio di diventare un artista con la A maiuscola. Il passaggio dal disegno alla pittura non va ascritto a una
Sala Garzanti, lunetta sud, 1988, inchiostro e acquarello su cartone, cm 102x58 (courtesy Fondazione CARISAP)
considerazione di capacità. Più che di un “salto” parlerei di scelta evolutiva. Praticamente si è dedicato intensamente alla pittura ad olio e alle tecniche miste dopo aver ottenuto il massimo con l’acquarello usato con grande leggerezza4. A ben guardare il lavoro professionale per la carta stampata gli ha insegnato ad essere più ‘leggibile’, a dialogare con la realtà quotidiana e a finalizzare l’attività creativa; gli ha fatto guadagnare esperienza, popolarità, stima; gli ha dato la possibilità di conoscere personalità della cultura e di crescere intellettualmente. Anche lo studio dei vari personaggi per la “fabbrica” del ritratto ha giovato alla sua cultura. D’accordo in pieno.
La committenza della Sala Garzanti lo ha inorgoglito sul piano della scelta, ma soprattutto l’ha messo alla prova in un’opera murale. E ne è derivata una quantità di commenti positivi. Se n’è avuta la conferma quando nel 1987 venne chiamato a dipingere tre grandi tele per la residenza di Carlo Caracciolo a Torrecchia di Cisterna (Latina). Il successo fu notevole, tanto che nel 2004 i dipinti vennero esposti nel Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma.
Nel tempo ha cercato di far prevalere i lavori pittorici a cui aveva aspirato fin dagli inizi. Credi che con i paesaggi sia riuscito a bilanciare l’attività grafica in cui si è largamente affermato? La risposta viene data dall’approvazione della critica, ma soprattutto dalla sua piena partecipazione alle diverse forme Nel sistema dell’arte qualcuno crede Robert Luis Stevenson, 1986, acquarello e china su carta, cm 57x38 artistiche che va letta attraverso una sua ancora che la committenza possa nota dichiarazione secondo la quale limitare la libertà espressiva ignorando i precedenti storici e la pelle dei ritratti che realizza è pari alla pelle dei terreni che sottovalutando gli aspetti moderni. interpreta pittoricamente. Non è il caso di Pericoli, che ha coltivato con ferrea volontà e libertà ogni espressione artistica. Anche ad Ascoli ha avuto i riconoscimenti che merita, specialmente da chi ricorda il percorso che lo ha portato Forse neanche Tullio aveva compreso subito l’importanza ad affermarsi. (non commerciale) di certi ‘incarichi’. Giustamente, operando Pericoli assegna alla marchigianità e alla terra d’origine un come ‘interprete’ inventivo, ha sempre contestato la qualifica significato profondo. Certamente dovrà avere altri consistenti di ‘illustratore’. Anche questo indica che mirava ad altro… riconoscimenti. L’impegnativa installazione disegnativa della Sala Garzanti, nonché le scenografie e i costumi per il teatro, gli hanno offerto Pure i temi trattati - da quello popolare della caricatura e del l’occasione di confrontarsi con la committenza e di mostrare la sua ritratto a quello del nostro paesaggio - hanno contribuito alla versatilità. ‘mitizzazione’ del personaggio; anche se ciò a volte potrebbe
L’Elisir d’amore, 1998, acquarello e inchiostro su carta, cm 37x49,5
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GALLERIA DI RITRATTI
Cesare Zavattini, 1992
Emanuele Pirella, 2010
Antonio Tabucchi, 1992
Carl Gustave Jung, 1986
Lev Tolstoi, 1992
Salvatore Settis, 2010
Italo Calvino, 2010
Da Rembrandt, 2011
Virginia Woolf, 2012
Dario Fo, 1997
Pier Paolo Pasolini, 1986
Gillo Dorfles, 2007
impedire di apprezzare le qualità dell’opera oltre la superficie. Quella che tu chiami “mitizzazione” in effetti non è altro che lo spontaneo riconoscimento della sua statura artistica. Nel 1965, alla Galleria Rosati di Ascoli, propose un nutrito nucleo di lavori grafici e una serie di piccoli dipinti quasi tutti dello stesso anno, che evidenziavano come si stava evolvendo mentre era a Milano. Nel 1987 la mostra itinerante «Quarantanove ritratti per “L’Indice”» toccò anche la nostra città. La prima conoscenza dei suoi paesaggi (acquarelli e china su carta) nel Piceno si ebbe nel 1996 con “Tullio Pericoli. Le stagioni del paesaggio”, che io stesso curai presso la Stamperia-Galleria dell’Arancio di Grottammare. All’inaugurazione c’eri anche tu e molti altri suoi amici ascolani. L’evento fa parte dei ricordi incancellabili legati al cammino artistico di Tullio. Anche in quella occasione raccolse critiche positive e la mostra riuscì pure sul piano commerciale.
Pericoli al tavolo di lavoro nel suo studio di Milano (ph L. Marucci)
degli ascolani a Milano nel 1998 per assistere al Teatro alla Scala a “L’Elisir d’amore” di Donizetti, nuovo allestimento dopo l’edizione del 1995 all’Openhaus di Zurigo (nel 2002 vi curò anche “Il turco in Italia” di Rossini), dove emergevano le sue suggestive scenografie e gli originali costumi. Non potevo mancare, con altri amici, all’affettuoso invito per scoprire le sue performance lirico-teatrali. Confesso l’emozione che provai all’apertura del sipario, alle prime note della musica donizettiana e agli squarci della sua meravigliosa scenografia. I maestosi fondali e l’eleganza dei fantasiosi costumi colpirono anche me, specie in rapporto alle voci degli interpreti che un po’ si perdevano nel grande Teatro. L’impatto complessivo era veramente suggestivo.
III Tempo Il ritorno nelle Marche
Abitando la campagna di Rosara di Ascoli, specialmente nel periodo estivo, Pericoli è passato dal Poi sono seguiti incontri pubblici e Pericoli con la critica d’arte Lea Vergine (ph L. Marucci) paesaggio virtuale a quello reale, altre personali. dove affondano le sue radici, Una celebrazione si ebbe con la mostra tematica - che tu stesso interpretando pure il bisogno della collettività che vuole ritrovare sollecitasti con il servizio sul “Corriere Adriatico” - a Palazzo dei le bellezze della natura nei suoi vari aspetti. Vivendoci dentro, Capitani del 2000 con i disegni per Casa Garzanti acquisiti dalla l’ha eletta a luogo privilegiato per osservarla da vicino attraverso Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli5. Voglio sperare che continuino ricordi e visioni ideali. Sembra che abbia voluto costruire anche ad esserci altri eventi, a riprova del suo mai interrotto percorso fisicamente una porzione di paesaggio curando le piantagioni all’interno della storia dell’arte. come il protagonista del libro “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono da lui illustrato. Pensi che in questo ambiente familiare Una manifestazione di stima e di affetto fu pure la trasferta la sua pittura atipica possa avere ulteriori sviluppi?
L’Artista nel giardino della sua villa a Rosara di Ascoli Piceno (ph L. Marucci)
…nel suo studio di Rosara (ph L. Marucci)
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Paesaggio delle Marche, 1992, acquarello e china su carta, cm 38x57 (collezione privata)
Non si può misurare la pittura di Tullio sulla residenza estiva di Rosara. Non è da escludere, però, che quel panorama possa ispirarlo costantemente. Nella sequenza di paesaggi, rassicuranti o tormentati, esposti alla personale “Sedendo e mirando” del 2009 presso la Galleria d’Arte Contemporanea di Ascoli, aveva messo in luce la progressione della ricerca non soltanto estetica. In quella circostanza ha rivelato nuovi procedimenti tecnici dove protagonista è il segno differenziato, costruttivo ma non più descrittivo. Combinandolo con il colore formalizzava ideazioni sempre diverse per focalizzare porzioni di paesaggi aerei, indeterminati, isolati e seriabili. Coniugava così immaginario, pensiero, memorie intime e culturali. Ritieni che, andando avanti, azzardi l’uscita dal suo collaudato paesaggio? No. Il paesaggio è stato sempre presente nella sua pittura: inizialmente meno visibile, ora protagonista. Alla fine del novembre scorso con un aereo da turismo gli hanno fatto sorvolare l’alto Lago di Garda perché dal cielo ‘ritraesse’ quel paesaggio. Così sono sorte circa sessanta opere su carta, di diverse dimensioni e tecniche (olii, acquarelli e matite), che sono esposte al MAG di
Mappa, 2009, olio e matite su tavola, cm 14,5x18
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Vaso, 1998, acquarello e china su carta, cm 76x57 In questa opera l’artista fa deflagrare la coppa e manda in frantumi la natura morta facendola rivivere con visionaria ironia. Ci restituisce così un’originale versione di questo genere classico. Nel liberatorio processo di de-costruzione le schegge vegetali disseminate nello spazio prospettico creano una metamorfica interazione tra ordine codificato e caos inventivo; un continuum tra l’organica iconografia originaria e l’inVaso paesaggio rinaturato, offrendo alla percezione un’ariosa immagine scenografica, più estesa non soltanto in senso orizzontale… (lm)
Regioni, 2007, olio su tela, cm 50x50
Gioacchino Rossini, 2012, olio e matite su tela, cm 60x60, opera esposta alla mostra Quelques riens pour Rossini, Galleria Franca Mancini, Pesaro
Nella serie di opere dedicate a Rossini l’artista ha combinato, in modo ancor più evidente, il medium grafico con quello pittorico per esibire armonicamente, in forme figurali e aniconiche, i caratteri fisiognomici dell’estroso compositore nello scenario naturaleteatrale-musicale del suo vissuto. (lm)
al massimo il suo ingegno, è arrivato dove voleva. Pure se è Riva del Garda nella mostra Areonatura. Lo sguardo di Tullio Pericoli, a cura di Claudio Cerritelli, inaugurata il 21 marzo e visitabile fino al incontentabile, ti sembra soddisfatto dei risultati raggiunti? 2 novembre. Come consuetudine il Museo Non posso giurarlo, ma ritengo che gardesano acquisterà un nucleo di lavori che intimamente lo sia. Sul piano della ragione è andranno ad arricchire il suo patrimonio sempre alla ricerca del meglio. artistico. Inoltre il MART di Trento e Rovereto, dal 9 maggio all’8 giugno, ha Probabilmente avverte che il suo lavoro è allestito circa 50 sue opere, selezionate tra legittimato dal fatto che opera nel filone quelle pubblicate nel volume I Paesaggi della tradizione italiana figurativa alla (Adelphi Editore, 2013), che l’artista quale può dare una continuità soggettiva marchigiano ha voluto dedicare “alla luce, e che oggi è molto diffuso il bisogno di ai colori, alla natura e alle forme della mia Pericoli con Umberto Eco all’inaugurazione della mostra di Pesaro Natura. terra natale”. Con l’uscita del volume di Adelphi e In questi voli… ribadisce la tendenza a esplorare con curiosità e le mostre in varie città italiane ed estere la critica ha giudicato intento innovativo luoghi che possono stimolare visioni altre, anche favorevolmente la sua opera. se ha prodotto già panoramici brani di natura. Tornando a Rosara, chiaramente è la riprova più tangibile dell’attaccamento alla terra delle sue origini, del tutto funzionale alla tematica pittorica affrontata. È una palmare considerazione, dal momento che non ha mai accantonato la ‘sua’ terra. Ora senza dubbio siamo alla fase dell’esaltazione.
Al termine di questa conversazione rievocativa vorrei precisare che le mie ‘memorie’ non hanno un valore biografico esaustivo. Si tratta di una testimonianza su un Pericoli in… borghese, dettata da affetto e ammirazione, con la nascosta presunzione di aver contribuito alla sua nascita di artista militante: da quando, bambino, i Nei suoi paesaggi, che pure compagni lo chiamavano “Tutù” evidenziano le tracce del lavoro al periodo in cui lavorava per “Il umano, raramente figura Messaggero”; dalla dimensione l’uomo comune. provinciale alla notorietà della In certe vedute paesaggistiche c’è, anche se non “comune”. metropoli lombarda. Le altre Penso a Matisse, Rembrandt… rapide ‘osservazioni’ riguardano alcuni momenti significativi Si può dire che con decisione Areonatura (tavola XXI), 2013, matita su carta, cm 30,5x30,5 (© Museo Alto Garda e © Tullio della sua carriera. e pazienza, sfruttando Pericoli per le singole opere)
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Dopo i puntuali ricordi, alquanto privati, di Carlo Paci in risposta alle mie domande-stimolo, mi sembra opportuno concludere questo excursus confidenziale aggiungendo qualche altra considerazione per il piacere di rileggere l’opera di Pericoli dopo gli ultimi esiti, essendomene occupato in varie occasioni negli anni scorsi6. Più che altro sono impressioni sul suo fare artistico in generale. Del resto non è questa la sede idonea per approfondite analisi critiche. Innanzitutto va riconosciuto che la sua multiforme produzione scaturisce da ricca inventiva e indubbia capacità tecnica; dalla perseverante ricerca di inusuali mezzi linguistici all’interno di codici storicamente consolidati; dall’assoluta libertà per affermare un’idea dell’arte controtendenza. Non a caso è stimato principalmente dagli intellettuali che badano più alla qualità delle opere che alle dinamiche del sistema dell’arte. Vedi Umberto Eco (uno dei suoi più lucidi ammiratori) o Salvatore Settis - promotore con Oliviero Toscani del progetto “Nuovo Paesaggio Italiano” per la difesa della natura intesa come bene comune - che, proprio per la riproposizione di un paesaggio contaminato solo dalla cultura, lo aveva invitato ad esporre un esemplare ‘trittico’ nel Padiglione Italia della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 2011. Anch’io mi allineo a questi, pur seguendo prioritariamente le esperienze più trasgressive del contemporaneo e l’interdisciplinarità dell’arte che tiene conto della complessità culturale e sociale del mondo globalizzato. Pericoli da artista-intellettuale ha grandi potenzialità da esprimere e tenacia per far valere le sue motivazioni. A differenza di molti creativi che sfruttano il proprio stile, guarda sempre avanti, sia pure con rispetto della tradizione. Data la sua forte individualità, si può dire che nella babelica scena artistica occupi un posto a sé. Ancora oggi lavora per privilegiare il valore dell’opera rispetto a quello del mercato. Così anche nella pittura ad olio è riuscito a ottenere risultati sorprendenti. Dalle iniziali caricature fino agli attuali dipinti ha conosciuto una vistosa quanto coerente evoluzione, passando dall’umorismo esibito e spontaneo all’ironia sottile e cólta, dalla figurazione espressionistica, fiabesca e rappresentativa, a quella calibrata, nutrita di legami letterari, maggiormente articolata e inventiva. I paesaggi degli ultimi tempi hanno perso una parte delle componenti morfologiche realistiche a vantaggio della trascendenza lirica. In essi si avverte una diversa tensione sperimentale dal lato strutturale e fantastico; l’armonica associazione di elementi derivanti dall’esperienza che conferiscono all’opera bidimensionale un carattere ibrido grafico-pittorico e talvolta perfino una valenza plastica; il transito all’astrazione evocativa e poetica, dove l’idea fa corpo con la forma. Non è da escludere che di questo passo il lavoro avrà ulteriori sviluppi. Il suo linguaggio può essere considerato alternativo a certo modernismo manieristico fatto di modalità impersonali. In verità Pericoli è un citazionista nato, ma non preleva passivamente dall’esterno: assorbe e metabolizza per finalità costruttive. Lo fa con lo spirito del ritrattista che osserva con acutezza ottica e psicoanalitica per re-interpretare. E nell’attingere ai ricordi del vissuto è perfino autocitazionista. In sintesi, di lui mi interessa, in particolare, l’uso di nuovi strumenti comunicativi; la chiarezza e la levità del messaggio; l’estensione del segno, che arriva ad interagire con l’architettura e il teatro, e acquista una funzione pubblica uscendo dallo spazio privato; la socializzazione delle opere a più livelli. Ovviamente non è da trascurare la ritrattistica che tra l’altro lo ha portato a individuare con più aderenza-incisività-originalità gli autentici caratteri territoriali e culturali del paesaggio facendogli assumere i connotati dell’autoritratto… Sulla sapienza manuale di Pericoli rimando all’ultimo libro-intervista “Pensieri della mano” (Piccola Biblioteca Adelphi, 2014) in cui egli svela i segreti del mestiere. (L. Marucci) Note 1.
Secondo le dichiarazioni dello stesso Pericoli - rilasciate al Marucci nell’ottobre del 1994 in occasione dell’intervista per l’ampio servizio che venne pubblicato nel periodico di arte e letteratura “Hortus” (n. 16/1994) - a 15-16 anni andava nella Pinacoteca di Ascoli a copiare quadri e statue di artisti del passato. Sperava che il direttore Ercolani si accorgesse di lui. Vista la sua indifferenza, gli chiese delle lezione private. Ercolani rispose che non poteva, ma che avrebbe dato uno sguardo a ciò che faceva. Quando notò che sapeva disegnare, cominciò a invitarlo nella sua abitazione dove gli consigliava cosa doveva leggere e vedere per diventare artista. Tra loro c’era stima reciproca specialmente per certe comuni visioni umoristiche, sebbene il linguaggio del maestro fosse più legato alla fiaba popolare e quello di Pericoli più orientato verso l’immagine interiore, surreale.
2.
La personale si tenne nel 1980 presso la Galleria Il Milione di Milano. In un dialogo con Italo Calvino, pubblicato in catalogo, entrambi sottolineavano l’importanza di ispirarsi a modelli e si definivano “ladri” di parole, motivi e tecniche. Da Klee Pericoli ebbe lo stimolo verso la perseverante ricerca e un’iconografia nuova.
3.
Marco Scatasta, Ricordo di un artista da giovane, catalogo della mostra Pericoli - Opere Prime, Ascoli Piceno, luglio-agosto 1996.
4.
In più occasioni Pericoli ha ricordato che il suo desiderio di fare il “pittore sulla carta stampata” si concretizzò lavorando a “L’Espresso” attraverso immagini colorate, ma il passaggio dalla grafica alla pittura (ad acquarello) avvenne tra il 1980 e il 1983-1984, quando, su incarico di Giorgio Soavi, illustrò per la “Olivetti” il libro Robinson Crusoe di Daniel Defoe. In quei lavori riversò tutte le risorse grafiche, pittoriche, culturali e, fondendo pittura e disegno, paesaggio e ritratto, si liberò dal conflitto tra il ruolo di pittore e quello di illustratore. Alla fine degli anni Novanta riprese a lavorare con la tecnica ad olio - che in passato non gli aveva dato esiti soddisfacenti - anche perché voleva interrompere la routine dell’acquarello per avere altri stimoli e trovare la via giusta per distinguersi e raggiungere i risultati voluti. Nell’acquarello otteneva la luce dal supporto bianco e procedeva per aggiunte successive; nell’olio riusciva ad averla combinandolo con la tempera.
5.
La mostra tematica prese avvio da una pagina - curata dal Marucci per il “Corriere Adriatico” del 12 settembre 1999 - con un’ampia lettura dell’opera in argomento e un’intervista all’autore. Nel servizio giornalistico veniva ricordato come la Fondazione CARISAP - che nel 1990 aveva acquistato i disegni preparatori e i cartoni di un dipinto nella Sala delle Conferenze (progettata da Gio Ponti) della Casa Editrice Garzanti in Via della Spiga 30 a Milano - non avesse ancora ottemperato all’impegno di presentarli al pubblico. La mostra si tenne dal 25 giugno al 30 settembre 2000. L’opera installativa era stata commissionata da Livio Garzanti. Pericoli la realizzò dall’autunno 1987 all’estate 1988. L’artista ha raccontato al Marucci che, quando Garzanti vide i disegni e gli chiese se quello raffigurato fosse il paesaggio marchigiano, egli rispose: - È il paesaggio che ho dentro, quello di cui non posso fare a meno. Oggi quei disegni sono esposti in permanenza nella Galleria d’Arte Contemporanea di Ascoli.
6.
I testi sull’artista, pubblicati su quotidiani, riviste e cataloghi, sono riportati nel sito www.lucianomarucci.it. Riguardano gli ultimi due decenni fino alla recensione della personale Quelques riens pour Rossini del 2012 alla Galleria di Franca Mancini a Pesaro.
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L’IMPRONTA DELLA PAROLA di Nanda Anibaldi
Struttura vocalico/consonantica. M+a uguale a ma. Segmento monosillabico. Ma+re.. bisillabico. Ma+ri+na... trisillabico. Ma+ri+na+re.... quadrisillabico. Ma+ri+na+re+sco..... polisillabico. Assemblare. Mettere insieme. Costruire mattone su mattone. Ognuno con un suo significato. Con una sua identità e dignità. Con una sua carta d’identità che ha sede in uno speciale ufficio anagrafe. Nasce per chiamare le cose. Perché abbiano un nome. Una precisa connotazione. Mette in relazione la struttura del pensiero con la struttura del reale rendendoli visibili sonori tattili. Si stabilisce una sorta d’interattività. Se è vero che il pensiero s’arricchisce attraverso la parola che lo traduce è anche vero che la parola acquista spessore e solidità ritornando al pensiero. Parola-pensata. Parola-parlata. Parola-scritta. La parola nasce dalle cose e va al pensiero; rinasce dal pensiero e rimbalza sulle cose facendole uscire dal loro anonimato perché acquistino una valenza giuridica politica economica artistica. Perché assumano la sembianza. O meglio il volto. E in questo procedimento di selezione, di scelta, si ravvisa una posizione etico/morale dal momento che scegliendo se ne riconoscono l’ineluttabilità e la sacralità. Essenziale per pensare per parlare per scrivere per conversare per dialogare, si formalizza in Nanni Balestrini, Silenzio (Veronese: Ritratto di gentildonna), 1966uno straordinario gioco combinatorio/concettuale. 2013, inkjet su tela, cm 120x80 (collezione privata) Crea e sostiene la metafora come il pilastro di una cattedrale. Bisticcia nell’ossimoro con cui si sposa. S’incunea nell’emozione. Si coniuga. S’allea. Prende le distanze. È leale. È sleale. Complice. Traditrice. Inferno e paradiso. Batte sulla materia fino a penetrarla. Investe la fisicità. Mani. Piedi. Occhi. Non solo il cuore. È dentro le cose. Bisogna aiutarla a uscire. Farla andare tra la gente. Che deve riconoscerla. Deve far nascere nuove idee . Deve far uscire la forza della vita. Delle idee. Il profumo dell’amore. Il dramma degli interstizi. L’armonia della musica. La dolcezza di un incontro. Deve uscire non solo il senso ma il nucleo. Il genoma concettuale. Che teme la luce del sole ma è ladro nella notte. Che ne ruba le ombre. Le morbidezze. Le ostilità. Le delittuose essenze. Gli oblii e gli abbandoni. Non può sottrarsi alla scelta. La ricchezza è nel suo carattere. Perfettibile. Perfezionabile. Non concede sconti. Annusa la preda come cane da tartufo per poi penetrarla con la velocità e la forza di un falco. È un’arma a molti tagli. Può scalfire ferire uccidere. Si diverte con il tiro a bersaglio. Se è preciso va dritto al centro. Che è il cuore di ogni paese. Di ogni città. Che batte e pulsa come il polso di un malato che si gira a stento nel suo letto. Parole contro: poesia visiva, art-bit design&c Ma anche come il cuore di un cavallo vicino al suo traguardo.
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di Nanda Anibaldi
L’errore dentro la natura. La verità dentro le cose. La parola non crea la distinzione ma la chiama. Al momento che chiama distingue e ricrea. E fa uscire la verità dal suo anonimato per darle un nome. Un senso. Ma s’incrocia con l’errore che la mistifica. A sua volta l’errore si coniuga con la verità fino a far diventare verità l’errore stesso. Una Babele non solo di lingue ma di pensieri e di azioni che si traducono maldestramente passando da un luogo all’altro. Una casa dove gli oggetti sono al posto sbagliato. Bisognerebbe ricollocarli però con il beneficio del dubbio. Invece ciascuno assume posizione pensando di possedere la verità e di poterla gestire non solo per sé. S’intersecano prosopopea e arroganza. Fino a che non si sciolgono le fila e ricomincia un nuovo girotondo. Ballo ingenuo di un bambino che muove i primi passi in attesa di un ballo adulto. Dove a passi incerti si alterneranno passi più maturi. Più sicuri. Più studiati e consapevoli. Che non scivolino in passi falsi. La posta è alta. Bisogna essere accorti. Attenti. Non siamo soli. Bisogna pensare alle cose da dire ma soprattutto da fare. Misurare bene lo spazio e il tempo. Variabili dipendenti. Assumere consapevolezza. Responsabilità. Senso della realtà. Sobrietà. Impegno fuori dall’egoità e dall’egoismo per essere nell’alterità e nell’altruismo. Attacco di panico? Ci può stare. E sarebbe bene che prendesse alla gola per mozzare il respiro. Non potrebbe passare inosservato. Così si attiverebbe il tempo della decisione. Nella direzione del buon senso e del benessere per tutti considerando le debite differenze. Un’uguaglianza sostanziale che tiene conto della diversità. Che cosa accadrebbe se si verificasse il contrario? Se rovesciassimo il cilindro? Probabilmente si scoprirebbe l’inganno dell’illusionista. Emilio Isgrò, Suggerimento, 2012-2014 (courtesy l’Artista) 16 HAT n. 59 | 2014
LO SPAZIO COSMICO DI ALBERTO DI FABIO di Anna Maria Novelli
I
l pittore Alberto di Fabio (Avezzano, 1966) sta vivendo un momento di intensa attività e di lusinghieri consensi. Dai primi di aprile a maggio ha tenuto una mostra alla Gagosian Gallery di Ginevra ed ha avuto il privilegio di presentare i suoi lavori, in dialogo con Fabiola Gianotti (portavoce del progetto ATLAS), in una conferenza presso l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare, che ha sede a Meyrin, nei pressi della città elvetica. Per intenderci, quel CERN che nel 2012 ha scoperto il Bosone di Higgs (la Particella di Dio). Per chi non lo sapesse, la Galleria dello statunitense Larry Gagosian (che lo rappresenta) è la più importante del mondo: 12 sedi dislocate a New York (due + uno shop in Madison Avenue di prossima apertura e altri due spazi in Park Avenue e in Lower East Side che ospiteranno opere di Urs Fischer), due a Londra, tre a Parigi e dintorni, una a Los Angeles, Hong Kong, Atene, Roma e, appunto, a Ginevra. L’evento al CERN - che avrà un seguito in autunno con una residenza d’artista di tre settimane in cui Di Fabio lavorerà in équipe con alcuni ricercatori e in contemporanea con l’artista tedesco Anselm Kiefer - si è concretizzato perché le sue opere sono particolarmente legate alla scienza. Traggono ispirazione dal Cosmo e indagano su reazioni chimiche, fusioni minerarie, atomi, neuroni, fotoni, stelle, galassie e sul sistema neuronale. L’artista dipinge questi elementi utilizzando colori brillanti e spesso allestisce le grandi tele in sequenze pittoriche che generano un coinvolgimento emozionale. Una frase dello scrittore fantascientifico americano Ray Branbury, che tra l’altro ha scritto Farheneit 451 da cui è tratto il famoso film, sembra appositamente ispirata dalla ricerca artistica di Alberto Di Fabio: Science isn’t but the explanation of a miracle which we can never explain and art is an interpretation of that miracle. (La scienza non è che la
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Alberto di Fabio, Contatto n. 5, 2010, acrilico su tela, cm 60x60 (courtesy l’Artista e Gagosian Gallery; ph Matteo D’Eletto)
Campi magnetici, 2013, acrilico su tela, cm 80x80 (courtesy l’Artista e Gagosian Gallery; ph Matteo D’Eletto)
Doppia realtà, 2013, acrilico su tela, cm 60x60 (courtesy l’Artista e Gagosian Gallery; ph Matteo D’Eletto)
spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l’arte è un’interpretazione di quel miracolo). Di Fabio ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma e ha completato la sua formazione a Parigi e a New York dove è vissuto per un decennio. Pur avendo mantenuto lo studio nella città americana, attualmente preferisce stare a Roma. Nel 2000 ha cominciato a dedicarsi all’ecologia applicata e della mente. Ha acquistato un’intera vallata nell’Isola di Ponza, vi ha piantato circa duecento alberi e ha trasformato una grotta in casa vivibile dove periodicamente ospita mostre e concerti. Dopo l’esposizione di Ginevra ne ha inaugurata subito un’altra, più ampia, a Castel Sant’Elmo di Napoli, che resterà aperta fino a metà giugno. Inoltre, a Castelbasso (TE) gli verrà reso omaggio con una personale dal titolo Paesaggi della mente, a cura di Laura Cherubini e di Eugenio Viola, visitabile dal 12 luglio al 31 agosto. Nel dicembre scorso l’artista per la “D’Auria Media Group” di Ascoli Piceno ha realizzato un’originale serie di opere per il Calendario d’Autore 2014 (di singolare pregio editoriale ed estetico), curato dal critico Luciano Marucci, che nella presentazione, integrata da un’articolata intervista, tra l’altro, così si è espresso: “[Di Fabio] pratica una pittura di indubbia qualità, riconducibile alla tradizione classica. A un’attenta lettura le sue opere, oltre a sorprendere per l’aspetto seducente, sono sostanziate da erudite motivazioni di fondo e dalla consueta abilità manuale. L’artista séguita a investigare e a interpretare liberamente i fenomeni extraterrestri, cercando perfino di oltrepassare il visibile. Dal punto di vista linguistico coniuga astrazione informale e geometrica, gestualità e pensiero razionaleemotivo. Concepisce l’opera come luogo di aggregazione di entità visive e mentali; cam-
Calendario d’Autore 2014, Maggio (ph Fabrizio Cicero)
po di osservazione estetica, di sperimentazione-rappresentazione e di ipotetica partecipazione al divenire del mondo. Con il sistema dei colori, densi o diafani, e dei di-segni, automatici o costruttivi, svela pure la sua sfera intima e l’irrefrenabile tensione verso un altrove inconoscibile. Coglie possibili attimi di un processo astronomico performativo eccitato dalla fantasia; fonde l’atto creativo con quello cosmico, entrambi in-controllabili, e trasforma l’azione evolutiva laica della sostanza primordiale in immagine suggestiva che irradia luceenergia vitale. Dunque, attiva una espansione-levitazione alchemica
Calendario d’Autore 2014, Giugno (ph Fabrizio Cicero)
della materia-forma e con i raffinati cromatismi favorisce percezione lirica e trascendenza. Attraverso l’associazione armonica delle diverse componenti stimola sensazioni che attraggono lo sguardo producendo incanto instabile e straniamento. Nella sequenza delle 12 composizioni, che costituiscono una sorta di installazione bidimensionale, l’accurata combinazione tonale e timbrica dei pigmenti e la loro luminosità evocano la transitorietà dei giorni e l’avvicendarsi dei mesi da sempre nell’immaginario collettivo”.
Galassie sul Castello, 2014 (dalla mostra a Castel Sant’Elmo di Napoli, courtesy l’Artista)
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MONTE VIDON CORRADO Tradizioni Personaggi Tramonto di un’industria di Giuseppe R. Serafini La treccia di paglia
N
el comprensorio collinare sito sul versante sinistro medioalto del fiume Tenna i coloni, oltre alle attività propriamente rurali, si sono dedicati alla confezione di trecce per cappelli e per ventole da fuoco. In assenza di documenti e fonti storiche è scarsamente accertabile quando iniziò la lavorazione della paglia, ma i mezzadri e i contadini che erano soliti incontrarsi nelle stalle per intrecciare - raccontandosi fatti di vita e aneddoti sulle tradizioni - hanno tramandato, attraverso il canale dell’oralità e una filiera inalterata, un patrimonio di ricordi e memorie antiche. Grazie alla singolare capacità dell’uomo di opporre il pollice all’indice e alle altre dita, il cappello di paglia può realizzarsi interamente usando le mani come unico strumento e non è difficile intuire che la tradizione locale di intrecciare paglie trova le proprie origini in epoche addirittura precedenti alla dominazione romana. I commercianti al minuto della zona che in ogni regione d’Italia fecero banco di vendita del cappello di paglia e che ebbero il merito di aver preservato l’area produttiva dall’estinzione nei periodi di crisi, durante il secondo conflitto mondiale videro i loro profitti ridursi drasticamente. Le piccole imprese, per la irreperibilità di alcune materie prime, contribuirono a far aumentare la disoccupazione. I danni della guerra e la grande inflazione furono devastanti e costrinsero la maggior parte delle famiglie a vivere in condizioni di indigenza. All’indomani della liberazione l’iniziativa imprenditoriale fece registrare un certo risveglio nelle zone confinanti con la provincia di Macerata e precisamente nei paesi di Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado, Falerone e Piane di Falerone. I venditori ambulanti, ridotti a un limitato commercio sui mercati locali, con la progressiva motorizzazione e la nascita delle prime strade interpoderali, poterono raggiungere mete più lontane. Senza addentrarci in un’analisi dettagliata delle origini delle iniziative industriali sul territorio, possiamo affermare che la prima fabbrica vera e propria, fornita di operai, fu impiantata a Monte Vidon Corrado nel 1863. Dalla coraggiosa attività imprenditoriale di Giulio Costanzi nacque un importante sistema di produzione in loco che generò occupazione e benessere sociale e permise al comparto di svilupparsi quantitativamente a partire dal dopoguerra del secondo conflitto mondiale, per un processo di gemmazione comune anche al vicino distretto della scarpa. Come in tutta la zona, la nascita delle imprese era sfavorita da un’economia basata fondamentalmente sull’agricoltura ma, nonostante le difficoltà, esse si costituivano e venivano avviate e sviluppate. Durante il Fascismo i loro proprietari, o comunque gli uomini d’affari che erano sicuramente importanti per la definizione di strategie di crescita economica, di frequente venivano eletti podestà, ma non erano bene accetti dalla cittadinanza, in gran parte formata da agricoltori. Il 26 settembre del 1944 il Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale, poiché era stato riscontrato che l’attività amministrativa dell’ex imprenditore Vito Enei era irregolare, propose all’unanimità la sua sostituzione con il maestro Superio Marinangeli, ma questi rifiutò la nomina a sindaco perché non ambiva alla carica e la riteneva incompatibile con il comportamento di alcuni membri della giunta. Il mandato fu portato a termine dal democristiano Ildebrando Fortunati e, all’indomani del ventennio, finalmente si aprirono nuove prospettive amministrative.
Veglia di trecciaiole nella stalla
Cucitura manuale dei cappelli di paglia
Giulio Costanzi (1848-1936), fondatore nel 1863 della prima fabbrica a Monte Vidon Corrado
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Il personaggio Osvaldo Licini
adesso, in foglie e fiori, verso lo sconfinato e il soprannaturale … non mi si riconoscerà più”. A circa due mesi dalle elezioni politiche Infatti la sua diventa una pittura metadel 1946 il pittore Osvaldo Licini, con fisica, nutrita di poesia, in cui domina il senso di dignità e profonda responsabisenso nascosto e ancora indecifrabile del lità, accettò di candidarsi a sindaco di mondo e dell’uomo. Monte Vidon Corrado. Il suo nome fu Le ultime opere, di cui ben 53 esposte nel avanzato da Superio Marinangeli e da 1958 alla XXIX Biennale Internazionale un gruppo di giovani paesani di estraziod’Arte di Venezia, erano la testimonianza ne sociale molto diversa. Licini - eletto di una scelta estetica che lo conduceva nella lista del PCI con il simbolo della ad esprimersi attraverso un originale spiga di grano che raggruppava i partilinguaggio del tutto personale con forme ti della sinistra - riportò un largo conimmaginarie trascendenti. Ricevette così senso. Considerato da molti un fervente il Gran Premio Internazionale per la Pitcomunista, invero non si era mai sentito vincolato a correnti politiche, anzi si era Il critico d’arte Luigi Dania (a sinistra) con l’artista Osvaldo Licini sulla balconata del tura. Purtroppo scomparve nell’ottobre dello stesso anno, mentre il mondo culsempre distinto per atteggiamento ribelle cappellificio della Ditta Marinozzi turale iniziava ad apprezzare i suoi capolavori. e libertario. Nel decennale mandato governò con assoluta imparzialità e con autentico altruismo donando la sua modesta pensione di guerra ai concittaTra realtà, ‘leggende’ e documenti dini più poveri. La scelta di vivere nel borgo natio - ricco di storia, fabbriche e gente industriosa - a contatto con una natura pressoché incontaminata, Nella rivista “CONTEMPORANEA” (volume decimoquinto - anno sesto gli permise di preservarsi da condizionamenti esistenziali e artistici. Si con- stampata a Torino nel 1858 dalla tipografia Cerutti, Derossi e Dusso) si cesse di tanto in tanto solo delle brevi aslegge: Se tale industria è stata per molsenze per partecipare alle inaugurazioni to tempo proprietà quasi esclusiva di di mostre sue o di amici. Toscana, ora essa ha peregrinato alCome pittore aveva studiato all’Accadetrove, e specialmente nei limitrofi Stati mia di Belle Arti di Bologna facendosi Romani. Così nel comune di Appone notare dal 1914 con ritratti, nature è tradizione che ve la recassero una morte e paesaggi. Amico dei futuristi fiofamiglia fiorentina fuoruscita e rifurentini, sviluppò vicino ad essi una “digiata colà. Da Monte Appone, ove ebbe mensione eretica”. I periodici soggiorni origine e dove ne è il centro, si è estesa a Parigi (dove risiedevano il padre care va propagandosi sempre più; dappritellonista, la madre modista e la sorella ma nei territorii di Massa e di Monballerina), dal dopoguerra alla metà dete Vidon Corrado, poscia in quello di Osvaldo Licini, Natura morta (cappellini), 1924, olio su carta, cm 8,5x14 gli anni Venti, gli diedero l’opportunità Falerone, ed in parte di Montegiorgio, di frequentare i più grandi Maestri dell’arte moderna. paesi tutti della provincia di Fermo. Sopra 12.929 persone componenti Nel 1924 realizzò una “Natura morta”, legata all’immagine del cappello, la popolazione di quei comuni si contano 4.650 lavoratori, i quali proin uno stile riconducibile a un figurativo post-impressionistico. Negli anni ducono ogni anno 670.000 cappelli e pel valore di 262,740 fr. Trenta a Milano entrò in contatto con gli artisti che frequentavano la GalIn un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Roma (Miscellaleria Il Milione di Gino Ghiringhelli. L’enea statistica, b. 24, Inchiesta pontificia) sperienza milanese gli permise di mettere risulta: a fuoco la propria idea di pittura poetica e Dall’Archivio Comunale di Monte Vidon fantastica. Tornato a Monte Vidon Corrado, Corrado, anno 1832, Udienza del giudal piccolo belvedere della sua abitazione, dice conciliatore, n. 31, 18 FEB. 1832. spesso alzava lo sguardo per scrutare il ciesi evince che Vito Vitali è creditore di Vito lo immenso, infinito. Nei quadri cominciò Abelli“... della somma di scudi 3.25 a dipingere ampie campiture monocrome residuali di scudi 5 ad esso Abelli some a tracciare linee che si configuravano ministrati fin dall’anno 1830 per tanti in lune, angeli spaziali, uccelli, fantasmi, cappelli di paglia da coppolone di giri missili, aquiloni… In una lettera del 1946 n.12 di tesa e n.11 di falda, da cona Maria Cernuschi, moglie di Ghiringhelli, Cartolina di Giambattista Costanzi del 9.5.1913 da Monte Vidon Corrado, segnarsi al detto Vitali entro il mese di scriveva: “Dall’astratto me ne sto volando indirizzata a un suo fornitore toscano marzo 1831”.
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La vendita dei cappelli avveniva attraverso l’ambulantato d’epoca, costituito solitamente da coloni e, nel contempo, produttori. Dalla prima fabbrica fondata da Giulio Costanzi con 6 cucitrici, 8 guarnitrici, 2 pressatori, confermati poi dall’Indicatore del Circondario di Fermo pubblicato nel novembre del 1925, fecero seguito le ditte Costanzi Ida di Giulio, Enei Gennaro di Serafino (3 cucitrici), Enei Vito e Filippo di Luigi (4 cucitrici, 3 guarnitrici), Marinozzi Francesco di Giuseppe (15 cucitrici, 8 guarnitrici, 2 stiratori, 1 facchino), Società anonima cooperativa di Produzione e Lavoro Cappelli di Paglia (5 cucitrici, 7 guarnitrici, 1 pressatore), Fabbrica di cappelli di paglia e di legno con deposito di carne suina salata di Giambattista Costanzi (6 cucitrici, 2 guarnitrici).
Gianbattista Costanzi (1878-1945)
Dai ricordi di Filomena Zega L’ultima testimonianza di un’attività produttiva del suo paese che per oltre cinquant’anni ha risolto i grossi problemi di lavoro e di occupazione è di Filomena Zega. Sua madre - cucitrice presso la ditta Giambattista Costanzi e produttrice di cappelli in paglia, in truciolo e di ventole da cucina - sperava che anche la figlia facesse altrettanto. Filomena sapeva, però, che non avrebbe lavorato in fabbrica. Preferiva dedicarsi alle faccende domestiche e alla coltura dei bachi da seta. Solo qualche volta le piaceva dimostrare alle amiche l’abilità nel comporre le trecce di paglia. Nel 1949, a poco più di vent’anni, si unì in matrimonio con Serafino Enei, imprenditore artigiano di cappelli che era in società con il fratello Emilio. Presto Filomena manifestò interesse per l’attività dell’azienda e, con passione e determinazione, iniziò a svolgere funzioni di amministratrice e di controllo della produzione. Nei primi anni ‘50 i Fratelli Enei, che a Bari avevano da tempo un magazzino importante per la distribuzione all’ingrosso, decisero di allargare il loro giro d’affari e assunsero rappresentanti ad Acropoli (in provincia di Salerno) e a Taranto. Crebbero gli ordini e il fatturato, mentre le consegne delle merci avvenivano tramite ferrovia. Nel 1956 nella tintoria Campagnano di Carpi, dove Serafino ed Emilio andavano a tingere le trecce in maglina e in truciolo, conobbero
Serafino Enei (1923-1996)
Renato Raddi, La trecciaiola Lorenza Concetti, 1976, olio su tela, cm 120x100. Il pittore Renato Raddi (Firenze, 1927-Follonica, 1997) nell’estate del 1976, rimasto affascinato dalla gente, dall’arte e dal paesaggio del distretto del cappello, volle lasciare un’immagine della tradizione locale. Fu testimone diretto della vita quotidiana di Lorenza Concetti che ritrasse, senza conferire al soggetto un’aura irreale, come donna semplice, segnata dalla dura vita lavorativa che aveva condotto.
Eletto Luppi per il quale decisero di lavorare. Questi era un commerciante all’ingrosso di cappelli di paglia e aveva clienti ovunque nel mondo: a Johannesburg in Sudafrica, a Sydney in Australia, nell’isola di Malta, nell’isola di Cipro, in tutta la Germania, in Francia... Nel 1965, in un momento in cui aumentarono oltremodo le richieste, Emilio e Serafino decisero di acquistare un Lupetto OM 25 di media cilindrata per poter rifornire direttamente i clienti all’ingrosso: nelle Puglie (Santa Maria di Leuca, Bari, Brindisi, Lecce, Taranto, Foggia) e nel Lazio (Frosinone e Latina). Gli anni successivi furono pieni di lavoro e di grandi soddisfazioni. Filomena ricorda lo sciopero generale del 19-20-21 marzo 1969 proclamato dai sindacati confederali di Fermo, che registrò un’adesione massiccia, unitaria degli operai del distretto i quali rivendicavano giustamente il rinnovo dei contratti di lavoro e l’aumento dei salari. Negli anni ‘70 la Ditta Enei lavorò per Moretti, grossista di Firenze, il quale forniva loro la maglina per realizzare oggetti decorativi da applicare sui costumi di carnevale. Per le ditte “Casarini” e “Silingardi” di Carpi cucivano, a basso costo, ‘alpinetti’ in maglina per bambini e ‘americane’ in truciolo per agricoltori. Nel 1981, vuoi per la crisi economica in corso già dagli anni ‘70, vuoi per le divergenze su possibili miglioramenti per incrementare le vendite di un prodotto in paglia sempre meno sostenibile, i fratelli Enei cessarono l’attività: soluzione a cui giunsero di comune accordo. Nel 1982 Filomena, che non voleva rassegnarsi, aprì una nuova ditta individuale prediligendo la commercializzazione di cuffie, sciarpe e guanti in lana prodotti da altre fabbriche nel vicino Montappone. Nel 1988, ormai giunta all’età di 61 anni, stanca di dirigere un’azienda che non avrebbe avuto eredi, cessò definitivamente l’attività per dedicarsi a tempo pieno alle faccende di casa e alle cure del marito. Di quelle fabbriche oggi non v’è più traccia. Resta il realistico ritratto pittorico (qui riprodotto) di Lorenza Concetti, trecciaiola novantenne di Monte Vidon Corrado - simbolo di un mestiere un tempo localmente vivo - e l’incomprensibile fascino di un Paese in cui Osvaldo Licini maturò l’idea di un mondo sospeso nel tempo.
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LA CASA MUSEO DI OSVALDO LICINI di Loretta Morelli
Il palazzetto settecentesco un tempo abitato dai coniugi Licini, oggi Casa Museo (ph Giuseppe Saluzzi, per gentile concessione iGuzzini)
U
n ambizioso progetto di restauro, voluto dalla Provincia di Fermo in collaborazione con la Regione Marche, con il Comune di Monte Vidon Corrado e sponsorizzato dal brand Guzzini, ha reso possibile la riapertura della Casa Museo Osvaldo Licini. Evento che ravviva il profondo legame tra l’artista e il paese di origine; un rapporto che negli anni si è ampliato e ha permesso da una parte l’evoluzione del percorso di uno dei massimi esponenti dell’arte del Novecento europeo, dall’altra la consapevolezza del valore di vissuti umani radicati nel territorio, nella sua storia e memoria. Monte Vidon Corrado dapprima è stato per Licini il luogo delle radici e dell’infanzia, dove i genitori scelgono di lasciarlo all’indomani del trasferimento a Parigi; in seguito il rifugio dove approdare ciclicamente nei momenti della sua formazione tra Bologna e Firenze, poi durante la tragica parentesi della Grande Guerra e ancora negli anni frenetici tra l’ambiente parigino, la Costa Azzurra e altri viaggi. Era il 1926 quando decise di tornare stabilmente nella casa di famiglia e di portare con sé la pittrice svedese Nanny Hellström (conosciuta l’anno prima a Parigi), che sposerà proprio su quelle colline dove trascorreranno insieme il resto della loro vita. Nel centro storico del Borgo, dunque, ha preso forma la Casa Museo, dimora padronale settecentesca, ricca di fascino e suggestioni, da percorrere su tre livelli. Nei sotterranei della cantina con volte in laterizio Licini preparava personalmente i colori. Si dice che, durante il Fascismo, vi te-
Ingresso di Casa Licini (ph Giuseppe Saluzzi, per gentile concessione iGuzzini)
nesse le riunioni politiche clandestine del PCI e nel dopoguerra - periodo in cui divenne sindaco - quelle con intellettuali e ideologi. Al piano terra si trova l’ampio ingresso con la scala verso la zona giorno che comprende un’ampia sala dove l’artista ultimava e conservava le opere. Nel piano superiore sono la cucina, il bagno e altri spazi pensati e organizzati con grande modernità, forse ispirati al gusto nordico della consorte. Salendo verso l’ultimo livello e alzando lo sguardo, si può ammirare sul soffitto la pittura murale che l’artista realizzò a metà degli anni Quaranta. Le crepe lasciate dal terremoto del ‘43 diventano linee sui toni freddi dell’azzurro e del grigio tracciando percorsi fantastici di evocazione astrale. Infine vi è la zona notte: lo studio con cavalletti, colori, pennelli, una piccola scrivania di legno incrostata di colori secchi ancora luccicanti e un lettino. La camera è in stile costruttivista, sulla parete del letto c’è un’archipittura con modulo triangolare bianco, profilato di arancio su fondo nero, con al centro un quadretto della Madonna. Da una scala di legno (non accessibile al pubblico) si giunge, attraverso una botola, alla soffitta (probabilmente l’artista vi riponeva anche le opere di cui era meno soddisfatto) e da qui a un terrazzo da cui si scopre un paesaggio dolce che si spinge fino alle cime dei Sibillini, tracciando l’orizzonte terreno e ideale che ha accompagnato il processo creativo di Licini. Le vedute naturali, godibili dalle tante finestre, unite agli arredi, agli oggetti, agli abiti - donati da Caterina, figlia adottiva della moglie dell’artista - consentono di immergersi nella
Salotto (ph Giuseppe Saluzzi, per gentile concessione iGuzzini)
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dimensione più intima e nella quotidianità che hanno costituito il fondamento dell’espressione liciniana. In occasione dell’apertura sono stati esposti non solo i disegni, anch’essi dono di Caterina, che costituiscono la sezione permanente del Centro Studi, ma anche alcuni dipinti provenienti da collezioni private. La continuità tra i paesaggi riproposti nei quadri e gli scorci che si ammirano guardando oltre i vetri della casa, rappresenta il segno distintivo di un luogo che plasma la sua identità nel dialogo costante tra chi lo ha abitato e il contesto naturale dove sorge. Il Maestro ha scelto tra i tanti ‘altrove’ in cui poter vivere la quiete e la lentezza del suo Paese natale, la tranquillità e la poesia dei profili collinari, inesauribile fonte di ispirazione per la sua consistente attività artistica, da quella figurativa a quella dell’astrattismo geometrico, per poi approdare a creature fantastiche e misteriose come gli Olandesi volanti, gli Angeli ribelli e le Amalassunte. Monte Vidon Corrado è stato per lui il luogo della creazione, dove una temporalità dettata dall’avvicendarsi delle stagioni e dai lavori agricoli ha strutturato una personale sintesi delle sue suggestioni letterarie, filosofiche e pittoriche. La trasversalità è il risultato di una personalità complessa, pragmatica e spirituale, permeata di cultura contadina e nello stesso tempo aperta al dibattito intellettuale europeo. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, in segno di lutto, Licini si chiuse completamente all’interno della realtà locale, decidendo di non esporre. Nell’immediato dopoguerra metterà in campo il suo senso di
Lo studio (ph Giuseppe Saluzzi, per gentile concessione iGuzzini)
Camera da letto (ph Giuseppe Saluzzi, per gentile concessione iGuzzini)
responsabilità civile, reggendo l’amministrazione comunale. Questo ruolo gli permetterà di calarsi profondamente nel tessuto cittadino, di saldare strette relazioni con i compaesani, con le loro vite e le loro problematiche. Da testimonianze dirette si può ricostruire il Licini dal volto umano, innamorato della gente più umile, dei contadini e delle donne che intrecciavano la paglia; un uomo schivo e, a un tempo, esuberante sempre alla ricerca di “una certezza dove poter gettare tutte le forze, sperando di incontrarla un giorno”. A Monte Vidon Corrado non solo il polo museale e la sua dimora, ma anche il Comune, il Belvedere e il Parco (che evocano le cromie dei suoi dipinti), le stradine silenziose, i luoghi in campagna (che lo hanno visto dipingere en plein air), tutto il paesaggio e il raggio visivo sono permeati dalla sua presenza permettendo di entrare nella sua dimensione esistenziale. L’intero progetto si propone di potenziare il ruolo attivo del Centro Studi a lui intitolato (diretto da Daniela Simoni) all’interno del panorama del contemporaneo, ospitando nella Casa Museo anche esposizioni esterne. Gli enti coinvolti nel restauro, durato tre anni, confermano come sia possibile, attraverso l’investimento nella cultura, esaltare le eccellenze del territorio e creare uno spazio vivo di attrazione turistica e di relazioni nazionali ed europee dando la possibilità di collegare il Maestro non solo alle Marche. TESTIMONIANZE Nel 1916 Licini prese parte come volontario alla Prima Guerra Mondiale. Rimasto seriamente
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ferito a una gamba (che lo rese claudicante per tutta la vita, tanto da costringerlo a camminare con il bastone), dal fronte fu trasferito all’ospedale militare di Firenze, dove all’epoca risiedeva, e visse una breve ma intensa storia d’amore con un’infermiera, l’elvetica Beatrice Müller, anch’ella volontaria (della Croce Rossa), che gli diede un figlio: Paolo. Per anni l’artista - che aveva perso i contatti con la Müller - non ne riconobbe la paternità. Paolo mi fu presentato ad una esposizione di Licini. Durante la conversazione mi raccontò come aveva conosciuto il padre. Desideroso di incontrarlo, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale si recò a Monte Vidon Corrado. La gente stava uscendo dalla chiesa ed egli notò un uomo con il bastone. Gli si avvicinò e chiese dove poteva trovare il pittore Osvaldo Licini. L’uomo volle sapere il motivo della richiesta. Paolo rispose: - È mio padre! Il passante: - Licini sono io! L’artista lo guardò a lungo, poi lo abbracciò caldamente e lo portò nella sua abitazione per presentarlo con naturalezza alla moglie che riconobbe nei tratti fisiognomici del giovane il Licini ch’ella aveva frequentato ed amato a Parigi. Paolo mi apparve loquace e schietto. Oltre al deamicisiano, commovente ma reale racconto, rivendicò, con comprensibile orgoglio, la sua discendenza e il diritto all’eredità, oggetto di una controversia giudiziaria che in seguito portò alla spartizione delle opere con Caterina Celi Hellström, figlia adottiva di Nanny. Luciano Marucci ***
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Licini sul terrazzo della propria abitazione
Licini e la moglie
[…] Le ansie culturali e spirituali, il bisogno di trovare stimoli visivi, spingevano Licini a esplorare anche i territori linguistici di altri artisti più vicini alla sua sensibilità. In lui c’era la preoccupazione di fare propria la citazione e, a un tempo, la continua ricerca di un modo originale che lo aiutasse a dire meglio, ricorrendo alle sue capacità disegnative e pittoriche. Ma oltre alla cultura europea, da cui aveva attinto con umiltà specialmente negli anni della formazione, seguiva gli impulsi che gli venivano dallo spirito libero e dal furore creativo, dalla ricerca poetica e dalle motivazioni esistenziali. In questo senso Licini ha vissuto un’esperienza senz’altro felice negli esiti, ma drammatica e densa di tensioni per potersi esprimere con la massima “intensità sintetica”, per cercare di sondare le forze misteriose che avvolgono la vita dell’uomo e di raggiungere un’armonica fusione tra dimensione terrena e cosmica. Egli, senza dubbio, occupa ormai un posto nella storia dell’arte, anche se, nonostante i doverosi omaggi tributatigli, viene ancora visto con un’ottica provinciale e non si riescono a sciogliere quei nodi che ne condizionano la piena valorizzazione. Al di là del mito che si è creato intorno all’uomo-artista, la sua opera è ancora alla ricerca di maggiori riconoscimenti che dovrebbero essere perseguiti anche attraverso una più approfondita e attualizzata lettura del suo messaggio. Luciano Marucci
Licini e Caterina Celi Hellstrom, figlia adottiva della moglie dell’artista
Il pittore e il figlio Paolo nel 1954
[da Testimonianze astratte (interviste a Luigi Veronesi e Bruno Munari incentrate su Osvaldo Licini, Milano, novembre 1988), «DANGER ART» (Ascoli Piceno), n. 1-2, aprile 1989]
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Per gli artisti, siano essi scrittori, poeti o pittori, è stato sempre fondamentale il rapporto con l’ambiente d’origine o di lavoro. Altrettanto importante, a seconda dei casi, l’operare in grandi centri o in zone marginali. Se si parla di geni fioriti in piena solitudine, che hanno dato il massimo vivendo appartati, tra gli esempi più noti si fa il nome di Licini. In realtà, egli si ritirò a Monte Vidon Corrado dopo essersi guardato intorno. Nel periodo della formazione aveva frequentato certi protagonisti dell’avanguardia parigina, vivendo anni di stimoli e di confronti. Insomma, quando si stabilì nel Piceno, possedeva già i principali elementi linguistici per formalizzare il suo straordinario mondo poetico ed esistenziale che avrebbe preso il sopravvento sugli influssi giovanili. Ma non tralasciò, nel suo splendido isolamento, di tenersi aggiornato attraverso letture e corrispondenze, di dibattere nell’ambito del gruppo degli astrattisti lombardi. A un certo punto, in risposta al suo spirito romantico, entrò in crisi di rapporto con la figurazione tradizionale e trovò in Monte Vidon Corrado una fonte di forti emozioni, di ispirazione continua, con l’infinito dei suoi paesaggi, la tranquillità delle notti di luna, i fantasmi affioranti nell’ombra tra le pieghe dei morbidi colli. Certo, i suoi compaesani non lo capivano, non trovavano una giustificazione al suo comportamento “strano”. Quando si iscrisse al PCI e nella sua cantina organizzava riunioni politiche, cominciò ad essere guardato addirittura con sospetto e da alcuni accuratamente evitato. Questo non gli impedì di essere eletto
Angelo ribelle su fondo rosso, 1951, olio su tela, cm 73,5x93,5 (courtesy Galleria d’Arte Contemporanea, Ascoli Piceno)
sindaco […]. In una lettera al critico Giuseppe Marchiori del 7 giugno 1954 dirà: «[...] Senza comizi, senza manifesti, senza promesse, senza confessionali, senza inferno, solo col mio nudo agghiacciante silenzio, ho sbaragliato preti e frati, impostori e apocalittici piovuti al mio paese per sradicare la “mala pianta”». Il suo caso, allora, resta emblematico per ciò che egli da lì ha saputo esprimere. Spigolando tra i suoi scritti siamo riusciti a trovare qualche brano significativo per capire il senso della sua scelta di vita e il tipo di legame con la sua terra. Il mio isolamento, caro Checco, è un fatto ed un moto volontario. Farsi valere? Ma io ben poco ho da far valere. Quello che importa è di trovarli prima e di realizzarli dei buoni valori. Non ho altra ambizione per il momento. (La mia casa potrò benissimo trasformarla in Galleria). (Lettera a Checco Catalini del 26 febbraio 1931)
Amalassunta su fondo blu, 1955, olio su tela, cm 73x91,5 (courtesy Galleria d’Arte Contemporanea, Ascoli Piceno)
Amalassunta con aureola rossa, 1946, olio su tela, cm 20,5x27 (collezione privata, Porto San Giorgio)
Ti scrivo dalle viscere della terra, la ‘regione delle Madri’ forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario, forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo. Perciò estinzione del contingente, per ora. Voi non mi vedrete così presto a Milano, né con la spada, né con le larve, né con gli emblemi. Cessato il pericolo, non dubitate, riapparirò alla superficie con la “diafanità sovressenziale” e senza ombra.
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Solo allora potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche che solo tu con la tua scienza potrai decifrare. (Lettera a Franco Celiberti dell’1 febbraio 1941)
Luciano Marucci
[Il senso dello splendido isolamento di Licini a Monte Vidon Corrado, «Corriere Adriatico» (Ancona), “Cultura Picena”, 18 agosto 1997, p. 8]
*** […] Osvaldo Licini era attento conoscitore di Ascoli. In qualità di sindaco del suo Paese ogni tanto scendeva nel capoluogo piceno, in Prefettura. Nel 1958 il professor Luigi Dania, con il critico d’arte Carlo Melloni, chi scrive ed altri, organizzò all’Arengo - la prima (ed unica!) mostra d’arte della grafica internazionale. Una rassegna di grande valore documentario con le più grandi firme italiane ed europee, compresi due disegni di Licini. L’afflusso dei visitatori nella Sala della Vittoria fu eccezionale, vennero tantissimi artisti e critici nazionali. Non mancò Licini che, dopo la visita alla Mostra, accompagnammo al “Meletti”. Con il grande maestro dell’astrattismo romantico, c’erano il pittore Ernesto Ercolani e lo scultore Alfio Ortensi, da lui molto apprezzati. L’artista era di poche parole. Spesso sembrava distante, come se seguisse un suo discorso mentale. Era capace di fissare a lungo un panorama, uno scorcio di piazza, una volta, quasi ne volesse assimilare l’immagine, oltre il visuale… A tavola era quasi spartano, gradiva soprattutto le minestre. La carne - ricordava a pranzo al “Vittoria” - non era per i
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Il pittore Ernesto Ercolani, Osvaldo Licini e lo scultore Alfio Ortenzi a Monte Vidon Corrado (1958)
nostri deschi d’un tempo, ma non indulgeva troppo in ricordi, mentre in tutti noi c’era l’ansia di apprendere le vicende del suo passato sulla rive gauche di Parigi, con gli ultimi impressionisti, soprattutto con i futuristi, cubisti, l’amico Modigliani, gli astrattisti. Alle nostre domande si limitava a sorridere, col suo ciuffo (da angelo ribelle) di capelli sale-pepe di un uomo che era stato molto bello e dalla gioventù intensamente vissuta! Ironico e ricco di humour, sapeva anche socializzare con tutti, specie a Monte Vidon Corrado. Gli chiedemmo, una volta, la storia del suo nodoso bastone e finalmente raccontò: Io sono stato ferito ad una gamba, nella grande guerra, per cui, rimasto col ginocchio bloccato, sono costretto a reggermi con questo bastone. Una sera, a Parigi, durante una performance d’arte e di poesia in un teatrino, il pubblico reagì fischiando e Picasso rispose per le rime. Non l’avesse mai fatto: il palcoscenico venne assalito da energumeni, Pablo, allungato su un tavolo, lo stavano pestando a morte. Non sapendo cosa fare, mi misi ad urlare mulinando questo bastone come una clava, facendo subito il vuoto, e Picasso fu salvo! Carlo Paci (Il bastone di Licini salvò la vita a Picasso, Domenicale del «Corriere Adriatico», 27 aprile 2008)
Da sinistra: il pittore Osvaldo Licini, il critico Umbro Apollonio e il giornalista Carlo Paci in Piazza del Popolo di Ascoli Piceno (1958, ph Perini)
(logo del sito www.centrostudiosvaldolicini.it)
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MASSIMO MAZZONI
DAL ROCK AL COUNTRY a cura di Lorenzo Maria Carlesi
“C
hi intenda ritrovare lo slancio nella vita ha a disposizione la Musica. Così come colui al quale manchi l’ardore o la tenerezza, il lirismo, la gioia, ha a disposizione la pienezza del mondo musicale. I contesti in cui quest’arte viene affrontata possono essere i più svariati. Come ci spiega, dalla sua ottica, chi nella vita, la musica l’ha sempre avuta in mente ed espressa, ma ha fatto anche altro.” M. Alessandra Ferrari
Massimo Mazzoni nasce come pianista di pianobar. Un artista solista che, a partire dalla metà degli anni ‘60, sotto l’influenza dei gruppi rock nascenti in Italia, forma una band costituita da quattro musicisti. Il genere a loro più congeniale è il country rock dei Byrds, ma nei locali eseguono anche brani di altri gruppi: The Animals, The Beatles, The Rolling Stone, Procol Harum ... Dopo il successo del festival revival meeting di Woodstock, nell’estate del 1969 inseriscono nel repertorio anche brani di Jimi Hendrix e del gruppo Crosby, Stills e Nash. Nonostante il talento, l’attività musicale di Massimo non ha un percorso di carriera perché si alterna a quella universitaria di scienze politiche e ai successivi impegni di lavoro.
Massimo Mazzoni musicista di piano bar
L’alfabeto con ventuno lettere ed il pentagramma con sette note, segni piccoli e dal numero ridotto, ma potente semenza per ogni forma di comunicazione. A quale assegna più importanza? Senz’altro la seconda è quella che più mi si addice. Anche se composta da soli sette “piccoli segni” è la mia lingua. La musica da sempre accompagna i miei pensieri e i miei stati d’animo; pertanto mi bastano due note per esprimermi senza difficoltà, senza il timore di essere frainteso. Quanto le sono servite e continuano a servirle le sette note per mettere in ordine, o in disordine, la sua vita? A dire la verità le sette note hanno contribuito al disordine nel quale mi sento finalmente libero da quando, per l’età raggiunta, posso dedicare tutto il mio tempo alla musica, mentre negli anni in cui il lavoro mi impegnava molto ero costretto a sacrificare questa passione.
Il gruppo dei Mods in partenza per l’isola di Creta, 1967
Delle sue vicende musicali cosa in lei ha lasciato più traccia? Difficile definire una sola delle esperienze vissute come la più importante. Giovanissimo, quasi diciottenne, con gli altri del mio gruppo di allora siamo stati ingaggiati per suonare qualche mese nella base Nato di Creta. È stato un evento unico, indimenticabile. Successivamente ho avuto l’occasione di accompagnare nelle loro serate, in giro per l’Italia e all’estero, due cantanti in auge negli anni ‘60 e ‘70: Rosanna Fratello e Jimmy Fontana. Con quest’ultimo, in particolare, ho suonato in Canada, a Toronto. È stato un momento meraviglioso. Qual è il linguaggio musicale che sente più congeniale? Il sound anglo-americano anni Sessanta-Settanta degli Eagles, di Crosby Stills Nash, degli America e di tanti altri, caratterizzato da un rock vicino al soft sound della West Coast degli Stati Uniti. Nella musica non presto molta attenzione ai testi; mi devo sentire impegnato dal punto di vista emotivo e non intellettuale. Apprezzo la qualità sonora prodotta dagli strumenti musicali e la voce umana.
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1972, Vieste, Massimo Mazzoni durante le prove generali prima del concerto di Rosanna Fratello
MARCO BONTEMPO
Il SAXOFONO PROTAGONISTA a cura di Maria Alessandra Ferrari
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orge Luis Borges diceva che la musica può esistere senza aver bisogno del mondo, ma è compito di ogni musicista mostrare al mondo l’esistenza della buona musica con il proprio strumento. Così fa Marco Bontempo, accompagnato da passione irriducibile e competenza rara. Un interprete che fa esistere in pienezza il saxofono. E, in affinità con i compositori, ne arricchisce e sviluppa il repertorio. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio la sua attività e le motivazioni che lo hanno indotto a scegliere uno strumento aerofonico così espressivo e duttile. Uno strumento vive nella storia solo se riesce a trovare una musica che lo traghetta nel futuro… Assolutamente! Uno strumento musicale non è importante solo per le sue peculiarità, ma lo diventa per la musica che gli è dedicata e per le funzioni che essa gli attribuisce. La storia della musica è determinata principalmente dalle composizioni dei musicisti e gli strumenti vivono e sopravvivono se hanno musica da suonare, da far ri-vivere. La relazione strumento-repertorio è un legame diretto, un cordone ombelicale senza il quale uno strumento muore. Immaginate, ad esempio, il violino senza la musica di Vivaldi, Tartini, Paganini, Beethoven. Viceversa cosa rappresenterebbe il saxofono se avesse un repertorio costituito da musiche originali di Bach, Mozart, Beethoven? Ciò non è stato possibile, data la sua giovane età, ma non è detto che qualcosa di simile possa succedere o sia in parte già avvenuto.
Marco Bontempo, Bologna (© 2000 Rocco Casaluci)
Quante sono, ad oggi, le partiture scritte per saxofono? Molte migliaia. Il saxofono in 174 anni ha saputo costruirsi un cospicuo repertorio, tuttavia la questione non è quantitativa ma qualitativa. La maggior parte della musica scritta per questo strumento è di autori minori ed è poco determinante nello sviluppo del linguaggio musicale perché, stilisticamente e fondamentalmente, già scritta per altri strumenti. Il saxofono ha avuto, fino ad ora, poche opere di importanti compositori e non sempre rappresentano lavori significativi. Il saxofono nel mondo della musica colta è il brutto anatroccolo, mentre nel jazz rappresenta il Re. Se nella storia della musica classica togliessimo il saxofono, poco o nulla cambierebbe dal lato linguistico; mentre nel jazz, se togliessimo i correlati brani di Charlie Parker, John Coltrane, Ornette Coleman - per citare solo alcuni nomi illustri - si aprirebbe una voragine. Nel jazz il saxofono è imprescindibile. È talmente connotato come strumento di questo genere che molti compositori classici l’hanno utilizzato per caratterizzare alcune loro composizioni. Pensiamo all’Ebony Concerto di Stravinskij, a La création du monde di Milhaud, a Hot di Donatoni. Ciò non vuol dire che non abbia storia e futuro. A tale proposito cito due notevoli opere storiche: la Rapsodie per orchestra e saxofono di Claude Debussy del 1903 e il Quartett op. 22 di Anton Webern del 1930. Lei approva le trascrizioni? In gioventù ero riluttante alle trascrizioni, anche di brani di periodi storici che non ci appartengono; oggi penso che didatticamente siano fondamentali per dare ampia conoscenza, padronanza dei linguaggi e cultura musicale agli studenti. Ma dal punto di vista concertistico e discografico ritengo essenziale proporre esclusivamente il repertorio originale sapendo scegliere, fra le migliaia di opere, quelle veramente significative. Ben diverso il discorso su alcun brani di compositori che hanno elaborato musiche di altri autori, concepite per strumenti differenti. Esempi a me vicini sono: Pagine e Canzoniere da Scarlatti, elaborazioni da concerto di Salvatore Sciarrino, composizioni uniche, indicative dell’espressione d’amore del compositore verso la musica di altri, cui egli dona una nuova veste. Facevano così anche i grandi del passato (vedi Stravinskij con Gesualdo da Venosa e Pergolesi). C’è anche da tener conto delle caratteristiche culturali e stilistiche dello strumentista: un valido docente è colui che aiuta lo studente ad acquisire cultura, ad autodisciplinarsi, ma soprattutto ad essere se stesso. Qual è stato il suo percorso musicale ed il suo maggior impegno artistico profuso per il saxofono? Fin da adolescente, ancora culturalmente inesperto ed inconsapevole, ho avuto la fortuna di essere folgorato dalla musica e dalla performance di John Cage, pur pensando, quella prima volta, di andare ad assistere a un concerto rock. Ho vissuto la mia giovi-
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nezza a Milano nel momento in cui il Teatro alla Scala commissionava opere a Stockhausen e nella Sala Verdi del Conservatorio si dava vita a prime esecuzioni di importanti compositori contemporanei. Dopo aver suonato per alcuni anni il flauto, la chitarra, l’armonica e aver cantato, ho avuto come insegnante di saxofono un compositore di musica d’avanguardia. Nel momento degli studi più accademici, al termine dei quali mi sono diplomato con il massimo dei voti, ho vinto numerosi concorsi internazionali con giurie formate da famosi musicisti che, nel premiarci, spesso commentavano: “…per fortuna che siete eccezionali perché la musica non vi favorisce. È impossibile confrontare il vostro repertorio con quello di Mozart, Beethoven, Brahms”. Allora quelle parole, solo da un lato gratificanti, m’irritavano e indispettivano. Oggi ne capisco profondamente il senso. Il contatto formativo con Jean-Marie Londeix, caposcuola del saxofono, mi ha aiutato ad afferrare l’importanza dell’impegno che un saxofonista deve avere nei confronti della “nuova musica”. In quegli anni rimasi affascinato da una composizione ascoltata in un concerto senza sapere chi fosse l’autore. In seguito appresi che si trattava di Salvatore Sciarrino. Molto tempo dopo ho avuto la fortuna di fare la sua conoscenza tramite un mio carissimo amico, in quel momento uno degli allievi a lui più vicini. Sciarrino mi ascoltò in occasione della prima esecuzione assoluta di un brano per saxofono e pianoforte di questo mio amico. Pian piano nacque la nostra collaborazione e, insieme a un ensemble eterogeneo di strumentisti, diventai, fra gli altri, esecutore dei brani degli allievi che frequentavano i suoi corsi di composizione a Città di Castello. Esperienze entusiasmanti nelle quali il Maestro conobbe, senza darne apparente ed immediata visione, le caratteristiche che maggiormente gli interessavano del saxofono, strumento per il quale non aveva mai scritto fino ad allora. Nel frattempo, insieme ai miei compagni di viaggio, diedi vita a un quartetto di saxofoni, il “Lost Cloud Quartet”. Sciarrino, come un fiume in piena, compose nel 1997 La bocca, i piedi, il suono (per 4 sax solisti e 100 sax in movimento, a noi dedicato); l’anno dopo Pagine (elaborazioni da concerto per 4 saxofoni) e Canzoniere da Scarlatti (elaborazioni da concerto per quartetto di saxofoni); nel 1999 Terribile e spaventosa storia del principe di Venosa e della bella Maria (azione drammatica liberamente ispirata alla vita di Gesualdo da Venosa, opera per i pupi siciliani, con voce, quartetto di saxofoni e percussioni); nel 2000 Studi per l’intonazione del mare (con voce, 4 flauti solisti, 4 sax solisti, percussione, orchestra di 100 flauti, orchestra di 100 sax). Nell’ambito degli organici saxofonistici ho sempre creduto al quartetto di saxofoni. È una formazione cameristica fantastica e nei quartetti di strumenti della stessa famiglia è per me seconda solo al quartetto d’archi, sia per potenzialità sonore sia per repertorio. Molti grandi compositori, fra cui Luciano Berio, John Cage, Franco Donatoni, Ivan Fedele, Philip Glass, Sofia Gubaidulina, Hans Werner Henze, Giya Kancheli, Ennio Morricone, Michael Nyman, Arvo Pärt, Krzysztof Penderecki, Henri Pousseur, Steve Reich, Terry Riley, Salvatore Sciarrino, Michael Torke, Phil Woods, Iannis Xenakis, hanno scritto opere originali per questa formazione ed io ho trovato il mio “luogo” ideale per vivere e far vivere la musica di questi autori, in particolar modo contribuendo alla nascita delle opere di Sciarrino. Ho sempre amato camminare su strade nuove. Ricercare e intraprendere il viaggio del legame vitale fra strumentista e compositore è stato per me estremamente naturale. Se dovesse legare il genere musicale più vicino al suo stile a un genere letterario (poesia, drammaturgia…), cosa direbbe? Bontempo in Turchia: Göreme-Cappadocia (© 2011 Laura Chiti) Sarebbe una domanda difficile da rivolgere a un compositore; quasi impossibile avere una risposta da un interprete. Il compositore determina il linguaggio che si caratterizza con uno stile, un’estetica, una filosofia a volte identificabile e in parte rapportabile a un genere ben definito. Un vero interprete ha personalità, non uno stile, perché deve trasfigurarsi nel linguaggio cui dare vita. Diversamente interpreta se stesso, per cui diventa autore, ma a quel punto non ha alcun senso suonare il linguaggio degli altri. Da interprete preferisco definirmi un protagonista, non perché mi piaccia essere in vista, bensì per la volontà di intraprendere strade diverse dagli altri, anche facendomi carico, nella quasi solitudine, della sofferenza rispetto a ciò che mi circonda. Tutti noi vorremmo essere compresi, avere complici che spesso ci mancano e certezze che probabilmente non arriveranno mai. Mi interrogo molto e, proprio perché sento forte la necessità della trasfigurazione che un interprete deve compiere per dare senso alla musica, mi affascina condividere il viaggio di scoperta con autori che stimo e di cui apprezzo l’etica, le scelte e lo stile. Tra le sue numerose idee di questo periodo - imprese non facili ma elettrizzanti - cosa spera di realizzare? Per vari motivi in questi ultimi anni ho preferito rallentare l’attività. Sto dedicando il mio tempo a una persona a me molto cara, mio padre, uomo geniale che ho potuto godere poco perché ha vissuto un lungo periodo della sua vita in un altro continente e che da alcuni anni è rientrato in Italia per problemi di salute. Ci sono dei sentimenti che meritano una considerazione e un posto speciale. Sto indirizzando parte delle mie energie di docente al rinnovamento dell’offerta formativa, all’organizzazione e alla strutturazione del Conservatorio di Milano. La legge 508 del 1999 per la riforma dei Conservatori di Musica ha aperto nuove prospettive, ma a quindici anni dalla sua emanazione non ha ancora trovato piena attuazione e la situazione di attuale criticità
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richiede, a mio avviso, l’impegno diretto di noi strumentisti e docenti di queste importanti istituzioni in difficoltà per la trascuratezza politica e amministrativa. Con il “Lost Cloud Quartet” non è una priorità riempirci di concerti: sentiamo la necessità di far coincidere quello che si fa con il perché ed il come lo si fa! Cerchiamo di combinare l’estetica con l’etica. Abbiamo in progetto una nuova esecuzione di Studi per l’intonazione del mare, composizione a noi molto cara. Fu in origine un progetto sollecitato dal Sacro Convento di Assisi, in occasione di due circostanze allora imminenti: l’inaugurazione della Basilica Superiore dopo i crolli del terremoto del 1997 ed il Giubileo del 2000. La eseguimmo in prima mondiale nella Cattedrale di Città di Castello il 27 agosto di quell’anno. È una composizione di estrema suggestione, fatta di pulviscoli sonori, di aneliti, di pioggia. Il testo, scritto dallo stesso Sciarrino su estratti da una poesia di Thomas Wolfe e dal vangelo apocrifo Pistis Sophia, integra, a mo’ di ritornello, le parole di San Francesco alla ricerca di pietre per restaurare la sua chiesa. L’eccezionalità sta nel fatto che, oltre a una voce, 4 flauti solisti, 4 sax solisti ed un percussionista, sono coinvolte due orchestre: una di 100 flauti e una di 100 saxofoni. Le orchestre hanno un compito importantissimo: creare un suono-massa che sia la somma dei suoni. Questo significa che l’io è messo da parte per un intento più grande che non nega l’individualità, ma la mette al servizio di un’idea che è somma e sintesi delle idee. L’individuo non si sente sminuito; capisce che ha bisogno dell’altro per costruire ciò che da solo non potrebbe creare. Coinvolgere musicisti di estrazione e culture diverse significa dimostrare la possibilità di sviluppo di una nuova società dove si chiede all’individuo di essere se stesso e non imitazione di modelli precostituiti. Ciascuno è importante per quello che è, ma ciò significa anche che c’è bisogno dell’altro solo se questi ha lavorato per essere “unico”. Come si può capire, non è un allestimento dei più agevoli. Occorre radunare circa 220 musicisti e farli convivere e collaborare per almeno tre giorni dopo aver lavorato per settimane a distanza. L’idea, grandiosa nelle nostre menti, quasi impossibile nella realtà, è di realizzare quest’opera con giovani musicisti provenienti dai paesi che parteciperanno all’EXPO Milano 2015 sul tema “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita”, Abbiamo già preso contatto con Enzo Restagno - noto critico musicale e direttore artistico di MITO, rassegna di musica che si svolge ogni anno in settembre fra Milano e Torino, il quale si è entusiasmato al progetto ed ha dichiarato la sua ferma intenzione di realizzare l’evento in concomitanza ed in collaborazione con EXPO Milano 2015 garantendo, alle due città, importanti e appropriati luoghi. Il nostro obiettivo, in una dimensione il cui significato sociale sia pari a quello artistico, trova oggettivi ostacoli organizzativi e finanziari. Per renderlo concreto abbiamo bisogno di una grossa mano, cosa difficile in un momento di crisi culturale ed economica. Siamo comunque ottimisti, convinti di potercela fare. Ho poi un’altra appassionante idea che anima da molti anni la mia mente, ma per scaramanzia non ne voglio parlare...
Salvatore Sciarrino in una foto di Luca Carrà (© RaiTrade)
L’augurio da fare al saxofono… Grandi compositori che leghino la loro musica a questo strumento. Una domanda extra: Maestro, lei indossa copricapi? D’inverno sempre. Amo tenere la testa al caldo, ma soprattutto non sopporto il freddo alle orecchie, importantissime per noi musicisti. D’estate lo uso in viaggio e in vacanza, sempre lo stesso da anni. Mi sembra che il cappello protegga anche i miei pensieri e la mia intimità.
Copertina del disco realizzato recentemente dal Lost Cloud Quartet (© 2014 col legno)
Who‘s who Marco Bontempo è nato nel 1960; ha studiato saxofono al Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro con Federico Mondelci, diplomandosi con il massimo dei voti. Si è perfezionato con Jean Marie Londeix e, per la musica da camera, con Pier Narciso Masi e Siegfried Palm. Ha ottenuto importanti affermazioni vincendo concorsi a Milano, Stresa, Capri, Sorrento, Caltanissetta, Genova, Taranto, Meda, Savona, Roma. Ha tenuto concerti per prestigiose istituzioni musicali in Francia, Argentina, Austria, Spagna, Germania, Polonia e, naturalmente, in molte città d’Italia. Ha collaborato con l’Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, l’Orchestra Filarmonica di Udine, la Ferrara Progressive Orchestra, la Bochumer Symphoniker, l’Ensemble Algoritmo, Musica Attuale, Ensemble Risognanze, Lab IX Ensemble e FontanaMIXensemble. Ha effettuato registrazioni radiofoniche e televisive per la RAI e per altre emittenti radio-televisive europee. Ha inciso per le case editrici col legno, Stradivarius, Edipan, Zig Zag Territoires e Virgin. Dal 1995 al 1998 è stato assistente nei corsi di composizione tenuti da Salvatore Sciarrino a Città di Castello. Con gli altri componenti del Quartetto “Lost Cloud Quarte” dedica gran parte della sua attività allo studio e all’esecuzione della “nuova musica”. Questo lavoro l’ha portato alla realizzazione delle prime assolute di opere di S. Sciarrino, L. Berio, F. Donatoni, P. Glass, G. Manzoni, P. Perezzani e S. Reich. Di alcune opere di Sciarrino ha curato la prima registrazione mondiale ottenendo, dalla critica specializzata italiana e straniera, i massimi riconoscimenti. Vincitore della cattedra di Saxofono nel concorso per esami e titoli nei Conservatori di Musica, ha insegnato ad Adria, Bari, Trieste e, dal 1996, è docente al Conservatorio “G. Verdi” di Milano dove, dal 2000, gli sono state affidate, nell’ambito del “nuovo ordinamento”, gli insegnamenti di: Prassi esecutive e repertori della musica contemporanea; Letteratura dello strumento; Quartetto di Saxofoni; Altri strumenti della famiglia e Metodologia dell’insegnamento strumentale. Ha sempre partecipato attivamente alle strutture didattiche di cui fa parte. È stato nominato coordinatore della Scuola di Saxofono e, dal 2009 al 2013, coordinatore del Dipartimento degli Strumenti a fiato - legni. Dal 2010 al 2012 è stato Coordinatore della didattica curando la stesura dei nuovi piani dell’offerta formativa dei diplomi accademici di secondo livello (Bienni). Fa parte del Consiglio Accademico e della Commissione per la revisione dello Statuto e dei Regolamenti, eletta recentemente dal Collegio dei Docenti.
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Jommi Demetrio La storia La Ditta “Jommi Demetrio” inizia la sua attività nel 1970 quando l’attuale titolare, dopo aver fatto esperienza per un lungo periodo nelle aziende di più antica tradizione di Montappone, decide di mettersi in proprio. Nei primi anni si presenta sul mercato nazionale con una vasta gamma di articoli nella linea classica. Da lì parte un graduale sviluppo che vede allargarsi ed arricchirsi sempre più le tipologie di lavorazione, la struttura produttiva e le collezioni che si compongono anche di capi estrosi ed elaborati per importanti defilé di moda. Nel 1984 viene avviata un’attività di commercializzazione di cappelli estivi ed articoli da mare lungo la costa adriatica. Attualmente la “Jommi Demetrio” è una delle realtà più importanti del settore in diverse regioni. Il continuo aggiornamento e il moltiplicarsi di iniziative imprenditoriali, insieme a una curata attenzione al prodotto, rendono l’Azienda ancora fortemente competitiva. La produzione Dedicata per la maggior parte agli articoli invernali, la produzione si sviluppa sia sul programmato che sul pronto moda. Gli articoli per uomo, donna e bambino sono di livello medio-fine. Le esperienze tecniche accumulate in tanti anni di attività, la manodopera specializzata, la continua collaborazione con le firme più prestigiose dell’alta moda e del prêt-à-porter, la costante ricerca nella modelleria, l’impiego di materiali eleganti e di qualità, sono gli elementi che rendono la Ditta capace di interpretare i mutamenti delle tendenze e di adattare tempestivamente ad essi le collezioni e la produzione.
Jommi Demetrio
www.jommidemetrio.com 34 HAT n. 59 | 2014
La politica aziendale Alla base del successo della “Jommi Demetrio” c’è sempre stata l’intenzione di soddisfare i clienti, sia nel servizio che nel prodotto. L’Azienda mira alla competenza per ottenere risultati certi e costanti e ad instaurare rapporti stabili e di reciproca fiducia con chi si rivolge ad essa.
atelier@vittoriocamaiani.it
C.da Sole, 12/16 63835 MONTAPPONE (FM) Tel. 0734.760541 info@jommidemetrio.com
PIGIO ROSSI
CAPPELLI RICICLATI DAI SACCHI DI CAFFÈ a cura di Maria Alessandra Ferrari
C
opricapi fatti con un materiale che evoca aromi e colori di paesi lontani, che è grumo di memorie e di usi; scie di luoghi toccati che vi affluiscono dal passato. E la fortuna ha invertito il corso con cui avrebbero proceduto impavidi verso l’oblio. Ecco un esempio tangibile in Pigio Rossi che ha esposto la sua attività nel dialogo che segue: “Perché dilapidare un materiale recuperabile?”. Se questo è il pensiero da cui è scaturita la sua intuizione, la si deve considerare una adesione al convincimento che “il meno è più” o è frutto di questi tempi di sacrificio? “Il meno è più”. Sono totalmente d’accordo. Nell’arte come nella vita. Il difficile è capire quello che va tolto e quello che va conservato. Ciò vale tanto per il design minimale dei nostri cappelli come per il materiale impiegato. Cosa merita essere riciclato - o come si dice ora upcycled - e cosa si può buttar via? Forse nulla andrebbe gettato e tutto può prestarsi a un riutilizzo creativo. La patria che ha scelto per i suoi cappelli coincide con quella reale dove sono nati? La patria dei nostri cappelli è l’Europa; lo dice anche il marchio registrato: Berlin Feine Hüte, Made in Beautiful Europe. Ciò vuol dire che la nostra produzione non dovrà mai valicare i confini europei (al momento sono interessate Polonia e Italia). Questo il compromesso che ci siamo dati, oltre a utilizzare materiali di riciclo, come appunto i sacchi di caffè per la collezione “Coffee to Go”, nostra punta di diamante. Da quando era in cerca di un sogno di cui si è fatto mecenate? Tutte le volte che ho pianificato troppo è andata sempre storta. Allora ho iniziato a lasciarmi trasportare dagli eventi. Quando nulla è pianificato, accadono le cose più sorprendenti. Così, un po’ per caso un po’ per necessità, ho finito per guadagnarmi da vivere con dei cappelli realizzati riciclando sacchi di caffé! È lei l’anima di questo progetto di metamorfosi o lo condivide con altri? L’intuizione si deve a Stefan Lochner: è lui il vero designer. Poi c’è Udo, che organizza i festival; ci sono Mitani e Kostana che dal nostro negozio quartier generale di Kreuzberg si occupano, tra un cliente e l’altro, di contabilità e amministrazione; infine, Seri e Antje, le ragazze del magazzino, e Benni che, come me, batte i mercati. Questo il nucleo duro ma, quando ci sono i grandi festival, arriviamo a impiegare anche più di 20 persone. Senza contare Letzek e la sua piccola azienda familiare in Polonia. La famiglia di Leztek faceva cappelli da due generazioni ma, quanto a design, erano rimasti un po’ indietro, diciamo all’era sovietica. L’Azienda stava quasi fallendo finché siamo arrivati con i nostri cappelli in juta ed ora per l’80% le 12 operaie della fabbrica lavorano grazie a noi. E noi guadagniamo grazie a loro. Io sono presente fin dall’inizio, quando i cappelli coi sacchi del caffè non si vendevano molto. Poi la gente nei mercati di Berlino ha cominciato a mostrare sempre più interesse per il nostro prodotto e a comprare. Giovani juppies, signori, ragazzi, turisti: gente di ogni tipo ed età. Andiamo sui mercati con una bicicletta a tre ruote, una dietro e due davanti. Tra le due davanti un cassettone di legno dove si caricano i cappelli per il trasporto. Una volta sul posto, la bici si apre e diventa un vero e proprio stand, con ripiano e supporti verticali; con tanto di ombrellone per ripararsi dalla pioggia che a Berlino arriva senza preavviso. I mercati sono il nostro cash flow, visto che le banche inspiegabilmente non ci danno credito. Un bel giorno io ho iniziato a caricare la bicicletta sul furgone della ditta e a salpare per altre mete: Olanda, Francia, Italia, Svezia. E dovunque portavo i cappelli era un successo. Da lì sono iniziate le prime fiere; per quanto mi riguarda soprattutto in Italia. Essendo io l’unico italiano della banda, era chiaro che ricadesse su di me il gravoso compito della distribuzione dei cappelli fatti coi sacchi del caffè nel Belpaese. Cosa sopravviverà al Duemila post industriale, oltre ai suoi copricapo? Innanzitutto ti ringrazio per la fiducia che riponi nella tenuta dei nostri cappelli. Poi, che dire..., un modo nuovo di lavorare? Che sarebbe il più antico del mondo: si lavora per stare insieme. Il suo rapporto personale col cappello…? Prima di imbarcarmi in questa avventura, non ne avevo mai indossato uno.
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Alcuni modelli di cappelli della “Coffe to go Collection” realizzati dalla “Beautiful EUROPE” di Pigio Rossi
IL CAPPELLO NELL’ARTE di Anna Maria Novelli
Pieter Paul Rubens, Ritratto di Susanne Fourment (Le chapeau de paille), 1625 ca, cm 77x53, National Gallery, Londra
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Lukas Cranach, Giuditta con la testo di Oloferne (particolare), 1530 ca, cm 87x56, Kunsthistorisches Museum, Vienna
l cappello è un capo seducente che non passa inosservato. Manufatto dal diversificato design, nel tempo ha acquisito un valore estetico, ma anche socio-storico. Dal Rinascimento ai nostri giorni è stato un soggetto-oggetto di fantasiosa creazione nel campo dell’arte grafica, pittorica, plastica e installativa. Nelle opere classiche alludeva al rango di appartenenza e dal
Edouard Manet, La modella [Suzon] del bar alle FoliesBergère (particolare), 1881, cm 54x34, Museo di Digione
Vincent van Gogh, Autoritratto, 1887, cm 44x37,5 (collezione V. W. van Gogh, Laren)
Seicento divenne protagonista. Solo per fare alcuni esempi, lo è nei quadri di Vermeer, Cranach, Rubens, ma anche negli autoritratti di Van Gogh, nelle dame di Rénoir e Manet, in Boldini (in primis con il cilindro di Giuseppe Verdi e i fatali modelli delle signore dell’alta borghesia), nelle larghe tese di Modigliani che bilanciavano i lunghi colli, nelle enigmatiche cloches colorate di Tamara de Lempieka.
Amedeo Modigliani, Jeanne Hebuterne con cappello, 1918, olio su tela, cm 55x38 (collezione privata)
René Magritte, La grande guerra, 1964, olio su tela, cm 81x60 (collezione privata)
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Nel contemporaneo parecchi artisti hanno trattato il cappello in modo originale. Tra i più significativi René Magritte in cui la rappresentazione dell’uomo con la bombetta è una figura così ricorrente da essere considerata un indicatore della sua individualità di persona metodica, dalla calma anglosassone e, in senso metafisico, di indagatore dell’inconscio… Mi torna in mente che durante un soggiorno (mio e di mio marito) a Bruxelles, ospiti per alcuni giorni nella villetta di Rue des Mimosas della moglie Georgette (donna della sua vita e musa ispiratrice, da poco vedova), la signora ci raccontava che per i vicini Magritte artista era rimasto pressoché sconosciuto fino a che la televisione, dopo il tardivo successo riscosso negli Stati Uniti, gli dedicò ampi servizi. Lo notavano solo perché era solito passeggiare, sempre alla stessa ora, con l’anacronistica bombetta in testa e l’inseparabile cagnolino nero Lulù al guinzaglio. Nel dipinto La cultura delle idee (1926) chi indossa la bombetta ha una grande foglia dietro le spalle, successivamente l’artista utilizzerà ancora questo copricapo associandolo alle immagini di mezze lune, della pipa, della mela verde su un volto, della “Primavera” di Botticelli, di una pioggia di omini, di paesaggi evocativi… E ne ha fatto pure un ‘ritratto’ in Bouchon d’épouvante del 1966 (a un anno dalla morte). Anche le sue figure di donna a volte hanno vistosi cappelli, come la versione femminile de La grande guerra riprodotta nella pagina precedente. Per il mitico Joseph Beuys, uno degli operatori visuali più creativi del XX secolo, il normale cappello di feltro, dal quale non si separava mai al pari del giubbetto da pescatore (di anime), era divenuto un marchio di riconoscimento, un elemento comu-
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Gino Di Paolo, foto di Joseph Beuys, Incontro con Beuys, Pescara, 1974, cm 30x23,5
James Rosenquist, Moon Hat (da collocare all’esterno, sotto la luna piena), 1970, feltro, legno, sabbia, alluminio, cm 31,4x42x42 (ph L. Marucci)
Claes Oldenburg, Three hats, alluminio e acciaio dipinto con vernice al poliuretano, m 2,9x5,5x4,7 (Sherwood Park, Salinas, California). Ogni cappello è retto da due pali di diversa altezza (m 5,9-3,9-1,9).
nicativo identitario e simbolico di sapienza. Una volta disse: “Volevo tramutarmi in una specie di essere naturale. Volevo le stesse cose: come un coniglio ha le orecchie, così io volevo avere un cappello. Un coniglio non è un coniglio senza le orecchie, allora ho pensato: Beuys non è Beuys senza il cappello!”. La sua arte ideologica e comportamentale era sorta dopo la seconda guerra mondiale a cui aveva partecipato. Nel 1943 era precipitato con l’aereo in una zona innevata della Crimea. I Tartari lo trovarono semiassiderato e gravemente ferito alla testa. Riuscirono a salvarlo ricoprendolo di grasso e avvolgendolo in una coperta di feltro. Da lì l’uso da parte dell’artista di materiali naturali come fonti di energia; il legame con la natura vegetale e animale. In questo contesto non si può ignorare il Moon Hat di James Rosenquist (tra i massimi rappresentanti della Pop Art americana), che scoprii nell’estate del 2007 alla mostra Das Kapital. Blue Chips & Masterpieces al Museum für Moderne Kunst di Francoforte. Opportunamente intagliato, il cappello era investito da una fonte luminosa che proiettata al suo interno, sulla base in cui era posizionato, componeva la bandiera stellata degli Stati Uniti. Un suggestivo oggetto, a cui non erano estranei la memoria e una valenza intima e silenziosa, che si distingueva dalle altre sue raffigurazioni ridondanti e dai vistosi colori primari. Claes Oldenburg - compagno di strada di Rosenquist, noto per le gigantesche riformulazioni degli oggetti d’uso della quotidianità - nel 1982, in collaborazione con la moglie Coosje van Bruggen, realizzò l’installazione Hat in Three Stages of Landing nello Sherwood Park di Salinas, una zona della California dove si svolgono i rodei. Scelse una foggia che ri-
cordasse i cappelli dei cow boys e ideò tre esemplari giganti che, sorretti da pali, furono posti l’uno equidistante dall’altro coprendo uno spazio di circa 50 metri. I cappelli, simili ad ombrelloni, vennero usati dai frequentatori del Parco per ripararsi dal sole, dalla pioggia e per stazionare durante i pic-nic. Nell’ultima edizione di Arte Basel (la fiera più qualificata del mondo) la Waddington Custot Gallery di Londra nel suo stand esponeva un’opera dello stesso artista con cinque cappelli metallici di dimensioni normali, colorati tra il verde e l’arancio, schiacciati e in varie posizioni: prototipo di un’installazione di arte pubblica per la piazza di una città. Alexandre da Cunha - brasiliano di Rio de Janeiro, residente da anni a Londra - sempre a Basilea, presso lo stand della Thomas Dane Gallery ha esibito due opere con sombreri, simbolo della sua terra di origine e tema da lui più volte trattato. Nell’arte italiana primeggia Aldo Mondino, scomparso nel 2005 (al quale nel n. 29 di “HAT” è stato dedicato un ampio servizio), che ha una vasta produzione sui cappelli, dipinti nei tipi più strani, soprattutto esotici, dalla kippa che richiama le sue origini ebraiche ai turbanti dei sultani, ai copricapi decorati con cipree dei Gnawa del Marocco e del Maghreh. Li ha realizzati anche in ironiche e raffinate sculture metalliche, in ceramica e a mosaico (senza tessere litiche, ma di zucchero o con i cioccolatini). Anch’egli indossava spesso il panama (“per sentirmi dandy”), la paglietta o manufatti più sportivi e disinvolti. Conoscendo i suoi gusti, in una delle nostre visite di lavoro presso la sua villa di Casazze (in Piemonte), gli facemmo omaggio di un cappello di paglia di riso riportato dalla Cina e volle subito provarlo compiendo un
Aldo Mondino, Capi e Copricapi, 1992, olio su tela, cm 190x240 (courtesy Archivio Aldo Mondino, Milano)
Luigi Ontani, Cristoforo Colombo (particolare), 1997, ceramica, cm 206x52x64 (courtesy l’Artista)
J.D. ‘Okhai Ojeikere, HG-0423, 2004, fotografia
giro con la sua sgargiante Morgan decappottabile. Luigi Ontani, altro artista ‘stravagante’, spesso nei suoi tableaux vivant, nei d’après, nelle ermestetiche o in altri lavori inventa sorprendenti copricapi o cita alla sua maniera quelli di personaggi illustri come Pinocchio, Raffaello, Pulcinella, Cristoforo Colombo, Krishna, Leonardo, Don Chisciotte, Marco Polo…: veicoli di allegorie simboliche che nascono per esigenze estetiche; elementi - come egli ama definirli - di “StraEleganza”. Il cappello, ovviamente, non poteva mancare nella fotografia d’autore. Il nigeriano J.D. ’Okhai Ojeikere - al quale è stata dedicata la copertina dello scorso numero di “HAT” - dagli anni Cinquanta e Sessanta, quando lavorava nel dipartimento di fotografia del Ministero dell’Informazione e alla NTV (prima rete televisiva africana), iniziò a documentare le elaborate acconciature dei capelli (simili a copricapi naturali) e i turbanti delle donne attraverso oltre mille immagini di capigliature “scolpite e intrecciate” e di tessuti “piegati e crenulati” che testimoniano, non tanto l’evoluzione della moda e della perizia degli acconciatori, quanto i cambiamenti sociali del periodo che portò la Nazione all’indipendenza. Il cappello ha avuto i suoi momenti di gloria anche sulla carta stampata e nei musei. Il libro di June Marsh, Tony Nourmand e Alison Elangasinghe Audrey Hepburn in Hats (editore Reel Art Press, London, 2013) raccoglie splendide immagini dell’attrice che permettono di fare un excursus nell’evoluzione di questo accessorio attraverso i modelli da lei indossati nei film. Oggi si assiste a un revival della moda del cappello. La Galleria d’Ar-
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Festa della Donna, 8 marzo 2014, Laboratorio Grand Chapeau (courtesy GAM, Torino)
Diorval, Torino, 1960-‘65, cappello esposto alla mostra Chapeau Madame! Cappelli di signore torinesi 1920-1970, Palazzo Madama, Torino (courtesy GAM, Torino)
te Moderna di Torino nel gennaio scorso ha dato vita al progetto Atelier Chapeaux et Photos con immagini digitali d’autore, laboratori fotografici e manuali in cui i giovani potevano produrre nuovi cappelli in assoluta libertà. L’8 marzo si è tenuto Grand Chapeau: incontro con ragazzi e famiglie durante il quale è stato esposto un cappello-installazione di 2 metri creato dagli allievi del Primo Liceo Artistico a indirizzo Arti Figurative di Torino. Dal 25 marzo, per un anno, Palazzo Madama, sempre nel capoluogo piemontese, sta presentando Chapeau, Madame! Cappelli di signore torinesi 1920-1970 con una serie di esemplari che illustrano le creazioni più caratteristiche nell’arco di mezzo secolo, dalle cloches ai modelli classici, alle calotte fiorite, piumate, con o senza velette e altro ancora, compresi i materiali e le attrezzature da laboratorio. Per l’opening le rappresentanti del gentil sesso erano espressamente invitate a partecipare “con cappello, fascinator o acconciatura”. Presso la Galleria del Costume, a Palazzo Pitti di Firenze, fino a maggio si poteva visitare una mostra in cui il cappello è andato in
Toque, 1957 ca, acquisizione: dono Licia Campolmi Freudiani (courtesy Galleria del Costume, Firenze)
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Angiolo Frasconi, acconciatura in organza di pura seta (courtesy Galleria del Costume, Firenze)
scena con una selezione della loro collezione, comprendente creazioni di stilisti dell’alta moda, ma anche di celebri modisti (Philip Treacy, Caroline Reboux, Paulette) e artigiani italiani. Per una panoramica su di essa, si rimanda all’articolo su questa rivista dal titolo A Palazzo Pitti di Firenze. Omaggio ai cappelli stravaganti. Tornando all’uso comune del capo d’abbigliamento, mi piace ricordare il famoso psicoanalista milanese Mauro Mancia - originario delle Marche (nato a Fiuminata di Macerata), appassionato d’arte figurativa e di musica, collezionista di cappelli - che al primo appuntamento con i suoi pazienti osservava il copricapo e le scarpe. Secondo lui queste due ‘protesi estreme’ davano ‘sincere’ informazioni sulla personalità dell’individuo. In un’intervista rilasciata proprio per questa rivista aveva affermato che il genere umano aveva sentito presto il bisogno di proteggere la testa - luogo sacro dei pensieri - dalle intemperie dell’inverno e dal sole cocente dell’estate. Egli stesso non usciva mai senza cappello e preferiva quelli flosci, informi che si modellavano sulla testa. Insomma, il cappello può essere utile a chiunque. Non passa mai di moda!
Copertina del libro sui cappelli indossati da Audrey Hepburn
Christian Dior, Cappello, 1949-1950, acquisizione: dono Simonetta Ginori Guidi (courtesy Galleria del Costume, Firenze)
IL GRUPPO TIRABASSO HA OTTENUTO LA CERTIFICAZIONE 100% MADE IN ITALY L’azienda Tirabasso Group ha conseguito la certificazione N° IT01.IT/1009.044.A dall’ ISTITUTO PER LA TUTELA DEI PRODUTTORI ITALIANI
A seguito delle risultanze dell’audit la Commissione e distribuito dal gruppo Tirabasso risulta conforme ai IT01 - 100% QUALITA’ ORIGINALE ITALIANA A- FABBRICATI INTERAMENTE IN ITALIA B- REALIZZATI CON SEMILAVORATI ITALIANI C- COSTRUITI CON MATERIALI NATURALI D- REALIZZATI CON DISEGNI E PROGETTAZIONE ESCLUSIVI DELL’AZIENDA E- COSTRUITI ADOTTANDO LE LAVORAZIONI ARTIGIANALI, TRADIZIONALI, TIPICHE ITALIANE Questo riconoscimento rappresenta una garanzia
Un nuovo traguardo raggiunto dalla Tirabasso Group, di successi di una vicenda imprenditoriale iniziata nel 1967 per il coraggio e l’intraprendenza di un solo uomo è divenuta col italiano e poi in quello europeo.
” Il mio sogno è quello di creare cappelli unici e pregiati, concepiti per armonizzarsi al meglio con lo stile di ogni persona „
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Tirabasso Serafino
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Tirabasso Serafino Presidente Tirabasso Group S.r.l
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Mario Marini: “Mi occupo della programmazione, gestione e manutenzione delle macchine che lavorano i cappelli in lana. Seguo inoltre il processo di smacchinatura di filati che vengono poi cuciti in altri reparti.
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VIAGGIO NELL’ARTE VISUALE E MUSICALE
GLI SCONFINAMENTI DI BOGUSLAW SCHÄFFER di Luciano Marucci
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a situazione socio-politica determinatasi in (al megafono), performer specializzata nell’inseUcraina e in Crimea con le mire espansionignamento dello yoga. stiche della Russia ha riportato un certo clima di Gli artisti delle arti visive invitati a realizzare le opere guerra fredda a livello internazionale, diffondendo sul posto, i musicisti, i maggiori critici e gli esperti in il timore di un conflitto civile, più o meno pilotato, altri ambiti creativi furono ospitati per tre giorni nei e di un ritorno al vecchio regime anche nei paemigliori alberghi della città rivierasca. Poiché Schäfsi dell’Est Europa che, dopo la caduta del muro di fer non riusciva ad ottenere facilmente il permesso di Berlino, avevano faticosamente riconquistato la liuscire dalla Polonia, cominciò a inviare telegrammi bertà. L’allarmante involuzione - favorita dalla crisi per far intervenire l’Ente organizzatore che doveva economica, dall’incapacità dei governi nazionali ufficializzare l’invito dando assicurazione che avrebdi affrontare efficacemente le emergenze e dagli be pagato il soggiorno. In quello del 27 maggio mi anacronistici revival ideologici - va destabilizzanscriveva: Boguslaw Schäffer do quell’area e creando problemi di convivenza. LA PREGO VIVAMENTE DI VOLER La preoccupante perdita di memoria SOLLECITARE PRESSO LE AUTORIdei disastri di quella storia mi fa torTÀ COMPETENTI IL RILASCIO DEL nare alla mente la difficile condizioVISTO D’INGRESSO IN ITALIA LA ne della quale ero stato testimone. MANCANZA DEL QUALE RITARDA LA Alludo a come gli intellettuali erano MIA PARTENZA PER FESTIVAL STOP costretti a vivere e ad operare sotto I NASTRI PORTERÒ PERSONALMENi regimi oppressivi; condizione che TE SALUTI BOGUSLAW SCHAEFFER merita di essere raccontata ai nostalgici acritici e ai giovani i quali, non Dietro insistenze il musicista ottenne avendo conosciuto certe realtà, non il sospirato visto e arrivò a San Beattribuiscono il vero significato alla nedetto il 2 luglio. Invece di andare libertà, spesso travisato dal liberismo Boguslaw Schäffer, china bianca su cartoncino nero, cm 44,5x70, partitura autografa del all’Hotel Pierrot riservatogli, chiese Concerto for tape, 1968-1969 (16’), VIII Biennale di San Benedetto del Tronto. selvaggio. di poter alloggiare in un alberghetto Lavoro per mezzo elettronico e strumentale trasformato. Il materiale di base era composto Nel 1969 l’VIII Biennale d’Arte Con- da musica scritta in maniera tradizionale, materiale grezzo e musica grafica. (“Fiorita” di Via Montebello, camera temporanea di San Benedetto del 23), per restare quindici giorni con la Tronto sul tema “Al di là della pittura” - mosomma prevista per l’accomodation più lusstra propositiva a carattere interdisciplinare suosa. Il giorno dopo prese parte attiva all’alorganizzata dalla locale Azienda Autonoma lestimento della sala audizioni e approntò la di Soggiorno e curata da chi scrive con Gillo partitura del suo Concerto for tape (visibile a Dorfles e Filiberto Menna - comprendeva anfianco). Il 5 luglio intervenne all’happening che la sezione “Nuove Esperienze Sonore”, musicale, poi scrisse un articolo sull’evento alla quale partecipavano Giuseppe Chiari, per “Il Resto del Carlino” a cui io allora colVittorio Gelmetti, Pietro Grossi e il polacco laboravo. In quel periodo ci frequentammo Boguslaw Schäffer (segnalatomi da Gelmetquotidianamente e divenimmo amici, grazie ti) con brani musicali che potevano essere anche alla sua conoscenza della lingua itaascoltati in un’apposita sala del palazzo liana. dell’esposizione. Ad essa si ricollegava in Tornato a Cracovia, dove risiedeva, mi fece maniera diretta il concerto-improvvisazione avere un altro suo lungo articolo su “Al di là all’aperto che si tenne il giorno dell’inaugudella pittura”, pubblicato dal periodico polacrazione, a cui, oltre ai predetti compositori, co “Zycie Literackie”. San Benedetto del Tronto, 5 luglio 1969, Schäffer alla tastiera elettropresero parte il famoso sassofonista ameri- nica durante l’happening musicale in Piazza Sciocchetti (dietro a lui Nel 1978 con mia moglie progettammo un cano Steve Lacy e Franca Sacchi di Milano Vittorio Gelmetti) viaggio nei paesi dell’Est Europa e, per poter
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accedere in quelle aree geografiche, doe sapevano tutto della nostra vemmo chiedere il permesso fissando i ultima produzione automobilistica. giorni di permanenza in ciascun luogo. Evidentemente aspiravano ad avere Schäffer non aveva una camera in più auto diverse da quelle sfasciate in per ospitarci, quindi, anche per evitare circolazione, che emettevano fumo la prenotazione anticipata di alberghi accecante e irrespirabile, incrementando sconosciuti, decidemmo di andare con le emissioni inquinanti delle arretrate la tenda da campeggio. fabbriche. Senza contare i motociclisti Alla dogana - come da prassi - per alcuintenti a togliere i copertoni col cucchiaio ne ore fummo bloccati in attesa di una per riparare le frequenti forature. scrupolosa perquisizione. Risultato: ci Per poter visitare il campo di sterminio sequestrarono le riviste italiane che avedi Auschwitz, decidemmo di rimanere in Boguslaw nella sua abitazione di Cracovia (ph L. Marucci) vamo portato per Boguslaw. Polonia altri due giorni e ci recammo al Il programma prevedeva di fermarci a Cracovia tre giorni e li trascorcommissariato di polizia per l’autorizzazione e il pagamento della relaremmo in sua compagnia recandoci nell’abitazione popolare ubicata tiva tassa. L’iter fu così estenuante per attese e rimandi ai vari uffici che nel grande quartiere operaio Nowa Huta, alla periferia della città. Non so rinunciammo all’escursione perché il tempo supplementare sarebbe traquanto Boguslaw fosse già apprezzato come intellettuale, ma certamente scorso nell’attesa dell’istruttoria della pratica. Ma non riuscii ad evitare di non godeva di privilegi rispetto alla gente comune. Mi resi subito conto sbattere istintivamente la porta d’uscita dell’ultimo ufficio, pur essendo del contesto in cui doveva vivere un artista geniale come lui, pur senza inconsapevole del rischio di essere trattenuto… Per fortuna il funzionario clinazioni consumistiche, ma con grande bisogno di sviluppare rapporti fece finta di non sentire la botta e non capiva i volgari insulti in italiano. con l’esterno al fine di stimolare e confrontare la sua attività. Nel lamentare con Schäffer le difficoltà avute, con aria remissiva mi disse: In casa si esibì per noi eseguendo alcune delle ultime composizioni in “Vedi, Luciano, in che Paese devo vivere!?”. cui, alla musica elettronica su nastro magnetico associava, con indubbia Partimmo rabbiosamente per attraversare senza indugi la frontiera. Le abilità, le improvvisazioni al pianoforte. Ci mostrò le raffinate opere graperquisizioni doganali furono ancora tanto lunghe da scoraggiare ogni fico-pittoriche, caratterizzate da un’iconografia dalle suggestive evocaproposito di tornare in quei luoghi. zioni lirico-sonore, e ci fece dono della sua monumentale pubblicazione Restavano impresse nella memoria pure alcune constatazioni in appasulle scritture musicali di grandi compositori (di cui andava orgoglioso, renza insignificanti. Per farci da mangiare in casa del musicista, mia sebbene per i diritti d’autore avesse percepito un unico compenso di circa moglie andava a fare spesa accompagnata dal figlio. Nei negozi di generi 200mila lire) con la dedica qui riprodotta. alimentari, in mancanza di frigoriferi, bisognava essere attenti a non acQuei “paesaggi musicali” mi fecero capire che cercava, con sensibilità di quistare latte cagliato o uova marce. Seguendo le loro anomale abitudini, musicista e pittore, di dare alle arti visive che facevano anche sorridere, per acquila voce della musica e a quest’ultima la stare sei uova si dovevano ‘esplorare’ più visualità della pittura e della grafica. posti: Ci portò a visitare il parco della città, la - Se capitano quelle guaste da una parte, celebre cattedrale, il castello e la miniesi può rimediare con altre prese altrove ra di Wieliczka: la più antica d’Europa diceva Piotr. (3500 anni a. C.) ancora in funzione, In genere c’era poco da scegliere e la quacon oltre 300 km di gallerie, straordinarie lità dei prodotti poveri esposti nelle vetriarchitetture ingegneristiche di sostegno, ne non invogliava… Oggi le badanti postalattiti saline, edificazioni e arredi colacche che si avvicendano nelle famiglie struiti con la materia prima. Nel corso straniere provano che il progresso econodelle escursioni turistiche Boguslaw ci mico della nazione è ancora insoddisfaparlava delle sue innovative esperienze cente, ma sanno che la conquista della musicali con l’impiego del mezzo elettrolibertà ha un valore incomparabile. D’alnico, alle quali non erano estranei i rifetra parte neanche la Russia ha saldato il rimenti alla natura. Era aggiornato sugli conto con la storia perché le condizioni avvenimenti culturali di punta e assetato democratiche e culturali risentono del codi conoscenze. Aveva molta stima di John munismo ortodosso. Nel campo dell’arte Cage e Karlheinz Stokhausen, dissacratori contemporanea, ad esempio, sono rivedi stili obsoleti. latrici le dichiarazioni rilasciatemi nel Dedica di Schäffer sulla pubblicazione donata agli amici italiani, dove alla frase In giro rilevammo che, specialmente programmatica “Suonare è facile” di Giuseppe Chiari ha dialetticamente ag- 2012 da Viktor Misiano, il più noto critico i giovani, mitizzavano la tecnologia giunto “Comporre-difficile!” dell’Unione Sovietica, e quelle del marzo
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permesso di espatrio, arrivarono pieni di entusiasmo. Ogni mattina si precipitavano di buon’ora in spiaggia e in acqua si divertivano come ragazzini. Sembravano vivere gioiosamente in un sognato Paradiso Terrestre. QuanRiuscite ad instaurare un dialogo do li portammo in un grande negocon le istituzioni pubbliche per atzio self-service, Boguslaw, di fronte tivarle? all’abbondanza dei cibi in vendita, si […] Le istituzioni pubbliche sono mise sulle spalle un sacco di pennette stalattiti afone. Corpi estranei che oce finse di volerlo portar via, ignorancupano lo spazio vitale per gli altri, do che si trattava di pasta per cani. assolutamente scollegati dal mondo Il musicista, il figlio Piotr e Anna Maria Novelli Marucci all’uscita della storica miniera di Io risiedevo ad Ascoli e, per motivi di circostante, concentrati e preoccupati sale tra militari in libertà... (ph L. Marucci) lavoro, non potevo essere quotidianasolo di salvare se stessi. Noi abbiamo mente da loro. Così mia moglie prepaprovato e proviamo a contaminarle, andando a realizzare progetti nella rò una pentola di ragù perché potessero condire più volte la pastasciutta, sede di musei statali o nelle città. Ma abbiamo sempre la consapevolezza ma dopo due giorni ci riconsegnarono la pentola vuota: non conoscendo di lavorare non insieme a qualcuno, bensì con un esercito contro. bene l’uso italiano del contenuto o per non sciupare il tempo, lo avevano mangiato tutto intingendovi il pane. Il sistema dell’arte della Russia si va evolvendo? Segue i processi di Furono così entusiasti della vacanza che due anni dopo vollero ripeteremancipazione delle altre nazioni europee? la. In quella circostanza, approfittando della disponibilità di Boguslaw, Risente della storia del Paese e, come le dicevo, si può emancipare solo ideammo e visualizzammo un’azione performantica in cui egli scriveva grazie ai privati, perché la modernizzazione delle strutture pubbliche rimusica sul bagnasciuga (subito cancellata dalle onde) e per eseguirla…, chiede una crescita culturale che non è raggiungibile nel breve tempo. usava strumenti simbolici: una grande conchiglia, un anello della coQuando dico che questo non è un Paese contemporaneo, intendo che non lonna vertebrale di un cetaceo, una paletta di legno da cucina e un regiè bastato abbattere i muri, riempire i negozi e dare a tutti la possibilità di stratore a pile. Con stupore dei bagnanti, che si fermavano incuriositi, il viaggiare perché recuperasse il terreno perduto sul fronte dei diritti umani musicista dirigeva e suonava… Da qui il titolo dell’operAzione: Suonare o della coscienza civile. Ci sono tanti esempi che si potrebbero addurre il mare. Documentai quei momenti effimeri con varie diapositive e gli per spiegare questo punto. La contemporaneità è una somma di idee e di feci avere una selezione di 19 scatti più uno finale - che avevo rubato comportamenti che qui per lo più restano sconosciuti. Non è contempoall’Oceano Indiano - capace di esprimere la quiete della pace. Gli suggerii raneo il rapporto uomo/donna, non è contemporanea la mancanza di atdi proiettare le immagini su uno schermo mosso da un ventilatore posto tenzione ai problemi dell’inquinamento, non lo è il totale disinteresse alle sul retro per simulare il movimento delle onde, come avevo visto al Centre fonti alternative di energia e neppure l’atteggiamento verso i nuovi flussi Pompidou di Parigi nella mostra “PaySages”. Nella lettera del 3 marzo migratori. Insomma, non è contemporaneo non partecipare. La parteci1984 mi diceva di aver usato quelle slides “in una storia molto teatrale pazione, intesa come modus vivendi di una società civile e consapevole, di un povero turista che ha fatto un viaggio impossibile. […] dobbiamo non abita da queste parti. Questa è una società “precivile”. fare altre slides di questo tipo!”. Per far ambientare i nostri ospiti, li portammo a visitare Ascoli e andamLo stato di bisogno e la mancanza di lavoro possono offuscare i vantaggi mo a casa Orsini per un ‘concerto da salotto’. Boguslaw diede altra prova della liberta e, anche se non mancano del suo straordinario talento esegueni restauratori e le strategie geopolitido al pianoforte suoi pezzi in cui aveche come quelle attuali in Ucraina e va ibridato sapientemente classicità e nella penisola di Crimea, il cieco reavanguardia; mentre Paola (figlia dei gime di un tempo non potrà mai risunostri conoscenti, che studiava danza) scitare totalmente. li interpretava sulle punte in maniera Considerato che per Schäffer poter aggraziata da suscitare la simpatia di venire in Italia era stata una felice Piotr. Penso che Boguslaw e il figlio parentesi, nell’estate del 1979 lo invinon abbiano mai dimenticato quelle tai con il figlio Piotr a San Benedetparentesi italiane di vita incondizioto, assicurando, con lettera formale, nata. l’ospitalità per un mese nel mini apGiacché Schäffer non poteva portare partamento di mia moglie, riservato in Polonia somme eccedenti quelle agli artisti. Ottenuto dalle autorità il Ciminiere polacche fumanti in un complesso industriale (ph L. Marucci) consentite, in occasione dei concerti e scorso di Teresa Iarocci Mavica, direttrice della V-A-C Foundation, che opera a Mosca, la quale ha risposto così a due domande per la mia inchiesta su “Impresa & Arte”:
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Alcuni scatti della performance Suonare il mare improvvisata da Sch채ffer a San Benedetto nel 1981 (ph L. Marucci)
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Boguslaw Schäffer, Träumerei (Sogno), 1975, china su cartoncino, cm 10x10
dei corsi di composizione che teneva soprattutto nell’Europa Occidentale, mi spediva una parte del denaro guadagnato che gli versavo in un conto della Cassa di Risparmio e, se all’estero gli occorreva, mi chiedeva di inviarglielo o di acquistarci i trasferibili (non in vendita nel suo Paese) che adoperava in insolite partiture. Quando metteva piede fuori della “cortina di ferro” e riscuoteva successo, mi spediva cartoline con trionfali messaggi, e mi faceva pervenire pubblicazioni e incisioni su dischi per tenermi al corrente del suo lavoro. Per il resto la nostra collaborazione era frenata dalle insuperabili distanze… Oggi, ripensando con amarezza a quelle vicende, mi sembra di aver avuto rapporti con un artista in esilio nella propria patria. Di lui, oltre alle capacità di compositore, esecutore e insaziabile sperimentatore, mi aveva colpito la voglia di sconfinare geograficamente e intellettualmente; di comunicare (dimostrata pure dalla conoscenza di cinque lingue); il senso dell’amicizia; lo spirito di sopportazione e l’arte di arrangiarsi. I suoi impegni musicali si estesero sempre più. Nel 1984 lo invitai a tornare ad Ascoli per un concerto e rispose: - Cari Luciano ed Anna, sono molto infelice: abbiamo ricevuto la tua lettera con la molto interessante proposizione di un concerto con pezzi popolari, jazz e di nuova musica - ed io non posso venire. Pietro ho malato […], devo aspettare per alcuni mesi o più. […]”. Cinque anni dopo Piotr in una lettera in inglese ci dava queste informazioni:
Performance di costruttivisti vocali mentre eseguono Lektura di Schäffer al Forge di Cadmen (Londra)
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Copertina di una delle incisioni discografiche con scritta autografa che evoca la performance di San Benedetto
[…] abbiamo avuto grandi problemi qui in Polonia. Prima di tutto c’è stata la legge marziale del generale Jaruzelski che ha causato la nostra difficoltà nell’ottenere il passaporto e il visto per andare all’estero. Fortunatamente nel 1983 è finita e mio padre in seguito ha viaggiato molto all’estero. […] Il mio lavoro è fare interviste che appaiono in “Zycie Literackie” (La Vita Letteraria) in Cracovia). […]. Le speranze di libertà avevano iniziato a concretizzarsi con l’azione di Solidarnoscć(1980) e la Perestrojka di Gorbaciov che, due anni dopo la memorabile caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, portò alla dissoluzione dell’URSS e all’indipendenza delle 15 repubbliche che ne facevano parte. Alla decisiva evoluzione - com’è noto - aveva contribuito pure la silenziosa ‘politica’ di Papa Wojtyla (eletto nel 1978), facendo leva sul cattolicissimo popolo polacco. Sono seguite delle cartoline di Boguslaw, poi il silenzio. Nel 2006 gli mandai a Cracovia il Cd-Rom sull’VIII Biennale di San Benedetto, realizzato con il mio aiuto dalla Mediateca delle Marche di Ancona per rivisitare virtualmente la manifestazione, ma non ebbi risposta e pensai che l’indirizzo non fosse più quello che conoscevo. Recentemente, dopo aver fatto pubblicare sulla rivista “Juliet” un suo lavoro grafico nell’articolo Medium VisivoSonoro della mia collaboratrice Loretta Morelli, gli ho scritto di nuovo anche perché volevo intervistarlo per questo servizio e ancora una volta non ho avuto riscontro.
Immagine dalla serie Grafiki di Schäffer
Altre immagini della serie Grafiki
Nell’aprile scorso, con grande sorpresa, ho ricevuto una telefonata dal figlio (ora sessantenne) che, parlando un po’ italiano e un po’ inglese, mi ha fatto presente che abita ancora nella stessa casa e non possiede il computer; la madre è morta, il padre (ormai anziano) è ricoverato all’ospedale di Salisburgo per una seria caduta e lui si trova in stato di bisogno. Da quel contatto e da altri seguiti mi ha lasciato intendere che è terrorizzato per la sorte dell’Ucraina e teme l’imminente occupazione della Polonia da parte dei russi. Mi è sembrata una preoccupazione eccessiva, come se gli fosse rimasto l’incubo degli anni vissuti nella dittatura. L’artista multiforme Schäffer ha condotto singolari esperienze musicali che sono sconfinate nelle arti visive e nel teatro. Con la sua identità di creativo eclettico e trasgressivo ha dato molto alla ricerca sonora distinguendosi, fin dagli esordi, nello scenario internazionale come precursore di nuovi orientamenti. Ha prodotto musica con le note e senza, ricorrendo al medium grafico-pittorico, alla matematica, a più linee compositive, a processi performativi e al linguaggio del corpo; inventando simboli, partiture visuali, scritture e forme di rappresentazione; superando schemi fissi e vecchie modalità operative; chiamando in scena altri musicisti, attori, vocalisti e pubblico; sfruttando effetti strumentali e multifonici; utilizzando media elettronici e oggetti sonori; invadendo spazi pubblici. Tutte novità che hanno consentito anche libere interpretazioni; agevolato l’esecuzione e l’ascolto; valorizzato i suoni e gli aspetti visivi; arricchito lo specifico con contributi di altre discipline; creato un rapporto più vivo con gli spettatori, anche attraverso ‘strumenti’ per esecuzioni interattive, stimolando la creatività individuale. Schäffer è nato a Lwów (ora Lviv) in Ucraina nel 1929. Presto si è trasferito in Polonia dove ha studiato violino e composizione. È stato membro del “Grupa Krakowska” di avanguardia artistica e redattore capo di “Forum musicum”. Ha insegnato dal 1963 allo State College of Music di Cracovia (oggi Kraków Accademy) e dal 1980 al 2000 alla Hochschule für Music di Salisburgo.
È un autore molto prolifico, famoso per i suoi esperimenti in notazioni grafiche. Nel 1953 scrisse la prima opera dodecafonica polacca per orchestra (“Music for Strings”). Ha realizzato oltre 550 opere in 23 differenti generi musicali, 44 tradotte in 17 lingue, eseguite in patria e all’estero con successo. Nel 1959 e nel 1964 è stato premiato alla Gregori Fitelberg Competition di Katowice; nel 1962 all’Artur Malawski Competition di Cracovia e nel 2007 ha ricevuto il Grand Cultural Award della provincia di Salisburgo. È considerato uno dei più originali musicisti del nostro tempo avendo contribuito in larga misura a liberare il genere dagli schemi rigidi della tradizione musicale e vocale, ampliandone il concetto in senso interdisciplinare e multimediale; coniugando talento naturale, rispetto di valori storici, rigore professionale e innovazione. Ha affermato: Whatever is possibile in music is music (Tutto ciò che è possibile in musica è musica). Di solito combina armonicamente peculiarità tecniche del mezzo elettronico, espressività della propria immaginazione e principi teorici. Le sue partiture sono connotate da un sistema di segni che traducono solo in parte l’intenzione e il fluire della musica consentendo esecuzioni aperte ad altri esiti. Sono circa 400 le sue opere grafiche. Stando alle immagini che appaiono in internet, questa intensa produzione (di cui avevo perso traccia) ha avuto maggiore visibilità. Il linguaggio, pur avendo mantenuto l’aspetto sonoro, è strutturalmente mutato: la figurazione piuttosto metamorfica degli anni Settanta è approdata a soggetti ancor più frammentati e plastici, caratterizzati da razionalità inventiva e forte impatto visivo della musica, ottenuti con l’uso di forme geometriche, segni gestuali e cromatismi attentamente disciplinati. La serie dei Grafiki colorati, di cui qui vengono riportati alcuni esemplari, sfrutta la tecnica del collage con porzioni di suoi spartiti e di dipinti.
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ISOTTA ZERRI MODISTA DEL NOVECENTO di Belinda Formentini
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na bambina di soli dieci anni lascia la scuola per inseguire la passione per i cappelli. Fu così che Isotta Zerri, all’età di vent’anni, riuscì ad aprire un laboratorio a conduzione familiare e sviluppò il proprio senso artistico fino a divenire protagonista dell’haute couture parigina pur senza mai trasferirsi in Francia per non lasciare Bologna, la sua città tanto amata. Nonostante fosse la preferita di Coco Chanel e sia stata scelta da Christian Dior per le sfilate di molte stagioni, la fashion designer della Belle èpoque era tanto legata al marito e ai figli da continuare la propria attività nel suo atelier di Piazza Santo Stefano dove riuniva l’élite della società bolognese. I suoi cappelli hanno lasciato il segno nella moda del Novecento: furono indossati nei decenni, dagli anni Trenta agli Ottanta, da personaggi famosi quali Rachele Mussolini, Edda Ciano, Gina Lollobrigida, Idina Ferruzzi e Katia Ricciarelli, senza dimenticare dive e principesse tra le quali Grace Kelly. La storia del film-documentario Appunti per un film su Isotta Zerri, diretto da Paolo Fiore Angelini, è stata sviluppata sui racconti di Gloria e Gianluca Gasparri, figli di Isotta, e della sua fidata dipendente Medarda Gianstefani, oggi 92enne. Hanno poi contribuito ad arricchire gli appunti del regista la stilista Lavinia Turra, che da piccola giocava nel laboratorio di Isotta, e Annamaria Govon, modista ancora attiva a Bologna. Lo scorso anno è stata realizzata un’antologica intitolata “La signora dei cappelli”, dedicata proprio alla Zerri, autentica creativa del Novecento. La mostra, organizzata da ABC (Arte Bologna Cultura) a cura di Lavinia Turra, presentava ben 100 creazioni originali hand made uscite dall’atelier di Isotta Veduta della mostra della Zerri a Bologna insieme ad articoli e immagini d’epoca provenienti dall’archivio di famiglia e da collezioni private. L’allestimento era a cura degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nell’ambito dell’esposizione è stato presentato un libro fotografico. A fine mostra è arrivata anche la telefonata della Maison Dior che chiedeva la disponibilità ad esporre anche a Parigi i pezzi della Zerri, unitamente a quelli che fanno parte dell’archivio Dior. Una bella soddisfazione per una modista italiana, prestigiosa rappresentante del made in Italy di gran classe. Cappelli by Zerri esposti a Bologna
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Isotta Zerri
Via G.E. Alessandrini, 4 63835 MONTAPPONE (FM) ITALY Tel. 0734.760487 info@paimar.com
L’ARTISTA-ANTROPOLOGO LUIGI MANCIOCCO di Stefania Severi
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uigi Manciocco in certa misura è ascrivibile all’Arte Concettuale, ma in tale ambito si è ritagliato un campo d’indagine peculiare costituito dall’antropologia, lo studio del comportamento umano. Le sue ricerche da tempo vertono sui significati profondi dei segni-comportamento, talvolta prima ancora che questi si configurino come credenze, miti, icone o tradizioni. In ogni sua opera egli focalizza uno specifico atteggiamento umano, fissandolo nella sua essenza. A tal fine segno e colore si fanno minimali così da invitare lo spettatore a non “perdersi” nel descrittivismo ma a cogliere d’immediato la tematica primaria, raggiunta attraverso una sequenza di semplificazioni successive fino alla sintesi totale. Egli ha scandagliato numerosi aspetti dell’antropologia, non solo attraverso le opere, ma anche con studi sistematici che sono scaturiti in edizioni quali Una casa senza porte (Roma, 1995) e L’incanto e l’arcano (Roma, 2006), entrambi sulla figura della Befana ed entrambi scritti con la sorella Claudia. Né trascura gli approfondimenti sull’arte contemporanea, pubblicando recensioni e interviste ad artisti su “Artspeak”, “Next” e “Zeta”, rivista internazionale di poesia e ricerche. Manciocco ha esordito a fianco di Carlo Levi, che scrisse la presentazione della sua prima mostra, per proseguire operando all’interno della Fondazione Levi. Alla formazione artistica ha infatti sempre affiancato quella critica e letteraria, avvicinando personalità di prestigio anche straniere. Tutta la sua opera è attraversata da una linea di ricerca, ad iniziare dalle prime esperienze espositive che risalgono alla fine degli anni Ottanta: la ricerca dell’assoluto che elimina quasi completamente il colore, ridotto al bianco e, da ultimo, all’acciaio. Vitaldo Conte, nel 1990, nella presentazione alla personale all’Atlantic Gallery di New York, evidenzia la presenza costante del bianco come «... espressione di sintesi e di alfabetizzazione... come assenza e totalità... ». Anche Nicola Micieli, nella presentazione alla personale “In Calce. Mare Bianco” allo Studio Panigati di Milano nel 1992, sottolinea questo aspetto in Manciocco che «… ha lavorato molto sulle possibilità formali del bianco in quanto sintesi della totalità luminosa, campo incontaminato sulle cui onde impalpabili ciascun segno, anche il più tenue, si mostra come un evento magico, incerto tra il definirsi allo sguardo e il dissolversi... ». Nella personale alla Galleria Miralli di Viterbo, nel 1994, rimanendo sempre fedele alla poetica del “bianco su bianco” approfondisce la tematica del simbolo che, nel caso specifico, verte sulla “Particola”, come parte o particolare dell’ostia, la vittima sacrificale. Nel 1997 a Spoleto nell’ex carcere del Sant’Uffizio l’installazione “Liberaci dal male” presenta una serie di lightbox con l’immagine di una scopa luminosa per allontanare, o meglio, spazzare via il male dal buio del carcere. Il suo interesse per l’antropologia è stigmatizzato da Lydia Reghini di Pontremoli, che lo inserisce nel suo libro Primitivi urbani: Antropologia dell’Arte Presente (Roma, 1998). Nel 2007 l’artista punta l’attenzione sullo sguardo: l’installazione “Vis a vis”, a cura di Pierluigi Basso Fossali, nella sala degli Ori del Palazzo Comunale di Spoleto, pone a confronto sguardi fissati sulla carta e colti nel video. Del 2009 “Miracle” - a cura di Luca Beatrice, nel Museo Civico, Chiesa di S. Antonio a Cascia - è una mostra articolata in una serie di video e pannelli con l’installazione di 200 rose bianche in cera, ad evocare un celebre miracolo della
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Spoleto 2014. Luigi Manciocco accanto a Cuboliquido (2010‘14) in esposizione a Palazzo Collicola di Spoleto
Una veduta della personale di Manciocco a Spoleto
Santa dell’impossibile. Il simbolismo della rosa, del resto, è stato presente già in passato nell’opera dell’artista. Una rosa è inserita nell’opera dedicata a Saint-Exupéry e proposta a Milano nel 1998. Il titolo è tratto da Il Piccolo Principe: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi. È lei che ho innaffiato, è la mia rosa”. In questa poetica immagine è la sintesi di numerosi trattati, sia occidentali che orientali. In quella rosa, che Manciocco ha reso materica e rigorosamente bianca; come nel mito più antico, confluiscono la dantesca Candida rosa, la rosa dei venti, il rosone gotico, il Roman de la Rose, Triparasundari, le rosalia... Nel 2010 nella rassegna “Profili” presenta a Terni “Cuboliquido”, un lavoro il cui tema è il rispecchiamento dei materiali con un cubo di acciaio sul quale poggia un cubo di ghiaccio destinato a liquefarsi. Il ghiaccio, già utilizzato da Manciocco in una installazione realizzata a Milano nel 1998, in questo caso è forma simbolica di una fenomenicità. L’ultimo impegno espositivo di Manciocco è stato quello nelle splendide sale di Palazzo Collicola - Arti Visive di Spoleto, dal 12 aprile al 25 maggio di quest’anno. “Liturgia dello sguardo”, importante manifestazione a cura di Gianluca Marziani, ha offerto al pubblico ben tre personali, Manciocco, Emilio Leoffredi e la vasta antologica “Im/perfetto equilibrio” dello spoletino Franco Troiani. Tra le varie opere del primo, oltre alla riproposizione di “Cuboliquido”, ve ne erano alcune di particolare impatto: “Ruber” ed “Ex Voto” (tra loro collegate) e “Suggrundaria”. “Ruber” è costituita da una placca d’acciaio di colore bianco con un dispositivo che fa uscire da un minuscolo foro una goccia di sangue (sangue per effetti speciali) che, scivolando lungo la placca, si rapprende sul pavimento. L’opera è una riflessione sul simbolo ambivalente del sangue come processo di vita ma anche di morte. “Ex voto” è un grande pannello su cui si aprono tre fessure che consentono di vedere tre immagini video costituite da tre sguardi: quello di una giovane donna che incarna Santa Rita e gli altri due di Yves Klein e Dino Buzzati. Il rimando è alla devozione che sia l’artista francese sia lo scrittore e poeta bellunese, che per altro si conoscevano, avevano per la Santa, tanto che Klein le dedicò un’opera come ex voto e il secondo un dipinto e il racconto “I miracoli di Val Morel”. “Ruber” ed “Ex Voto” costituiscono inoltre un’ulteriore tappa dello studio di Manciocco su Rita da Cascia, iniziato con la mostra “Miracle”. “Suggrundaria” è un lavoro a parete con una grondaia metallica sulla quale sono collocate sculture di neonati in alluminio, alte cm 32. L’opera si collega ai suoi studi antropologici sugli antichi usi di sepoltura. Infatti, secondo recenti scoperte, nella Roma protostorica i neonati defunti venivano posti sulle grondaie delle case così che potessero vegliare sui risiedenti. Da quanto esposto, che rappresenta ovviamente solo una parte del percorso dell’artista, è indubbio che avvicinarsi alle sue opere produce una forte emozione che, a mostre terminate, viene perpetuata dai libri-cataloghi realizzati nelle varie circostanze, ognuno dei quali si presenta come opera d’arte a sé stante, nella raffinatezza e originalità della veste grafica e nello spessore degli apparati critici. Il fruitore dell’opera di Manciocco è portato a osservare e a sforzarsi di comprendere, è chiamato in causa ed indotto a mettere in discussione la realtà percettiva. Fermarsi a pensare, a riflettere, a considerare non è una possibilità ma un imperativo dettato dall’incisività del messaggio che da queste opere emana, sempre senza fronzoli e senza sbavature, ma sintetico e diretto. È un imperativo che si esplica su un doppio versante, quello della percezione e quello della conoscenza storica, entrambe chiamate in causa. È questo l’aspetto più interessante del lavoro di Manciocco: l’uso della sfera sensoriale come veicolo per la riflessione intellettuale, in una concezione totalizzante dell’opera d’arte.
Liberaci dal male, 1997, installazione nell’ex carcere del Sant’Uffizio a Spoleto
Una delle 200 rose in cera dell’installazione Miracle, 2009, Museo Civico Chiesa di S. Antonio, Cascia
Studio per l’installazione Dono, 1994, Campagna (Salerno)
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Alma-Tadema e i pittori dell’800 inglese di Stefania Severi
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carsa è la conoscenza in Italia della pittura inglese della seconda metà del 1800, caratterizzata dal Movimento Estetico che ha abbracciato il periodo vittoriano ed eduardiano. Se prendiamo “L’Arte Moderna 1770-1970” di Giulio Carlo Argan (Firenze, 1970), uno dei testi in Italia caposaldo della formazione culturale nel campo della storia dell’arte, alla voce “L’Ottocento in… Inghilterra” troviamo citati i Puristi, i Preraffaelliti e William Morris, che promosse il movimento “Arts and Crafts”. L’unico artista del Movimento Estetico considerato dal celebre storico dell’arte è Edward Burne-Jones del quale è riprodotta l’opera “Il re Copethua e la piccola mendicante” del 1884 (Londra, Tate Gallery). Ancora all’epoca della pubblicazione di questo studio, l’800 inglese non era molto considerato. La vicenda critica di questa pittura, infatti, ha subito fasi altalenanti. Grandemente stimata ai suoi tempi, soprattutto dal pubblico inglese e statunitense, fu risucchiata nel dimenticatoio a causa dell’emergenza dell’Impressionismo, il cui apprezzamento ha indotto la critica a disconoscere altre forme d’arte coeve o, quanto meno, a dar loro meno importanza di quanto meritassero. Il fenomeno si è verificato anche in Italia con i Macchiaioli, per lungo tempo dimenticati. Per ciò che concerne l’800 inglese, dopo un periodo d’oblio, fortunatamente alcune personalità, senza lasciarsi imbrigliare dalla critica, con libero giudizio e gusto sicuro, hanno raccolto queste opere. Uno dei più celebri collezionisti è il magnate messicano Juan Antonio Pérez Simón. Proprio con i capolavori dell’800 inglese provenienti dalla collezione Pérez Simón, che ha sede a Città del Messico, è stata realizzata la mostra “Alma-Tadema e i pittori dell’800 inglese” (Roma, Chiostro del Bramante, 16 febbraio - 5 giugno 2014). La mostra, a cura di Véronique Gerard-Powell, è giunta a Roma da Parigi, per fare poi tappa a Madrid. Questi pittori legati al Movimento Estetico, che si diffuse dopo quello dei Preraffaelliti, vissero nell’arco temporale dal 1860 alla Prima Guerra Mondiale, sotto i regni di Vittoria (1837-1901) e di suo figlio Eduardo VII (1901-1910). Il Movimento Estetico si ispirava al passato in modo eclettico ed aveva come obiettivo la bellezza che veniva identificata con la donna. In tutte le composizioni la figura femminile è amorosamente ritratta con attenzione non solo alle belle forme del corpo ed all’armonia dell’abbigliamento, ma anche all’intensità psicologica degli sguardi dai quali traspaiono i più vari sentimenti. Quest’arte, affiancandosi allo storicismo, amava la ricostruzione storica. Alcuni artisti si rivolsero soprattutto alla descrizione del Medioevo, collegandosi con lo stile neogotico, altri invece al passato egizio, greco e romano. Ma non fu un neo-neoclassicismo. Non si costruirono falsi templi né le signore dell’epoca si fecero ritrarre vestite con tuniche di velo ed adagiate sulle agrippine, ma si volle rievocare la vita quotidiana dell’antichità, con dovizia di particolari frutto di attente ricerche.
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Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888, olio su tela, cm 132,7x214,4 (collezione Pérez Simón, Città del Messico; © Studio Sebert Photographes)
John William Waterhouse, Canto di Primavera, 1913, olio su tela, cm 71,5x92,4 (collezione Pérez Simón, Città del Messico; © Studio Sebert Photographes)
È indubbio che il maggior rappresentate di questi artisti amanti dell’antico fu Lawrence Alma-Tadema (1836-1912). Nato in Olanda e diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Anversa, si recò in Italia in viaggio di nozze e ne ricavò impressioni fortissime che avrebbero caratterizzato buona parte della sua produzione. Visse a Bruxelles fino al 1869, anno di morte della prima moglie, che lo lasciò solo con le figlie Laurence (in futuro scrittrice) e Anna (poi pittrice). Nel 1870 Lawrence si trasferì a Londra dove, poco dopo, sposò Laura Epps, nobildonna inglese di famiglia benestante. Divenuto suddito di Sua Maestà Britannica, ebbe riconoscimenti ed onori. Visse con sfarzo, amando lo sport, le donne e le riunioni mondane. Per realizzare i suoi dipinti, curatissimi nei particolari, dalle vesti ai monili, dalle suppellettili all’arredo, dalle ambientazioni ai panorami, si serviva di fotografie sia dei luoghi sia delle opere d’arte, si ispirava alla storia direttamente dalle fonti, si contornava di oggetti e suppel- Frederic Leighton, Grenaia, ninfa del fiume Dargle, lettili antichi, veri e falsi. Si fece 1880 ca, olio su tela, cm 76,8x27,2 (collezione costruire una panchetta, con i Pérez Simón, Città del Messico; © Studio Sebert Photographes) piedi di foggia da un lato egizia e dall’altro pompeiana, che compare in molti dipinti. L’artista ebbe un particolare amore per Pompei, infatti alcuni dipinti sono ambientati all’uscita della città, sulla Via dei Sepolcri, o in vista del golfo di Napoli. Certamente il suo dipinto d’ambiente romano più celebre è “Le rose di Eliogabalo” (1888): la scena evoca un episodio narrato nella “Vita Antonini Heliogabali” nella “Historia Augusta” (inizio IV sec.): nel corso di un banchetto alla presenza dell’imperatore alcuni invitati morirono soffocati da una pioggia di petali di fiori. John William Godward, L’assenza Alma-Tadema ha avuto degni compagni di strafa crescere l’amore, 1912, olio su da tra i quali Edward Burne-Jones, John William tela, cm 130,5x80 (collezione Pérez Simón, Città del Messico; © Studio Godward, Frederic Leighton, Albert Joseph Moore Sebert Photographes) e John William Waterhouse.
Albert Joseph Moore, Conchiglie, 1875, olio su tela, cm 79x35,9 (collezione Pérez Simón, Città del Messico; © Studio Sebert Photographes)
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Torresi Lorenzo L’esercizio di commercio ambulante del padre, iniziato nel 1947 e trasformatosi poi in piccolo laboratorio famigliare dedito al confezionamento di cappelli in tessuto, è stato determinante per la scelta e per l’avvio dell’attività imprenditoriale di Lorenzo. Nel 1972 nasce il cappellificio che si sviluppa come impresa artigiana produttrice di cappelli donna, uomo, bambino. Oggi la ditta Torresi Lorenzo si contraddistingue per il design innovativo nel settore moda, supportato da una ricerca continua dei materiali e dal know how aziendale maturato durante un’esperienza di oltre quarant’anni.
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DONNE DELLE MARCHE NEL NOVECENTO
PIONIERE E PROTAGONISTE DI EMANCIPAZIONE di Rita Forlini
Maria Montessori (al centro, seduta) il 16 ottobre 1950 nella Pinacoteca Civica durante una visita ad Ascoli Piceno. Tra le persone individuate: alla sua destra la benefattrice contessina Saladini, a sinistra il cappuccino Padre Emidio D’Ascoli; dietro (secondo a destra) il Sindaco Serafino Orlini con accanto il maestro Arturo Clerici (courtesy Archivio Storico Iconografico Comunale di Ascoli Piceno).
I
l 25 luglio 1906, mentre in Europa e nei paesi occidentali le donne conducevano la battaglia per l’acquisizione del diritto di voto, la Corte di Appello di Ancona, anticipando addirittura le istanze delle più combattive suffragette inglesi, emise la storica sentenza che accoglieva la richiesta di iscrizione alle liste elettorali di dieci donne marchigiane decise ad affermare la propria dignità di cittadine: Carolina Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Grazioli, Iginia Matteucci, Emilia Simoncini, Enrica Tesei, Dina Tosoni e Luigia Mandolini Matteucci. Il Presidente della Commissione, Ludovico Mortara, reputò sussistessero i requisiti legali per un parere favorevole, essendo le
Sezione cucitrici (anni ‘50), Ditta Sorbatti, Massa Fermana
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Ada Natali
donne maggiorenni, in grado di leggere e scrivere, e per di più munite di patente di insegnanti elementari. Interpretando l’art. 24 del Codice civile, egli le considerò tra tutti i regnicoli (…) uguali dinanzi alla legge che godono egualmente di diritti civili e politici e sono ammissibili alle cariche civili e militari salve le eccezioni determinate dalla legge. Le maestre restarono iscritte alle liste elettorali per una decina di mesi ma non poterono esercitare il loro diritto in quanto in quell’arco di tempo non furono indette elezioni. Nel dicembre 1906, purtroppo, su appello del procuratore del Re, la Corte di Cassazione di Roma formulò una nuova sentenza che annullava quella precedente, così nel maggio del 1907 esse
Dora Tombini (Archivio privato Famiglia Tombini)
Donne al lavoro nel Tabacchificio di Offida
vennero depennate dalle liste. Le dieci anconetane non furono le prime elettrici europee, ma sicuramente crearono un’eco notevole nella società italiana contribuendo a dare forza al nascente movimento femminista. La loro voce si alzò forte accanto a quella più nota e autorevole di Maria Montessori che pose in essere clamorose azioni in favore del diritto di voto alle donne. La Montessori era nata a Chiaravalle nel 1870 da una famiglia colta e altoborghese. Compì gli studi tecnici, unica donna iscritta nel suo istituto. Carattere forte, spirito libero e inquieto, si spinse verso orizzonti cosmopoliti. Diceva di sé: vivo in cielo, il mio paese è una stella che gira intorno al sole e che si chiama terra. Fu energica e trasgressiva, tra le prime donne medico italiane. Elaborò e praticò un modello educativo che porta il suo nome, ancora oggi diffuso ed applicato in tutto il mondo. Maria seppe tener testa a Mussolini difendendo, irremovibile, i principi del suo Metodo e creando intorno a sé un nutrito gruppo di seguaci dedite alla causa del movimento umanitario per l’elevazione morale della società attraverso educazione e istruzione. Girò l’Italia e il mondo. Per il suo impegno pacifista fu tre volte candidata al premio Nobel. Concluse i suoi giorni in Olanda nel 1952, dopo aver ricevuto innumerevoli riconoscimenti internazionali.
Adele Bei
Un campo in cui fin dal 1859 con la legge Casati si lasciò uno spazio pubblico sempre più ampio alle donne fu quello dell’insegnamento nelle scuole elementari, professione considerata conforme al ruolo femminile di madre, fino a quando, a partire dal 1921, la Legge Nasi ne limitò l’accesso alla carriera direttiva e differenziò per genere i percorsi e le retribuzioni. Ciononostante Zoe Linda Ambrogi, nata a Fossombrone nel 1878, diplomata alla scuola pedagogica di Roma, fu capofila nell’assumere l’incarico di direttrice governativa dopo aver insegnato in una scuola elementare della città natale dal 1900 al 1927. Accettò di tornare in servizio anche da pensionata, tra il 1944 e il 1947, per rimpiazzare il personale direttivo maschile richiamato alle armi. Proprio durante i conflitti bellici anche nelle Marche le donne presero il posto degli uomini in guerra e riuscirono a mantenere gli standard di efficienza in tutti gli ambiti lasciati vuoti; a compensare muscoli e forza fisica con doti umane e autorevolezza. Le responsabilità acquisite corroborarono la consapevolezza del proprio valore e innescarono il progressivo cammino verso l’autodeterminazione. Tenacia e coraggio contraddistinsero le tantissime che non si ritrassero di fronte alla repressione del regime fascista e dettero un poderoso contributo sia come partigiane combattenti sia come staffette, o con compiti di
Merlettaie di Offida, primi anni del Novecento (da Serena Antonelli e Mario Mercuri, Emidio Portelli. Selezione degli bachi sani, Premiato Stabilimento Bacologico Tommaso Ferri di Ascoli Piceno (courtesy Archivio Storico Iconografico Comunale di Ascoli Piceno) Un secolo di Offida in… cartolina, 1900-2000, Ed. Comune Offida, 2003)
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Cordare di San Benedetto del Tronto (da MareDiCorda. Viaggio nel mondo dei mestieri di coste e di mare, a cura di M. N. Croci, Comune di San Benedetto, 1999)
Retare di San Benedetto mentre all’aperto realizzano reti da pesca e vele (da MareDiCorda. Viaggio nel mondo dei mestieri di coste e di mare, op. cit.)
sostegno e di sostentamento dei partigiani nascosti e fuggitivi. Ada Natali, primo sindaco donna in Italia, insegnante di Massa Fermana, da giovanissima iniziò ad occuparsi di politica, perseguitata dal regime, relegata a svolgere la professione nell’ascolano, in una sperduta frazione di Roccafluvione, poi a Loro Piceno da dove, anche a piedi, raggiungeva Macerata per sostenere gli esami alla facoltà di giurisprudenza dove si laureò. Durante il Fascismo si rifiutò ogni volta di prendere parte alle adunate scompigliando i comportamenti anche dei suoi compaesani e scatenando su di sé una vigilanza sempre più stringente. L’8 settembre 1943 entrò nelle fila della Resistenza Marchigiana partecipando alle battaglie di Pian della Piega e San Ginesio. Nel 1946 venne eletta sindaco di Massa Fermana e mantenne l’incarico fino al 1959. Si distinse per un’amministrazione sempre vicina ai più deboli, spinta da una grande umanità e da un profondo senso di giustizia sociale. Sostenne le lotte delle cappellaie alla conquista del primo contratto di lavoro. Dalle cappellaie del distretto fermano il pensiero va ad altri mestieri femminili come quelli della cordara, retara, pajarola, merlettaia, liquorista, sigaraia, filandaia, operaia in stabilimenti bacologici …, nati nella tradizione antica, sviluppatisi all’interno della famiglia o come obbligo di donne che, oltre alla cura della casa e dei figli, dovevano contribuire all’autosussistenza del sistema autarchico basato sullo scambio di prodotti, di competenze e di forza lavoro. La rigida organizzazione gerarchica familiare declinata sul contratto mezzadrile fu il nucleo fondante della società marchigiana industrializzata: la maestria acquisita dalle donne nel corso dei secoli ha contribuito alla qualificazione della produzione preindustriale, anima dell’economia industrializzata. Nel modello post mezzadrile della microimprenditorialità diffusa su tutto il territorio le loro versatilità e capacità favorirono il generale miglioramento delle condizioni familiari: provvedevano al governo della casa e del bestiame aprendosi anche verso nuove forme lavorative in fabbrica o a domicilio. La donna uscì dal perimetro domestico: il lavoro non fu più soltanto un obbligo faticoso, ma fonte di indipendenza economica, di autonomia, di
spazi inediti di crescita e di affermazione personale. Dai mestieri della sigaraia e della filandaia si svilupparono due importanti settori industriali: quello del tabacco e del tessile. Nella storia delle filandaie, da Fossombrone ad Ascoli, abbiamo testimonianze di sofferenze, sacrifici, pessime condizioni di lavoro, dolorose malattie professionali, lavoro minorile, salari bassi, soprusi. Eppure nei ricordi attuali prevale la nostalgia per i momenti di gioia, di sorellanza, di condivisione, di emozioni e di festa per i cento giorni di lavoro conquistati che preludevano alla gita a Loreto. Avanguardiste anche nell’emigrazione, quelle senza lavoro, sia per necessità sia per non rinunciare alla conquistata indipendenza economica, impavidamente preferirono partire da sole verso Lione e altre città francesi dove l’industria tessile non conosceva crisi. Le sigaraie di Chiaravalle, eredi della tradizione dei tabacchifici ottocenteschi, mantennero con la loro manualità la produzione dei sigari rendendola una prestigiosa testimonianza del made in Italy dei nostri giorni. Adele Bei fu sindacalista combattiva e intransigente ma abile nel sublimare il valore dei sentimenti in difesa della giustizia sociale, dell’uguaglianza, della dignità che sgorga dal lavoro: svolse una funzione determinante nella costituzione del Sindacato Nazionale Tabacchine all’interno della Confederazione Generale Italiana del Lavoro. Le sue doti di mediazione furono ineguagliabili: ella seppe promuovere una forte coesione tra le operaie del tabacco di tutta Italia. Ancora oggi le anziane operaie del tabacchificio SACET di Castel di Lama ricordano con emozione i momenti di dura lotta di cui furono protagoniste accanto ad Adele che le guidava, le proteggeva e le sosteneva. La Bei nacque a Cantiano nel 1904. Aderì giovanissima al Partito Comunista, espatriò in Francia e in clandestinità tessé i fili dell’antifascismo finendo nelle mani del Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato che la condannò a 18 anni di reclusione. Liberata nel settembre del 1943, partecipò da combattente alla Resistenza organizzando gli assalti ai forni delle donne romane. All’indomani della guerra fu eletta tra le 21 donne dell’Assemblea Costituente. Fu poi deputato e senatore della Repubblica.
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Franca Matricardi (Archivio privato Famiglia Matricardi)
Pinetta Teodori (Archivio privato Famiglia Saladini)
Un altro fulgido esempio di pioniera è Ginevra Corinaldesi, prima donna medico condotto nelle Marche, seconda in Italia. Nata in provincia di Ancona nel 1904, a sette anni si ammalò di poliomielite restando claudicante. La menomazione segnò la sua infanzia ma la proiettò verso una professione militante in cui seppe profondere tutte le sue energie umane e la sua preparazione. A 26 anni iniziò a lavorare come medico condotto nel fermano superando gli ostacoli di un ambiente arretrato e diffidente che tentò in ogni modo di scoraggiarla e di metterla alla prova, ma che dovette piegarsi alle sue straordinarie competenze e alla sua risolutezza. Tra le ascolane vorrei ricordare due figure di partigiane: Dora Tombini e Antonina Albanesi. La prima nel 1949 ottenne il riconoscimento di Partigiana Combattente per aver operato dal 13 settembre 1943 al 20 giugno 1944 nell’87° Settore Adriatico, ricevendo la Croce al merito di Guerra per attività partigiana. Subì le persecuzioni del regime e perse un occhio in seguito a un violento interrogatorio da cui non si lasciò sfuggire alcuna informazione. La sua fu un’esperienza di consapevole adesione all’Antifascismo e alla Resistenza. La contraddistinsero la forte personalità intellettuale e la grande umanità, la coscienza delle sue idee e delle sue scelte. Anche dopo la guerra ha continuato ad essere protagonista della vita culturale e politica della comunità ascolana fino alla morte (2006). Antonina Albanesi, per le qualità in cui non le facevano difetto fermezza e coraggio, da Sotto Tenente di Brigata arrivò a ricoprire il ruolo di Vice Comandante. Partecipò ad operazioni di pattugliamento e di sorveglianza nonché all’uccisione di un Sergente Repubblichino e alla fucilazione di una spia fascista. Fu una donna semplice ma coraggiosa, sicura dei valori in cui credere; ignorò convenzioni sociali e paure. Serbando nel cuore tutto l’amore materno, trovò la forza di lasciare i suoi cari e di battersi per l’ideale di libertà, contro l’oppressione e le ingiustizie. Combatté anche contro i pregiudizi di una società spesso gretta e cattiva. Negli anni Trenta ancora un’ascolana, Franca Matricardi, fu tra le pri-
me in Italia a laurearsi brillantemente in ingegneria civile. Personalità vivace ed eclettica, era grande appassionata di sport: si piazzò al secondo posto in una gara nazionale di sci e fu tra le sei ragazze della squadra italiana di nuoto. Durante la Resistenza, dopo un soggiorno negli USA, operò valorosamente in Toscana come staffetta partigiana. All’indomani della guerra animò con il suo straordinario talento l’imprenditoria editoriale milanese di cui divenne esponente di spicco. Lavorò per la Rizzoli e in alcuni articoli degli anni Sessanta era definita “motore” della Casa Editrice. Tra le sue prestigiose amicizie Camilla Cederna e Indro Montanelli. Il temperamento e la coerenza risaltano nell’episodio narrato da Arrigo Benedetti in cui Franca si rifiutò di salutare romanamente Achille Lauro e, voltandogli le spalle, rinunciò senza indugio a una considerevole opportunità professionale. Al termine della carriera si ritirò ad Ascoli, avendo mantenuto vivo il legame con la città natale. Concludo con un breve profilo di Pinetta Teodori, un’altra ascolana speciale che ha condotto con risolutezza la battaglia per la conquista dei diritti civili e politici. Medico pediatra, alpinista, pacifista, rischiò in prima persona al fianco dei Greci in imprese clandestine di supporto ai ribelli contro la dittatura militare. Nel 1972 conquistò i 6138 metri di una cima inviolata dell’Hindokush nell’Himalaya. Nel 1974, con l’intrepida perizia di alpinista, nel capoluogo piceno aprì il sentiero verso l’emancipazione delle donne fondando la sezione dell’AIED: per Ascoli una sfida alla reticenza perbenista sui temi della sessualità e dell’educazione demografica. Resta un esempio di passione e coerenza intellettuale, etica e sociale. Tante donne, ognuna espressione di contesti sociali e culturali diversi. Tutte modello esemplare di determinazione e abnegazione, capaci di rompere gli schemi tradizionali di un mondo prettamente maschile, fondamentali nel cammino di apertura dell’orizzonte culturale e civile della nostra comunità. 25 aprile 2014
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L’antica Cappelleria Russo di Salerno di Stefania Severi
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ia Duomo a Salerno è una via stretta che sale, come indica il nome, allo splendido Duomo, gioiello del Romanico. Nonostante la ristrettezza del passaggio, davanti ad alcuni negozi i bottegai in attesa di clienti siedono tranquilli a respirare l’aria che sa di mare. Vedo un ragazzone con un pullover rosso, placidamente seduto a “taliare” (scusate il termine tratto da Camilleri ma era quello più adatto) in giro. Alzo gli occhi e mi imbatto così nella Cappelleria Russo. Decidere d’entrare è stato immediato e dentro ho trovato un mondo fantastico il cui demiurgo era Ciro, il padre del giovanottone, che mi è stato presentato come Carmine. Ciro Russo, fu Giosuè, fu Biagio, antica famiglia salernitana (come da certificato appeso in bottega) è un elegante signore di circa 65 anni, in completo grigio, camicia bianca e cravatta, che mi accoglie con estrema gentilezza. Le origine della Cappelleria Russo risalgono al 1830 circa. Presentatami come giornalista interessata ai cappelli, si è subito prodigato in spiegazioni. Il suo è un negozio-laboratorio che nei momenti di apertura al pubblico si mostra ordinatissimo: i ferri del mestiere sono infatti mimetizzati. Un tavolino su cui sono appoggiati gli shopper, a guardar bene è la base di una macchina da cucire, di quelle che hanno la macchina vera e propria che rientra dentro il piano. Apprendo che fu acquistata nel 1935 per 17 centesimi e che continua a fare il suo lavoro. In un angolo c’è un basso mobiletto metallico che in realtà contiene il carbone. Vicino c’è un mobile di ferro, una fornacetta del 1800, al cui interno, su dei ripiani, sono messi i cappelli ad essiccare col calore di un braciere sottostante. Il calore secco prodotto dal carbone è indispensabile per l’ asciugatura dei cappelli e fa, come si suol dire, la differenza tra un prodotto normale ed uno di alta qualità artigianale. A far la differenza è anche la stiratura, fatta con un vecchio ferro da stiro di quelli che si mettono a scaldare sul fuoco. La stiratura a vapore è certamente più pratica e veloce, spiega Ciro, ma rovina la materia prima che perde la sua durata nel tempo. Girare dietro al bancone di vendita
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Ciro Russo con in mano un “diplomatico”
Il cappello Saturnino, per gli ecclesiastici, e la sua forma
vuol dire scoprire forme antichissime, distribuite in varie parti della bottega, e che risalgono ai tempi del suo bisnonno Biagio. Ciro le fa vedere con grande orgoglio. Da quelle forme, il cui legno presenta evidenti segni del tempo, nascono le sue creazioni, tutte esclusivamente a mano. Usa pelo di coniglio, visone, canguro ma il prediletto è il pelo di lepre. Dopo aver realizzato cupola e tesa c’è il lavoro di cucitura sia con la vecchia macchina sia con ago e filo; seguono la stiratura, la foderatura ed infine il cappello si mette in vetrina, o meglio, come dice Ciro, si “apparecchia”. Ma chi compera i cappelli di Ciro? La sua clientela annovera politici, alti dirigenti, prelati, ma anche lo sposo esigente che vuole andare all’altare con un cappello ad hoc. Ovviamente vengono eseguiti cappelli e berretti anche su misura. Sulle pareti della bottega spiccano articoli di giornali con servizi sulla “Antica Cappelleria e Berrettificio Ciro Russo fu Giosuè”. In un articolo (12/10/2008) pubblicato su un giornale cittadino, a firma di Caterina La Bella, compare questa sua dichiarazione: «Ormai in Italia sono rimasto solo, i cappelli si realizzano in fabbrica e nessuno più si mette a cucire i propri lavori. Per me, invece, oltre che un mestiere è una passione e una tradizione da portare avanti». Forse il Signor Ciro ha ragione a dichiararsi unico nel settore cappelli da uomo. Ho conosciuto tante artigiane che a mano realizzano i cappelli, ma sono quasi esclusivamente cappelli da donna. Carmine, che ha seguito silenziosamente e rispettosamente il padre durante tutto il colloquio, indossa una coppola. Ha deciso di perpetuare il mestiere paterno. Lo incoraggio. Ma penso che sono soprattutto i Salernitani e gli avventori di passaggio a doverlo incoraggiare andando ad acquistare i suoi cappelli e berretti. È lui a farmi vedere il meccanismo, semplice ma ingegnoso, di una antica macchina per allargare i cappelli, che è, oltretutto, un raffinato oggetto di design. L’incontro termina con un bellissimo colpo di teatro. Ciro ci tiene a sottolineare che un cappello fatto a mano dura tantissimo e si può riparare, mentre quelli di fabbrica una volta sciupati vanno buttati. Ma non basta: quando un vero cappello è defunto, rinasce come soletta da mettere nelle scarpe, isolante e perfetta. E con una forbice si mette all’opera su un vecchio cappello ripiegato. Appena intuito il gesto, stavo per ribellarmi, ma lui mi ha assicurato, “così continua a vivere…”. Ed è stata anche una bella lezione di riciclaggio.
La fornacetta
La macchina da cucire
Il ferro da stiro
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I CAPPELLI ESUBERANTI DI ISABELLA SCOTTI di Paola Taddeucci
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i ha fatti anche in pietra. Insospettabilmente leggeri, poco più di due etti di ardesia, resa docile e sottilissima dal calore e poi cucita come fosse stoffa. Per le ultime creazioni Isabella Scotti, 56 anni, modista originaria di Viareggio e da 6 residente a Lucca, ha sfidato la natura ed è riuscita dove pochi sono arrivati. Di pietra sono, infatti, “Petra”, copricapo grigio dalla linea elegante, e la coppia “Boy” e “Girl”, in ardesia rosa, tipici cappelli da cow boy. Ma la Scotti ha fatto ancora di più, ideando un supporto per ognuno dei tre, in rame e bronzo, come se fossero sculture. Sotto le sue mani, quindi, il cappello è diventato non solo ornamento per il corpo - i tre di pietra si possono indossare come qualsiasi altro copricapo - , ma anche oggetto di arredo per la casa. Isabella è una modista davvero sui generis. Dopo aver fatto tutt’altro (fino a sei anni fa organizzatrice di eventi e poi insegnante di lingue), ha scelto uno dei mestieri-simbolo della tradizione (le modiste, infatti, sono state figure importantissime nella piramide della moda dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento), ma lei se ne discosta con idee, forme, linee e materiali nuovi, come la pietra, appunto. «Non ho fatto una scuola di modisteria - racconta - e non uso le forme di legno per tendere i feltri. Non seguo la moda, mi piace sperimentare, essere libera di creare. I miei strumenti di lavoro sono idee fatte di colori e linee, ricerca di nuovi materiali, manualità, espedienti ideati ad hoc per fronteggiare e risolvere problemi di realizzazione». Insomma, tutto fuorché lavoro artigianale codificato. Così sono nati i cinquanta cappelli che, insieme a quelli in pietra, compongono la sua collezione e a ciascuno di essi ha dato un nome. “Chimera”, per esempio, è un copricapo in feltro di colore nero e verde bottiglia che si triplica - da qui il nome - grazie a un gioco di incastri, rovesci e veloci aggiunte. “Brezza sull’erba” è un grandissimo cappello a forma di cono ricoperto di piume marabout. “Lanterne rosse” è fatto a spicchi pentagonali in sughero con decorazioni di nastri, fiori e perle. E poi coppole, dischi, pagliette estive e scenografici copricapi da sposa, tra cascate di piume, tulle e fiori di stoffa, tutti fatti a mano da lei che, per realizzarli esattamente come sono in natura, coltiva i fiori veri nel campo vicino casa, adibito per l’altra metà a orto. Per Isabella, dunque, l’imperativo è essere libera di creare. Una libertà che ha perso da ragazzina e si è ripresa da adulta. «La mia era una famiglia rigida, stile Ottocento - continua
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Cipria
Chimera
- e l’esuberanza creativa era vista come una caratteristica effimera, legata alla giovane età e quindi da combattere perché io dovevo diventare una donna con i piedi per terra». Invece lei fantasticava. Amava già mettersi tutto in testa: fiori, fiocchi, le coccarde delle uova di Pasqua. Tanto che il padre la chiamava scherzosamente Isa Miranda. «A otto anni inventavo storie ambientate in paesi lontani, creavo scenografie per avventure che rappresentavo in un teatrino di marionette che mi ero fatta regalare per Natale. E d’estate i bimbi del quartiere per anni hanno frequentato una volta a settimana il mio giardino per assistere agli spettacoli. Chiedevo anche il biglietto d’ingresso - eccetto a una bambina portatrice di handicap - e con i soldini finanziavo le altre rappresentazioni. Mio padre interruppe questa mia carriera di burattinaia, perché la riteneva sconveniente». La sua esuberanza fu tacitata definitivamente dopo la terza media, quando la iscrissero, per tradizione di famiglia, al liceo classico, scuola poco incline a favorire le sue capacità creative, cui seguì l’università. «Dopo la laurea cominciai a ideare manifestazioni culturali, dove in parte ho ritrovato quello spirito creativo della giovinezza». Verso i 50 anni la scelta definitiva: molla tutto, lascia il lavoro, Viareggio, la vecchia vita e si trasferisce a Lucca, con la figlia, tre gatti e un nuovo compagno con cui condivide l’amore per il mare e per la vela, altra sua grande passione. Fa corsi di cucito, si iscrive al liceo artistico serale. Riparte da dov’era rimasta tanti anni prima: riprende a fare cappelli, non più per le bambole, ma per sé e per gli altri. Perché proprio dal cappello? «Perché - prosegue Isabella - è sempre stato un simbolo importante. Non l’ho mai considerato un accessorio, ma espressione di carattere, di stato d’animo, di personalità. Mi ha riparato dallo sguardo degli altri quando volevo essere lasciata sola. Ha fatto da richiamo quando mi sentivo aperta al mondo. Ha evidenziato il mio buon umore o ha sottolineato i momenti neri. Il cappello mi ha sempre accompagnato, nella buona e nella cattiva sorte, come un fedele amico». È per questo che Isabella parla delle sue creazioni come piccoli esseri nati dal suo pensiero, tanto da dare a ciascuno un nome, come fossero creature viventi. Ed è proprio così. «I cappelli - spiega - hanno qualcosa di chi li realizza, di chi li compra, di chi li indossa. È inevitabile perché chi li mette non è obbligato: ne potrebbe fare a meno. E quando una persona sceglie di indossarne uno, è certamente per lanciare un messaggio agli altri. Forse è per questo che oggi, in una società molto omologata, è caduto in disuso. Mettersi un cappello vuol dire esporsi al giudizio degli altri, rivelando una personalità precisa, unica e forte. Purtroppo - conclude - si preferisce essere tutti uguali, non uscire dal branco, che sia di giovani, adulti, ricchi o borghesi medi. Il non osare è la regola e l’uso del cappello non appartiene a queste regole». (servizio fotografico di Marco Cardelli)
Crock en bouche
Petra, copricapo in ardesia
Lanterne Rosse, copricapo in sughero
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Mar Sport nasce nel 1980 per iniziativa dei fratelli Alberto, Renata e Renzo Marzialetti. L’Azienda artigiana a conduzione famigliare si specializza nella confezione di cappelli da cacciapesca e la produzione viene distribuita quasi interamente nei negozi di articoli sportivi. Col passare degli anni senza mai una battuta d’arresto e con una continua e attenta ricerca innovativa dei materiali la ditta si è notevolmente evoluta. Nel 1996 per opera di Germano, Simone e Catia la Mar Sport cambia radicalmente la lavorazione precedente. Oggi produce cappelli, sciarpe e guanti ed ogni tipo di accessorio per abbigliamento, in tutti i generi di tessuti e di maglia ed in ogni modello, sia da adulto che da bambino e ragazzo, da città, da montagna e per il tempo libero. L’esperienza maturata nel corso dei decenni come azienda manufatturiera, l’aver stretto collaborazioni importanti con firme dell’alta moda italiana li ha persuasi a creare un proprio brand che riassumesse le qualità del nostro Made in Italy in cui sono rappresentanti da sempre. Gli articoli che compongono la loro collezione sono realizzati con tessuti e filati attentamente selezionati da tessiture italiane e particolare attenzione è dedicata alla progettazione dove le tendenze moda sono mirate, curate ed enfatizzate. Una continua ricerca di mercato per esplorare il futuro. www.capeyork.it
Il volto del ‘900 da Matisse a Bacon di Stefania Severi
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l ritratto è da sempre uno dei soggetti preferiti dell’arte, sia in pittura che in scultura. Proprio la nascita dell’arte, secondo il mito, è legata al ritratto. Infatti, come narra Plinio il Vecchio nella “Naturalis historia”, Butade, una ragazza di Corinto, volendo conservare l’immagine dell’amato che stava per partire per mare, disegnò con un carbone sulla parete la silhouette del ragazzo proiettata dalla sua ombra. Il ritratto fissa l’immagine di un volto altrimenti destinato all’oblio. Si ritrae una persona per non farla morire. Un ritratto è la persona e non solo; è ciò che di quella persona l’artista vuol trasmettere ed è ciò che colui che osserva il ritratto a sua volta interpreta. A riflettere su ritratti ed autoritratti è stata una bellissima mostra a Palazzo Reale di Milano (25 settembre 2013 - 9 febbraio 2014): “Il volto del ‘900 da Matisse a Bacon”. Si trattava di 80 ritratti provenienti dal Musée National d’Art Moderne, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou di Parigi, selezionati da Jean-Michel Bouhours - curatore delle collezioni moderne - e che sono giunti a Milano grazie alla collaborazione di Palazzo Reale, del gruppo Mondo Mostre e dell’editore Skira. L’esposizione è stata anche l’occasione per fare una passeggiata tra le avanguardie del secolo XX, dal Futurismo al Cubismo, dal Surrealismo al Fauvismo, fino alle tendenze iperrealiste ed oltre, in un arco temporale che va dal ritratto del musicista Erik Satie della pittrice Suzanne Valadon (1892-93), al ritratto dei principi Harry e William d’Inghilterra della pittrice Elizabeth Peyton (1999). La curiosa circostanza che ad aprire e a chiudere la serie siano state due donne artiste non deve indurre in inganno sulla loro presenza. In realtà erano in tutto quattro, compresa Tamara de Lempicka con un magnifico ritratto della figlia Kizette (1927). Si andava “da Matisse a Bacon” come indicava il sottotitolo della mostra, passando anche attraverso la scultura di André Derain, in una carrellata di eccellenze. Le opere erano suddivise in sette sezioni. Nella I sezione, “I misteri dell’anima”, spiccava il “Ritratto di Dédie” di Amedeo Modigliani (1918), intenso ma delicato, quasi virginale. Nella III sezione, “Il volto alla prova del Formalismo”, si trovava “La musa addormentata” di Costantin Brancusi (1910), una testa ovoidale di eleganza formale asso-
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René Magritte, Lo stupro, 1945, olio su tela, cm 65,3x50,4 (© René Magritte by SIAE 2013)
Maurice de Vlaminck, Autoritratto, 1911, olio su tela, cm 73,3x60 (© Maurice de Vlaminck by SIAE 2013)
luta. Nella IV sezione, “Volti in sogno, Surrealismo” c’era il celebre dipinto “Lo stupro” di René Magritte del 1945: un busto di donna senza testa, contornato da una lunga capigliatura bionda, assimilato a un volto, a stigmatizzare il ruolo della donna ridotto a mero piacere sessuale. Tale eccezionale “volto” è stato scelto come immagine della mostra. La VI e la VII sezione, “Dopo la fotografia” e “La disintegrazione del soggetto” concludevano l’itinerario. Per i lettori di “Hat” abbiamo selezionato tre opere, qui riprodotte, perché accomunate dalla circostanza che le persone ritratte hanno il cappello che, in realtà, è altrove scarsamente presente. Due di queste opere erano nella sezione II, “Autoritratti”, una delle più intriganti. L’autoritratto, come scrive Leon Battista Alberti nel “De pictura”, pubblicato nel 1435, avrebbe origine dal mito di Narciso, innamorato della propria immagine. L’artista in questo caso è soggetto del dipinto, oltre ad autore, e tenta pertanto una difficilissima indagine su se stesso, ben consapevole delle difficoltà che tale processo implica. È del 1912-‘60 l’autoritratto del futurista Gino Severini. La doppia datazione si riferisce alla circostanza che il dipinto del 1912 è andato perduto e che lo stesso Severini ne fece una nuova versione nel 1960. Nonostante la frammentazione del volto e il dinamismo delle forme, ne emerge la fisionomia di un bell’uomo con la sigaretta in bocca, gli occhiali rotondi ed una elegante paglietta. Più rassomigliante è l’autoritratto di Maurice de Vlaminck (1911) che si ritrae con una bombetta nera, la pipa e un violino, sua passione giovanile, di cui si vede una parte. A giudicare dai tre ritratti femminili di Pablo Picasso esposti in mostra, dobbiamo dedurre che egli amasse i cappelli o, quanto meno, che ne fosse colpito, se due signore su tre lo indossano. Anzi, nel caso specifico, è proprio il cappello ad essere focalizzato nel titolo: “Il cappello a fiori” (qui riprodotto) e “Donna col cappello”, olio su tela del 1935, inserito nella V sezione della mostra “Caos e disordine, o l’impossibile permanenza dell’essere” in cui erano raccolte opere caratterizzate da un più marcato allontanamento dalla fisionomia del soggetto ritratto. Bouhours, a proposito di questa carrellata di volti, acutamente conclude: «Conservare la realtà del volto al di là di tutti gli sconvolgimenti dell’epoca, tanto politici quanto estetici, e immergersi in maniera del tutto inedita negli abissi della figura umana: è stata certamente questa la grande lezione dell’arte del Novecento».
Pablo Picasso, Il cappello a fiori, 1940, olio su tela, cm 72x60 (© Pablo Picasso by SIAE 2013)
Gino Severini, Autoritratto,1912-1960, olio su tela, cm 55x46,3 (© Gino Severini by SIAE 2013)
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CECCHI ANGELO s.r.l. Cecchi Angelo, dopo aver maturato una pluriennale esperienza nel settore del cappello alle dipendenze di aziende locali, nel 1980 fonda un’impresa artigiana individuale. Da una iniziale produzione di copricapo in paglia la Ditta si afferma sul mercato europeo con le proprie collezioni stagionali di cappelli donna/uomo in tessuto. In particolare crea piccoli cappelli, comodi e semplici nella linea, pensati per il neonato e non trascura bambini e ragazzi che desiderano essere sempre al passo con la moda. I tessuti realizzati con filati di prima scelta e i modelli made in Italy contraddistinguono la Cecchi Angelo e sono il risultato di un attento e continuo lavoro di ricerca.
www.cappellificiocecchi.com
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CAPPELLIFICIO
Cecchi Angelo HELLO CHILDREN
s.r.l.
LAVORAZIONE CAPPELLI in TESSUTO, PAGLIA & AFFINI
Via O. Licini, 5 - MASSA FERMANA (AP) Tel. 0734.760058 - Fax 0734.768448 www.cappellificiocecchi.com info@cappellificiocecchi.com
CAPPELLIFICIO
Cecchi Angelo HELLO CHILDREN
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LAVORAZIONE CAPPELLI in TESSUTO, PAGLIA & AFFINI
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A PALAZZO PITTI DI FIRENZE OMAGGIO AI CAPPELLI STRAVAGANTI di Luisa Chiumenti
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uanta creatività si sviluppa dalle mani svelte e laboriose di una modista, allorché un informe pezzo di tessuto diventa qualcosa di nuovo ed inedito che prima non si sarebbe potuto immaginare e che produrrà effetti visivi diversi a seconda del volto, dell’abito e della personalità stessa di chi lo indosserà! La bella mostra allestita a Firenze, nella sale di Palazzo Pitti, dal titolo Il cappello fra arte e stravaganza (dal 3 dicembre 2013 al 18 maggio 2014), che per la prima volta è stata dedicata solo a questo accessorio così importante nella moda di tutti i tempi, è riuscita ampiamente a illustrare l’assunto. Se è vero - come ha sottolineato Cristina Acidini, Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Firenze - che “il cappello femminile è archiviato”, tuttavia, pur rientrato in forme diverse, molto più semplici, lineari e sportive, é sempre un elemento dell’abbigliamento destinato a non passare inosservato. La mostra monografica ha portato alla ribalta una parte delle collezioni appartenenti al Museo, anche per le donazioni che costituiscono un patrimonio di più di mille unità. Molti modelli sono firmati da modisti internazionali di chiara fama, anche appartenenti al passato, come Christian Dior, Givenchy, Chanel, Yves Saint Laurent, John Rocha, Prada, Gianfranco Ferré, Philip Treacy, Stephen Jones, Caroline Reboux, Claude Saint-Cyr, etc. Ma la mostra rende merito pure a esemplari realizzati da modisterie meno note, italiane e in particolare fiorentine. Ed ecco che l’armonia estetica, abbinata alle caratteristiche formali, l’aspetto ‘scultoreo’, la componente cromatica e la raffinatezza ornamentale fanno assurgere il cappello a oggetto d’arte. Dice Cristina Acidini: «È il cappello mutevole e soggettivo, il cappello “opera d’arte”, il cappello “oggetto di design” del Novecento e del terzo millennio quello cui si rivolge l’attenzione di questa mostra». La Direttrice della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, Caterina Chiarelli, sottolinea che il cappello “può essere studiato da un punto di vista storico-artistico ma può anche essere interpretato sotto un profilo puramente estetico, prendendosi così la libertà di formulare giudizi o esprimersi mediante aggettivi onnicomprensivi quali bello, fantasioso, fantastico e divertente”. Molto interessante è anche la presenza in mostra dei bozzetti realizzati appositamente dal Maestro Alberto Lattuada, nonché gli esemplari creati da Clemente Cartoni, celebre modista romano degli anni Cinquanta-Sessanta. Molti cappelli sono stati prestati da vari collezionisti tra i quali un’illustre donatrice, Cecilia Matteucci Lavarini, collezionista privata di haute couture. La mostra annovera esemplari importanti in un percorso di alta qualità artistica, ricco di gusto e di stile. Ed è con il tema del colore che si apre il percorso espositivo in un linguaggio visuale, fortemente emozionale, che si ispira, come annota Katia Sanchioni nel suo saggio, “alla ruota dei colori di Isaac Newton, dove i colori dello spettro sono divisi secondo le loro proporzioni nell’arcobaleno” Alla realizzazione della mostra - promossa tra l’altro dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana - ha partecipato il Consorzio “Il Cappello di Firenze” che ha esposto alcuni fra gli esemplari più caratteristici delle principali aziende toscane, eredi dell’antica lavorazione artigianale del Cappello di Paglia. Il catalogo bilingue (italiano/inglese) è edito da Sillabe e curato da Simona Fulceri e Katia Sanchioni (che hanno redatto rispettivamente le schede storico-scientifiche e i testi), Aurora Fiorentini, Dora Liscia Bemporad, Nicola Squicciarino. Per altre informazioni sulla mostra: www.cappelloinmostra.it
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Clemente Cartoni, Cappello, 1955 ca, provenienza: Adriana del Giudice, dono Associazione Tornabuoni-Lineapiù
Clemente Cartoni, Cappello, 1955 ca, provenienza: Adriana del Giudice, dono Associazione Tornabuoni-Lineapiù
Yves Saint Laurent, Cappello, collezione HC autunno/inverno 2002, collezione privata Cecilia Matteucci Lavarini
M. Glasauer, Cappello pinch-back,1890 ca, dono Alessandra e Marta Bianchi Bandinelli
La ditta Sorbatti, in virtù del suo retaggio familiare e professionale nel settore del cappello, si è evoluta nell’odierna realtà come industria affidabile e dinamica. Fa dell’innovazione tecnologica e della qualità dei prodotti il proprio fiore all’occhiello. Crea e cura nei minimi dettagli i prototipi personalizzati per la promozione dei brand aziendali forniti dai clienti, anche i più esigenti. La vita aziendale della Sorbatti srl si svolge attualmente in tre luoghi: Montappone, via Leopardi 18 Qui si trova l’opificio industriale, uno stabilimento di produzione di 1800 mq proprio nel cuore del distretto. L’Azienda produce cappelli e berretti di qualità come feltri, panama originali, coppole e altro. Tutto il processo produttivo è seguito con cura, dalla selezione delle materie prime all’imballaggio. Strada Provinciale Montapponese Sorbatti Outlet, punto vendita al pubblico di cappelli, berretti in tessuto, paglia, feltro e accessori di produzione propria. Online Store Vendita online a privati e rivenditori su www.sorbatti.it Monte Vidon Corrado C.da Vallemarina (Z.ind.) Magazzino di 2500 mq per lo stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti commercializzati. SORBATTI srl via G. Leopardi, 18 63835 Montappone (FM) - ITALIA tel. 0039 0734760982
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HEADWEAR - ACCESSORI DELL’ABBIGLIAMENTO
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ARTE PER LA LITURGIA di Ruggero Signoretti
È
evidente a tutti, credenti e non, che le chiese antiche sono, per la maggior parte dei casi, dei veri e propri capolavori. Cattedrali, abbazie, chiese, piccole cappelle sono degne di visita per motivi non solo devozionali ma anche artistici e culturali. Tutto in questi ambienti, dalla struttura architettonica all’apparato decorativo, dalle suppellettili liturgiche ai dipinti e alle sculture, stimola la riflessione ed avvicina alla dimensione spirituale. È altresì evidente a tutti che le nuove chiese molto raramente sono altrettanto belle e fascinose. I fedeli, in particolare, spesso lamentano che lo spazio non induce al raccoglimento, che dipinti e sculture o sono di difficile lettura o sono oggetti di serie che nulla hanno di artistico. Il fenomeno è diventato oggetto di riflessione non solo per gli addetti ai lavori e per le gerarchie ecclesiastiche ma anche per il pubblico più vasto. Ormai si è fortunatamente diffusa l’idea che l’antico va preservato, per cui si tende a restaurare i vecchi banchi piuttosto che ad acquistarne di nuovi in multistrato, ed i parroci di campagna non vendono più i vecchi confessionali per aggiustare il tetto. Ma se per ciò che è antico si sta sviluppando un diffusa coscienza di salvaguardia, per ciò che è moderno non si è ancora creata una altrettanto valida coscienza artistica. Da un lato troviamo architetti e artisti che si lanciano in proposte spesso discutibili, dall’altro parroci che, per venire incontro alla devozione del fedele, acquistano “pupazzi” di materiale sintetico. L’unico modo per uscire da questa situazione è un rinnovato incontro tra Arte e Chiesa. Soprattutto dall’inizio del Novecento gli artisti hanno assunto un atteggiamento individualista sempre più spiccato che spesso ha trovato incomprensione nel pubblico più vasto. Ma l’arte per la liturgia deve essere comprensibile, altrimenti non svolge la sua funzione. Bisognerà dunque che sia frutto di un rinnovato dialogo tra l’artista e il dettato teologico. Nel XX secolo c’è stato un momento, soprattutto coincidente col pontificato di Paolo VI, in cui tale incontro si è rinnovato, per cui artisti come Pericle Fazzini (Resurrezione bronzea nell’Aula delle Udienze in Vaticano), Emilio Greco (porta del Duomo di Orvieto), Giacomo Manzù (porta di San Pietro) ed altri, specie scultori loro coevi, hanno dato magistrale prova dell’uso di un linguaggio moderno messo a disposizione di un profondo dettato teologico. Ma il panorama odierno è piuttosto sconfortante. Per promuovere il dialogo artisti-Chiesa, la Fondazione Cardinale Cusano ONLUS, di cui è Presidente Mons. Giangiulio Radivo, si è proposto il progetto triennale “Intellect & Art” per la “Rinascita dell’Arte Liturgica”. In tale contesto si è tenuta a Roma, presso la Chiesa dell’Immacolata dei Miracoli, la mostra d’arte per la liturgia “L’arte sacra oggi: percorsi possibili” (22-29 marzo 2014), a cura di Stefania Severi e con allestimento espositivo di Balta Gheorghe Alin. La manifestazione è stata completata da un incontro di studio sul tema cui hanno partecipato
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Guido Fabrizi, Maria, 2014, fotografia, cm 70x100
Antonella Cappuccio, Maria il Magnificat, 2013, tecnica mista su carta, cm 70x100
oltre a Mons. Radivo, Lorenzo Canova, Claudio Crescentini e la stessa Severi. La curatrice ha illustrato le linee guida della rassegna, individuandole in sei delle numerose tematiche relative al rapporto arte e liturgia, sia in relazione ai linguaggi estetici sia sull’uso delle nuove tecnologie. Alla mostra sono stati invitati ad esporre sei artisti, tutti di vasta esperienza professionale, con altrettante opere ognuna delle quali era di stimolo ad una specifica riflessione. “L’immagine sacra: il rinnovamento della tradizione” era espressa da Stefano Armakolas, conosciuto iconografo che, accanto ai linguaggi della tradizione, ha maturato una personale rielaborazione aporetica. Pittore e teologo greco, giunto in Italia all’età di 20 anni, con la sua opera “Uscita dall’arca” ha coniugato il linguaggio dell’icona con quello del Pop e dell’Arte Povera. “L’immagine sacra: l’attualità della figura” era rappresentata dalla pittura di Antonella Cappuccio. In “Maria il Magnificat” interpreta il disegno accademico in chiave decisamente contemporanea. L’artista ha realizzato per le chiese vetrate, dipinti ed affreschi, in particolare ha dipinto il soffitto del Santuario di S. Agnello Abate a Roccarainola di Napoli (1997). Ne “L’immagine sacra e le nuove tecnologie: il video” Francesca Cataldi, con la collaborazione di Riccardo Pieroni, ha realizzato un lavoro su “Santiago il cammino” creando una forma espressiva che consente di vedere le immagini, e quindi di esporre i contenuti attraverso memorie visive, sia in modo sincronico, su un pannello, sia in modo diacronico, nel video. “L’immagine sacra e le nuove tecnologie: la fotografia” era testimoniata dalla rielaborazione fotografica di una statuetta della Vergine ad opera di Guido Fabrizi il quale, sempre col mezzo fotografico, ha dato alla statuetta il volto della Vergine Annunziata, celebre dipinto di Antonello Da Messina. “L’arredo sacro: la ricerca attuale tra funzione e simbolo” era oggettivato dal tabernacolo (disegni e bozzetto in cartone) di Salvatore Giunta, artista che da anni si dedica anche al design collaborando con varie ditte di settore. Nel suo progetto la funzionalità, la raffinatezza estetica e il richiamo simbolico si fanno un tutt’uno. “L’immagine sacra: tra astrazione e simbolo” era costituita dai bozzetti di Eduardo Palumbo, progetto di vetrate per un complesso parrocchiale a Tor Tre Teste, Roma (Arch. Cesare Badaloni). Il linguaggio “astratto” dell’artista ben si concilia e con lo spazio architettonico contemporaneo e con la sottesa simbologia della luce. Questo primo appuntamento romano, espressione dell’auspicato dialogo tra l’artista e la Chiesa, ha aperto la via a nuove prospettive, ma c’è ancora molto da esplorare.
Eduardo Palumbo, Vetrate della Luce, 2013, bozzetto
Salvatore Giunta, Progetto per tabernacolo, 2014, modellino in cartone, Ø cm 60
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COLLEZIONE UOMO
AUTUNNO/INVERNO 2014-2015 di Daniela Rondinini
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opo il successo ottenuto con la collezione donna, Alessandra Zanaria ha deciso di completare la gamma dei suoi prodotti con una collezione di accessori dedicata all’uomo. Traguardo importante per il consolidamento di un brand giovane e dinamico. La neonata linea è stata presentata a Firenze, in occasione di Pitti Immagine Uomo, mentre per la stampa nazionale ed internazionale si è svolto un evento nello showroom di Milano durante la settimana della moda maschile. Per la nuova collezione uomo la stilista ha puntato a completare il guardaroba maschile con accessori moderni e sofisticati. La visiera è uno degli elementi centrali dell’intera collezione. Utilizzata come parte integrante di cappelli in feltro, dà vita a forme nuove e accattivanti come il modello Mylo dove la falda si sviluppa in visiera. Adatto ad ogni occasione, il bordo a contrasto ne evidenzia stile e contemporaneità. Nella versione in pelle la visiera assume l’aspetto di decoro, applicata su feltri in lapin o per impreziosire grandi berretti in maglia rigata. Accostamenti unici per i divertenti cappelli dalle piccole falde girate all’insù, ricamati a mano in lana grossa, sono perfettamente abbinabili alle maxi sciarpe realizzate ai ferri che vantano una cartella colori con più di 70 varianti. Uno dei tanti particolari innovativi inseriti nella nuova collezione Uomo di Alessandra Zanaria sono i copriorecchie in maglia di lana, che proteggeranno nei rigidi freddi invernali. Abbinati al cappello o in contrasto come il decoro, sono applicabili su tutti i modelli della collezione che comprende, inoltre, un’ampia linea di modelli realizzati in feltro mélange con bordi sapientemente coordinati e decorati da piccole borchie bullone. Essenzialità nelle linee e sapienti lavorazioni artigianali rendono questi accessori indispensabili per caratterizzare lo stile della collezione.
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Installazione aerea nell’hall del Grand Hotel et de Milan
Una veduta dell’esposizione milanese
Altri cappelli in mostra
Cappello Trilby in lino grezzo con dettagli in pelle
La Axis di Carlo Forti è specializzata da oltre 20 anni nella produzione di cappelli per uomo e donna totalmente realizzati in Italia. Dal 1996 crea quotidianamente campionari stagionali personalizzati per acquirenti che vogliono realizzare una nuova collezione. Le linee sono caratterizzate da un design essenziale e curato in termini di stile ed eleganza. L’azienda che si distingue per l’esperta lavorazione artigianale - qualificata nella ricerca tecnica e stilistica - collabora con i più importanti brand della moda e utilizza una vasta gamma di materie prime e di accessori originali. Dispone di vari modelli di piccole e grandi dimensioni e non ha alcuna difficoltà a utilizzare accessori e tessuti proposti dai clienti stessi. Per ulteriori informazioni consultare il sito internet:
www.axis-italy.com
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(FM) tel e fax +3 9 734 760590 info@axis-italy.co
m - carlo@axisitaly.
com - www.axisitaly.co
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Cioccolato… mon amour di Rita Leone
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e cerchiamo il termine “cioccolato” nel dizionario della lingua italiana, troviamo questa definizione: “Pasta composta di cacao in polvere e zucchero. Quindi, per parlare del cioccolato, dobbiamo conoscere la storia e le caratteristiche del cacao. La pianta (Theobroma cacao che significa “cibo degli dei”), perenne delle zone equatoriali, cresce grazie al favorevole clima caldo-umido e a un terreno molto ricco. Sul tronco e sui grossi rami nascono i piccoli fiori, bianchi o rosei, il frutto è denominato cabosside: dalla forma ovoidale, piatta; è lungo 15-25 cm, provvisto di 10 solchi longitudinali e di una buccia dura. Il suo peso varia dai 200 gr a 1 kg; è giallo o arancio a maturità; contiene da 30 a 40 semi, disposti in 5 file, lunghi 2-3 cm, immersi in una polpa bianca e mucillaginosa. Da questi semi si estrae il cacao. Da un ettaro di piantagione di cacao si ricavano circa 300 kg di prodotto commerciabile. I maggiori produttori sono l’Africa (55%) e l’ Asia. Solo una parte proviene ancora dall’America. Conosciamo diverse varietà di cacao. Tre le principali: Criollo, Forastero e Trinitario. Criollo è la varietà originaria dell’America centrale, quella di miglior qualità; rappresenta il 5-10 % della produzione mondiale. Forastero, la più comune soprattutto in Africa, rappresenta l’80 %. Trinitario il 10-15 % . Presso il sito archeologico di Colha, nel Belize, stato del Centro America, i ricercatori hanno analizzato i residui alimentari all’interno di un contenitore, venendo a scoprire che i Maya consumavano cacao già nel 600 a.C., a conferma dell’idea che questa zona geografica costituisse uno dei maggiori bacini per la produzione del cibo degli dei. La parola cioccolato è di origine incerta; secondo la tesi più accreditata deriverebbe da “chocolatl” (“chocol” di radice maya che significa caldo e “atl” di radice azteca che significa acqua). I Maya solevano utilizzare i semi ricavati dalla pianta di cacao in operazioni di scambi commerciali e, per un certo esteso periodo della loro storia, il cacao ha rappresentato per loro quella che per noi è oggi la moneta, un vero e proprio “oro nero”. I semi più piccoli erano usati in cucina o avevano una funzione più propriamente farmaceutica: gli Aztechi se ne servivano come ricostituente oppure li adoperavano per guarire piaghe, eritemi, mal di stomaco e riconoscevano ad essi anche poteri afrodisiaci e allucinogeni. Presso i popoli precolombiani dal cacao si ricavava una bevanda destinata alle élite, consumata eccezionalmente dal popolo in occasioni di feste o matrimoni. Berne una tazza rappresentava simbolo di ricchezza. Diaz de Castillo, al seguito di Cortés, segnala che l’imperatore Montezuma II durante il pasto reale beveva più di cinquanta tazze della scura mistura. Per i Maya la cioccolata doveva essere calda, in contrasto con la versione fredda. degli Aztechi. Non esisteva una bevanda al cacao, ma molte varianti quasi tutte amare, preparate mischiando con forza ingredienti diversi. Il commercio transoceanico del cacao iniziò solo nel 1585, anno in cui il primo carico di chicchi da Veracruz raggiunse Siviglia. La bevanda non riscosse alcun successo per il suo gusto amarognolo piccante. Ma alla fine del XVI secolo, la ricetta
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Scultura azteca: uomo con frutto di cacao
Una delle pubblicità della Nutella
venne perfezionata, forse da monaci speziali spagnoli che aggiunsero zucchero, vaniglia o cannella. La versione “ingentilita” della cioccolata diventò di moda, e attorno al 1615 Anna, infanta di Spagna, sposa di Luigi XIII, la introdusse in Francia. In Inghilterra nel Settecento assunse un carattere un po’ diverso: nascevano le coffe-chocolate house. Si diffuse anche in Austria, alla corte viennese, dove nacque la Sacher House. Per tutto il Seicento detrattori ed estimatori della bevanda si dettero battaglia. Quelli contro la ritenevano dannosa alla salute perché risvegliava ira, agitazione e lussuria. Quelli a favore, come gli alti prelati che l’assumevano nei giorni di digiuno, affermavano trattarsi di un farmaco ricostituente, antidepressivo, capace di rendere vigili e favorire gli sforzi. La bevenda al cioccolato nel Seicento e nel Settecento è stata alla moda, nel mondo aristocratico e cattolico, soprattutto in Spagna e Italia. Per contrasto il caffé, diffuso in Inghilterra, Olanda, Francia e nel mondo protestante è la bevanda simbolo della borghesia. Nel Seicento il cacao arrivò anche in Piemonte, Sicilia e, durante il Settecento, si affermò diffusamente presso le classi borghesi. A Venezia le “botteghe del caffé” erano anche “botteghe della cioccolata” dove si potevano gustare molte versioni della ricetta, anche se di consistenza farinosa e dal retrogusto oleoso. Nel 1828, l’olandese Van Houten aprì una nuova frontiera nel settore del cioccolato, brevettando il metodo per separare efficacemente dai semi del cacao la polvere e il burro. Questo sistema portò alla nascita del moderno cioccolato industriale che fece esplodere il consumo di cacao sotto forma di cioccolatini e altre dolcezze solide. La moda della bevanda venne così relegata in secondo piano, superata anche dall’affermarsi del più borghese caffé. Nel 1875 lo svizzero Daniel Peter aggiunse al cioccolato del latte condensato (la farina lattea Nestlè) e per la prima volta poté essere gustato anche in forma solida. Iniziava così la sua lavorazione industriale. Dal 1899 in Svizzera si fabbrica il Toblerone: all’interno della barra di cioccolato torrone alle mandorle e miele. A Torino e in Piemonte, tra l’Ottocento e il Novecento, molte aziende produttrici di cioccolato erano di proprietà di valdesi installati in quella regione con “patenti” di cioccolatieri (Prochet, Talmone, ecc.). A metà Ottocento Prochet inventava i gianduiotti, il primo cioccolatino ad essere incartato. Dopo la seconda guerra mondiale Pietro Ferrero da pasticcere diventava imprenditore. Produceva la pasta Giandujot, un surrogato fatto con grasso di cocco che però si scioglieva d’estate. Grazie a una migliore organizzazione aziendale nascevano la Supercrema, la Cremalba e infine la Nutella (per ragioni di marketing, da nut, nocciola in inglese). E con la Nutella siamo ai nostri giorni. Il cioccolato è stato ed è protagonista in alcune opere di grandi artisti del contemporaneo. Esempi emblematici: Marcel Duchamp - dadaista, precursore dell’Arte Concettuale - tra il 1913 e il 1914 dipinse due Macinacacao, macchina raffigurata anche nel Grande Vetro (la sua realizzazione più importante); Aldo Mondino ha prodotto lavori tridimensionali come Scultura un corno (di cioccolato) e mosaici con cioccolatini Peirano; il brasiliano Vik Muniz utilizza materiali di riciclo tra cui il cioccolato; dello svizzero Dieter Roth di recente l’Hangar Bicocca di Milano ha proposto una vasta esposizione in cui erano ‘monumentali’ opere fatte di questo dolce alimento.
Marcel Duchamp, Macinacacao n. 2, 1914, olio su tela, cm 65x54, Philadelphia Museun of Art (Louise e Walter Harensberg Collection)
Sacher torte
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U
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